Albertina Piras Pierluigi Montalbano Mauro Atzei
Tsìppiri
Una storia d’altri tempi,
raccontata in questi tempi
ROMANZO
Sardegna Magica
Disegni di Stefano Gesh e Paolo
Valente Poddighe
Copyright 2012 - Testi, disegni,
immagini, poesie sono di proprietà degli autori.
Indice:
Prologo……………………………………………………………………………………
Cap. 1°- Il regno
di Momoth………………………………………………
Cap. 2°- Le navi
levano l’ancora……………………………………………
Cap. 3°- Re Ormuk………………………………………………………………
Cap. 4°- Nurah, la
Jana maestra…………………………………………
Cap. 5° - Le Janas…………………………………………………………
Cap. 6°- Malgib,
la regina di Cartago………………………………
Cap. 7°- Dalla
morte all’amore, alla guerra………………………
Cap. 8°- Incontro
in Sardegna…………………………………………
Cap. 9°- Maestri
del bronzo…………………………………………………
Cap. 10°- Nei
sogni, la visione…………………………………………………
Cap. 11°- Lo
scontro finale………………………………………………..………
Cap. 12°- Parlano
i protagonisti………………………………………………
Le poesie di Leon
Cavaliere del Vento………………………………………
Tutto è iniziato per gioco, sulle
bacheche del gruppo di appassionati di archeologia di Facebook.
Sulla piazza virtuale che
rappresenta la nostra piccola “accademia dell’arcadia (digitale)” abbiamo
cominciato a scrivere questa storica vicenda tramandataci dagli storici latini.
L’abbiamo fatto per scherzare un
po’ all’inizio e, forse, neanche Pierluigi che pur aveva lanciato una giocosa
sfida a me e Albertina, credeva che avremmo compiuto questa piccola impresa in
una sola settimana e nei ritagli di tempo.
Alla fine dell’esperienza, tutti
noi ci siamo innamorati della principessa Tsìppiri: forse ognuno di noi ha in
parte sviluppato la stessa sindrome di Mastro Geppetto che s’innamora di suo
figlio Pinocchio.
E’ accaduto facendo nascere e
crescere questo personaggio singolare, una principessa sarda che diventa regina
e che colpisce l’animo per la sua sicurezza e la sua bontà.
Buona lettura dunque, sperando
che questo racconto possa cogliere i favori del vostro gusto per la storia, e
per le umane passioni.
Mauro
Atzei
~
Le cose sono proprio
andate come dice Mauro. Se poi si aggiunge che noi tre non ci conosciamo
personalmente, il quadro è completo.
Alla
considerazione di Pierluigi sulla possibilità di scrivere un libro sulla
battaglia navale di Alalia del 540 a.C., io avevo risposto mascherando la mia
inadeguatezza con la proposta di un intreccio amoroso, dove, se non altro, mi
sarei sentita alla pari.
Pierluigi
sembrava perplesso, ma Mauro si era affrettato a cercarmi un ruolo che
consentisse di mostrare la mia conoscenza delle erbe, delle janas e dei filtri
d’amore.
La storia ha
preso piede e, cammin facendo, anche Pierluigi si è alleggerito della sua
robusta corazza e si è lasciato andare nel mare della magica Sardegna, alla
ricerca del misterioso personaggio della principessa Tsippiri.
Albertina Piras
~
Un caro ringraziamento ad Albertina, Mauro, Paolo
e Stefano. Con le loro idee, e la loro arte, si è concretizzato questo romanzo
storico. E’ la mia prima avventura letteraria non legata al metodo scientifico,
ed è stata intrigante, oltre che divertente. Dedico questo scritto ai sardi e
ai discendenti di quelle genti etrusche e cartaginesi che, insieme, per un
attimo, hanno sognato un mondo nel quale le tradizioni non sarebbero state
contaminate dai miti greci.
Pierluigi Montalbano
Tsìppiri
Una storia d’altri tempi
raccontata in questi tempi
Prologo
Proveremo a raccontare una
storia antichissima, una tradizione orale che abbiamo nel sangue e che, per
questo motivo, abbiamo sempre conosciuto, anche se nessuno l’ha mai scritta. Si
tratta dell'arcana leggenda che racconta l’accordo di alleanza che, nel 540
a.C., fu stipulato fra la principessa sarda Tsìppiri, la regina Malgib di
Cartagine e il Re Ormuk, leader dei gruppi etruschi che controllavano le
miniere di Monte Valerio e Monte Rombolo.
I tre sovrani volevano allontanare i greci dalle rotte
tirreniche dopo che questi avevano scaricato le loro mercanzie nel porto di
Pitecusa, minacciando l’egemonia etrusca in quei lidi.
La trama degli avvenimenti mostra la storia di un uomo,
apparentemente forte, che posto di fronte al fascino irresistibile di una donna
incantevole, mostrerà tutte le sue debolezze emotive: Re Ormuk. Egli
s'innamorerà della principessa Tsìppiri, ammaliato dai suoi irresistibili
filtri d'amore. Confuso dagli eventi, progetterà di liberarsi della regina
Malgib, sua amante segreta e scomoda alleata. Per liberarsi anche dai greci,
temuti rivali economici, pensa di incolparli organizzando un complotto.
E’ la storia di un intreccio d'amore: la regina Cartaginese è
innamorata da tempo, segretamente ma non troppo, del re etrusco e lui, in un
primo momento, cede alle lusinghe della navigata seduttrice. In seguito, con
l'entrata in scena della nuova alleata, ossia la principessa sarda, i
sentimenti cambiano e il re, innamorato perdutamente del nuovo astro nascente
della regalità mediterranea, si trova a dover fronteggiare le emozioni, già
messe in subbuglio dalle troppe cessioni fatte a Malgib, e poi a dover gestire
un triumvirato d'affari con le due prime donne (oltre a dover metter d'accordo
le due nobili alleate), per poi cedere definitivamente il suo cuore alla
nobildonna isolana.
Tuttavia, per disimpegnarsi rapidamente dal rapporto amoroso
con la regina cartaginese, rischia di compiere un atto criminale. Per staccarsi
dalle grinfie della gelosissima e vendicativa regina cartaginese, intesse un'ignobile
trama coinvolgendo un rinnegato nobile etrusco, passato all'esercito punico. Il
progetto prevede l'assassinio dell’ignara Malgib in cambio della promessa di
cedere l'isola di Plotino, ricca di stagno (promessa che si sarebbe riservato
comunque di non mantenere). Mentre il re etrusco e la regina cartaginese si
accordano per costituire la "bronzea alleanza" contro i focesi, la
bellissima principessa Tsìppiri era incoronata regina sherden, in seguito
all'abdicazione di suo padre Re Momoth. Egli si ammalò gravemente per aver
erroneamente ingerito una velenosa minestra di euforbia. Fra le conseguenze
della malattia, il re sardo patisce una progressiva diminuzione della vista che
lo porterà alla cecità.
In occasione dell'incoronazione dalla principessa a nuova
Reggente, in sardo detta Rexina, i più esperti sarti isolani furono incaricati
di disegnare, e confezionare, l'abito più bello che si fosse mai visto sulla
terra. Uno di quei maestri era in realtà una sarta, una marmmidhesa famosa per
aver confezionato gli abiti di altre principesse e regine celebri del
Mediterraneo. La sua bottega d’arte era a Mara Barbaraghesa, importante comune
della Marmiddha, e costei ricevette l’incarico dalla principessa Tsìppiri in
persona. Avrebbe realizzato quel sontuoso e mirabile abito, e sarebbe divenuta
la sarta personale della regina.
“In dd'unu bellu canisteddu de fenu e giuncu prenu de drucis” (In un bel canestro di fieno
e giunco pieno di dolci) la principessa Tsìppiri presenterà al vecchio Re, e
padre, il suo messaggio d'amore e di pace, rivolto a tutti i popoli. Un
messaggio di fratellanza universale, di collaborazione, senza prevaricazione,
nel rispetto della dignità delle persone e dei popoli. Un messaggio che forse
non si realizzerà in quel tempo, ma rimarrà sempre valido per i tempi futuri e
in tutti i luoghi. Un messaggio che la società odierna, se fosse capace di fare
tesoro delle drammatiche esperienze della storia, dovrebbe prendere in
considerazione.
E’ ricordato come “Il messaggio della principessa Tsìppiri”.
E sarà questo l’insegnamento che la terra sarda si aggiudicherà nella storia
del mondo.
La figura di Tsìppiri è nobile nell’animo e nelle capacità.
Scelta dal padre alla sua successione, dopo tante discussioni nelle assemblee
degli anziani, e vincendo l’ostilità dei rampolli dell’aristocrazia,
rappresenta un nuovo modo, tutto al femminile, di condurre e amministrare un
grande territorio, in un nuovo ordine mondiale (per ciò che era il mondo
conosciuto dagli occidentali di allora) spinto verso una fitta rete di alleanze
mediterranee.
In questo racconto, il ruolo della giovane principessa sarà
doppio: far innamorare lo straniero alleato, in virtù del suo fascino e della
sua amabilità, e condurre alla ragione il suo amato, impedendogli azioni
criminose.
A qualcuno, Tsìppiri potrebbe sembrare un’ammaliatrice senza
scrupoli, una femmina che sfrutta i filtri d’amore e le arti occulte per
conquistare i cuori, ma è bene sapere che in questa vicenda le erbe sono
benefiche, emanano profumi soavi e intensi che predispongono il cuore verso
pensieri sublimi, donano energia positiva che aiuta a credere che esiste la
verità, la giustizia e la pace. E’ con questi sentimenti che la principessa
conquisterà il Re. I filtri magici saranno utilizzati esclusivamente per allontanare
dalla scena gli spiriti maligni. La grande forza della principessa sarda sarà
quella di creare, in tutta la storia, una barriera di protezione con erbe
aromatiche e officinali. La salute e l’amore trionferanno, confortati da
immagini di fiori colorati.
Cerco un pezzo di mare,
o uno specchio d’acqua
per leggere i miei pensieri;
un po’ di pace per parlare con Dio,
un luogo sicuro per nascondere i miei segreti.
Un po’ di riposo,
un poco solo.
E poi,
tornerò
alla quotidianità
del vivere.
Cap. 1°- Il regno di Momoth.
Chi viveva in quei tempi sull’isola sarda, conosceva il
racconto orale delle gesta, del coraggio e della generosa umanità (rara in un
governante) del nobile padre di Tsìppiri: Re Momoth, sovrano delle coste
orientali. Figlio di Cea e Lunyox, a soli 20 anni fu re di Bha-uny e Mur-a-vra.
Trascorse gran parte della sua adolescenza imbarcato sul naviglio militare. Le
veloci corvette sarde scortavano e proteggevano dagli attacchi pirateschi le
imbarcazioni commerciali che attraversavano le Colonne d’Ercole lungo la via
marittima dello stagno, verso le ricche miniere di Cornovaglia e Bretagna. A 18
anni fu nominato comandante della flotta sarda. Uomo d'affari e di larghe
vedute, discendeva dalla più nobile famiglia della Sardegna centro orientale.
Una casata dedita da secoli alla bronzistica. Creavano piccole sculture di
bronzo, per riti religiosi, e poderose armi per scopi bellici e di
rappresentanza. Imparò in giovane età la nobile arte della fusione del bronzo,
ma ben presto fu notato per le capacità di leader e per la vocazione al
comando. Quest’attitudine fu accompagnata da un’insanabile passione per la
navigazione e per le barche.
Il mare era la sua vera stella polare: a soli 14 anni
conosceva già gran parte delle rotte che dal Mar Mediterraneo conducevano al Libano
e, verso occidente, alle Colonne d'Ercole. A 21 anni, tracciò le rotte che
costeggiavano l’Africa e giunse fino ai ricchi empori del Madagascar. Fornì
prova di essere un grande condottiero civile. Le sue esplorazioni portarono in
patria grandi quantità di stagno, forse fin dal mitico Zimbabwe, nell’Africa
Equatoriale, tra il fiume Zambesi e
il fiume Limpopo.
Il cibo era il suo tallone d’Achille: goloso come pochi, pur
se all'epoca si desinava seduti con le ciotole sulle ginocchia, non si alzava
da tavola, o dalle caratteristiche panche di pietra (ancora in alcuni villaggi
nuragici), senza aver consumato almeno un chilo di crugujons (ravioli di farina
di frumento e ricotta di capra) e una dozzina di padr-u-as (dolci di ricotta e
zafferano, l'oro rosso dei tempi antichi). Divenuto vecchio, una volta
realizzati tutti i progetti, stanco del suo ruolo, attendeva che sua figlia
Tsìppiri maturasse le competenze per reggere responsabilmente il governo.
