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martedì 31 gennaio 2012

Mostre ed eventi della settimana: Navicelle nuragiche, Corso di archeologia e Stele Nora


Alcuni eventi dei prossimi giorni: Navicelle nuragiche, Corso di archeologia e Stele Nora.

Mostra sulle navicelle nuragiche - Bovolone (VR)
Venerdì scorso si è inaugurata a Bovolone, comune in provincia di Verona, la mostra Sutiles Naves che ha per tema la navigazione nell’età del bronzo e le navicelle della Sardegna nuragica.
L’evento, fortemente voluto dall’Associazione dei Sardi di Verona sta già riscuotendo un forte consenso tra i visitatori che hanno apprezzato in particolar modo le ricostruzioni in scala delle barche cucite, realizzate secondo le tecniche utilizzate in antichità dalle carpenterie navali mediterranee e sicuramente anche dalle marinerie nuragiche.
Per dare risalto all’iniziativa il Comune di Bovolone ha messo a disposizione i prestigiosi locali delle Cantine del Vescovo, che ospiteranno i modelli e i pannelli descrittivi fino al primo febbraio.

La realizzazione e l’allestimento sono a cura dell’associazione culturale Archistoria di Sinnai, che ha inviato a Bovolone per la presentazione e per guidare i visitatori nel percorso conoscitivo Gerolamo Exana, membro del direttivo.
All’inaugurazione, oltre al sindaco e alle altre autorità di Bovolone, erano presenti in rappresentanza di Sinnai gli assessori Franco Matta e Massimo Leoni e i presedenti della Federazione Associazioni Sardi in Italia Serafina Maxia e dei Sardi di Verona Maurizio Solinas e Salvatore Pau.
I comuni di Bovolone e Sinnai, gemellati tra loro, hanno patrocinato l’iniziativa che si colloca nell’ambito delle manifestazioni associate all’importante fiera agricola e alla festa del patrono San Biagio.
In fiera è stato inoltre allestito uno stand con i prodotti enogastronomici sinnaesi.

Corso di Storia e Archeologia - Monserrato

L'Associazione Culturale "Giuseppe Verdi” presenta la prima edizione del Corso di storia e archeologia della Sardegna, un ciclo di sei lezioni condotte da Pierluigi Montalbano che si terranno ogni Giovedì a Monserrato, in Via Traiano 17a, dalle ore 19.00 alle 20.30.
Giovedì 2 Febbraio - Dall'ossidiana al rame
Giovedì 9 Febbraio - Domus de Janas e Tombe di Giganti
Giovedì 16 Febbraio - L'alba dei nuraghi
Giovedì 23 Febbraio - Sardi in oriente
Giovedì 1 Marzo - Bronzetti e navicelle: la miniaturizzazione
Al termine del corso è prevista una visita guidata al Museo Archeologico di Cagliari
Per informazioni inviare una email a: pierlu.mont@libero.it o contattare Mariella Spiga, 070570336
Ingresso libero




Presentazione Stele di Nora - Cagliari

Salvatore Dedola sarà relatore sulla STELE DI NORA presso la Società degli Operai, via XX Settembre 80, Cagliari.
Dopo aver tradotto integralmente e
commentato la Stele di Nora, da otto anni
Dedola presenta al mondo i risultati
attraverso Internet (www.linguasarda.com) e mediante i
singoli libri di etimologie sardo-semitiche che via via sta
pubblicando.
Considerando l’ovattata eco dell’avvenimento, decisamente
immeritata vista la somma importanza del documento, Dedola ha deciso di
presentare direttamente la Stele a Cagliari, il 1° febbraio in Via XX Settembre 80, alla Società degli Operai, ore 16.45, e di seguito in altri paesi dell’Isola,
nonché in Continente, per consentire una presa di coscienza maggiore
nonché un auspicabile progresso culturale.

La STELE DI NORA è il documento
scritto più antico dell’Occidente, e segna
l’inizio dell’avventura della scrittura in Sardegna. Dalla sua lettura si
evincono e documentano, per via linguistica, diversi tratti della civiltà
sarda intorno al Mille avanti l’Era volgare.
Considerata la somma importanza del documento, dopo la
lettura verrà aperto un dibattito e un reciproco scambio di opinioni. La
lettura sarà ripresa dalla Televisione, cui seguirà la trasmissione
via Internet.

lunedì 30 gennaio 2012

Il Paradiso Terrestre scoperto da Cristoforo Colombo - 3° e ultima parte

Fonte: Pino Cimò,
tratto da: IL NUOVO MONDO: La scoperta dell'America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento

