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sabato 26 marzo 2016

Micene, Tirinto e Schliemann

Micene, Tirinto e Schliemann
dal libro: Civiltà Sepolte, di C.W.Ceram – Einaudi


Nel 1876, all’età di 56 anni, Schliemann aveva affondato per la prima volta il piccone nel suolo di Micene, nel 1878-79, assistito da Virchow, scavò per la seconda volta a Troia; nel 1880 scoprí a Orcomeno, la terza città che Omero disegna con l’attributo di aurea, la ricca volta del tesoro di Minia; nel 1882, con Dörp­feld, scavò per la terza volta nella Troade, e due anni dopo a Tirinto. Le mura dell’acropoli di Tirinto furono messe a nudo; un violento incendio aveva calcinato le pietre e cotto l’argilla che le connetteva insieme, trasformandole in veri e propri mattoni; gli archeologi credevano che que­ste mura fossero avanzi medievali e le guide greche dichiaravano che a Tirinto non c’era niente di impor­tante da visitare. Sulla fede degli antichi scrittori, Schliemann comin­ciò a scavare e lo fece con tanto impegno che distrusse una piantagione di comino di un contadino di Cofinio e dovette pagare 2 franchi di ammenda. A Tirinto sarebbe nato Eracle. Le mura erano rite­nute dagli antichi una costruzione prodigiosa. Pausa­nia le paragonò alle
piramidi d’Egitto. Si dice che Proi­tos, leggendario re di Tirinto, avesse convocato pres­so di sé sette ciclopi per erigerle; e che ne furono poi costruite anche altrove, anzitutto a Micene, cosí che tutta l’Argolide poté essere chiamata da Euripide «la terra ciclopica».
Schliemann scavò e trovò le fondamenta di un palaz­zo che superava tutti quelli fino allora scoperti e che dava una poderosa impressione del popolo preistorico che l’aveva costruito e dei re che vi avevano dimorato.
Il palazzo sorgeva, simile a un forte, su un massiccio di pietra calcarea. Le mura erano formate di blocchi della lunghezza di 2-3 metri e dello spessore e dell’al­tezza di un metro. La costruzione raggiungeva nella parte inferiore, che comprendeva solo stanze di servizio e scuderie, dai sette fino agli otto metri, e nella parte superiore, dove abitava il signore, fino a 1 1 metri, con un’altezza complessiva di 16 metri!
E bisogna cercare di immaginarsela popolata di guer­rieri dalle armi sonanti. Finora non si conosceva nulla della pianta di questi palazzi omerici; nessuna traccia era rimasta del palazzo di Menelao, di quello di Ulisse e degli altri principi. A Troia i resti della rocca di Priamo non davano nessuna idea della pianta.
Qui, per opera dello scavo, venne invece chiaramen­te alla luce un palazzo omerico. C’erano atri con colon­ne e sale, il cortile degli uomini con l’altare, il megaron sontuoso con atrio e propileo; si poteva ancora riconscere il bagno (col pavimento formato da un solo bloc­co di pietra calcarea di 20 000 kg), dove gli eroi di Omero si erano immersi e cosparsi di unguento. Qui, sotto la vanga di Schliemann, balzava viva la scena del ritorno dell’astuto Ulisse, del banchetto dei Proci, del bagno di sangue nella grande sala, come sono descritti nell’Odissea.
E c’era qualcosa di ancora piú interessante, la cera­mica e le pitture murali. Schliemann notò subito l’affi­nità di tutti i vasi e recipienti di argilla con quelli che aveva tratto alla luce a Micene, e rilevò anche la somiglianza col materiale che altri archeologi avevano trovato ad Asine, Nauplia, Eleusi e in varie isole, soprattutto a Creta. Non aveva egli forse trovato fra le rovine di Micene un uovo di struzzo (che al primo momento aveva creduto un vaso di alabastro) di provenienza egizia? E non scoperse qui di quei vasi dal motivo cosiddetto «geometrico» che già nel 1500 a.C. i Fenici avevano portato alla corte di Thutmosis III? In una particolareggiata spiegazione, Schliemann cercò di dimostrare che era sulle tracce di una corrente di civiltà di origine asiatica o africana; una civiltà che aveva toccato tutta la costa orientale della Grecia, com­prendendo la maggior parte delle isole, e aveva avuto verosimilmente il suo centro in Creta.
Oggi noi chiamiamo questa civiltà cretese-micenea. Schliemann ne aveva trovato le prime testimonianze. Ma la sua scoperta doveva essere riservata a un altro.