…Momoth… Disegno di Stefano Gesh
Desiderava dedicarsi alla pesca nei mari e nelle acque
interne, mettendo in pratica quelle specializzazioni acquisite nei tanti anni
trascorsi in mare. Realizzava personalmente le esche, le lenze e gli ami,
ottenuti battendo a freddo il rame. Conosceva i veleni utilizzabili per pescare
nelle acque dolci, e sapeva maneggiare la "Lua" un'erba
medicamentosa, velenosa, utilizzata per l'alto potere catartico nelle cerimonie
spirituali. Tuttavia, durante i riti della guarigione, praticati e condotti dal
Re Momoth come da tutti i nobili del suo rango, commise un grave errore di
dosaggio, rimanendone intossicato. Per tale motivo abdicò in favore di sua
figlia Tsìppiri. Le circostanziate cronache dell'epoca, provenienti da ambienti
di corte vicini a Re Momoth, riferiscono che il sovrano calcò volontariamente
la mano sulla quantità di euforbia, con il premeditato proposito di lasciare
finalmente libero il campo a sua figlia nei delicati compiti di nuova Rexina
della terra di Sardegna.
Re Momoth, che ebbe come consorte Syra, regina dei monti
innevati, intuì da subito le capacità sovrannaturali di Tsippirì. Ne ebbe
sentore sin dal momento in cui sua madre Syra, baciandola alla nascita, si
accorse immediatamente del fortissimo profumo di rosmarino che emanava. Una
fragranza intensa e persistente. Syra raccontava sempre che Tsìppiri era la
prediletta degli dei, e tutte le piante, i fiori e i frutti si sarebbero
inchinati (metaforicamente) a lei facendosi dominare. Per questo motivo
Tsippiri, crescendo, amava circondarsi di fiori profumati e di erbe aromatiche.
Ben presto iniziò a realizzare i suoi profumi. Si accorse che l'olfatto è un
senso che difficilmente può essere condizionato dall'intelletto. La regione
olfattiva è una delle prime a svilupparsi nell'essere umano, costituendo,
insieme al gusto, un sistema percettivo. Gli antichi filosofi Greci, scrissero
che l'olfatto è un senso direttamente collegato all'anima: si eredita dal
precedente passato ed è immortale.
Durante i primi giochi con i suoi cugini, Tsìppiri scoprì che
pestando nel mortaio le foglie della mandragora che cresceva intorno alla sua
casa, otteneva un unguento con cui poteva profumarsi il collo, con la
conseguenza che i bambini più violenti, durante i giochi da
"maschiacci", le stavano alla larga. Neppure loro si capacitavano di
questa proprietà aromatica: si sentivano immobilizzati, come se una grande mano
invisibile li tenesse lontani da lei.
I nostri antichi padri
hanno steso i fili dell'ordito
e il tempo li ha intessuti
costruendo la civiltà.
Una generazione all'altra
passa la voce
nel tempo che scorre.
Qualche volta il filo si spezza...
Peccato...
Ma il tempo è galantuomo,
cucirà tutti gli strappi
e linfa nuova farà scorrere
sui nuovi virgulti.
E l'albero rinverdirà
nella nuova stagione
di un'umanità rinnovata.
Cap 2°- Le navi levano l’ancora.
Sulle navi nuragiche c'è grande fermento. I marinai, i
carpentieri, i calafati, i rematori e gli addetti alla cambusa sono impegnati
nella preparazione del viaggio. Salpati da Tharros all'inizio della primavera,
dopo 4 mesi di viaggio attraverso i porti di tutto il Mediterraneo, si
preparano a fare rientro in patria con le stive piene di mercanzie pregiate.
Hanno scelto i prodotti più pregiati d’Oriente: sostanze balsamiche, spezie,
avori, vetro, ambra, stoffe e…idee.
Una leggera brezza dirada la nebbia che avvolge Kommos, il
porto di Creta. La città si prepara a salutare quei giovani sardi che, come
ogni marinaio che si rispetti, promettono romantici momenti da celebrare con
l’amata al prossimo sbarco, la stagione successiva. In questo luogo, tra terra
e mare, confluiscono le rotte dei popoli che frequentano il Mediterraneo.
S’incontrano gli uomini che scambiano le tecnologie e i prodotti della loro
terra e del loro ingegno. Arrivando dal mare, i viaggiatori vedono svettare il
palazzo del re con i suoi favolosi giardini. Il litorale è fitto di magazzini
per le merci e di moli, nei quali sono ormeggiate le navi mercantili. Alla
città si accede attraverso le numerose porte che conducono ai mercatini,
sistemati nelle viuzze che attraversano il borgo. I negozi sono raggruppati
secondo la merce che vi si vende. Stoffe, sete, pellami, mobili e armi. Nei
pressi del palazzo del re si trovano i contabili e gli addetti al peso dei
metalli da scambiare. Appongono sigilli ai contratti, e incidono segni
ponderali sui lingotti per registrare il peso.
Dall’epoca del mitico Minosse, Re di Creta, i mercanti
frequentano liberamente l'emporio più importante del Mediterraneo Orientale,
dove si scambia, si compra o si vende. Gli amministratori locali sono
ricchissimi e dettano le condizioni doganali. Si possono acquistare le merci
provenienti dal favoloso Oriente, e introdurre verso il mercato asiatico i
prodotti esotici che giungono dall’Africa. Le navi che solcano il Mediterraneo
sono realizzate col denaro degli armatori, ed è tra questi che sono scelti i
governanti. Si tratta di grandi imbarcazioni internazionali, con equipaggio
multietnico e componentistica nautica proveniente da tutto il mondo.
Fra i membri dell’equipaggio, i nocchieri sono marinai
esperti, tenuti in alta considerazione per le loro competenze. Hanno il compito
di razionalizzare e custodire il materiale di consumo e i finimenti vari per la
vita a bordo. Gli addetti al controllo delle barche, i funzionari doganali,
iniziano dai banchi dei rematori. Verificano lo stato d’usura dei legni,
dei remi e della timoneria. Controllano il cordame per le manovre di attracco,
e il numero di uomini che vogherà durante il viaggio. I
funzionari sono particolarmente attenti alla registrazione del carico al fine
di riscuotere le tasse sulle merci.
Il personale di bordo varia
a ogni porto, e solo i più fidati conoscono i luoghi di destinazione
definitivi. Il segreto della provenienza delle merci deve essere tutelato da
personaggi senza scrupoli che potrebbero compromettere i meccanismi di scambio.
La merce più pregiata per
chi si avventura in mare è l’acqua potabile. Le stive contengono risorse
sufficienti per almeno tre giorni di navigazione, e le anfore sono controllate
con cura, e ripristinate, a ogni sbarco.
Vele, vettovaglie, armi,
strumenti di bordo e zavorra sono verificate personalmente dal comandante.
Tutto è pronto…un lungo
fischio accompagna il distacco della nave dalla banchina. Il personale è
schierato sul ponte, e saluta compostamente il molo brulicante di giovani donne
piangenti. Il sole è quasi tramontato, e sospinto dal vento, il vascello fila
diritto verso un nuovo porto.
Il sole,
nello splendore del suo sorgere,
dirada la nebbia
e ogni cosa appare
con nitida chiarezza.
Magico è il momento in cui
emerge come da nebulosa
la specificità di una persona,
e l'estraneo diventa amico,
fratello, compagno di volo.
Cap. 3°- Re Ormuk
Mentre la principessa Tsìppiri, futura regina dell'isola,
cresceva dilettandosi con fiori, erbe e unguenti, dall'altra parte del Tirreno
un popolo, confederato in una lega composta di città stato, cresceva e
prosperava. I loro traffici commerciali si estendevano nello specchio d’acqua
compreso fra la Sicilia a sud e il golfo ligure a nord, e avrebbero conquistato
tutto il Mediterraneo Occidentale se i greci non avessero deciso di fondare
Massalia, l’odierna Marsiglia. La politica estera dei re etruschi mirava a
stipulare un patto commerciale di non aggressione con la nuova potenza
imperiale africana, Cartagine, che dalle coste nord-africane spingeva verso le
isole maggiori. La potenza dei Tusci (Etruschi), prima dell’avvento di Roma,
era estesa per terra e per mare. I nomi dei mari che cingono l'Italia,
testimoniano la loro autorità.
Livio (V, 33, 7), vissuto nei secoli a cavallo dell’avvento
di Cristo, racconta che “le popolazioni italiche chiamano l'uno Tusco, dal nome
comune di quel popolo, l'altro Adriatico, da Adria, colonia etrusca, mentre i
Greci li chiamano Tirreno e Adriatico”.
Il Re etrusco Ormuk, cresciuto all'ombra di suo padre Ilvo,
aveva da pochi anni assunto il potere. Il suo interesse principale era rivolto
ai ricchi giacimenti (oggi in terra di Toscana) di Monte Valerio e del Monte
Rombolo. Si trattava di miniere con filoni metalliferi superficiali ma di
grande importanza e valore. Il rame era abbondante, così come i minerali di
pirite, calcite, ematite e magnetite, le pietre preziose dell'epoca. Inoltre, il giacimento di magnesite portò una novità di vitale
importanza per la nuova epoca che si apriva: gli etruschi, da lì a poco,
trovarono il ferro, un nuovo metallo che nel giro di poche generazioni
soppiantò il bronzo e rivoluzionò lo scacchiere politico mondiale.
Ma all’epoca di Ormuk la vera ricchezza era costituita dai
giacimenti di stagno. Grazie alla presenza contestuale del rame, l’altro
componente del bronzo, consentiva a Re Ormuk, e al suo popolo, di fabbricare un
quantitativo imponente di armi e di
tenere sotto scacco tutto il Tirreno.
L’albero affonda le radici sulla
terra
e si protende alto nel cielo,
e quanto più a fondo vanno le radici
più alte le fronde si elevano.
Per conoscere il cielo
bisogna conoscere la terra,
e quanto più si conosce la terra
più si conosce il cielo.
E noi quanto più conosciamo la morte
più conosciamo la vita,
quanto più ci immergiamo nel buio
più conosciamo la luce
Cap. 4°- Nurah, la Jana maestra
Intanto Tsìppiri cresceva, e con lei germogliava anche la sua
passione per la magia verde, quella delle piante. La sua jana adorata, la sua
maestra e guida, il cui nome significa luce, l’aveva convinta che il futuro era
nelle piante.
"Farete amicizia con loro e il vostro futuro sarà
prospero".
Le disse la jana in un momento di quiete di un pomeriggio
estivo.
E aggiunse:
"Prendi il rosmarino, il fiore che ti ha attribuito il
nome e di cui profumi. Secondo un’antica leggenda, tramandataci dalle nostre
nonne, i fiori del rosmarino una volta erano bianchi. Divennero azzurri quando
la Tanìt, durante la fuga da Sulki diretta verso Karalis, lasciò cadere il suo
mantello su una pianta di rosmarino. Voglio insegnarvi una ricetta, ma
ricordate che non potrete raccontarla a nessuno, solo alla vostra primogenita.
L'acqua di rosmarino cura tutti i mali, e la sua magia consente alla donna meno
piacente di diventare irresistibile per chiunque. Si prepara così: prendete
l’acqua distillata, quattro volte trenta once, aggiungete venti once di fiori
di rosmarino e conservate tutto per 4 giorni in un vaso ben chiuso.
Successivamente distillate con un alambicco a bagnomaria. Prendete una volta la
settimana una pitzìosedda (la misura di un bicchierino) di questa pozione
miscelata con qualche liquore o bevanda, o insieme alla carne. Con tale
miscuglio potete anche lavare il viso ogni mattina, o massaggiare le membra
malate. Questo rimedio rinnova le forze, solleva lo spirito, purifica il
midollo, fornisce energia vitale, migliora la vista e la conserva per lungo
tempo, ed è eccellente per lo stomaco e il petto”.
“In effetti”, disse la Jana, “c'è uno speciale legame fra noi
e la natura. Un legame che si consolida quando facciamo il vuoto in noi stessi
e ascoltiamo gli altri esseri viventi. Le piante ci stupiscono per la loro
bellezza, sono creazioni del Dio della bellezza e dell'amore. La natura, come
noi, geme e soffre, e nella storia del mondo anche lei aspetta in qualche modo
una redenzione insieme al genere umano. E’ compagna di lotta per il trionfo del
bene, ed è vicina all'uomo per curare le malattie che rompono l'equilibrio del
corpo. Inoltre è vicina nelle conquiste per far trionfare l'amore”.
Tsìppiri ascoltava la sua maestra con amore e dedizione.
Sapeva che ascoltando quei consigli sarebbe cresciuta nel buon senso della
saggezza. “Jana adorata, dite delle cose bellissime e di una profondità che
ancora non capisco, e senza di voi mi sentirei sola a corte. Penso che nessuno
mi voglia realmente bene come voi. Non fraintendetemi, è vero, tutti mi stanno
intorno e mi riveriscono, e anche con i cugini si gioca e si scherza, ma senza
le parole che ogni giorno mi dispensate, la vita mi sembrerebbe vuota.
Insegnatemi ancora, vi prego, qual è il segreto delle quattro erbe? Riuscirò a
curare mio padre dalla cecità?”.
“Benedetta figlia, io v’insegnerò le magie per sanare tutte
le malattie, ma voi non dovrete mai cercare di guarire vostro padre. Lui è
malato per scelta e per volere degli dei, ma non dovete preoccuparvi per lui.