Editoriali GIORGIO MONDADORI 1991 - MILANO



Dopo la prima parte sul racconto di Cristoforo Colombo, e la seconda pubblicata sabato scorso, ...ecco la 3° e ultima parte. Buona Lettura.
Io ho già detto ciò che ho scoperto di quest'emisfero e della sua conformazione e credo che se oltrepassassi la linea equinoziale (cfr. prima) e raggiungessi la zona più alta, troverei un clima ancora più mite e maggiore diversità nelle stelle e nelle acque. E non perché io creda che sia possibile navigare nel punto più alto né che vi sia acqua o che vi si possa salire ma soltanto perché sono convinto che in quel luogo vi sia il Paradiso Terrestre dove nessuno può arrivare tranne che per volontà divina. Io penso che la terra che ora le Vostre Maestà hanno ordinato di scoprire sia grandissima e che ve ne siano molte altre di cui non si è mai avuto notizia a sud. Io non penso che il Paradiso Terrestre – come è stato scritto - abbia la forma di un'aspra montagna, ma sono convinto che esso sia situato in cima al luogo che ha l'aspetto del picciuolo della pera e che avanzando verso di esso, da lontano, a poco a poco si comincia a salire verso di esso. Credo che, come ho detto, nessuno può salire fino in cima ma che l'acqua sgorghi da quel luogo - benché sia lontanissimo - e finisca per sfociare lì da dove io vengo dando vita a un lago. Questi sono indizi importanti dell'esistenza in quel posto del Paradiso Terrestre perché la località corrisponde all'opinione dei santi e dei sacri teologi. Così pure io reputo che questi indizi siano attendibili perché io non ho mai né letto né udito che una tale quantità di acqua dolce potesse essere così vicina e compenetrata con l'acqua salata. Il fenomeno è reso possibile dal clima mitissimo. Se, poi, l'acqua non dovesse provenire dal Paradiso ci sarebbe da meravigliarsene ancora di più, perché non credo che nel mondo si abbia conoscenza di un fiume così grande e così profondo. Il giorno dopo che uscii dallo Stretto del Drago, che dei due è quello che sta a nord e che io stesso battezzai così, ricorreva la festività della Madonna d'Agosto e io osservai che dall'ora della messa - quando ripresi la navigazione -all'ora di compieta percorsi 65 leghe di quattro miglia ciascuna: eppure il vento non era forte ma piuttosto leggero. Questo conferma la teoria che, da lì andando a sud si sale; andando, invece, a nord - come stavo facendo - si scende. Io sono certo che le acque del mare si spostano da oriente a occidente come i cieli e che quando attraversano questa nona il loro corso è più veloce ed è per questo che asportano una grande quantità di terra. Ed è questa la ragione dell'esistenza di tante isole. Queste a loro volta forniscono la prova del fenomeno di cui sto parlando perché quelle che si estendono trasversalmente, da occidente a oriente, a nord-ovest e a sud-est, sono larghe e basse; quelle invece che sono situate, da nord a sud, a nord-est e a sud-est sono strette perché sono poste in senso contrario agli altri venti di cui ho parlato. In queste terre, grazie al clima mite e al fatto che sono le più alte della terra, nascono cose preziose. È vero che in alcune località le acque sembrano seguire un corso diverso. Ma ciò avviene solo in alcuni punti dove hanno dirimpetto qualche terra e questo crea l'impressione che esse si muovano in direzioni opposte.
Plinio scrive che il mare e la terra formano assieme una sfera e afferma che questo mare Oceano costituisca la maggiore quantità d'acqua e che esso sia rivolto verso il cielo mentre la terra è situata sotto di esso e gli faccia da sostegno. Cielo e mare, poi, sono uniti l'uno all'altro come il frutto ancora non maturo della noce con la spessa cartilagine da cui è avvolto. Il Maestro della Storia Scolastica, dissertando sul libro della Genesi, afferma che le acque sono pochissime perché quando furono create coprivano tutta la terra ma in forma di vapore, simile alla nebbia: dopo che esse si condensarono e si unirono occuparono una superficie assai limitata. S'ti questo è d'accordo Niccolò di Lira. Aristotele sostiene che questo mondo è piccolo e contiene poca acqua e che facilmente si può andare dalla Spagna alle Indie. La tesi è confermata da Averroè, il cui parere è riportato dal cardinale Pietro di Aliaco al quale egli dà così la sua autorevole convalida, come del resto la dà anche a Seneca, il quale è d'accordo con costoro. Egli dice, infatti, che Aristotele ebbe modo di conoscere i segreti del mondo tramite Alessandro Magno e lui stesso tramite Cesare Nerone e Plinio per quanto riguardava i Romani: tutti e tre spesero grandi somme, si servirono di molta gente e fecero grandi sforzi per conoscere i segreti del mondo e diffonderli in mezzo ai popoli.
Il cardinale prende in maggiore considerazione questi ultimi autori più che Tolomeo e gli altri scienziati greci ed arabi. Per avere una conferma di quanto essi dicono in merito alla poca quantità di acqua e alla ristretta parte del mondo da essa coperta, in contrasto con le teorie di Tolomeo e dei suoi seguaci, egli cita il terzo libro di Esdra in cui si afferma che delle sette parti del mondo sei sono asciutte e soltanto una è ricoperta d'acqua. Tale affermazione è anche convalidata dai santi che riconoscono autorevolezza al III e al IV libro di Esdra, come, per esempio, Sant'Agostino e sant’ambrogio che nell’ Exameron dice: “Qui verrà il mio figlio Gesù e morirà il mio figlio Cristo”. Sostengono che Esdra fu profeta e così pure Zacharia, padre di San Giovanni, e il beato Simone, autorità citate da Francesco de Maiorones. Quanto alla parte asciutta della terra, poi, è dimostrato che essa è ben più grande di quanto volgarmente non si creda. E di questo non ci si deve meravigliare, perché più uno va lontano e più impara. Riprendo ora il discorso relativo alla terra di Grazia e al fiume e al lago che lì trovai. Il lago è talmente ampio che bisognerebbe chiamarlo più mare che lago dato che quando un lago ha un'estensione considerevole lo si denomina mare come nel caso del Mare di Galilea e del Mar Morto. Per quel che riguarda il fiume se esso non proviene dal Paradiso Terrestre non può che avere origine da una terra sconfinata situata a sud e di cui fino a questo momento non si è avuta alcuna notizia. Ma io sono profondamente convinto di aver trovato il Paradiso Terrestre lì dove ho detto e baso questa mia affermazione sugli argomenti e sulle autorità menzionati sopra. Voglia Iddio concedere alle Maestà Vostre vita lunga, salute e pace, di modo che possano continuare questa nobile impresa con cui Nostro Signore riceve un grande servizio, la Spagna cresce molto in grandezza e tutti i Cristiani traggono motivo di consolazione e di allegria perché verrà qui conosciuto e diffuso il nome di Dio. In tutte le terre e in ogni capo dove arrivano le navi delle Vostre Maestà faccio installare una croce, a tutti i popoli con cui entro in contatto notifico l'esistenza e il potere sovrano delle Vostre Maestà in Spagna; spiego ad essi tutto quello che posso sulla nostra Santa Fede e sui dogmi della Santa Madre Chiesa, i cui membri sono sparsi in tutte le parti del mondo; e li istruisco sulla nobiltà e sulla dignità di tutti i cristiani e sulla fede che essi nutrono per la Santa Trinità. E voglia Dio perdonare tutti coloro che si sono opposti e continuano ad opporsi a un'impresa così esimia e quelli che tentarono e tentano ancora di impedire che essa abbia il suo proseguimento senza prendere in considerazione quanta fama e gloria essa comporti in tutto il mondo per le Vostre Maestà. Essi per porla in cattiva luce e per intralciarla non sanno addurre altre giustificazioni che quelle della spesa che l'impresa comporta e il fatto che non furono inviate subito le navi cariche d'oro, senza minimamente tenere conto del poco tempo avuto a disposizione e degli inconvenienti a cui si è andati incontro. Né del resto prendono in considerazione il fatto che in Castiglia, nella casa delle Vostre Maestà, ci sono varie persone che in un anno guadagnano più denaro di quanto se ne spenda in questa impresa; e nemmeno il fatto che mai i regnanti di Spagna hanno conquistato terre fuori dei confini del regno tranne ora che possiedono qui un altro mondo in cui può essere tanto incrementata la nostra Santa Fede e da cui si possono trarre tanti profitti. Benché, infatti, non si siano mandate le navi piene d'oro, sono stati inviati sufficienti campioni di esso e di altri generi di valore per giudicare che in poco tempo se ne avranno molti vantaggi. E, a questo proposito, ci sarebbe da tener presente la grandezza d'animo dei re del Portogallo che da tanto tempo portano avanti l'impresa della Guinea (cfr. prima) e anche quella dell'Africa, pur avendo impiegato in esse la metà della popolazione del regno. E ora il re è più deciso che mai ad andare avanti. Che Nostro Signore si prenda cura di tutto questo e faccia in modo che le Vostre Maestà tengano in considerazione tutto quello che ho scritto: e questo non è neppure la millesima parte di quello che potrei ricordare sulle imprese dei regnanti che si sono dedicati a realizzare conquiste e a mantenerne il possesso. Ho detto tutto questo non perché dubiti della volontà delle Vostre Maestà di proseguire nell'impresa finché esse resteranno in vita. Sono anzi certissimo che le Vostre Maestà manterranno l'impegno che mi espressero un giorno verbalmente quando io ho affrontato l'argomento. Né io ho osservato alcun cambiamento nelle Vostre Maestà: mi preoccupa soltanto quello che ho sentito dire alle persone a cui ho accennato, poiché, per quanto sia piccola, se la goccia continua a cadere sulla pietra finisce per bucarla. Le Vostre Maestà mi risposero, mettendo in mostra la magnanimità che possiedono e che è conosciuta in tutto il mondo, di non dar peso a nessuna di quelle maldicenze perché era loro ferma volontà di portare avanti l'impresa e di appoggiarla anche se ci fosse da ricavarne solo sabbia e pietre, e che, comunque, la spesa che l'impresa comportava era ben modesta dato che si impiegava molto più denaro per cose di molto meno conto. Le Vostre Maestà aggiunsero di ritenere che fosse stato ben utilizzato il denaro speso in passato e così lo sarebbe stato quello utilizzato in futuro perché credevano che in questo modo la nostra Santa Fede si sarebbe diffusa e incrementata e si sarebbero allargati i loro domini. Mi dissero, a conclusione, di non ritenere amici delle Loro Maestà coloro che dicevano male di quest'impresa. Ora mentre alle Vostre Maestà giungerà notizia di queste terre da me recentemente scoperte, in cui io sono profondamente convinto che si trova il Paradiso Terrestre, il governatore compirà una spedizione in quelle terre con tre navi ben equipaggiate per continuare l'esplorazione e scoprire tutto quello che sarà possibile in quella zona. Nel frattempo invierò alle Vostre Maestà questa mia lettera e la mappa della terra di modo che possano decidere quello che bisognerà fare e mi mandino i loro ordini.
Con l'aiuto della Trinità farò in modo che essi vengono eseguiti con ogni cura assicurandomi che le Vostre Maestà siano servite e rimangano soddisfatte. Deo gratias.

Immagine di: http://lanostrastoria.corriere.it

domenica 29 gennaio 2012

Obiettivo raggiunto: superate le 200.000 visite.


Grazie a tutti voi. La passione aumenta e, nei prossimi giorni, inizieranno attività nuove: corso di storia e archeologia a Monserrato, escursione a Santa Vittoria di Serri, incontro con i bambini delle scuole di Margine Rosso, presentazione di libri a Cagliari e...un articolo di archeologia che aprirà nuove prospettive di indagine.

sabato 28 gennaio 2012

Il Paradiso Terrestre scoperto da Cristoforo Colombo - 2° parte di 3


Fonte: Pino Cimò,
tratto da: IL NUOVO MONDO: La scoperta dell'America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento

Editoriali GIORGIO MONDADORI 1991 - MILANO



Dopo la prima parte sul racconto di Cristoforo Colombo...ecco la 2° parte. Buona Lettura.