Le stanze del palazzo erano intonacate a calce. Le pareti portavano pitture a forma di fregi incorniciati per lo piú da una fascia gialla e azzurra, che verosimilmen­te correva lungo la stanza all’altezza del corpo umano e divideva le pareti in due parti. Una di queste pitture presentava un interesse ecce­zionale; sul fondo azzurro era rappresentato un possen­te toro, pezzato di rosso, nell’attitudine di spiccare un violento balzo. L’animale aveva un occhio rotondo, che ben ne significava la ferocia, e la coda sollevata e sfer­zante. Su questo toro, in una posa singolare fra il salto e la danza, stava un uomo, che si teneva afferrato con una mano alle corna dell’animale. Nel libro di Schliemann su Tirinto è citata la spiega­zione di un certo dottor Fabricius con le parole: «... si potrebbe interpretare l’uomo sulla groppa del toro come un cavallerizzo provetto o un domatore di tori, che mostra la sua abilità nel saltare sul dorso dell’animale durante una corsa violenta, non diversamente da quel domatore di cavalli menzionato nell’Iliade, che, in una rapida corsa, balza da un dorso all’altro di quattro caval­li apparigliati ». La spiegazione, cui Schliemann non aveva evidentemente nulla da aggiungere, non era sufficiente. Se egli avesse ceduto a un pensiero che spesso gli si affacciava alla mente, e si fosse recato a Creta, avrebbe trovato là qualcosa che, messo a raffronto con la scena di Tirinto, gli avrebbe permesso di trarre impor­tantissime conclusioni e avrebbe coronato la fatica di tutta la sua vita.
Il progetto di scavare a Creta, e particolarmente nei pressi di Cnosso, accompagnò Schliemann fino alla sua ultima ora. Un anno prima della morte scriveva: «Vor­rei chiudere le fatiche della mia vita con una grande impresa, lo scavo dell’antichissimo palazzo preistorico del re di Creta a Cnosso, che io credo di aver identifi­cato tre anni or sono».
Ma c’erano grandi ostacoli. È vero che egli aveva un’autorizzazione del governatore di Creta, ma il proprietario della collina era contrario a ogni «raspamen­to» e pretendeva la somma pazzesca di 100 000 franchi per la vendita della sua terra. Schliemann intavolò trat­tative e ottenne il ribasso a 40 000 franchi. Ma quan­do, dopo un nuovo viaggio, ritornò per mettere a punto il contratto, contò gli olivi della sua nuova proprietà e scoprí che i confini del terreno erano stati tracciati diversamente da quel che si era stabilito, e che gli sareb­bero rimasti 888 alberi invece di 2500. Allora rinunziò. Il suo spirito mercantile prevalse sull’interesse archeo­logico. Per l’olio di 1612 olivi Schliemann, che aveva profuso un intero patrimonio per la scienza, rinunziava alla possibilità di trovare finalmente la chiave degli enig­mi preistorici che si erano delineati durante i suoi scavi!
Ma non bisogna rammaricarsene. Egli aveva vissuto una vita sufficientemente ricca e piena, quando, nel­l’anno 1890, la morte gli tolse di mano il piccone e sep­pellí a sua volta il grande scavatore.
Egli voleva trascorrere con la moglie e con i figli la festa di Natale. Un forte mal d’orecchi lo affliggeva. Tutto preso da nuovi progetti si limitò, mentre passava per l’Italia, a consultare un paio di medici sconosciuti
che lo rassicurarono. Ma nel giorno di Natale cadde nella piazza della Santa Carità a Napoli e perdette la parola, conservando però la conoscenza. Pietosi passan­ti trasportarono il milionario all’ospedale, dove gli fu negato il ricovero. Quando la polizia lo perquisí gli si trovò in tasca l’indirizzo di un medico. Questi fu chia­mato, spiegò di chi si trattava e chiese una carrozza. I passanti guardarono l’uomo che giaceva spezzato al suolo, in vesti dimesse e con aspetto cosí misero. Domandarono chi avrebbe pagato e il medico rispose: «È un uomo ricco», e trasse dal mantello del malato una borsa piena d’oro!
Per una notte intera tribolò ancora Heinrich Schlie­mann, sempre in perfetta coscienza; poi si spense.
Quando la sua salma fu portata ad Atene, accanto alla bara stavano il re e il principe ereditario di Grecia, i rappresentanti diplomatici delle potenze straniere, i ministri del paese e i capi di tutti gli Istituti scientifici del luogo. Davanti al busto di Omero essi ringraziaro­no quel filoelleno che aveva arricchito di mille anni la conoscenza dell’antichità greca. Accanto alla bara erano la moglie e i due figli.
Si chiamavano Andromaca e Agamennone.
Arthur Evans, nato nel 1851, e che aveva quindi trentanove anni quando Schliemann morí, inglese al cento per cento, era l’uomo che avrebbe chiuso il cer­chio di cui Schliemann aveva riconosciuto un oscuro arco sull’antica tavola della storia.


1 commento:

  1. la realtà è un po' diversa http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2014/05/schliemann-scopritore-della-citta-di.html

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