Se, invece, vorrete apprendere come curare i vostri animali, e un giorno quando
diverrete madre i vostri figli, non avete che da ascoltarmi. Un insegnamento
importante, e più antico dei nuraghi, riguarda l'aceto dei quattro mari. E’ un
balsamo miracoloso formato da un miscuglio di varie erbe fra le quali spicca il
rosmarino, ideale per curare i reumatismi del nostro clima umido. Si prendono
tre libbre di miele di acacia e si cuoce a cottura lenta. Si lascia raffreddare
e si aggiunge una libbra di fiori sani di rosmarino, riscaldando poco, così da
conservare il colore natio. Conforta il cerebro umido, giova al cuore e
corrobora le membra nervose”.
Tsìppiri ascoltava la maestra, annuiva e memorizzava.
“jana mia, mi raccontate come avete conosciuto tutte queste
magie d'erbe?”
“Mi sono state trasmesse dai miei antenati”.
Rispose la jana, e aggiunse: “Il mio destino è d'insegnarle
solo a voi principessa, e non a chicchessia. Una leggenda che mi è stata
tramandata insieme alle ricette, narra la storia della principessa Luxi, figlia
del re del Ghenn'e-ar-ghnt. Sedotta da un dio bellissimo, intrufolatosi
furtivamente nelle sue stanze, fu colta sul fatto dal padre. Il re andò su
tutte le furie. Non la perdonò, e l’uccise per questa sua debolezza. Sulla
tomba della principessa i raggi del sole penetrarono fino a raggiungere le
spoglie della fanciulla. Lentamente, dal suo corpo morto, germogliò una pianta
dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido.
Da questa leggenda nacque l’usanza di tutti i popoli che vivono sulle sponde
del Mediterraneo, di coltivare il rosmarino come simbolo d’immortalità
dell’anima. Ancora oggi, nelle cerimonie funebri, i rami sono adagiati fra le
mani dei defunti e bruciati come incenso durante i riti”.
La principessa, con occhi sognanti, disse:
“E' fantastico il rosmarino, mia cara jana, è davvero la mia
erba d'elezione, mi cresce tutt'attorno e respiro il suo aroma notte e giorno.
Se sparisse il suo profumo mi sentirai persa”.
…Tsìppiri ascoltava la maestra… Disegno di Stefano Gesh
“Non preoccupatevi mia regina, non sparirà mai”, disse la
vecchia, “Voi stessa siete rosmarino. Vi sarà sufficiente poggiare due dita
nella terra umida, e come d'incanto una pianta nuova di rosmarino inizierà a
germogliare e crescerà robusta. Ma devo mettervi in guardia. Il rosmarino è una
pianta molto potente: cattura le emozioni e coinvolge i maschi. Dovete usarla
con parsimonia, perché gli uomini più potenti del mondo saranno attratti da
voi, diverrete irresistibile. Perfino la nostra antica tradizione ritiene che
sia la pianta degli innamorati. Regalare un ramo di rosmarino significa dire:
penso sempre e solo a te. Il ramoscello, infatti, ha il potere di mantenere
vivo il ricordo della persona che l’ha donato, quindi usatelo con moderazione
perché già così non ne avrete bisogno. Alla fine sarete costretta a schermirvi
da tutti gli uomini che cadranno ai vostri piedi. Vi voglio insegnare un altro
incantesimo, che vi proteggerà dagli uomini troppo invadenti, fatene uso alla
bisogna: versate in un recipiente chiuso un litro di acquavite di vinaccia, (è
perfetta quella della riserva della cantina di vostro padre). Aggiungete tre
volte trenta once di acqua distillata. Tagliate a fettine due arance fresche,
di quelle di Mi - lys, le più pregiate e profumate se tagliate ben mature.
Aggiungete due limoni e lasciate tutto in infusione nel vaso chiuso, esposto
giorno e notte all’aperto, in modo che possa ricevere la luce solare e lunare.
Il rituale deve iniziare il primo giorno di luna nuova.
Trascorsi quattordici giorni, colate tutto il macerato
filtrandolo. Spremete bene le fettine di arancia e di limone impregnate di
acqua ardente. A questo punto rimettete il liquore ottenuto nel contenitore
lavato e asciugato, incorporate le erbe in libbre tre per ognuna: enula, issopo,
salvia, rosmarino, menta e angelica. Fatto ciò, chiudete accuratamente il vaso
ed esponete tutto all’aperto per altri quattordici giorni, con la
raccomandazione di ritirare il vaso il giorno prima della luna nuova seguente.
Lo stesso giorno, eseguite per tre volte la spremitura delle
erbe e il filtraggio del liquore ottenuto. Al termine, aggiungete due cucchiai
di miele di acacia. Questa la potrete bere dentro una pitziosedda per tre volte
subito dopo il vostro desinare. Ed ecco che sarete protetta.”
Cap. 5° - Le Janas
Nurah, l’amica della principessa, viveva con le sue sorelle.
Erano delle donnine piccine come uccelli di campo. Preparavano le loro casette
negli anfratti rocciosi dei monti, e vi risiedevano tessendo scialli con fili
d’oro e d’argento, stendendoli la notte al chiaro di luna. Uscivano solo la
notte, per paura che il sole bruciasse la loro pelle delicata. Erano venute dai
paesi lontani portandosi appresso immense ricchezze.
Si racconta che un pastore preparò la sua capanna vicino alle
casette delle janas, e rimase nascosto per giorni a osservarle, senza farsi
vedere. Studiava un modo per derubarle. Un giorno prese un sacco e, camminando
a quattro zampe, silenzioso come un gatto, si avvicinò a Nurah mentre stendeva
il suo scialle al chiaro di luna. Guardare il viso delle Janas portava
disgrazia, perciò il pastore evitò di fissarla. Si avvicinò alle sue spalle e,
in un baleno, chiuse la testa dentro il sacco e portò la jana nella sua
capanna.
“Fammi uscire da questo sacco”, urlò Nurah.
“Ti farò uscire quando mi darai tutto l’oro che chiedo”,
rispose il pastore.
“Fammi uscire, e ti riempirò d’oro”, replicò decisa la jana.
“Se ti libererò, sono certo che mi trasformerai in pietra”.
“Non lo farò”, lo tranquillizzò Nurah.
“Dammi la tua parola”, intimò il pastore.
“Parola di Jana: se mi libererai ti riempirò d’oro”.
Il giovane pastore chiuse gli occhi, perché non poteva
guardarla in faccia, e aprì il sacco.
“Ora mantieni la promessa”, ordinò alla Jana.
“Sì, manterrò la promessa! Devi dirmi basta quando pensi che
l’oro sia sufficiente”.
In quello stesso momento cominciò a piovere dalla soffitta
una grande quantità di paglia d’oro.
L’oro cadeva e riempiva ogni angolo della capanna, e il
pastore era immerso in quella scintillante polvere preziosa. Lentamente ma
inesorabilmente, la montagna cominciò a crescere. Quando il pastore decise di
fermare la pioggia d’oro era troppo tardi: morì soffocato.
Elisir Disegno
di Stefano Gesh
Un’altra storia che si racconta sulle janas riguarda un
ladruncolo. Correva come una furia in groppa al suo cavallo, e strappò dalle
mani di una jana lo scialle che questa stava stendendo sulla roccia. Lei,
furiosa, afferrò la coda del cavallo e lo fermò.
“Restituiscimi lo scialle, ladro che non sei altro!”.
“Vattene, moschettina, se non ti allontani ti schiaccio!”,
urlò il predone.
Senza farsi intimidire la Jana cominciò ad attorcigliare la
coda al cavallo finché questi si impennò. Il ladro perse il controllo e
precipitò in un burrone. La jana riprese lo scialle e tornò nella sua casetta.
Le Janas sapevano anche essere malvagie, ma solo con i
cattivi. Una leggenda popolare, vuole che le grandi pietre del territorio
furono un tempo esseri umani. Coloro che si comportavano male subivano un
incantesimo ed erano trasformati in pietre. Invece, con i buoni di spirito,
erano infinitamente generose: stendevano grandi veli lungo le vallate e gli
uomini venivano rapiti nel loro mondo, del quale, una volta tornati nella loro
quotidianità, raccontavano cose stupende. Erano vere maestre d'arte,
particolarmente nel ricamo degli scialli che le donne sarde usavano con i loro
ricchi costumi.
Nurah, tra le altre cose, insegnò alla principessa Tsìppiri
anche l'arte di difendersi dal malocchio: un sortilegio che viene lanciato
contro una persona allo scopo di farle patire dolori e sofferenze. Porta
malattie o sfortune gravi, le spiegò la Jana. Può essere lanciato
consapevolmente, attraverso un incantesimo maligno, oppure inconsapevolmente,
attraverso sentimenti negativi come l‘invidia e il disprezzo. E’ sempre diretto
verso una vittima specifica. I sintomi provocati alla persona colpita sono
violenti mal di testa, nausea, vomito, cattivo umore, depressione. Possono
anche verificarsi eventi negativi sia dal punto di vista affettivo sia dal
punto di vista economico. Il malocchio può essere a carico di una persona o di
cose. Solo le Janas riconoscono e curano il malocchio ma, in particolari
occasioni, decidono di svelare i segreti a uomini o donne che mostrino meriti
nei loro confronti.
Le Janas tramandano il "potere" a individui di loro
fiducia, solitamente familiari. Dopo il trasferimento del potere, chi l’ha
trasmesso perde la sua capacità di eseguire il rito. E’ per questo motivo che
il passaggio avviene quando la persona sente che si sta avvicinando alla fine
dei suoi giorni. Le procedure per diagnosticare ed eliminare il malocchio sono
diverse.
La Jana Nurah
Nurah svelò alla principessa una magia molto antica: la
persona colpita dal malocchio deve stare seduta e il guaritore riempie d’acqua
un piatto fondo. Con questo piatto esegue per tre volte un segno particolare,
poi lo ripete sulla fronte del soggetto del rituale. Mentre traccia dei segni,
il guaritore ripete mentalmente, o sottovoce, le parole segrete previste dal
rito. Terminato ciò, traccia su se stesso, sempre per tre volte, i medesimi
segni e, toccando i bordi del piatto, esegue ancora il segno ripetendo mentalmente
le altre parole segrete previste dal rito. La formula segreta è ripetuta tre
volte.
Ultimata questa procedura, è possibile ottenere la
"diagnosi". Si versano nel piatto alcune gocce di olio di oliva prese
da un vaso preparato in precedenza, e si osservano mentre cadono nell'acqua: se
l'olio si allarga la diagnosi è malocchio, ma può succedere che l'olio sembri
scomparire. In questo caso la persona è stata colpita da malocchio già da
qualche tempo, e sarà più difficile da trattare. Se invece l'olio si allarga
poco, vuol dire che la "maledizione" è nelle prime fasi, in forma
leggera e, conseguentemente, scomparirà più facilmente.
Nel caso in cui l'olio resti a galla, rivela che la persona
non è stata colpita da malocchio e la cosa finisce lì. Se la persona invece ha
il malocchio, si deve gettare via l'acqua in un luogo dove si ritiene che
nessuno passi, altrimenti potrebbe
trasmettere il malocchio a chi la calpesta.
Dopo aver gettato l'acqua, si deve ripetere nuovamente il
rito per altre due volte. Già la seconda volta gli "occhi" che
compaiono nell'olio dovrebbero essere più piccoli, mentre alla terza volta non
dovrebbe esserci più niente. Se gli "occhi" compaiono anche durante
la terza ripetizione del rito, significa che il malocchio trasmesso è forte ed
è necessario intervenire con una modifica: si tagliano gli "occhi"
con le forbici e si ripete il rito il giorno dopo. È importante che, una volta
iniziato il rito contro il malocchio, esso non sia mai interrotto.
I guaritori sono in grado di capire se il malocchio sia stato
lanciato da una donna o da un uomo. Dipende da come si presentano le gocce
dell'olio: se hanno accanto piccoli cerchietti, il malocchio è responsabilità
di una donna (o di più donne). Se, invece, le gocce sono normali, la responsabilità
è da attribuirsi a uno o più uomini. Se entrambe le tipologie di gocce sono
presenti, allora la responsabilità è da ricercarsi in più persone di sesso
diverso fra loro.
Se tutto è andato bene, la persona colpita dal malocchio
comincia a sentirsi subito meglio.
La vita terrena passa,
il tempo scorre,
ma sfidano i secoli
le nostre cattedrali.
E' iniziata qui sulla terra
la nostra eternità.
Il vocabolario
è un oceano che pullula
di voci, espressioni
che sempre ci nutrono
intessendo i nostri rapporti con gli altri,
alimentando il nostro pensiero,
indirizzando le nostre opere.
La lingua è il filo conduttore
che tutto abbraccia,
e che sintonizza l'anelito nostro
al cuore che batte e dà vita,
che accoglie e che dona,
alla forza motrice del mondo.
Cap. 6°- Malgib, la regina di Cartago
Si narra che la regina discendesse in linea diretta dalla
mitologica Didone, la regina di Tiro che, da quanto raccontatoci da Virgilio,
s’invaghì di Enea ma, in preda alla follia per la delusione amorosa, si tolse
la vita.