L'indomani feci scandagliare il mare dalle barche e scoprii che nel punto meno profondo dell'entrata dello stretto vi erano sei o sette braccia d'acqua e che le correnti continuavano a muoversi entrando e uscendo dallo stretto. Il Signore si compiacque di darmi un vento favorevole e riuscii così a entrare nello stretto dove trovammo mare calmo e prelevando per caso acqua, mentre eravamo in navigazione, ci accorgemmo, con sorpresa, che si trattava di acqua dolce. Procedetti in direzione nord fino a raggiungere una montagna molto alta che distava 104 miglia dall'Arenile. In quel punto vi erano due promontori, uno a est che faceva parte della stessa isola di Trinità e l'altro a ovest che faceva parte della terra da me denominata, come ho detto, di Grazia. Tra i due promontori c'era un canale più stretto di quello della punta dell'Arenile ma anche in esso si notavano correnti e lo stesso tipo di ruggito di acque. Anche l'acqua del mare era dolce. Fino a quel momento io non avevo avuto modo di parlare con gli abitanti di quella terra e avevo un gran desiderio di farlo. Per questa ragione seguii la costa in direzione ovest e più avanzavo più l'acqua che prelevavamo si faceva dolce e piacevole al palato. Dopo aver navigato per un bel po' arrivai in una località in cui la terra sembrava coltivata. Gettai le ancore e mandai a terra le barche. Gli uomini notarono che gli abitanti erano andati via poco tempo prima e che la montagna era piena di scimmie. Tornarono subito indietro. Dato che eravamo davanti a una zona montagnosa immaginai che più ad ovest le terre dovessero essere pianeggianti e quindi popolate. Feci levare le ancore e seguii la costa fino alla punta della montagna. Qui mi fermai alle foci di un fiume. Venne subito molta gente. Mi dissero che essi chiamavano quella terra Paria e che se fossi andato più ad ovest l'avrei trovata più popolata. Presi dunque quattro indigeni con me e navigai in direzione di ponente. Dopo 24 miglia, superata una punta che denominai del Ciottolino, trovai le terre più belle del mondo, e molto popolate. Giunsi in quel posto di mattina, all'ora di terza, e per aver modo di ammirare quel magnifico verde decisi di calare le ancore e d'incontrarmi con quella gente. Alcuni di loro vennero subito con le canoe per invitarmi, in nome del loro re, a scendere a terra. Ma vedendo che non gli davo retta giunsero in moltissimi sulle loro canoe. Molti portavano al collo pezzi di oro e alcuni avevano le braccia adornate con bracciali di perle. Mi rallegrai molto quando vidi le perle e feci di tutto per sapere dove le trovavano. Mi dissero che le trovavano lì stesso e a nord della loro terra. Avrei voluto trattenermi ma i viveri- frumento, vino e carne, ottenuti con tanto stento in Castiglia- che portavo alla gente di qua si stavano deteriorando del tutto e per questo volevo fare più in fretta che potevo per porli in salvo e non trattenermi per nessuna ragione. Cercai di avere di quelle perle e per questo mandai alcune barche a terra.
Gli indigeni di questa terra sono numerosissimi e tutti di aspetto bello, molto alla mano e con lo stesso tipo di carnagione di quelli visti prima. Gli uomini nostri che scesero a terra li trovarono molto accondiscendenti e tutti li accolsero con rispetto. Essi raccontarono che non appena le barche giunsero a riva si fecero loro incontro due capi con tutta la gente del posto. I due capi, a quanto pare, erano padre e figlio; li portarono in una grandissima casa, costruita a due spioventi e non rotonda come le tende da campo che si usano qui. Nella casa c'erano molti sgabelli, dove li fecero accomodare e dove si sedettero anche loro. E fecero portare pane, frutti di vario tipo, vino rosso e bianco ma non di uva. Probabilmente era vino di frutta, il bianco di un tipo e il rosso di un altro tipo, e ce ne doveva essere anche di mais, che è un seme racchiuso in una spiga a forma di fuso che io ho già portato in Castiglia e che è già molto conosciuto. Sembra che chi ne possedesse la qualità migliore lo portasse per mettersi in mostra e lo distribuisse in segno di grande stima. Gli uomini stavano tutti in un lato della casa e le donne nell'altro lato. Sia gli indigeni sia i nostri soffrirono molto per il fatto di non capirsi: essi chiedevano ai nostri della nostra patria e i nostri ad essi della loro. Terminato il banchetto in casa del vecchio, il capo giovane li condusse nella sua casa e li trattò allo stesso modo. Dopo di che, risaliti sulle barche, tornarono alla nave. E io feci subito levare le ancore perché avevo premura di salvare i viveri che stavano andando a male e che ero riuscito a procurarmi con tanta difficoltà, ma anche per prendermi cura di me: avevo, infatti, gli occhi malati a causa delle lunghe veglie. Sebbene nel viaggio che avevo fatto alla scoperta della terra ferma fossi rimasto per 33 giorni senza chiudere occhio e, successivamente, parecchio tempo privo della vista, mai i miei occhi si erano ammalati e riempiti di sangue e mai mi avevano provocato tanto dolore come ora.
Questa gente, come ho già detto, è tutta di ottima costituzione, di statura alta e di bei lineamenti. Hanno i capelli lisci e li portano molto lunghi. Si coprono la testa con fazzoletti ricamati, così belli che da lontano sembrano di seta, come gli almayzares (cfr. sopra). Legato ai fianchi portano - sia gli uomini che le donne - un fazzoletto più ampio con il quale si coprono. La carnagione di questa gente è la più chiara di tutte quelle che ho visto finora nelle Indie. Tutti portano al collo e alle braccia un qualche tipo di ornamento, secondo l'usanza del paese, e molti portano al collo pezzi d'oro grezzo. Le loro canoe sono più grandi e costruite meglio di quelle in uso qui a Hispaniola, e sono anche più leggere: al centro di ognuna è situato un abitacolo chiuso dove viaggiano i capi e le loro donne. Questa terra la denominai Giardini, perché è un nome appropriato. Feci molti sforzi per sapere dove si procuravano l'oro e tutti mi mostravano una terra a ponente situata di fronte a loro, molto alta ma non distante. Mi raccomandavano, però, di non andare laggiù perché lì mangiavano gli uomini. Mi parve dunque di capire che gli abitanti di quella terra erano Cannibali, come quegli altri. Poi, però, ho pensato che me lo dicessero perché lì c'erano animali feroci. Chiesi pure ad essi dove trovassero le perle e mi fecero segno di nuovo verso il ponente e il nord della terra da loro abitata. Non mi fermai sul posto per appurare la verità su quanto dicevano a causa dei viveri e delle cattive condizioni dei miei occhi, e per il fatto che la nave a bordo della quale mi trovavo non era adatta a tale tipo di manovre d'esplorazione.
Siccome il tempo che ebbero a disposizione fu poco lo trascorsero tutto facendo domande agli indigeni. Tornarono alle navi all'ora del vespro - come ho detto - e immediatamente io levai le ancore e ripresi la navigazione in direzione di ponente. L'indomani continuai per la stessa rotta fino a quando non mi resi conto di avere solo tre braccia di profondità. Pensai, allora, che anche questa fosse un'isola e che avrei potuto uscire dallo stretto puntando verso nord. Stando così le cose mandai avanti in perlustrazione una caravella leggera per verificare se c’era una via d’uscita o se invece la strada era chiusa. L’imbarcazione fece un lungo tragitto e giunse in un grande golfo dentro cui sembrava ce ne fossero altri quattro di grandezza media e che in uno di questi sfociasse un fiume grandissimo. Gli uomini della caravella constatarono di navigare sempre con cinque braccia di fondo e con acqua dolce in enorme quantità e di qualità eccellente: di acqua così io non ne ho mai bevuta. Quando mi accorsi che non potevo uscire a nord, né andare avanti verso sud o verso ovest, ci rimasi molto male essendo ormai evidente che ero circondato da ogni parte dalla terra. Levai le ancore e tornai indietro per uscire a nord dalla bocca di cui ho parlato e non potei passare dalle popolazioni che avevo visitato perché le correnti mi avevano portato lontano. Dappertutto l'acqua era dolce e limpida e mi portava verso est, spingendomi con forza verso i due stretti di cui ho parlato in precedenza. Ipotizzai, allora, che i filoni di corrente e le masse d'acqua che penetravano ed uscivano da quegli stretti con fragori così forti avevano all'origine lo scontro dell'acqua dolce con quella, salata: la dolce che spingeva l'altra perché non entrasse; e la salata che impediva alla dolce di uscire. E ne trassi la conclusione che là dove oggi ci sono le due bocche una volta, nel remoto passato, ci fosse continuità di terra tra l'isola di Trinità e la terra di Grazia, come le Maestà Vostre potranno osservare nel disegno che allego a questa lettera. Uscii così dallo stretto settentrionale in cui l'acqua dolce era più abbondante di quella salata e quando lo attraversai, portato dalla forza del vento, stando su una delle grandi montagne d'acqua potei appurare che dalla parte interna dell'alveo della corrente l'acqua era dolce; dalla parte esterna, invece, l'acqua era salata. Quando io - venendo dalla Spagna alle Indie - giunsi a 400 miglia a ovest delle Azzorre avvertii un gran mutamento sia nel cielo sia nelle stelle, come pure nella temperatura dell'aria e nelle acque del mare. E a questo fenomeno feci molta attenzione. Osservai che da nord a sud, oltrepassata la distanza di 400 miglia dalle suddette isole, l'ago della bussola che fino a quel punto tende a nord-est, si orienta d'improvviso a nord-ovest una quarta di vento tutta intera. E ciò si verifica mentre ci si avvicina a tale linea, come chi stesse superando un pendio. Trovai pure il mare (il Mare dei Sargassi) completamente pieno di un'erba fatta di rametti di pino e carica di frutti simili a quelli del lentisco. L'erba era così densa che nel mio primo viaggio temetti che si trattasse di una secca e che le navi vi si sarebbero arenate. E il fatto sorprendente è che fino al momento di arrivare a quella linea della stessa erba non se ne trova affatto. Arrivando in quel punto trovai il mare calmo e liscio e benché soffiasse il vento esso non si alzava mai. Inoltre all'interno di questa linea, dal lato di ponente, la temperatura era