Malgib era primogenita di una nobile casta di Suffeti
in linea materna, e della più potente famiglia di generali militari di
Cartagine in linea paterna. Ambiziosa e astuta, riuscì con le sue belle arti
(forse con la magia, mormoravano i più maligni) a convincere sia il Consiglio
Supremo sia l'Assemblea Popolare, a nominarla governatrice della città.
Approfittò di questo potere per eleggersi Regina. In breve tempo, grazie al suo
talento per la gestione economica del territorio (mari compresi), e al potere
giudiziario e militare che deteneva, intraprese la conquista delle antiche
colonie levantine, allargando il suo dominio su tutta l'Africa, dal Marocco
all'Egitto.
La fondazione della città di Ebusa (Ibiza) nel VII secolo
a.C. da parte dagli antenati di Malgib, permise alla principessa di esercitare
il controllo del Mediterraneo Occidentale, fino alla coste della Spagna.
In campo alimentare, diffuse ovunque la cultura del garum,
una salsetta piccante a base di pesce, antesignana delle salse da Kebab di
oggi. Questa salsa fece la fortuna dei Cartaginesi, tant'è che molti dei loro
mercanti aprirono nelle zone portuali del Mediterraneo una serie di locali per
la vendita di questo prodotto. Fu così che Re
Ormuk, l'etrusco, una sera, mentre
si aggirava per le viuzze di Tarch(u)na (Tarquinia), sentendo un languore allo
stomaco a causa di uno stuzzicante aroma sconosciuto, s'imbattè in un chiosco
alimentare gestito da uno di questi Tanitiani (così venivano chiamati dagli
etruschi i commercianti di garum di origine punica) che aveva introdotto questa
novità nella città etrusca. Offriva un prodotto di alta qualità a basso costo.
Il goloso Re Ormuk, naturalmente, non seppe resistere alla tentazione di
assaggiare uno di questi gustosi involtini ripieni di pesce e salsa piccante.
“Davvero prelibato”, disse a fine pasto, e rivolgendosi al
mercante aggiunse: “cosa posso bere per dissetarmi in questa calura estiva?”
“Per voi Sire, ho pronta una bevanda di cedro con miele,
fresca e dissetante. La teniamo a dimora in questi contenitori di terracotta,
inseriti all'interno di tronchi cavi di quercia. E’ l'unico modo per mantenere
fresche le bevande”
“Interessante, è un’idea geniale” disse il Re, ma subito dopo
borbottò “perché diavolo non ci hanno pensato i nostri mercanti a uno
stratagemma simile?”
“Tutto molto buono davvero. Mi complimento con te Tanitiano.
Sei il solo a conoscere questa delizia?”
“Forse voi, sedotto dalla bontà della nostra pietanza e
rinfrancato dalla freschezza della nostra bevanda vi siete fatto un'idea di me,
povero mercante punico, molto più grande di quello che io non sia, mio Re. Non
è stata un'idea mia, noi Cartaginesi in verità abbiamo imparato a cucinare il
pesce grazie agli amici dell'isola di Shrd. La chiamano Mr(e)-ka e la
realizzano col cefalo e col muggine dorato, aggiungendo un’erba speciale che
cresce nei loro stagni. Noi l'abbiamo adattata alle nostre usanze, utilizzando
il papiro per avvolgere l’involtino. E’ molto più facile da trovare. La vera
artefice di quest’idea commerciale è la regina Malgib, nostra signora di
Cartagine, che ha spinto il commercio del garum in tutto il Mediterraneo. Ha
deciso di aprire queste piccole botteghe nelle più importanti città, per il
piacere di voi etruschi, e delle genti di ogni costa”.
“Che bella idea”, esclamò Ormuk con una certa sorpresa. E
aggiunse: “quindi questa mirabìlia è tutta opera e genio della regina Malgib.
Chi l'avrebbe mai pensato?” Prendete queste pietruzze di quarzo, di pirite e di
galena, ve le siete meritate”.
Pagato il mercante, Re Ormuk decise di recarsi dalla regina
di Cartagine per conoscerla personalmente. Aveva già sentito parlare di quella
donna per le sue abilità militari e per il suo fascino, ma ignorava le altre
qualità. “E che diavolo”, disse Ormuk, “ho assaggiato altre volte la Mr(e)-ka
dagli amici di Tharr(o)s, e perfino l'amico Momoth, re dei sardi, ne andava
pazzo. Più volte m’inviò in regalo un barile di garum per l'assaggio, ma questa
ispirazione di aprire chioschetti per la vendita è strabiliante. Devo
assolutamente conoscere quella donna!”
Malgib Disegno
di Stefano Gesh
Da quel momento, Re Ormuk pensò sempre più intensamente alla
regina Malgib. Immaginava il viso, e la sinuosità. La regina gli appariva come
una donna bellissima, dai tratti orientali, dai sontuosi e variopinti costumi,
e progettò un viaggio per raggiungerla.
Intanto a Cartagine, distesa nel suo prezioso letto regale in
ebano, intarsiato d’avorio e avvolto di rasi e stoffe di seta, la regina Malgib
non pensava certo a re Ormuk, almeno non ancora.
Due marinai giunti a corte per comunicare una triste
ambasciata, risvegliarono i suoi pensieri più vendicativi, relativi alla
vicenda che, qualche secolo dopo, scrisse Erodoto*.
Malgib, con preoccupazione, apprese dai due marinai che i
coloni focesi provenienti da Marsiglia, fondatori della città di Alalia in
Corsica, ostacolavano il suo commercio di garum, arrivando a distruggere
alcuni chioschetti che la regina aveva aperto nella città corsa. I focesi si
macchiarono, inoltre, di un crimine imperdonabile: uccisero i mercanti punici.
Ora, per la regina, si materializzava un serio pericolo per il commercio
intrapreso nelle città del nord Sardegna.
La regina aveva un diavolo per capello, e di capelli ne aveva
tanti. Alla moda cartaginese portava una treccia di capelli rossi fitta come la
stoppa, e ripiegata più volte su stessa. Odiava il popolo greco con tutte le
sue forze, da quando sua nonna Europa fu da loro rapita senza che il popolo
fenicio poté mai avere soddisfazione (Erodoto*).
La carta della Battaglia
~
*Erodoto
“I sacerdoti di Zeus Tebano mi narrarono
che, da Tebe, due sacerdotesse furono rapite dai Fenici. Seppero, in seguito,
che una di esse fu portata in Libia e venduta, l’altra giunse fra i Greci:
queste donne furono le prime a stabilire gli oracoli presso i popoli suddetti.
Chiesi come appresero ciò che raccontavano, e i sacerdoti mi risposero che
fecero attente ricerche su quelle donne ma non trovarono nulla. In seguito
appresero su di loro quelle notizie che appunto mi riferivano...
Io, invece, ho sul fatto quest’opinione. Se è vero che i Fenici rapirono le due
sacerdotesse e le vendettero una in Libia, l’altra in Grecia, secondo me,
quest’ultima fu venduta agli abitanti dell’attuale Grecia (e che prima era
detta Pelasgia ma è la stessa terra), cioè ai Tesprozi. Poi, schiava com’era,
fondò in quel luogo, sotto una quercia cresciuta spontaneamente, un santuario
di Zeus; come, del resto, era naturale che essa, in Tebe addetta al tempio di
Zeus, ne conservasse il ricordo nel luogo dov’era giunta. In seguito, imparata
la lingua greca, in quel luogo sacro fondò un oracolo. Raccontò che sua sorella
fu venduta in Libia dagli stessi Fenici da cui essa pure era stata venduta”.
~
Per molto tempo Malgib riuscì a cancellare dalla memoria
quella vicenda, il suo intento era quello di dimenticarla per sempre, una volta
vendicato il popolo fenicio. Fino a quel giorno era riuscita nell’intento, ma i
due marinai che giunsero fino a corte con quei foschi messaggi, scatenarono la
sua ira. Le parole degli ambasciatori furono: ”Regina, nostra signora adorata,
i focesi hanno dato fuoco alle nostre in edicole in Corsica e nel nord
Sardegna. I nostri mercanti sono stati uccisi e i loro poveri corpi martoriati,
sono stati esposti al pubblico ludibrio. Le loro mogli, dopo essere state
violentate, sono state vendute a marinai greci che le avrebbero portate in
Cappadocia”.
“Che orrore”, urlò la Regina. “Tutto questo andrà lavato col
sangue, voglio radere al suolo Marsiglia, poi Alalia e poi…non voglio più
sentir parlare dei greci in vita mia!” Mentre pensava e rimuginava, si sforzava
di organizzare delle mosse efficaci. In quel momento un messaggero amico fu
annunciato dalle guardie armate. Arrivava dalla Tirrenia con un dispaccio da
parte di Re Ormuk, un re delle coste etrusche. Il messaggio diceva che il Re
desiderava conoscerla. Intendeva parlare di affari comuni, in particolare della
questione relativa ai commerci navali nel Mediterraneo Occidentale, perché i
Greci cominciavano a invadere il Tirreno con i loro traffici e loro mercanzie”.
La Regina Malgib, lesse la missiva scritta in cuneiforme su
un supporto realizzato con sottilissima pelle di capretto, alla maniera
etrusca. Non ci pensò due volte e, colta la palla al balzo, inviò la risposta
al re straniero. Scrisse su papiro, e lo inviò a bordo di un vascello carico di
doni e di vettovaglie (compresa una dozzina di orci di garum).
Disegno
di Stefano Gesh
Inconsapevolmente
dirigo verso te
i miei passi,
e non c'è una ragione precisa
perché io faccia questo,
o almeno io non lo comprendo.
Dico è più importante l'amore
che verso il tuo mondo mi porta,
o sei tu la cosa più importante della mia vita?
Quando tu dal tuo mondo m'allontani,
io penso che l'amore è energia
che troverà altri spazi,
verso cui dirigersi,
che è più importante l'amore
della persona amata.
Ed ecco, io sento
che Amore vive in me,
che è l'Amore
il mio unico amante.
Cap. 7°- Dalla morte all’amore, alla guerra.
Dalle notizie funeste portate dai marinai cartaginesi,
passando per la richiesta di alleanza di Re Ormuk, fino alla nascita di una
storia d’amore con il re straniero, il passo fu breve. Certo, all’inizio non fu
un amore disinteressato, non è il caso di indicarlo con tale generosità. Ma il
legame sentimentale che coinvolse Malgib e Ormuk si trasformò in
un’appassionata storia d’amore tra regnanti di due paesi amici, pur distanti
per l’epoca. Si trattava di una passione tra “pendolari di lusso”, e forse si sarebbero
sposati, unendo due continenti. Tuttavia ciò non accadde.
Malgib era troppo ambiziosa, e il suo desiderio di un “sacro
punico impero” appariva a Re Ormuk come un pericolo per l’equilibrio politico
del Mar Mediterraneo. Pur se la regina Malgib gli piaceva parecchio, e ne era
innamorato, egli non aveva alcuna intenzione di creare un impero.
S’incontravano in mezzo al mare a bordo di un grosso
vascello. Lo raggiungevano con veloci corvette: nera quella etrusca, e bianca
quella cartaginese. Si appartavano per alcuni giorni dentro il sontuoso
vascello all’ancora, arredato come si conviene a due regnanti, e trascorrevano
intense emozioni, accompagnati da fastosi banchetti e danze. Si amavano e, allo
stesso tempo, parlavano di affari, di traffici mercantili, di politica e di
guerra, contro i greci di Massalia. Poi salpavano per il mare aperto, verso i
rispettivi troni, sempre a bordo delle veloci corvette che, condizioni
meteorologiche permettendo, schizzavano veloci come il vento e raggiungevano il
porto in poche ore.
Il loro amore durò circa un anno. In seguito, la regina
Malgib, preso atto che Ormuk, tranne i frequenti incontri sentimentali in mezzo
al mare, non si assumeva responsabilità militari, decise di agire. Una scelta
dettata dal destino, decisa da Bes e dagli altri dei che ambivano a un impero
Cartaginese. All’epoca, i grandi cambiamenti non erano solo frutto delle scelte
degli uomini: ogni essere umano sapeva che il destino era determinato
principalmente dal volere degli dei.
Malgib non consultò l’oracolo e d’impeto, mentre era ancora
avvinghiata al suo spasimante in un febbrile atto d’amore, ruppe
improvvisamente la sacra egemonia dell’eros. Sbottando e ruggendo, pronunciò le
fatidiche dieci parole che divennero epiche: “coinvolgiamo Re Momoth, il
reggente sardo, chiediamogli appoggio e alleanza.”
“Mia signora, ma vi sembra questo il momento? Nemmeno fossimo
in piena apocalisse”, strillò Ormuk seccato.
“Sbagliate mio Re, l’apocalisse è vicina”, replicò la regina,
“dite a Momoth che sarà per lui un vantaggio, perché distruggeremo i focesi e
affonderemo per sempre quelle maledette navi greche che appestano i nostri
mari!”
Ormuk la fissò per un istante, e capì che la regina non
scherzava. Col cuore in gola, si alzò dal letto d’amore e iniziò a riflettere.
Per l’organizzazione degli eventi, vista la grande amicizia che lo legava da
tempo al sovrano sardo, decise di contattare personalmente Re Momoth.
Disegno
di Paolo Valente Poddighe
Brulica
la mia mente d’idee,
ma in un groviglio
di pensieri sta
nitida, intatta, nascosta,
la verità.
Cap. 8°- Incontro in Sardegna
Momoth e Ormuk s’incontrarono nella città di Othoca (alla
foce del fiume Tirso), e festeggiarono, come vuole la tradizione comune,
davanti a una tavola imbandita di prelibatezze sarde e mediterranee. Erano
trascorse due volte dodici lune dal loro ultimo incontro, e solo ora Ormuk, con
un certo imbarazzo, apprende due importanti novità: la cecità di Momoth e la
presenza di una nuova reggente, sua figlia: la principessa Tsìppiri. Preso atto
della nuova situazione Re Ormuk, con disagio, si rende conto che non era
possibile discorrere liberamente e da vecchi amici con il grande Momoth poiché
ogni parola dell’incontro era partecipata anche dalla principessa Tsìppiri. Il
discorso perde quella libertà conviviale che in passato contribuì a saldare
l’amicizia fra i due re, e assume un indirizzo di politica economica
internazionale.
“Cosa volete che vi dica”.
Bofonchiò Re Ormuk tra una tartina alla bottarga di muggine e
una porzione di mre-kka, ”io e gli altri re delle città etrusche siamo stufi
delle malefatte dei greci. Hanno trasformato il porto di Pithecusa in un
mercato greco e sanno che gli ischiani sono sensibili al fascino delle cose
belle, e possono pagare in oro”.
La principessa, annoiata dai discorsi ripetitivi e poco
concreti, replicò:
“Mi comunicano, tuttavia, che l’ultimo carico dei nostri
askoidi e dei gioielli sardi in filigrana e corallo, oltre l’olio e le sardine,
è andato a ruba. E’ vero quel che dite, ossia che i greci vogliono controllare
il commercio in Campania, ma è anche vero che voi siete sempre nostri interlocutori
privilegiati per quanto riguarda le modalità commerciali”.
Re Ormuk, senza scomporsi, disse:
“La vostra presenza navale sulle coste del Tirreno orientale
è gradita, ma i greci sono sempre più audaci e imitano alla perfezione i vostri
vasi, i gioielli e le merci di pregio provenienti dal Vicino Oriente.”
“Ah, ah”, rise con eleganza Tsippiri, “è l'ineluttabile
destino dei grandi essere copiati. Ne prenderemo atto. Del resto”, continuò
assumendo un’espressione seria, “essere imitati non ci offende. Vi sono uomini
che per mancanza di volontà tendono a impigrirsi, a essere egoisti. Pensano
alle proprie convenienze, senza progredire né moralmente né verso la
conoscenza. Noi sardi siamo da sempre un popolo aperto: abbiamo insegnato
l'arte del bronzo ai nostri alleati, e prima ancora le peculiarità
dell'ossidiana, ossia tutti gli utensili che si potevano realizzare con
quell'oro nero. Essere copiati significa dimostrare un maggiore progresso
tecnologico e, forse, spirituale rispetto agli epigoni”.
Quella risata elegante, la battuta bruciante, e quel discorso
saggio, fecero rabbrividire Re Ormuk, che iniziò a sentire qualcosa nell’animo.
Si voltò verso la donna con un’attenzione che non aveva provato prima. Iniziò a
osservarla durante il pasto, a studiarne i movimenti eleganti, ad ascoltare con
dedizione la voce ferma, musicale, autoritaria ma femminile. Apprezzò i
magnifici occhi verdi, le lunghe ciglia nere, le rosse labbra carnose, la
figura alta e snella.
Quando si avvicinò per passarle una terrina di crema di
formaggio e versarle una coppa di vino, sentì nella pelle della donna un
profumo di rosmarino che lo estasiò lasciandolo senza respiro, una fragranza
inebriante che, da quel momento, non dimenticherà mai più.
Si narra che perfino Re Momoth, nonostante la cecità, si
accorse dei ripetuti stati di “mancamento” emotivo di Ormuk al cospetto della
principessa.
Prima di congedarsi nelle sue stanze, Ormuk ebbe modo di
esprimere alla principessa il suo pensiero: “In definitiva, mia Signora, noi
etruschi e la regina Malgib di Cartagine, non vi chiediamo di intervenire con
la vostra flotta militare contro i greci. Conosciamo la vostra bontà e non
vogliamo forzarvi. Vi invitiamo a lasciare che le nostre navi, e quelle
cartaginesi, abbiano zona franca al largo delle vostre coste del nord est e
delle bocche di Bonifacio. Vorremmo dare una lezione ai focesi liberando la
Corsica, e questo per voi sarebbe un bene immediato, e se gli dei lo vorranno,
intendiamo spazzarli via dal resto del Tirreno.
“Re Ormuk”, rispose la principessa, “io e mio padre,
apprezziamo la vostra visita e la schiettezza nel linguaggio. Come vi ho già
detto, i nostri commercianti realizzano buoni affari, e le nostre navi
mercantili, perfino quelle lunghe quanto una fila da venti buoi, tornano sempre
con le stive vuote e con i forzieri pieni d’oro. Tuttavia, a noi interessano la
lealtà e la sincerità dei nostri alleati. Conoscete mio padre da tanto tempo, e
sapete che poniamo la lealtà al primo posto, prima delle convenienze
economiche. Questa fiducia alimenterà a lungo i nostri popoli e manterrà la
pace nel nostro mare. Voi dite che i greci sono minacciosi, in particolare con
i Focesi nell'isola di Kossìga (Corsica). Dite che minacciano il commercio
perfino a sud delle vostre città. Bene, vi credo e sono pronta a stipulare
questo patto con il vostro popolo e con quello cartaginese, guidato dalla
Regina Malgib. Tuttavia, prima di dare la risposta definitiva, ho bisogno di
avere altre informazioni e garanzie”.
“Dite pure mia Signora”, rispose Ormuk sicuro del fatto suo,
”vi prometto che onorerò ogni vostro desiderio. Vostro padre è testimone, da
sempre, della nostra lealtà, e mai screzio ebbe luogo tra noi. Presto vi farò
avere un documento dettagliato con il progetto della battaglia: luoghi, navi,
numero di guerrieri, tempi di esecuzione, costi e quant'altro.”
“Questo vi fa onore Re Ormuk”, disse la principessa, “e non
dubitavo della vostra affidabilità. Tuttavia, sappiamo che voi conoscete la
nostra terra, e conoscete le nostre capacità di ferreo controllo capillare del
territorio interno ed esterno. Non abbiamo bisogno di far navigare le nostre
imbarcazioni in lungo e in largo: la fitta rete di nuraghi edificati nell'isola
ci consente di comunicare con facilità da un capo all'altro del territorio.
Ogni torre comunica a vista almeno con altre due. Utilizziamo segnali visivi,
sonori e addestriamo gli uccelli. Ogni torre costiera comunica con le navi al
largo grazie ai segnali di luce. Siamo fra i popoli eletti dagli dei, fra i
privilegiati, e abbiamo tecnologie e conoscenze che altri non sospettano
nemmeno”.
A queste ultime parole della nobile Tsìppiri, il Re Ormuk
sentì il sangue raggelarsi nelle vene.
La principessa formulò l'attesa domanda:
“Riguardo la lealtà, ho bisogno di sapere che tipo di rapporto,
oltre quello politico, vi lega alla Regina Malgib di Cartagine”.
A quel punto Ormuk si sentì bloccato dalle parole della
principessa. Doveva rispondere rapidamente, senza far trapelare l’emozione. Non
si aspettava quella domanda, e non aveva pronta una risposta. Improvvisò e
giocò d'azzardo, pur nella consapevolezza che la risposta avrebbe condizionato
l'esito e le vicissitudini dell'alleanza, e forse il futuro delle loro vite.
La principessa Tsìppiri Disegno
di Stefano Gesh
“Tra noi due c'è un rapporto di grande amicizia”, esordì
Ormuk, “come altrettanta è l'amicizia che unisce il nostro popolo e il vostro,
mia Signora. Inoltre, la regina Malgib è un'ottima governante, e geniale
stratega. Ha un grande talento per il commercio, e grazie a lei il suo popolo
progredisce nell'economia, nelle scienze e nelle arti. E’ una regnante
illuminata, come del resto lo siete voi mia signora. Tra noi vige un leale e
cordiale rapporto commerciale, improntato al bene delle nostre città”.
Mentendo spudoratamente, Re Ormuk aggiunse:
“So bene a cosa vi riferiate, e so che i pettegolezzi
riguardanti i nostri incontri nel vascello reale fanno circolare voci false e
tendenziose sull'integrità morale della Regina Malgib. Ma vi giuro solennemente
che i nostri incontri sono istituzionali, e unicamente rivolti
all'organizzazione strategica del futuro attacco alla flotta focese”.
“Sapete, Re Ormuk, è importante che io lo sappia”, disse
Tsìppiri, “perché un’alleanza triplice come questa che progettiamo implica una
perfetta conoscenza della verità. Io non sono contraria a una relazione intima
tra due regnanti, benché essa non sia suggellata da un matrimonio. Ma devo
saperlo, perché la triplice alleanza avrebbe solo due gambe salde: la terza
potrebbe risultare zoppa. Comunque vi credo. Domattina, prima della vostra
partenza, stipuleremo un patto scritto in tre copie, su pelle d'agnello”.
I due regnanti si congedarono e il giorno seguente, con i tre
rotoli di pelle firmati con i sigilli reali, Re Ormuk prese il mare dal porto
di Othoca diretto in visita ufficiale a Cartagine, dove la Regina Malgib
avrebbe apposto anche il suo sigillo. Nel viaggio da Cartagine verso l'Etruria,
il vascello della regina avrebbe fatto una breve sosta a Karalis, e la
principessa Tsìppiri avrebbe ricevuto la sua copia del documento con i tre
sigilli reali impressi.
Disegno
di Paolo Valente Poddighe
Dove ti cercherò,
amico mio?
Forse su strade
che io non so.
Nella brezza del mattino,
magari,
quando il sole si leva
principe del giorno.
Oppure la sera
quando tramonta
e dischiude le nuvole
facendo intravedere
cieli nuovi e nuove terre.
O nella notte
che s'ammanta di stelle,
dove ce n'è sempre una
che brilla di più.
E veramente io
ancora non so
se potrò trovarti
con questi fardelli che mi porto,
nell'ansia dei miei giorni,
nella quotidianità del vivere.
E però io,
ne sono certa,
non smetterò di cercarti,
perché in questa ricerca sta
il senso della vita.
Cap. 9°- Maestri del bronzo.
Era una notte d’estate e Sardo
decise di avvicinarsi al mare e guardare l’orizzonte. Il buio era ovunque, la
vegetazione schermava le poche luci del villaggio, il cielo era scuro e
immenso, ma una grande luna, luminosa e bruna, si specchiava vicino all’isola
che ogni giorno offriva i suoi frutti e proteggeva dal caldo sole la famiglia
dell’uomo. La risacca batteva aritmicamente confondendosi con la brezza
notturna e lontano, all’interno del villaggio, un vociare confuso non
consentiva a Sardo di ascoltare il vuoto silenzio della immensità marina.
S’immerse in quelle acque nere, fresche e profonde che purificavano l’anima e
il corpo, e per qualche istante il mondo che lo circondava svanì. Iniziò a
nuotare e il respiro si fece sempre più rapido. Intanto a Kertos, così era
chiamato il villaggio di Sardo, gli ultimi fuochi erano stati spenti dai
sacerdoti del tempio e tre uomini iniziavano il loro turno di sorveglianza. La
ripida salita che conduceva allo strapiombo era illuminata dal bagliore della luna
e da lassù un suono di corno avvisava che la notte era tranquilla. Quando i tre
uomini arrivarono sulla torre che dominava sul villaggio, le sentinelle che
avevano terminato il proprio turno si spogliarono dell’armatura e indossarono
le bianche vesti di lino per rientrare a valle, a Kertos, consumare l’ultimo
pasto della giornata e riposare con le loro mogli. Era dura la vita nel
villaggio per chi doveva sorvegliare la comunità. Turni di una giornata si
alternavano con un ciclo di riposo che durava altrettanto. Erano 200 le persone
che vivevano a Kertos, ma solo 10, in periodo di pace, si occupavano della
guardia: due al tempio e tre alla torre divisi in due turni. Sardo, intanto,
era rientrato all’asciutto e a passo lento si avvicinava al villaggio percorrendo
quel sentiero che fra lentischio e ginepro conduceva alla capanna delle capre,
il luogo nel quale trascorreva la notte ormai da 10 lunghi anni. Era solo un
bimbo quando suo padre Pireo, l’allevatore giunto dal mare, gli affidò gli
animali insegnandogli a governarli. Non c’era riposo in quel lavoro, ma le
bestie offrivano latte tutti i giorni e carne quando era necessario. Ogni luna
nascente un capretto era sacrificato alle divinità. Il sangue era raccolto
nella coppa e, con formule rituali, versato nella vasca. Gli organi interni
venivano disposti sull’altare e consacrati. La testa, le zampe e la coda
offerti in olocausto e la carne divisa per essere consumata dalla comunità.