mite e senza grandi sbalzi sia d'inverno sia d'estate. Stando lì mi accorsi che la stella polare forma un cerchio con un diametro di cinque gradi e quando le Guardie (le due stelle posteriori del quadrilatero dell'Orsa Minore) sono nel braccio destro la stella sta nel suo punto più basso e si va alzando fino a raggiungere il braccio sinistro. È allora a cinque gradi e da questa posizione si abbassa progressivamente fino a tornare al braccio destro. Io dalla Spagna arrivai all'isola di Madera e da lì alle isole Canarie e quindi alle isole di Capo Verde. Da lì proseguii la navigazione in direzione sud fino ad oltrepassare - come ho detto - la linea equinoziale (Equatore). Una volta giunto all'altezza del parallelo della Sierra Leone, in Guinea (cfr. prima), mi imbattei in una temperatura così torrida e in raggi del sole così caldi che temevo di bruciare. E benché fosse venuta la pioggia e il cielo fosse annuvolato restai gravemente preoccupato finché Nostro Signore non si compiacque di mandarmi un buon vento spingendomi a prendere la rotta di ponente, nella convinzione che avvicinandomi alla linea di cui ho parlato sopra, avrei riscontrato il cambiamento di temperatura. E in effetti una volta postomi in corrispondenza di quella linea la temperatura del cielo diventò mite e quanto più io andavo avanti tanto più la temperatura si addolciva. Ma non c'era corrispondenza tra questo fenomeno e la posizione delle stelle. All'imbrunire notai che la stella del Nord era a un'altezza di cinque gradi e le Guardie (cfr. sopra) stavano sopra la mia testa; a mezzanotte, poi, la stella polare era alta dieci gradi e all'alba - quando le Guardie (c.ft. prima) erano ai piedi - a quindici gradi.
Trovai una spiegazione soddisfacente per la quiete del mare ma non per l'erba. E il fenomeno della stella polare mi meravigliò molto. Per varie notti, con molta attenzione, l'osservai con il quadrante ma notavo sempre che il filo e il piombo cadevano nello stesso punto. A mio parere questo è un fenomeno nuovo, e forse altri saranno della mia stessa opinione, perché è strano che in un'area così ristretta ci possa essere tanta differenza nel cielo. Io ho sempre letto che il mondo, terra ed acqua, è di forma sferica. Le autorevoli teorie e le sperimentazioni di Tolomeo e di tutti coloro che scrissero sull'argomento, lo confermano e lo dimostrano sia con le eclissi di luna e le altre verifiche compiute da est a ovest, sia con l'elevazione polare a nord e a sud. Ma dopo aver osservato una irregolarità così grande come quella di cui ho parlato mi sono fatta una mia idea del mondo in base alla quale esso non è rotondo come viene descritto ma ha una forma a pera molto rotonda, tranne che nel punto dove si trova il gambo che costituisce il suo punto più alto. O, detto altrimenti, esso ha la forma di una sfera molto rotonda che, però, su un suo punto ha una specie di capezzolo di donna. Questa parte della sfera è la sua parte più alta e la più vicina al cielo e va collocata sotto la linea equinoziale e, in questo oceano all’estremità dell’oriente ( e per oriente io intendo il punto dove finiscono la terra e le isole). E’ per questa ragione che io ho riferito le motivazioni suddette in merito alla linea che passa, da nord a sud, a 400 miglia a occidente delle isole Azzorre: a cominciare da tale punto, infatti le navi si alzano dolcemente verso il cielo - spostandosi da lì verso ponente - ed è allora che si gode d'una temperatura più mite e la bussola muta direzione d'un quarto di vento per via di questa dolcezza di clima; più si sposta e più si eleva, più si accentua la declinazione verso nord-ovest. Questa elevazione provoca la variazione del circolo che la stella polare descrive con le Guardie (cfr. prima): quanto più quest'ultime sono vicino alla linea equinoziale (cfr. prima) tanto più si alzano nel cielo e maggiore è la differenza fra le stelle e le orbite da esse tracciate. Tolomeo e gli altri dotti che scrissero su questo mondo pensarono che l'emisfero occidentale fosse sferico come quello in cui essi abitavano. Questo ha il suo centro nell'isola di Arin posta sotto la linea equinoziale (cfr. prima) tra il Golfo d'Arabia e il Golfo di Persia; il circolo passa per il capo San Vincenzo, in Portogallo, dal lato di ponente, e per Cangara (Catigara, nel Cabai) e Seri (il nome dato alla Cina da Tolomeo) dal lato orientale. Per quanto riguarda quest'emisfero non c'è nessuna difficoltà, da parte mia, a ritenere che esso sia rotondo come essi affermano. Ma quest'altro, a mio parere, è come la metà d'una pera ben tonda che abbia il picciolo alto - come ho detto - o come una palla rotonda con sopra un capezzolo di donna. Tolomeo e gli altri che hanno scritto su questo mondo opinarono che era rotondo non sapendo nulla di questa sua parte che era sconosciuta e basandosi solo sull'emisfero in cui essi vivevano e che è certamente - come ho detto e ripeto - sferico. Ma ora che le Maestà Vostre hanno ordinato di navigarlo, di esplorarlo e di scoprirlo, la mia affermazione si dimostra evidentissima. Quando, infatti, durante questo viaggio, io mi trovavo a 20 gradi a nord della linea equinoziale (cfr. prima) ero all'altezza di Hargin e di quelle terre dove la popolazione è nera e il suolo è riarso dal sole. Dopo io passai per le isole di Capo Verde dove la gente è ancora più nera. Quanto più abitano al sud tanto più quelle genti sono di carnagione scura. Cosicché all'altezza in cui io stavo, quella cioè della Sierra Leone, dove la stella polare all'imbrunire si alza di cinque gradi, la popolazione è nera al massimo E quando da lì navigai a occidente il calore era estremo. Ma, oltrepassata la linea di cui ho parlato, la temperatura cominciò ad addolcirsi progressivamente, tanto che quando arrivai all'isola di Trinità, dove la stella polare si alza di nuovo, sul far della sera, di cinque gradi, e anche nella terra di Grazia, trovai un clima mitissimo e la terra e gli alberi verdissimi e belli come in aprile gli orti e i frutteti di Valenza. La popolazione di qui è di statura molto buona e ha la carnagione più bianca di tutte le altre che io ho visto nelle Indie; gli uomini hanno i capelli lunghi e lisci, sono più astuti e più intelligenti, e non sono codardi. In quel momento il sole stava sulla Vergine sia sulle nostre sia sulle loro teste. Tutto ciò ha come spiegazione la mitezza del clima, il quale, a sua volta, è conseguenza del fatto che queste terre sono le più alte del mondo e le più vicine al cielo, come ho detto. E così io mi confermo nella mia idea che il mondo non è perfettamente sferico ma ha l'elemento di diversità di cui ho detto in questo emisfero e precisamente nel punto in cui le Indie s'incontrano con l'oceano e l'estremità di quest'ultimo è situata sotto la linea dell'equinozio (Equatore). Dà una forte consistenza a questa teoria il fatto che il sole, quando fu creato da Dio, comparve nel punto più lontano dell'Oriente (o, almeno, la sua prima luce risplendette qui in Oriente) dove si trova la punta più alta di quest'emisfero. È vero che Aristotele suppose che fosse il polo antartico o la terra ad esso sottostante la parte più alta del mondo e quella più vicina al cielo. Ma altri scienziati espressero opinione contraria e sostennero che, invece, fosse più elevata la terra che sta sotto il polo artico. Da ciò risulta evidente che sia l'uno sia gli altri immaginarono una parte del mondo più alta e più vicina al cielo dell'altra. Nessuno, però, suppose che essa si potesse trovare sotto la linea equinoziale (cfr. prima) e questo per i motivi che ho analizzato sopra. Di ciò non bisogna meravigliarsi perché in questo emisfero non si erano ancora avute notizie certe ma solo vaghe e ipotetiche, giacché nessuno vi si era mai recato né vi era stato inviato a cercarlo fino ad ora, cioè fino a quando le Vostre Maestà ordinarono che esso venisse esploralo e che si scoprissero il mare e la terra. Stabilii che i due stretti, come ho già detto diametralmente opposti da nord a sud, distano l'uno dall'altro 104 miglia e il dato è certo perché ho eseguito la misurazione con il quadrante. Da questi due stretti, a occidente, al golfo di cui ho parlato prima e che io denominai delle Perle c'è una distanza di 68 leghe di quattro miglia, come le calcoliamo in mare. L'acqua esce da questo golfo e si precipita in continuazione e con molta forza verso oriente: lo scontro tra acqua dolce e acqua salata avviene, dunque, in questi due stretti. Nello stretto meridionale, che io denominai della Serpe, osservai che la stella polare all'imbrunire era alta quasi cinque gradi; in quello settentrionale, da me chiamato del Drago, saliva su fino a quasi sette gradi. Osservai pure che il golfo delle Perle è situato a poco meno di 3900 miglia a ovest di quello di Tolomeo: c'è, cioè, una differenza di 70 gradi equinoziali, calcolando per ciascun grado 56 miglia e due terzi. La Sacra Scrittura afferma che Nostro Signore fece il Paradiso Terrestre e vi collocò l'albero della vita da cui scaturisce una sorgente che dà vita ai quattro fiumi principali del mondo: il Gange, in India, il Tigri e l'Eufrate che dividono la catena di montagne, formano la Mesopotamia e scorrono quindi nella Persia e il Nilo che nasce in Etiopia e sbocca in mare ad Alessandria. Io non trovo né ho mai trovato un documento scritto di autore latino o greco in cui venga indicata con certezza la posizione geografica del Paradiso terrestre nel mondo; né l'ho mai visto situato in un mappamondo tranne che sulla base di criteri teorici. C'era chi lo collocava nel luogo in cui nascono le sorgenti del Nilo in Etiopia: ma chi ha percorso tutte quelle terre non vi ha riscontrato né il clima né l'altezza delle terre da cui si potesse dedurre che esso si trovasse in quel punto, né ha trovato indizi del fatto che le acque del diluvio vi fossero arrivate, dato che esse si alzarono al di sopra e così via. Alcuni pagani tentarono di dimostrare con varie argomentazioni che esso si trovava nelle isole Fortunate, che corrispondono alle Canarie ecc.; Sant'Isidoro, Beda, Strabone, il maestro della Storia Scolastica, Sant'Ambrogio e Scoto e tutti i sapienti teologi affermano che il Paradiso Terrestre si trova in Oriente...