Altri 9 erano gli allevatori di Kertos, e quando la comunità si riuniva per il
banchetto rituale le 10 bestie erano sufficienti a sfamare anche le donne, i
bambini e i vecchi. Le parti migliori erano per le guardie del villaggio, per i
2 sacerdoti e per il capo, il pastore che guidava il clan. Il conferimento
degli animali per l’offerta era un giorno di gioia per Sardo. Gli era stato
insegnato che la generosità e l’altruismo erano i presupposti per una vita
felice. Quando sceglieva la capra sapeva bene che la più sana e bella del
gregge sarebbe stata gradita al suo Dio, e prima di ucciderla tagliava una
ciocca dal mantello e la metteva da parte per donarla al nipote e rinnovare un
rito speciale, magico, lontano nei tempi. I padri della comunità raccontavano
che un tempo, quando si viveva sotto le rocce vicine al fiume, i bambini preparavano
un piccolo giaciglio con la lana consacrata alla divinità, e quando riuscivano
a completarlo nella larghezza di un braccio e la lunghezza di tre, erano pronti
all’iniziazione. La tradizione imponeva che la promessa sposa confezionava un
tessuto da imbottire con la lana preparata dallo sposo. Quando i giovani
raggiungevano l’obiettivo imposto dalla legge matrimoniale, si dava inizio ai
cerimoniali con la benedizione delle famiglie e la preparazione del materiale
per costruire la casa. Tutti i giovani del villaggio, maschi e femmine,
trascorrevano l’infanzia dividendo la giornata in tre fasi della stessa durata:
il lavoro nei campi e con gli animali, la preparazione dei cibi e la loro
consumazione, e il riposo. Solo nell’ultima fase potevano dedicarsi alla
preparazione del dono nuziale. I migliori riuscivano nell’intento prima del
compimento dei 10 anni, e solo allora potevano chiedere agli anziani della
comunità quali sarebbero state le prove da superare nel rito di iniziazione.
Uomini e donne preparavano un
terreno di 10 braccia per lato e all’interno trasportavano tutto il materiale
che serviva per preparare la futura casa. Nei momenti di riposo i giovani
tagliavano i rami, accumulavano il fango per le pareti e lavoravano le pietre
per la base della capanna. Le fibre vegetali per legare le fronde alla
struttura erano fornite dalla comunità, già pronte in forti legacci preparati
dalle donne già sposate e in attesa di figli. Il lavoro dei campi è duro per le
mamme gravide e la comunità non consente che i nascituri siano a rischio di
sopravvivenza nel ventre materno.
I ruoli della comunità sono
precisi ma frequentemente sono scambiati secondo le necessità, e le richieste
delle famiglie ai capi e ai sacerdoti sono sempre accompagnate da validi
motivi.
L’unico mestiere che non
consente riposo ed eccezioni è quello di Porax, il maestro dei metalli. Nella
sua bottega, un bel circolo di pietre alto quattro braccia, e aperto così da
consentire al fuoco di smaltire meglio il calore e i fumi, è un via vai
d’individui con richieste sempre precise: affilare le lame, preparare le punte
per le frecce, fondere un rottame per ottenere metallo nuovo, aggiustare con
grappe un vaso in terracotta rotto per il troppo utilizzo e, soprattutto,
preparare tutto ciò che il capo vuole sempre lucido e pronto all’uso. Guadagna
bene Porax, è il più ricco fra i popolani, e sua moglie ha vesti in lino e
prepara cibi sempre caldi e vari per i suoi figli.
Al suo laboratorio arrivano
sempre con le offerte per i servigi resi. E’ esperto, e la perizia nelle
rifiniture lo contraddistingue da quando il padre lo prese a lavorare con sé.
Il rumore che si solleva quando Porax batte sul metallo per addolcirlo è
insopportabile, e il capo volle che la bottega fosse spostata a cento braccia
dal villaggio. La sera, quando arriva il momento del riposo, l’artigiano chiama
i due servi e si fa aiutare a trasportare le scorte di metallo all’interno
della casa del capo. Ogni giorno si ripete il consueto trasporto, dal deposito
al laboratorio, su e giù per il villaggio, con i due servi che si proteggono le
mani con pezze in cuoio e Porax che segue con occhio attento tutti i movimenti
degli aiutanti. Il capo gli ha commissionato un rivestimento per i bracieri che
riscaldano la casa nella stagione fredda. Sua moglie, Nesa, ha visto questo
sistema innovativo che conserva meglio il calore alla festa di matrimonio di
Kal, figlio di Molkesh, sovrano del clan degli Ilenesh. Sono i mercanti
navigatori che trasportano pelli e avori scambiandoli con rame destinato a un
popolo che vive lontano, dove il sole è forte e la vegetazione soffre per le
scarse piogge. Insieme a Porax lavora Sila, un giovane orfano che la famiglia
allevò fin da tenera età. I suoi genitori morirono durante una rivolta, quando nel
villaggio ci fu una congiura per rovesciare il potere. Il vecchio re non aveva
più il controllo su alcuni capi di confine che si allearono con il potente
Momoth, sovrano di vasti territori lungo il fiume. Il suo popolo viveva di
agricoltura e pastorizia, ma il surplus derivante dalla produzione era
interamente destinato all’acquisto di metalli per fabbricare armi. Aveva
combattuto in oriente Momoth, e sapeva come approvvigionarsi di materiali e
uomini che sapevano fondere il bronzo. Con le sue armi riuscì rapidamente ad
assoggettare le genti del fiume e ampliò i suoi possedimenti annettendo a essi
anche i territori di Kertos. Sila fu risparmiato dal nuovo re e fu accolto
nella famiglia di Porax. Si confidava spesso con il suo genitore adottivo e
nutriva la speranza di uccidere Kabir, guardia personale di Re Momoth e
assassino dei suoi genitori. Imparò presto a fondere i metalli e raccoglieva
qualche rottame per riuscire, un giorno, a fabbricare un pugnale. Una sera
Porax non andò al lavoro e chiese a Sila di completare il lavoro dei bracieri.
Il giovane riuscì a risparmiare qualche frammento di metallo e, nonostante
avesse rifinito a regola d’arte la commissione per Nesa, completò il lavoro di
raccolta di quel tanto che bastava per preparare un bel pugnale. Lavorò tutta
la notte, e il rumore della lama che veniva affilata era attutito dalla pioggia
che incessantemente cadde nel villaggio fino al mattino. Alle prime luci
dell’alba arrivarono gli aiutanti di Porax per scaricare i metalli da lavorare,
come tutti i giorni, e trovarono il giovane addormentato sul giaciglio del
laboratorio. Il pugnale era ben conservato all’interno dell’imbottitura e i
bracieri, lucidi e perfetti, erano pronti per essere consegnati. Svegliarono
Sila e si fecero aiutare a caricare il lavoro sul carro. In quel momento giunse
Porax, e vedendo la raffinata lavorazione eseguita dal giovane, decise di
premiarlo. Gli offrì una paga adeguata al grado di maestria raggiunto, e da
quel giorno nel villaggio ci furono due maestri. Intanto nella casa di
Porsiace, uno dei sacerdoti del tempio, iniziavano i preparativi per la
cerimonia d’iniziazione del giovane Remes, figlio primogenito di Restivo e
Arianna.
Un giorno esatto prima della
cerimonia per Remes, Sila ricevette una visita, un uomo alto e grosso vestito
di cuoio lucido. Indossava una machera* all'altezza del petto, e pare
fosse un uomo della guardia scelta della regina. Si avvicinò per parlargli,
presso la casa di Porsiace. Lontani da sguardi indiscreti, i due conclusero un
contratto di vitale importanza per le sorti dell’intera isola.
* spada sarda, una via di mezzo
tra il pugnale e la spada corta per il corpo a corpo, tipica dei soldati sardi
dell'epoca.
Disegno
di Stefano Gesh
L'amore dà ali d'aquila
a chi si innamora
e fa andar lontano,
dove la vita chiama.
L'amore t’inserisce
in una realtà meravigliosa,
e da protagonista ti fa assistere
allo spettacolo del mondo.
L'amore è una strada che si apre
in un'intricata boscaglia,
è l'avventura
in un mondo sconosciuto.
L'amore è un'opera originale
che costruisci
leggendo gli occhi
della persona che ami.
Cap. 10°- Nei sogni, la visione.
Camminavano insieme verso il più
lungo dei ponti della nave chiamata “Infinita”, tenendosi dolcemente per mano.
Il ponte sembrava non dover terminare mai. Lui si arrestò, e lasciandole la
mano sinistra, estrasse dalle ampie tasche sotto il mantello un plico in pelle,
lo srotolò con perizia e cercò di leggerlo ad alta voce. Ma lei, come se
sapesse già tutto, gli mise una mano sulla bocca e lo anticipò, pronunciando le
identiche medesime parole scritte sul rotolo:
Tutti i giorni della vita
io vorrei passarli insieme con te,
perché ti amo
non per quello che sei,
ma per quello che insieme
riusciamo a essere:
protagonisti della vita.
Nello scenario di questa realtà,
proiettata nel futuro insieme a te
mi sento artefice
di un mondo in lavorazione
che abbiamo progettato noi.
Al risveglio Ormuk,
stropicciandosi gli occhi si tirò su dal letto e cercò di razionalizzare. Era
un sogno…e il pensiero corse subito a Tsìppiri, e non a Malgib, e questo lo
fece tremare. Un altro brivido percorse la spina dorsale e gli fece accapponare
la pelle. Il ricordo di quella donna pareva sconquassarlo, si sentiva confuso:
aveva perso la testa, come fosse un adolescente.
Quel viso sublime, e quel
profumo gli ritornavano in mente ogni momento. Un profumo di erbe speziate e di
rosmarino, intensi, come l'essenza stessa di quella pianta e di tutte le piante
profumate del mondo miscelate fra loro. Sospettò un sortilegio: i sardi, eccoli
lì, sempre pronti con le loro magie a ingannare lo straniero, e ad approfittare
dei forestieri.
Si riprese, e giustificò: “Ma
no, cosa vado a pensare, lei è così bella. Insomma basta, devo finirla con i
dubbi, non posso impazzire per una donna, per quanto intrigante e
affascinante”. Proseguì: “La devo incontrare, ma non posso, non subito, inoltre
Malgib s’insospettirebbe. Già, Malgib. Le cose sarebbero più semplici se lei
non fosse coinvolta, ma a questo punto non posso tirarmi indietro, avverrebbe
un disastro per colpa mia. Ora che ci mostriamo pronti ad attaccare le navi
greche ad Alalia, e stiamo per mettere a soqquadro la Corsica. Ormai abbiamo
messo troppe cerve sulle braci, e i greci avrebbero il sopravvento nello
scacchiere internazionale dei traffici commerciali”.
Intanto, sull’altro versante del
Tirreno, anche la principessa Tsìppiri si era appena svegliata. Dimorava nella
sua magione di Sard-ara, nel bel mezzo dei campidani, in un magico scenario di
piscine d'acque termali, ponticelli sospesi, giardini fioriti e profumatissimi
alberelli da frutto. Un luogo paradisiaco, un Eden che la principessa Tsìppiri
aveva curato con le proprie mani fin da piccola. Quella stessa notte aveva
sognato che un serpente con una livrea variopinta, simile a un mantello regale,
le mordeva un piede. Quel serpente aveva l'effige di Re Ormuk. Quando lei cercò
di schiacciargli la testa, il rettile pianse teneramente chiedendo perdono. La
primogenita di Momoth, era esperta nell’interpretazione dei sogni. Sapeva che
ogni visione onirica era un dono del mondo spirituale che l’avvisava,
consigliava, aiutava, inviandole preziosi messaggi durante il sonno.
“La verità non è quella che
percepiamo con il solo senso della vista”. Queste parole, pronunciate tempo
addietro dalla jana, sua maestra, le erano rimaste impresse nella memoria fin
da quando aveva sette anni, ossia da quando ascoltava gli insegnamenti e le
parole illuminate della sua guida.
Le venne in mente di disegnare
su una pelle chiara di agnellino, la figura di Re Ormuk, così come se lo
ricordava. Lo vide bellissimo, alto e longilineo, dai lineamenti del viso
dolci. Somigliava a un dio Persiano. Con quei ricci capelli biondi pareva una
statua raffigurante Mitra, il dio Re, considerato la divinità tutelare dei
regnanti. Identico a quella scultura, fusa nel bronzo, ricevuta in dono dalla
cugina di secondo grado Urmia, primogenita della dinastia reale degli
Achemenidi. “Se è simile a un dio buono perché mi ha mentito?”, e concluse:
“allora ha ragione la mia cara jana: i nostri occhi non vedono le cose come
sono realmente, e ne rimangono ingannati.”
Senza ulteriori indugi, si recò
alla fonte sacra delle terme, discendendo una breve scalinata in basalto rosso
che la condusse ai giardini del culto dell'acqua. Lì, una sacerdotessa, le aprì
le porte del tempio.
“So già cosa deve chiedermi, mia
Signora”, le disse con reverenza la donna, “ha portato una statuina dell'uomo
che vorrebbe vedere?”
“Purtroppo no”, rispose la
principessa, “ma ho disegnato io stessa su questa concia d'agnello la sua
figura”.
“Andrà benissimo”, replicò la
vestale del tempio, “iniziamo a visualizzare il passato, poi chiederemo lumi
sul futuro”.
Durante la cerimonia, la
pricipessa Tsìppiri vide materializzarsi sullo specchio d'acqua del catino
bianco di marna, sia la conferma dei suoi sospetti sia un inaspettato sviluppo
della faccenda. I primi due visi che si concretizzarono sull'acqua, furono
quelli di re Ormuk che baciava
appassionatamente la Regina Malgib. Alla seconda domanda, circa il futuro del
loro rapporto, sullo specchio d'acqua emerse l'immagine di Ormuk che baciava la
principessa Tsìppiri. E vide un coltello, impugnato da una mano sconosciuta,
che puntava dritto al cuore di Malgib.
“Che cosa significa quel
coltello?”, chiese Tsìppiri allarmata.
“Avete chiesto agli spiriti
dell'acqua di predirvi il futuro. I volti delle persone che avete riconosciuto
rappresentano ciò che non è concesso cambiare, quelli non mostrati
rappresentano invece ciò che può ancora essere cambiato, o fermato”.
“Ti prego, sii più chiara,
affermi che non tutto ci è stato mostrato?”, chiese la principessa. “Non vi è
stato mostrato il volto, né resa riconoscibile la mano della persona che
dirigeva l'offesa contro il cuore della donna: significa che quella mano
assassina può ancora essere fermata e il futuro modificato da voi, mia
signora”.
La principessa annuì, ma prima
di congedarsi dalla vestale del tempio, si fece portare da un’ancella tre
navicelle di bronzo e le diede alla sacerdotessa. Le tre barchette erano di
simile fattura, e rappresentavano in tutti i dettagli tre navi di tre flotte di
tre nazioni diverse. Tsìppiri chiese ancora una volta di consultare l'oracolo
dell'acqua, e ascoltò con attenzione ogni parola della sacerdotessa.
Lasciato velocemente il tempio,
Tsìppiri ritornò alle sue stanze, ma non fece in tempo a riflettere sui recenti
accadimenti perché una delle sue guardie scelte si presentò alla sua porta.
“Principessa, nostra signora
Tsìppiri”, disse la guardia.
“Che succede Alòthor? Cosa ti
turba?” chiese la reggente.
“Sessanta navi cartaginesi e
sessanta barche etrusche sono state avvistate dalle nostre vedette. I
cartaginesi sono salpati dal nostro golfo di Bha-uny dopo aver scaricato le
merci, e risalgono verso nord. Le navi etrusche arrivano da nord-est, e sono
state riconosciute dalle nostre sentinelle di Mont-hai, Bal-jana e Cala-him
(nelle attuali coste della Gallura). Inoltre, da parte di Re Ormuk, è arrivato
per Voi questo dispaccio di pelle arrotolata e suggellata”.
Tsìppiri era sia principessa sia
reggente, era figlia di un grande navigatore, e rimase calma mentre apriva il
messaggio di Ormuk. Sapeva già cosa fare, e diede immediatamente gli ordini
appropriati.
“Alòthor, t’incarico di condurre
quest’operazione”, disse la pricipessa al più valoroso dei suoi capitani.
“Ai suoi ordini mia dea!”,
rispose Alòthor, ostentando sottomissione.
“A che punto è la fabbricazione
delle duemila mazze spaccaossa di bronzo, e delle machere commissionate il mese
scorso al discepolo di Porax, Sila?”
“E’ tutto pronto, senza
imprevisti mia Regina. Ho ritirato io stesso la fornitura e ho provveduto a
sistemarla nell’armeria.”
“Bene Alòthor, arma duemila
uomini con le mazze e le machere, e fai uscire dalla rada di Mont-hai sessanta
navi. Disponile lungo tutta la costa a protezione delle baie, da nord a sud a
distanza di duecento braccia l'una dall'altra. Dovete creare una
cordigliera. Fatto ciò attendete, e
incaricate le vedette di osservare ciò che accade. Lasciate che le navi
cartaginesi sfilino davanti alle nostre coste da sud, e incontrino le navi
Etrusche provenienti da nord. Dovrebbero incontrarsi in prossimità delle isole Cerbicales.
Se accadrà ciò che ho visto al
tempio, e ne sono certa, le navi focesi nella rada di Alalia, quando
avvisteranno le imbarcazioni etrusche provenienti da est inizieranno le
manovre. Si metteranno di prua al loro inseguimento ma, giunti vicino alle
isole, si troveranno dinnanzi allo sbarramento cartaginese, e ad altre trenta
navi etrusche. Noi presidieremo le coste vicine, con venti piccole barche
armate di mazzieri e osserveremo quanto accadrà. In seguito vi dirò cosa fare,
ora andate”
Congedata la guardia, srotolò
l'ambasciata di pelle di capretto inviata da Re Ormuk e, con calma, lesse ad
alta voce quanto vi era inciso.
“Tutti i giorni della vita vorrei passarli con te. Ti amo per
ciò che sei, e per quello che insieme riusciamo a essere: protagonisti della
vita. Nello scenario di questa realtà, proiettata nel futuro insieme con te, mi
sento artefice di un mondo che abbiamo progettato congiuntamente.
Mia signora, ho fatto questo sogno e nel sonno vi udivo
ripetermi con dolcezza quelle parole. Subito dopo, soffrendo gli spasmi del
cuore ho pensato a voi, solo a voi, e questo male oggi mi assilla, perché vi
amo. In passato ho amato la regina Malgib, ma è finita e oggi amo voi. Vi
chiedo perdono e comprensione se vi ho mentito. Sempre Vostro, Ormuk”.
Disegno
di Stefano Gesh
Come posso esternare ciò che
sento
se come argento vivo
si spande il mio pensier
e stilla in mille gocciole fuggendo
cercando sempre spazio e libertà?
Ci vorrebbe, lo so,
un contenitore,
che freni la sua corsa disperata,
che buono lo contenga finché cresce
e avrà un po’ di senno e autorità.
Un giorno raccolsi in una mano
le gocce di un termometro sfasciato.
Prodigiosa mi sembrò per un istante
quella piccola pallottola d’acciaio,
ma sentivo struggente nostalgia
del pullulare a profusione delle stille
che correvano nel suolo scomparendo
cercando sempre spazio e libertà.
Cap. 11°- Lo scontro finale
Con il favore dei venti del
mattino, e con il sole alle spalle, la flotta etrusca lasciò le coste
dell'Etruria. Si udiva solo il respiro dei rematori che tuffavano con violenza
i legni nelle acque blu. Era uno spettacolo, una sincronia che solo il continuo
allenamento riusciva a perfezionare. Issarono le vele tra l'isola del Giglio e
Giannutri, al largo dell'isola di
Montecristo. In poco tempo, spinta dai favorevoli venti dell'est, giunse in
vista della Kossiga, l'isola di Corsica.
Navigando a vista verso la costa
Corsa, virò verso meridione e transitò di fronte ad Alalia. Fu avvistata dalla
vedette greco-focesi che immediatamente suonarono il corno per allertare la
popolazione. Re Ormuk comandava la nave alla testa della flotta e notò che di
fronte ad Alalia non era ancora giunta alcuna nave cartaginese, forse in
ritardo a causa del vento contrario. Continuò la navigazione verso le isole
Cerbicales e lì, finalmente, incontrò la flotta della Regina Malgib, anch'essa
alla testa della flotta.
L’armata navale Cartaginese,
salpò con 60 navi dal golfo di Bha-uny, dopo aver scaricato le merci e le
vettovaglie nell'emporio sardo. Si diresse verso nord, ma la mattina dello
stesso giorno, a causa della violenta corrente contraria trovata nelle Bocche
di Bonifacio, fu costretta a riparare in baia.
Le vedette greco-focesi
avvistarono per prime le navi etrusche, e lanciarono l'allarme alla flotta.
Approntarono l’equipaggio e le armi da guerra e, nel giro di qualche ora, la
flotta di Alalia veleggiava con 60 navi verso i nemici.
Organizzati in assetto da
battaglia, i Focesi inseguirono la flotta etrusca disponendosi lontano dalla
scia di striscio delle navi Tirrene. Per sfruttare le correnti meridionali
discendenti, presero una direzione favorevole così da aumentare la velocità e
non subire turbolenze derivanti dalle onde d'urto delle navi nemiche. Con
questa manovra, inoltre, impedirono alle due flotte nemiche di ricongiungersi.
Grazie allo stratagemma, Koloppisi, il comandante della flotta focese, riuscì ad
arrivare al largo delle isole Cerbicales in anticipo rispetto agli Etruschi e
ai Cartaginesi, non consentendo loro di sistemarsi in assetto favorevole.
La battaglia fu cruenta, e Re
Ormuk ordinò ai rematori di aumentare le vogate e speronare le navi focesi con
gli speciali rostri di bronzo che fuoriuscivano dalle chiglie etrusche.
Le 120 navi alleate Etrusche e
Cartaginesi si opposero alle 60 navi greche, ma queste ultime, arrivando a gran
velocità sul luogo dello scontro, nelle coste delle Cerbicales, avevano
conquistato un vantaggio strategico di posizione, e limitarono i danni. La
battaglia navale fu terribile per tutte le armate in gioco. Una dietro l’altra,
le navi s’inabissavano e i guerrieri superstiti greci, etruschi e cartaginesi,
si affannavano cercando di raggiungere a nuoto la riva. Il terribile e inatteso
colpo finale, che finì di affondare la flotta greca, fu portato dai mazzieri a
bordo delle barchette sarde. Questi, come era stato ordinato dalla pricipessa
Tsìppiri al capitano Alòthor, si riversarono come falchi in picchiata sulle
barche focesi già colpite. Assaltarono e uccisero i nemici senza pietà, con
possenti colpi di mazza. Sulle barche sarde furono portati in salvo gli
alleati, mentre non ci fu scampo per i greci: arrivati sulla costa furono
sterminati da un fuoco di frecce dei temibili arcieri sardi.
Re Ormuk e la Regina Malgib, con
il sapiente contributo della principessa Tsìppiri, grazie alla triplice
alleanza spazzarono via per sempre la marineria Greca dal Tirreno
settentrionale, e dal mare di Sardegna. Re Ormuk instaurò una talassocrazia nel
Mar Tirreno (mai i Greci si erano trovati davanti a una flotta navale così
potente), e fondò in Corsica una nuova città presso Alalia battezzandola
Nik-aia (vittoria).
In seguito a quella mitica
battaglia, e per lungo tempo, i vincitori rinnovarono il patto d'unione
suggellandolo con grandi feste e con un trattato commerciale che stabilì la
spartizione politico-economica del Mediterraneo Occidentale fra Cartaginesi ed
Etruschi, alleati dei sardi. Tuttavia la battaglia che ancora si doveva
decidere era quella del cuore, e nessuno sa come andò a finire.
Pare che perfino Erodoto riferì
nei suoi resoconti che per tanti anni un fortissimo profumo di rosmarino
avvolse le coste del Mare Sardonio e del Tirreno. Alcuni marinai di Ischia
raccontarono, e divenne leggenda, di una nave bianca che viaggiava col
pensiero, senza remi, e a prua mostrava una grande protome taurina. Proveniva
dall'isola dei Serdaioi, e portava a bordo un re con i riccioli biondi e
una regina bellissima, con gli occhi verdi. Quando sbarcavano a Pithecusa,
camminavano per ore nel lungomare tenendosi per mano. Ripartivano all'alba del
giorno dopo, con il sole alle spalle, diretti verso occidente.
Una stele in lingua fenicia,
ritrovata nell’Ottocento sotto le sabbie di una cala nel Golfo di Orosei, aveva
inciso in cima due nomi ben leggibili: Rrmk e Tsppr, e la traduzione
dell’epigrafe narra di un matrimonio d'amore, avvenuto tra i nobili regnanti di
due potenze alleate. C'è chi ritiene che quei nomi si possano ricondurre al re
Etrusco e alla principessa Sarda.
Ancora, in Sardegna, si racconta
la leggenda di una bellissima principessa regina dei mari che anticamente
convolò a nozze con un re straniero. Lei lo sposò salvandogli la vita, e
impendendogli di commettere un crimine che lo avrebbe condannato agli inferi.
Il loro matrimonio unì due regni, e grazie a quest’ unione i loro popoli per
molti secoli rimasero fratelli.
Non sappiamo come sia andata in
realtà, ma romanticamente siamo portati a credere che la principessa Tsìppiri
abbia perdonato Re Ormuk e, ricambiandone i sentimenti, abbia sventato quel
piano criminale che egli, perduto d'amore per lei, immaginava di realizzare.
Disegno di Stefano Gesh
La vita terrena non è
la piccola spanna di tempo
che va dalla nascita
fino alla morte.
La vita terrena è una molla
che scatta,
perfora gli angusti confini del tempo,
s'inoltra, si spande,
sconfina.
Va verso l'eterno.
Cap. 12°- Parlano i protagonisti.