Domani la 3° e ultima parte

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venerdì 27 gennaio 2012

Il Paradiso Terrestre scoperto da Cristoforo Colombo - 1° parte di 3




Fonte: Pino Cimò,
tratto da: IL NUOVO MONDO: La scoperta dell'America nel racconto dei grandi navigatori italiani del Cinquecento

Editoriali GIORGIO MONDADORI 1991 - MILANO


La lettera ai Reali di Spagna in cui Colombo annuncia la scoperta - fatta nel corso del suo terzo viaggio transatlantico - della "terraferma" e ipotizza l'esistenza sul suolo sudamericano del Paradiso Terrestre


Hispaniola, settembre-ottobre 1498 Serenissimi, altissimi e potentissimi Principi, Re e Regina, Nostri Signori.
La Santa Trinità indusse le Vostre Maestà a quest'impresa delle Indie e, nella sua infinita bontà, scelse me come ambasciatore. Per questo venni con la mia proposta al vostro reale cospetto di Principi più esimii della Cristianità, molto impegnati nella diffusione della fede. Le persone che esaminarono il progetto lo giudicarono impossibile, dando molta importanza agli interessi materiali e fissando l'attenzione solo su questi. Trascorsi così sei o sette anni in grandi angustie facendo del mio meglio per dimostrare che si poteva rendere un grande servizio a Nostro Signore, divulgando il suo santo nome e la fede cristiana tra tante genti: cosa questa che assicura eccellenza, buona fama e un ricordo imperituro ai grandi Principi. Dovetti, inoltre, affrontare il tema degli aspetti materiali del progetto segnalando gli scritti di molti uomini dotti, degni di fede, che avevano raccontato nelle loro opere che in queste parti del mondo c'erano molte ricchezze. Mi vidi anche costretto ad appellarmi alle affermazioni e alle opinioni espresse da coloro che avevano scritto sul mondo e analizzato la sua conformazione. Finalmente le Vostre Maestà decisero che il progetto fosse realizzato. In questo dimostrarono la grandezza d'animo con cui hanno sempre affrontato le opere di grande importanza. Difatti tutti coloro che avevano esaminato il progetto o che ne avevano sentito parlare l'avevano giudicato un'idea da burla. Hanno fatto eccezione soltanto due monaci (Juan Perez e Antonio de Marchena) che fin dall'inizio, e senza mai tergiversare, l'hanno ritenuto realizzabile. Io, benché mi sentissi angustiato, ero sicurissimo che il progetto sarebbe stato portato a compimento e continuo a nutrire lo stesso tipo di certezza perché non c'è dubbio sul fatto che tutto può risultare illusorio tranne la parola di Dio. Quello che Dio ha detto non può non compiersi. Egli in effetti si è espresso in termini chiarissimi, parlando di queste terre, per bocca del profeta Isaia, in vari punti della Sacra Scrittura affermando che il Suo nome si sarebbe divulgato dappertutto irradiandosi dalla Spagna. Così io intrapresi il viaggio nel nome della Santa Trinità e feci ritorno in breve tempo avendo toccato con mano tutto quanto avevo predetto. Le vostre Maestà mi mandarono una seconda volta e in poco tempo, con l'aiuto della grazia divina, scoprii 1332 miglia di terraferma, nell'estremo oriente, e diedi un nome a 700 isole nuove oltre quelle scoperte nel primo viaggio. Sottomisi Hispaniola, che ha un'estensione più grande di quella della Spagna e che è abitata da una popolazione innumerevole da me tutta sottoposta a tributo. Sorsero, però, voci di maldicenza e di disprezzo per l'impresa iniziata. Mi si accusava di non aver subito inviate le navi cariche d'oro senza tenere in considerazione la limitatezza del tempo avuto a disposizione e gli altri contrattempi a cui ho già accennato. E così, non so se per i miei sbagli o per i trionfi ottenuti, si cominciò a vedere di mal'occhio e a osteggiare, tutto quello che io dicevo o richiedevo. Fu allora che presi la decisione di presentarmi alle Vostre Maestà sia per esternare la mia meraviglia per quanto succedeva sia per dimostrare che la ragione stava tutta dalla mia parte: dissi dei popoli che avevo visto, delle molte anime che si potevano salvare in mezzo a loro, e del fatto che avevo obbligato le genti di Hispaniola a pagare un tributo e a riconoscere le Vostre Maestà per loro Sovrani e Signori. Portai con me un numero sufficiente di campioni dell'oro che si trova in miniera e di pepite molto grandi e di rame: presentai pure una quantità di spezie così grande che non finirei di descriverle e riferii loro dell'enorme quantità di legno brasil e di molte altre cose trovate. Ma tutto questo non bastò a certe persone che erano intenzionate a porre in cattiva luce l'impresa e già avevano iniziato a farlo: fu inutile parlare del servizio che si rendeva a Nostro Signore salvando tante anime; né servì dire che la salvezza di tante anime avrebbe costituito per le Vostre Maestà il titolo di grandezza più esimio che sia mai stato acquisito da un principe; non si tenne neanche in conto il fatto che la fatica e le spese dell'impresa non erano destinate solo allo spirituale ma anche agli aspetti materiali e che quindi era prevedibile che, con il passar del tempo, la Spagna ne avrebbe tratto un grande vantaggio. Questo del resto lo si poteva già intuire leggendo le opere di quelli che avevano scritto di queste terre: le indicazioni erano già tanto chiare che non si poteva non prevederne la conclusione. Non servì a niente menzionare ciò che avevano fatto i grandi Principi nel passato per rendersi famosi: Salomone, per esempio, che mandò le sue navi da Gerusalemme fino all'estremità dell'Oriente alla ricerca del monte Sopora, dove le imbarcazioni si trattennero tre anni; Alessandro, che inviò una spedizione all'isola di Trapobana, in India; Nerone Cesare, che fece esplorare il Nilo per capire i motivi che ne provocano la crescita d'estate, quando le piogge scarseggiano; o numerose altre imprese compiute dai Principi, come è di loro competenza. Né ottenni alcun risultato sostenendo di non avere mai letto che i Principi di Pastiglia avessero conquistato terre fuori del loro regno; o dicendo che questo da me scoperto è un mondo diverso da quello che i Romani, i Greci e Alessandro tentarono di conquistare con grandi sforzi e grandi eserciti; o, riferendomi al presente, parlando dei Reali del Portogallo, che ebbero l'ardire di scoprire e di conquistare la Guinea (Africa occidentale) non badando né a spese né alla quantità di gente impiegata, che se uno contasse tutta quella che risiede nel regno si accorgerebbe che metà di essa è morta in Guinea (cfr. sopra). Tuttavia continuarono nell'impresa fino ad ottenerne quello che ora si sa.

L'avvio dell'impresa risale a tanto tempo fa ma è solo da poco che essa ha cominciato a dare profitto. Ed essi hanno osato pure fare conquiste in Africa e sostenere le campagne di Ceuta, Tangeri, Arzila e Alcazar, senza interrompere la guerra ai Mori: e tutto questo lo hanno fatto affrontando spese enormi, con il solo obiettivo di realizzare imprese degne solo di Principi: servire Dio e accrescere i propri dominii. Ma più io dicevo più si duplicavano gli sforzi per ridimensionare o porre in cattiva luce l'impresa, senza tenere in conto il fatto che essa avesse suscitato tanta ammirazione; che tutti i Cristiani avessero tessuto le Vostre lodi per aver preso questa iniziativa; e che non ci fosse stata persona importante o da poco che non avesse chiesto di saperne di più a riguardo. Le Vostre Maestà mi risposero ridendosi di tutto ciò e pregandomi di non preoccuparmi di nulla perché non intendevano riconoscere autorità né dare credito a chi diceva male di questa impresa. Partii, in nome della Santissima Trinità, mercoledì 30 maggio dalla città di Sanlúcar. Ero ancora stanco del viaggio dato che, dove speravo di trovar riposo, partendo dalle Indie, mi si era duplicata la sofferenza. Seguendo una rotta insolita mi diressi all'isola di Madera per evitare uno scontro con la flotta francese, che era appostata al capo San Vincenzo. Da Madera proseguii per le Canarie. Da lì partii con una nave e due caravelle: le altre navi le inviai, per la rotta diretta alle Indie, a Hispaniola. Io, da parte mia, puntai a sud con l'intenzione di raggiungere la linea equinoziale (Equatore) e da lì continuare verso ponente fino a quando non mi trovassi con l'isola di Hispaniola a nord. E arrivato alle isole di Capo Verde – nome falso, perché sono talmente aride che io non vi scorsi nulla di verde e la gente è tutta malata, tanto che non osai fermarmi – navigai in direzione di sud-ovest per 480 miglia, cioè per 120 leghe, fino a quando, sul far della sera, ebbi la stella polare a cinque gradi di altezza. Lì il vento mi abbandonò e mi trovai in mezzo a un caldo così torrido che temetti che la nave e la gente prendessero fuoco. La calura provocò improvvisamente una situazione insostenibile: non c'era nessuno che avesse il coraggio di scendere sotto coperta per prendersi cura delle botti e dei viveri. Questo caldo soffocante si protrasse per otto giorni: il primo giorno il cielo era sereno, gli altri sette giorni nuvoloso e piovoso, il che però non ci servì di rimedio. Certo, però, se avessimo avuto il sole del primo giorno non credo che avremmo avuto possibilità di salvarci.
Ricordai che, navigando verso le Indie, ogni volta che oltrepassavo di 400 miglia a ponente le isole Azzorre la temperatura mutava ovunque, sia a nord che a sud; e decisi che se Nostro Signore si fosse compiaciuto di concedermi vento a favore per uscire dalla zona dove mi trovavo, non mi sarei più spinto verso mezzogiorno e neanche sarei tornato indietro: sarei, invece, andato avanti, in direzione di ponente, fino a toccare quella linea con la speranza d'incontrare lo stesso tipo di temperatura di cui avevo beneficiato quando navigavo lungo il parallelo delle Canarie. Nel caso ciò si fosse verificato, allora mi sarei potuto spostare più a sud e proseguire la navigazione. Dopo quegli otto giorni piacque a Dio di darmi buon vento di levante e io mi diressi a ponente senza però osare più di deviare verso sud perché osservai un grandissimo mutamento sia nel cielo sia nelle stelle mentre, invece, la temperatura si mantenne costante. Decisi così di continuare, sempre in direzione di ponente, sulla linea della Sierra Leone con l'intenzione di non mutare rotta fino alla zona dove calcolavo di toccare terra: avrei potuto, in questo modo, rimettere in ordine le navi e, se possibile, rifornirmi di viveri e procurarmi l'acqua di cui avevo bisogno. Diciassette giorni dopo, durante i quali Nostro Signore ci concesse vento favorevole, martedì 31 luglio a mezzogiorno ci apparve la terra che io avevo contato di incontrare il lunedì precedente. Proseguii nella stessa direzione fino all'alba ma poi, per via dell'acqua di cui avevo terminato le scorte, decisi di recarmi alle isole dei Cannibali e presi quella rotta. E dato che la Sua Alta Maestà è stata sempre misericordiosa con me, un marinaio salì per caso sulla vela di gabbia e vide a ponente tre cime di montagna. Recitammo la Salve Regina e altre preghiere e rendemmo tutti molte grazie a Nostro Signore. Abbandonai la rotta nord e navigai verso terra: all'ora di compieta arrivai a un capo che denominai della Galera. L'isola la chiamai Trinità. E lì ci sarebbe stato un buon porto se fosse stato abbastanza fondo e c'erano case, genti e terre bellissime, fertili e verdi come gli orti di Valenza a marzo. Mi dispiacque quando mi accorsi di non potere entrare nel porto e proseguii rapidamente lungo la costa di questa terra in direzione di ponente. Dopo aver percorso 20 miglia trovai una zona di ancoraggio molto buona e mi fermai. L'indomani ripresi la navigazione nella stessa direzione, alla ricerca di un porto dove rimettere in sesto le navi, rifornirmi d'acqua e risistemare le scorte di grano e di viveri che portavo. In quel posto presi soltanto una botte d'acqua e con essa procedetti fino al capo, a est del quale trovai una insenatura ben riparata e dotata di buon fondo. E allora diedi ordine di gettare le ancore, che si rimettessero in ordine le imbarcazioni, si caricasse acqua e legna e che la gente scendesse a terra per riposarsi dopo tutto il tempo che aveva sofferto stando a bordo.Denominai questo capo dell'Arenile, e lì trovammo il terreno tutto segnato con orme di animali con le zampe come le capre: sembrava che ce ne dovessero essere tantissimi, ma ne vedemmo uno solo morto. L'indomani arrivò da est una grande canoa con a bordo 24 uomini, tutti giovani e ben armati di archi, frecce e scudi. Come dicevo erano giovani di buona corporatura e di carnagione non nera, ma più bianca di quella che io fino ad allora avevo avuto occasione di osservare nelle Indie. Erano di bell'aspetto e di robusta corporatura, i capelli lunghi e lisci con un taglio alla castigliana: attorno alla testa portavano un fazzoletto di cotone, disegnato e colorato, che faceva pensare alla almayzare, la cuffia di garza usata dai mori. Qualcuno portava il fazzoletto ai fianchi e si coprivano con esso al posto delle mutande. Quando la canoa si fermò ci parlarono da molto lontano, ma né io né altri riuscivamo a capirli; per questo diedi ordine che facessero loro segno di avvicinarsi. Passarono così due ore: si avvicinavano un po' e poi si allontanavano. Per spingerli ad avvicinarsi io facevo mostrare loro bacinelle e altri oggetti che luccicavano e dopo un bel po' si avvicinarono più di quanto avessero fatto fino ad allora. Io avevo una gran voglia di parlare con loro e non sapevo più che oggetto mostrare per spingerli ad accostarsi a noi. Feci allora andare un tamburino sul castello di poppa perché sonasse mentre alcuni giovani danzavano, credendo che così gli indigeni si sarebbero uniti alla festa. Ma quelli non appena udirono il tamburo e videro i giovani che danzavano, abbandonarono i remi, impugnarono e incoccarono gli archi e, abbracciato ognuno il suo scudo, incominciarono a lanciarci frecce. Quando io feci cessare la musica e la danza e diedi ordine di dar di mano alle balestre gli indigeni si spostarono velocemente verso un'altra caravella, accostandosi alla poppa. Il pilota salì sulla canoa e diede in regalo un berretto e una casacca all'uomo che gli sembrò il loro capo e si mise d'accordo con lui per andare a parlargli sulla spiaggia, dove essi si spostarono subito con la canoa aspettandolo. Ma il pilota non voleva andare all'appuntamento senza la mia autorizzazione e, quando essi lo videro avvicinarsi con la barca alla mia nave, salirono di nuovo sulla canoa e andarono via. Non vedemmo mai più né loro né altri di quell'isola.
Quando raggiunsi la punta, dell'Arenile mi accorsi che l'isola di Trinità e la terra di Grazia formavano uno stretto di otto miglia da ponente a levante e che per attraversarlo, dirigendosi a nord, si andava incontro ad alcuni filoni di corrente che nello stretto provocavano un forte strepito. Pensai che si trattasse di un banco di secche e di scogli che bloccavano l'entrata dello stretto. Ma i filoni di corrente erano molti e provocavano tutti un gran fragore: sembravano onde del mare che sbattessero contro scogli e s'infrangessero. Gettai le ancore in quella punta dell'Arenile, appena fuori dell'imboccatura dello stretto, e mi accorsi che l'acqua si muoveva, da est a ovest, con la furia del fiume Guadalquivir in piena e in maniera continua, sia di giorno che di notte. Temetti di non potere tornare indietro a causa delle correnti né di potere andare avanti a causa dei fondali bassi. Nel pieno della notte, mentre mi trovavo sul ponte della nave, udii un terribile ruggito che proveniva da sud in direzione della nave: rimasi immobile a guardare e vidi il mare che si alzava da ovest a est, formando una collina alta quanto la nave, e che avanzava lentamente verso di me. Sulla massa d'acqua in movimento c'era una corrente che veniva avanti ruggendo rumorosamente come le correnti di cui ho parlato prima paragonandole a onde che s'infrangono contro scogliere. Rimasi terrorizzato a quella vista: ebbi paura - e ho ancora vivissima nelle mie carni quella sensazione - che le acque infuriate travolgessero la nave prendendola da sotto ma per fortuna esse passarono al largo dell'imbarcazione, raggiunsero l'entrata del canale e vi rimasero a lungo.

Domani la 2° parte.

mercoledì 25 gennaio 2012

Cartografia: due parole per capire questa disciplina.