«Grido, e brucia
il mio cuore senza pace
da quando più non sono
se non cosa in rovina e abbandonata»
Malgib Disegno
di Stefano Gesh
La Regina di Cartagine, Malgib
“Dopo la battaglia di Alalia, il
popolo Cartaginese prospererà e governerà su gran parte del mondo mediterraneo,
così come gli dei avevano da tempo stabilito. E il mare usurpato dalle serpi
focesi diverrà di nuovo nostro. Con gli amici sardi i patti d'alleanza e
commerciali andavano a gonfie vele. Tuttavia percepivo in cuor mio che non
tutto filava per il verso giusto. Le tensioni delle guerre e i contrasti
continui con i focesi, mi allontanarono dal cuore degli dei, e di ciò ero
consapevole. Mi riavvicinai al tempio, consultai l'oracolo e, per Didone,
quante volte mi pentii di non averlo fatto prima. Scoprii che la Reggente Sarda
mi era ostile. Quando mi rivolsi alle sacerdotesse dei templi, e l'oracolo mi
chiese di far cantare il sistro*, sventura volle che vedessi le immagini del
mio uomo nelle braccia di quella donna ignobile, miserabile. Sentivo, già a
distanza considerevole, l'effluvio mefitico e nauseabondo dei suoi filtri
d'amore, e l'orrendo potere delle sue magie. Con la stregoneria si prese la
mente e il cuore del debole Ormuk. Ed ella ora, senza pietà alcuna per me,
trascina via quell'uomo, un tempo mio.
Ero predestinata alla conquista,
ero l'erede della splendente Didone, baciata da Tanìt alla nascita e cresciuta
nei favori di Sin e di Shamash.
Sono costretta a rompere per
sempre il patto, e dichiarare guerra ai sardi. Ocuperò la loro terra, dalle
coste fino ai fertili campidani, con migliaia di uomini. E nulla di loro
resisterà alla mia terribile vendetta, al mio urlo di guerra che scatenerà la
cieca giustizia. Non un nuraghe, non una torre, rimarrà in piedi, nessun
inutile baluardo resisterà al fulgore della potenza delle nostre orde. Io
stessa, con le mie mani, squarcerò la gola dell'ignobile principessa, perfida
usurpatrice di cuori.
E Ormuk, Re del nulla, lo
ignorerò, abbandonandolo perfino nei miei pensieri. Ah, sottile vendetta.
L’affiderò al suo turpe destino, lasciandolo andare alla deriva per sempre
insieme al suo popolo. Una stirpe senza futuro, inutile genìa di un popolo
prossimo al declino. Il cinico e veritiero oracolo lo ha predetto”.
*Sistro: Strumento musicale con anima
metallica a forma di ferro di cavallo, teso verticalmente da asticciole
trapassate da dischetti, che producono un suono con il movimento ritmico dello
strumento.
Il Re dei Sardi, Momoth
“Diedi promessa in sposa,
l'ancora piccola Tsìppiri, a un suo coetaneo il cui nome era Arko, figlio del
capitano Batriq, all'epoca signore dell'isola di Sin-ar (Asinara). Era, del
resto, un costume ancestrale del nostro popolo scegliere sin da piccole il
futuro coniuge delle nostre figlie, e così anch'io, seppur in accordo con sua
madre Syra, vera artefice di questa scelta, non volli oppormi a questa vetusta
tradizione.
Arko, tuttavia, non crebbe nelle
fila della nostra marineria. Al momento della sua richiesta non servivano
giovani apprendisti, ma divenne comunque un abile marinaio e valente guerriero.
Appena quindicenne, all'età di un possibile fidanzamento, andò per mare
arruolandosi nella flotta dell'amico Ilvo, il padre di Re Ormuk, anch’egli
prossimo alla successione. Tsìppiri, che perse di vista il suo coetaneo, si
disaffezionò col tempo al suo amico d'infanzia, e ritenne che l’allontanamento
non fu un atto del tutto casuale.
Chi l'avrebbe detto che egli poi
avrebbe maturato tutto quell'astio per la principessa, mia figlia adorata?
Quando Re Ormuk si innamorò di
lei, e lei lo ricambiò, noi tutti ritenemmo che ciò fosse in linea con il
destino, e anche la jana nostra, Nurah, vide nei suoi sogni quel grande
matrimonio che poi davvero ebbe luogo. Ciò nonostante, l'amico Batriq la prese
male, e così suo figlio Arko. Ispirato dalla mandante Malgib, Regina di
Cartagine, il giovane attentò alla vita di Tsìppiri in cambio di una manciata
di stagno. Re Ormuk, invicibile
guerriero, come pochi abile di spada, ne placò in duello l'ira funesta, ponendo
fine alla sua vita con un mortale colpo al viso che lo passò da parte a parte”.
Il Re degli Etruschi, Ormuk
“All'epoca nulla sapevo di
quell'uomo, né fui informato del suo ruolo di consorte predestinato della mia
amata signora, la nobile principessa Tsìppiri. E quanto accade fu vicenda
controversa. Solo l’intelligenza e l’arguzia della mia regina chiarirono una
situazione che diveniva insostenibile.
Dopo la battaglia di Alalia, il
mio esercito e la mia marineria ripristinarono la supremazia sulle coste del
Tirreno, e non volli più incontrare la Regina di Cartagine. All'uopo, le
scrissi un messaggio d'addio, incaricando il mio fidato luogotenente, il sardo
Arko, di recapitarlo. La Regina Malgib non accettò questa mia decisione e,
consultato l'oracolo nel maestoso tempio di Gades, venne a conoscenza
dell'amore scoppiato tra me e la dolcissima Tsìppiri. Mi fidavo di Arko, e non
potevo presagire che dietro quella fitta corrispondenza epistolare che seguì il
primo messaggio tra me e Malgib, ci fossero i sussulti del cuore trafitto di
Arko. Nascose l'inganno e progettò un tremendo disegno di delittuosa
vendetta. Gli attentati da parte di mani
oscure alla mia persona si susseguivano, e io, anziché chiedere lumi e affidarmi
alla saggezza della principessa Tsìppiri, cercai di sventare personalmente i
piani di quelle menti raffinate e occulte. Convinto della sua estraneità ai
fatti, chiesi al più fidato dei miei luogotenenti di mettere fine alla vita
della Regina Cartaginese, scaricando le colpe ai greci. In cambio promisi, per
riconoscenza vera, il ricchissimo giacimento di stagno dell'isola di Plotino.
Non sospettavo che Arko, il rinnegato traditore, si arruolò a nostra insaputa
nell'esercito punico. Da spia, qual era diventato, attuò un doppio gioco. Godeva
dei privilegi che gli concessi ma, al contempo, complottava con Malgib
l'assassinio della Principessa, la mia regale futura consorte. Fu Tsippiri che,
grazie all'intervento a suo favore di tutti gli Dei, venne a conoscenza del
subdolo intreccio criminale.
Bonariamente fermò la mia mano,
decisa ad agire furiosamente su Malgib e su Cartagine. La sua lungimiranza mi
fece capire che la violenza chiama altra violenza, e mi aprì gli occhi sulle
sorti del mondo, sulla necessità di una nuova visione delle cose. Mi disse che
il buon governo si esercitava anche e soprattutto con la comprensione altrui e
con la bontà d'animo, non solo con la cieca violenza e la sopraffazione. Quando
Arko, il vile smascherato, si scagliò contro la più sublime di tutte le donne,
ruppi la promessa fatta a Tsìppiri e gli trapassai il cranio con la spada”.
Ormuk Disegno
di Stefano Gesh
La principessa Tsìppiri
“Cos'è la vita senza la
comprensione? Cosa sono gli individui senza la consapevolezza di essere tutti
fratelli? Siamo circondati dalla bellezza, e con la nostra immagine e con le
nostre azioni, diamo lustro a questo mondo di cui siamo figli. Dobbiamo ogni
giorno ringraziare gli dei, per avere avuto la grazia di appartenere a questa
vita.
Ho amato mio padre e mia madre
come fossero dirette emanazioni degli dei. Ho amato la mia jana, pregando e
ringraziando ogni giorno le divinità per avermela concessa, con tutta la sua
sapienza. Ringrazio il destino per avermi fatto conoscere Ormuk, quest'uomo
bello come un dio persiano, e dal cuore d'oro. Ho ringraziato gli dei per
avermi fatto conoscere Malgib, una donna ambiziosa che mi ha fatto capire che
oltre le virtù ci sono i vizi, e la cupidigia è uno dei peggiori. Ho perdonato
Arko, per la sua ira cieca e vendicativa, ho pianto per la sua anima, e ho
pregato per la sua redenzione.
L'amore che porto non lo terrò
solo per me: amo il mio popolo, la mia terra, il mare e il cielo. Mi hanno
insegnato che l’invidia e l’egoismo portano cattivi frutti, e ciò che ci
circonda è di proprietà di tutti gli essere viventi.
Abiuro la guerra, e non si deve
ricorrere alla violenza neppure per legittima difesa. Per questo, il mio
impegno da sovrana sarà quello di condurre con mano sicura ma senza violenza la
mia terra, tutte le donne e tutti gli uomini. Le avversità si possono
affrontare con l'arma della compassione verso i più deboli, per un futuro di
speranza nell'evoluzione dell'umanità. L’obiettivo sarà raggiunto solo con la pace,
con la collaborazione, con le unioni, le alleanze, le passioni per il bene
comune. Al mio fianco ci saranno sempre il mio amato Ormuk e tutto il popolo
sardo. Avrò l'appoggio di tutti coloro che mossi da un condiviso desiderio di
progresso hanno a cuore le sorti dell'essere umano.”
Le Poesie di Leon Cavaliere del Vento
(Joseph Manta)
La Principessa
Quei lunghi capelli neri
mossi dal vento
emanavan quel meraviglioso
profumo di rosmarino
che inebriava la mia
mente
lasciando spazio alla fantasia
e alla tua meravigliosa immagine.
Sì, chiudo gli occhi
E la tua meravigliosa immagine
appare come per incanto innanzi a me.
Sei meravigliosamente bella.
Lunghi i tuoi capelli,
i tuoi occhi di un tenero verde smeraldo,
le tue labbra rosso vermiglio.
Il tuo viso come un raggio di sole,
le tue lunghe e affusolate mani
sfilano con dolcezza la tua veste
mentre in silenzio ammiro il tuo corpo,
di una perfezione statuaria.
Ma come ogni volta tu,
con grazia, ti doni al mare
immergendoti nei suoi fondali,
per uscirne poi ancor più bella,
con quei capelli bagnati che fan da contorno
a quei meravigliosi occhi
che sembran due pietre incastonate,
per risaltare quel nasino all’insù,
che è in perfetta armonia
con quelle labbra che io tanto bramo.
Il
Vascello
Ti guardo,
e mi inchino innanzi a te
con il dovuto rispetto,
e mi perdo nella tua immensità.
Quel legno di acacia è lì che
aspetta me.
E’ passato appena un lustro
da quando qui ti lasciai.
Ho girovagato su questa terra,
dove la flora e la fauna
sono forti e vigorose.
Ho appreso gli insegnamenti
e ora li porto con me.
Sono semi e germogli da portare in
terre lontane.
Con cura ripongo il tesoro nel
legno,
ed apro la cassa.
Sì, è ancora lì.
La prendo, l’aggancio, la tiro su
per l’albero.
Lentamente si srotola.
E’ un po’ ingiallita, ma è ancora
forte e robusta.
Un sussulto.
Il legno di acacia riprende vigore,
il vento è propizio, si gonfia la tela,
or si parte per lidi lontani
dove aspettan laboriose mani.
L’attimo
Al tramontar del sole
già sorgevano le stelle,
solitarie,
nel cielo che a me straniero era,
mi guidavano nella giusta
via della vita.
Amore, gran parola.
Amore, gran fonte di vita.
Amore, sentirsi vivo.
Amore senza dare e chiedere
amore, ricevere quanto può bastare.
Affondare le mie labbra nei tuoi occhi
sotto il ciel d’Oriente e portare con me un dolcissimo
ricordo
d’un momento che mai fine avrà,
e per sempre in me vivrà.
L’attesa
Vengo qua ad alimentar lo fuoco,
E su questi irti scogli curo lo seme
della speranza.
Levasti le ancore della tua nave,
facendo promessa di ritorno,
chiedendomi di giurare di non far mai
spegnere lo fuoco
che abbia a orientare la nave tua
per lo sicuro porto.
Son trascorsi molti lustri.
Il seme germoglia, cresce e divien
albero.
E prima ancor di fornir legna per lo
fuoco,
esso mi fa dono di un nuovo seme.
Guardando l’orizzonte
molte son le vele che ho visto,
le tue navi solcar lo mare
e il mio core impazziva di gioia
nel pensare che mi venivi a trovare.
Ancor se fosse ieri,
quando avevo la età di quattro lustri
Allor che mi dicesti:
“Or pensa a crescere, e apprendi la
terra ferma
Che poi io nello giusto tempo salirò
su questa nave”.
Credo forse di esser ormai cresciuto,
e di esser pronto per lo imbarco.
In questi mille lustri nello
aspettarti
ho appreso come amarti.
Fine
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