Cartografia:
di Pierluigi Montalbano


La cartografia è lo studio delle carte geografiche. Oggi siamo nel post-moderno e scambiamo tranquillamente la carta con il territorio. Tutti abbiamo delle rappresentazioni mentali dello spazio: ognuno usa il proprio linguaggio e la carta geografica è l'elaborazione intellettuale della percezione dello spazio restituita attraverso il linguaggio cartografico. Ogni approccio sul territorio passa attraverso le carte geografiche. La definizione di carta geografica è del 1787 da parte dell’intellettuale francese Luigi Lagrange: è una rappresentazione ridotta, approssimata e simbolica della superficie terrestre o di una parte di essa. Siamo arrivati nel tempo a questi risultati: c'è stata un'elaborazione mentale (almeno fin dalle età dei metalli per gli scambi) che ha portato alla rete dei meridiani e paralleli di latitudine e longitudine che riportano determinati luoghi della superficie terrestre nella carta geografica. Le due coordinate di distanza dall'equatore e dal meridiano preso come fondamentale, danno il sistema di lettura di tutte le carte. La cartografia cinese ha introdotto solo nel secolo scorso le coordinate geografiche occidentali, pur conoscendole dal 1500. Alla metà del 1700 l'imperatore incaricò alcuni gesuiti di rappresentare su una carta, alla maniera occidentale, l'impero cinese. Gli archivisti di corte affermarono che era splendida ma avrebbero mantenuto i loro sistemi che sono percettivi e non simbolici. Il linguaggio pittografico cinese è antichissimo e concreto: già i segni distinguevano l'uomo e la donna simboleggiandoli con delle stanghette. C'era un legame stretto fra scritti e raffigurazione pittorica. Solo dal 1912, con il crollo del sistema imperiale, sono stati introdotti i sistemi cartografici occidentali.
Noi occidentali abbiamo riconosciuto in quello di Tolomeo l'unico sistema scientificamente valido di trasferire il globo terrestre su un piano, anche se ci sono degli errori. Siamo talmente evoluti nelle teorie di rappresentazione dello spazio, che scambiamo la carta con il territorio senza preoccuparci dei problemi. Fin dalla nascita tutti noi possediamo carte mentali e il cartografo propone una sua percezione dello spazio che la collettività riconosce come valida: è una verità cartografica.
Tutte le differenze dello spazio rappresentato nel sistema cartografico sono modificate rispetto alle nostre percezioni e si arriva alla negazione dell'oggetto. La rappresentazione cartografica è una tecnica: la manipolazione dello spazio è possibile solo attraverso un sistema tecnico con dei simboli: ad esempio, qualunque edificio moderno rappresentato in pianta, cioè bidimensionale, perde l'altezza, lo stile e il materiale. La pianta rappresenta solo l'ingombro dell'oggetto, solo in un secondo momento, con un approccio più diretto con l’oggetto stesso, si può verificare il materiale di cui è fatto.
L'umanità ha, da sempre, prima percepito lo spazio, poi lo ha rappresentato sulla carta. Sono stati utilizzati vari metodi; ancora nel 1950 alcune popolazioni del Pacifico rappresentavano le loro isole con foglie e rametti: erano guide per le battute di pesca. Queste rappresentazioni sono state spazzate via dalla prepotenza del mondo occidentale che ha deciso di compiere esperimenti nucleari in quei luoghi.
Sorge un quesito: quando si è verificata la cesura fra percezioni e rappresentazioni simboliche?
La risposta più concreta è: nel diciannovesimo con i cartografi militari.
L'impalcatura delle carte geografiche è Tolemaica, nel 1500 interviene Mercatore, nel 1700 abbiamo le prime “legende” dove il cartografo comunica i simboli per la lettura, nel 1800 i generali dell’esercito di Napoleone utilizzano la rappresentazione cartografica per meglio conquistare i territori e governarli. Strabone, nel I d.C, afferma che la geografia è un potente strumento del potere perché conoscendo usi, costumi ed etnie è più semplice capire i popoli e indirizzare le politiche di governo.
La bandiera simboleggia un popolo, una nazione: consegnare la bandiera significa consegnare un popolo, ma…consegnare la carta geografica significa consegnare il territorio. Dagli scopi militari si è poi estesa agli altri campi. Il geografo Farinelli afferma giustamente che la scala è l’elemento fondamentale per la rappresentazione del territorio. Il rapporto di riduzione fra percezione e realtà è il mezzo per dimostrare la realtà della rappresentazione simbolica perché mantiene inalterata la distanza: 1:100.000 significa che ogni oggetto nella realtà è distante 100.000 volte rispetto alla carta che deve fornire l'idea dell'aspetto reale, di ciò che è rappresentato: lo stivale per l'Italia, l'ottagono francese, il triangolo per la Sicilia...

Un altro pilastro fondamentale per la rappresentazione geografica è l'immaginazione, aiutata dai simboli che danno scientificità. Nel passato pittore e cartografo potevano coincidere, ora abbiamo aggiunto parametri scientifici rilevanti: tutto è misurato, ad esempio le previsioni del tempo sono consentite da misurazioni di pressione, temperatura e piovosità. Le misure forniscono il dato quantitativo, danno scientificità alle carte. Nelle carte murali distinguiamo pianure, montagne e mare da vari colori, non c'è la ricerca della scientificità: si tende alla pittura dando la sfumatura di colore che avrebbe naturalmente.
Come abbiamo detto, la cartografia utilizza un linguaggio tecnico che passa attraverso funzioni ben precise, attribuite dal 1802, e si perfeziona dal diciannovesimo secolo. Abbiamo delle rappresentazioni diverse nel tempo: nella fig. 1 abbiamo l'Europa in forma virginis del boemo Bucius, accolta in alcune ristampe della "Cosmografia universale" di Sebastiano Munster, la cui prima edizione è del 1540. Nel collare della catena della signora rappresentata c'è la visione degli edifici della città di Praga. È una allegoria che riflette la situazione geopolitica del mondo del 1500. Carlo V era imperatore di un impero su cui non tramontava mai il sole; le parti più nobili del corpo umano, secondo le allegorie antropomorfiche di moda in quei tempi, sono utilizzate nella rappresentazione cartografica: nel cuore c'è Praga, la testa è la corona di Spagna, la mano destra è l’Italia che ha il globo che rappresenta il mondo spirituale del pontefice, quindi Corsica, Sardegna e Sicilia che sembrano macchie. Un Pegaso alato rappresenta l’Asia, un leone è il Belgio…
Si dava alla cartografia una valenza simbolica che andava ben oltre la realtà: la carta geografica può trasfigurare la realtà con valori simbolici che vanno oltre la materialità.
In un disegno del notaio Antioco Frau, fatto a Cagliari nel 1841, è rappresentata la Giara di Gesturi. Si nota un sistema cartografico percepito percorrendo lo spazio della giara. Essendo un territorio basaltico, circondato da strapiombi, consente ai visitatori la visione di un orizzonte circolare perfetto. L’immagine ha un aspetto arcaico e il testo è in spagnolo, riproduce un atto del 1700 scritto nella lingua che si utilizzava in quel tempo per gli atti notarili. Le annotazioni interne indicano le appartenenze amministrative della giara fatte fare dal comune di Genoni che rivendica l'uso del territorio per il pascolo di cavalli e bovini, contro il comune di Gesturi. L'unica sporgenza del cerchio è una protuberanza, denominata Su Corrazzu, che evidentemente colpisce la percezione del notaio che la disegna. La rappresentazione visiva della morfologia del territorio viene così riprodotta in un disegno realizzato per fini amministrativi.
Oggi si tende a parlare di rappresentazione geografica e non di carta geografica, inoltre, si considerano riduttive le tesi matematiche e astronomiche di Johnson e Lagrange, fatte nel 1700.
Ogni civiltà ha sempre mostrato la volontà di rappresentare, se non tutto, almeno la parte del mondo nel quale ha vissuto la propria parabola di vita. Non abbiamo rappresentazione di civiltà preistoriche, dei nuragici non abbiamo neanche fonti scritte. Nella fig. 2 c'è una veduta aerea di Stonehenge, un sito inquadrabile nell’età del Rame. Alcuni studiosi vogliono identificarlo in un grande calendario astronomico: i movimenti del sole producono il fatto che il 21 giugno il sole colpisce il centro del sito e arriva ad una pietra (menhir); i raggi poi attraversano il circolo e si dispongono sull'ultima architrave che chiude il circolo nella parte opposta, andando da est verso ovest. Alcuni vedono Stonehenge come la rappresentazione geografico-astronomica di un luogo su un supporto che non è carta ma un territorio. Forse si riferisce ad una rappresentazione spaziale: il posizionamento dei raggi nel corso dell'anno individua le sequenze dei mesi, pare quindi una struttura di orientamento delle attività economiche della società che lo ha costruito. Le rappresentazioni geografiche possono essere anche pittoriche perché rispecchiano lo spazio. Fra coloro che inseriscono Stonehenge come documento primordiale geografico c'è l’americano George Kish, autore nel 1980 di un'opera con le concezioni moderne della carta geografica: affermava la carta come immagine di civiltà, dove civiltà è cultura.
Si rappresenta il territorio non passando attraverso i cardini tolemaici della cartografia occidentale. Ogni società può rappresentare il territorio secondo un suo sistema. Kish distingue due modalità per la costruzione delle carte geografiche: la carta "strumento" che serve alla società che la produce per mantenere la memoria storica dell'immagine ed è utilizzabile per lo sfruttamento delle risorse dello spazio stesso; riguarda soprattutto il tipo topografico delle grandi scale.
Il secondo sistema è la carta "immagine" che prescinde dallo spazio vissuto e abbraccia spazi oltre il conosciuto, la cui esistenza è nota perché qualcuno li ha visti e li ha raccontati. Il cartografo le traduce in rappresentazioni geografiche. È inteso che il prodotto cartografico è sempre frutto dell'immaginazione, ad esempio, nelle carte IGM il simbolo della vite non deriva dalla realtà. Il processo di immaginazione serve a trasfigurare gli elementi rappresentati nella carta. Nelle carte “immagine” della civiltà cristiana è raffigurato spesso il paradiso terrestre; per noi è un'immagine della fantasia perché sappiamo che sulla terra non c'è, ma per definizione il paradiso terrestre dovrebbe essere proprio sulla terra. Anche Colombo risalendo le foci dell’Orinoco, pensò di averlo individuato e ne diede notizia. L'immaginazione elabora immagini immaginabili.

martedì 24 gennaio 2012

La medicina tradizionale in Sardegna: Il Malocchio


Il Malocchio e i rimedi tradizionali per curarlo.
di Fabrizio e Giovanna


Questo articolo, scritto il 18 Giugno 2011 dagli amici Fabrizio e Giovanna (redattori del Mulino del Tempo) è il più letto nel blog "Il Mulino del Tempo" e ritengo sia interessante proporlo nel quotidiano on line per richiamare l'attenzione dei lettori sulle pratiche legate a ideologie ancora in uso presso le nostre comunità, e diffuso a carattere internazionale con altre denominazioni.

Il Malocchio è una pratica malefica che affonda le sue radici nel passato più remoto; le modalità di trasmissione, come lascia intendere la parola, passa dallo sguardo, infatti si dice che gli occhi abbiano la capacità di trasmettere all’esterno le forze nascoste nel corpo.
Si parla di Malocchio anche nella mitologia dei popoli antichi, lo sguardo rabbioso delle donne dell'Illiria poteva uccidere, il gigante Balor delle leggende celtiche poteva addirittura trasformare il suo unico occhio in un'arma letale e Medusa aveva la capacità di tramutare in pietra chiunque incontrasse il suo sguardo.
Il potere degli occhi viene attribuito soprattutto agli esseri umani sospettati di stregoneria, in particolar modo alle donne.
Secondo la tradizione alcuni esercitano involontariamente con il semplice atto di posare lo sguardo su un'altra persona. I sintomi del malocchio sono, a livello fisico, mal di testa frequenti senza averne mai sofferto prima e senza una causa patologica, cattivo umore e sindrome depressiva; possono accadere degli eventi negativi spesso all'interno della famiglia, come ad esempio una immotivato abbandono da parte del partner, un guasto alla macchina o eventi di estrema gravità .
Il Rito Magico contro il Malocchio elimina tale influenza ripulendo l'Aura, riportando il soggetto nello stato psicofisico di prima, cessando immediatamente gli eventi nefasti di cui era vittima .
Esistono diversi modi per proteggersi dal malocchio, nella tradizione popolare troviamo un sistema che consiste nell'inviare un fiore per nove giorni consecutivi alla persona che ci ha fatto il maleficio. Il metodo funziona soltanto se i fiori sono inviati con un sentimento di sincera amicizia.
Il più delle volte il malocchio agisce sulla sfera sessuale: ecco perchè, secondo una vecchia usanza, toccandosi i genitali si viene protetti dal malocchio.
Nel caso in cui il malocchio sia stato trasmesso, esistono dei riti atti a debellarlo che variano a seconda della regione e della località.
Questi riti possono essere tramandati soltanto in linea femminile, infatti è solo la donna l'unica depositaria del segreto della formula e a lei soltanto spetta esercitare il rito.
Il malocchio in Sardegna assume diverse denominazioni secondo le località, come ocru malu nel nuorese, ogru malu nel logudorese e ogu malu nel campidanese. Esistono interessanti espressioni dialettali anche per designare l’avvenuto maleficio: l’occhio che aggredisce è un occhio cattivo (ogu malu) oppure un occhio che si posa (si ponidi) recando danno, oppure che prende d’occhio (pigai de ogu).
Malocchio è l’occhio dell’altro, solitamente di chi non fa parte della famiglia e non è quindi legato da vincoli di sangue, che, una volta giunto alla meta, crea una situazione di difficoltà portando via un determinato bene, che può essere la bellezza, la salute o la fortuna, che viene perciò mangiato dal colpo dell’occhio (manigara de su corpu ‘e soju).
Nei paesi sardi la donna ha la prerogativa di essere sia soggetto che oggetto del malocchio: è colei che è più esposta al rischio del malocchio ma è anche colei che getta il malocchio più potente. È sempre in linea femminile che vengono ereditati gli oggetti magici, gli amuleti, che preservano dal malocchio ed è sempre la donna che gestisce la vita e la morte attraverso la pratica della “medicina dell’occhio”.
La denominazione “medicina dell’occhio” è l’unica che si riscontri in maniera diffusa in tutte le province sarde.
Questa pratica si può apprendere sia in famiglia che da estranei. Per diventare guaritori è necessario essere riconosciuti persone adatte, infatti solo in pochissimi casi il passaggio a tale condizione è avvenuto attraverso prove di verifica o attraverso un vero e proprio rito.
Per quanto riguarda il rito terapeutico sono stati registrati ben ventiquattro modi diversi di esecuzione all’interno dei quali si riscontra la presenza, diversamente combinata, dei seguenti elementi: i “brebus”, preghiere quali il Padre Nostro, l’Ave Maria, la recitazione del Credo, spesso assieme all’uso di grano, acqua, sale, olio, orzo, riso, pietra, corno di muflone, di cervo o di bue, l'occhio di Santa Lucia, il carbone e la carta. Per conseguire la guarigione il rito va ripetuto da un minimo di tre ad un massimo di nove volte. Per la risoluzione dei casi più gravi in genere è previsto l’intervento di tre diversi operatori.
L’altro sistema fondamentale di difesa, quello preventivo, è costituito da tutta una serie di oggetti come gli amuleti e gesti apotropaici destinati ad annullare qualunque possibile influsso malefico proveniente dagli altri.
Tra gli scongiuri rivolti al possibile portatore di malocchio ricordiamo l’uso di sputare per allontanare il male, attestato in Sardegna da un manoscritto anonimo del settecento, toccare un oggetto di ferro, di corno o le parti genitali, bestemmiare al suo passaggio, tirar fuori velocemente la punta della lingua per tre volte, oppure fare le fiche al suo indirizzo a fura (di nascosto), ecc. Il fare sas ficas è usanza diffusa sia fra gli uomini che fra le donne, tale uso era certamente noto anche a Cagliari, dove i vecchi ricordano il detto “Ti dexit comenti sa fica in s’ogu” (ti giova come la fica nell’occhio).
Oltre alle tecniche gestuali nell’isola si è sviluppata tutta una serie di oggetti apotropaici, di tipologia tipicamente mediterranea, che hanno acquisito valori culturali con particolari connotazioni; le ricerche svolte a tal proposito dimostrano, infatti, che gli amuleti sardi, pur avendo molteplici valenze, sono quasi tutti riconducibili all’ideologia del malocchio.
Purtroppo molti amuleti erano così poveri e deperibili che nessuno ha mai avuto occasione o interesse a conservarli e sono giunti fino a noi solamente attraverso il ricordo dei vecchi; diverso è il discorso riguardante gli amuleti che erano anche oggetti di oreficeria o costituiti da materiali ritenuti in qualche modo preziosi. La maggior parte di essi ha radici precristiane e ha subito un’evoluzione nel tempo; se prima, ad esempio, erano caratterizzati dall’uso di un determinato materiale, in periodi successivi il materiale è cambiato, conservando solo similitudini di forma o colori. Ad es. Sa sabegia, che era inizialmente tonda prevalentemente in pietra nera o in corallo, si è evoluta con l’utilizzazione di materiale non naturale, come il vetro sfaccettato nero o addirittura la pasta di vetro policromo, di sicura importazione, il cui uso può essere stato introdotto sia per la difficoltà di reperire e lavorare il materiale originario, sia per una maggior ricercatezza che il nuovo materiale “esotico” poteva vantare.
È certo tuttavia che sostituendo il materiale, l’amuleto non perdeva né l’eventuale significato simbolico, né la sua funzione apotropaica. L’unica condizione perché l’amuleto agisca è “aver fede”, credere cioè nel suo potere; in alcune zone, infatti, l’efficacia dell’amuleto è data dal fatto che esso debba essere abbrebau, su di esso devono cioè essere stati recitati is brebos le “parole, le preghiere magico-religiose”.
Nota in Sardegna come anti-malocchio per eccellenza, è la pietra nera in gavazzo o giaietto (lignite picea), onice, ossidiana; tonda, sempre incastonata in prata (cioè in argento, perché si credeva avrebbe perso il suo potere se legata in oro).
La sabegia simboleggia il globo oculare, nella fattispecie l’occhio buono che si contrappone a quello cattivo attirandone lo sguardo; la sua funzione consiste nel salvare chi ne è munito, spaccandosi al posto del cuore della persona “guardata”.
La terminologia con cui viene identificata è varia e difficilmente localizzabile. Nota come sabegia nel Campidano di Cagliari, se ne è perduta la memoria nel capoluogo, dove deve essere stata però usata, tanto che se ne conservava il ricordo nei primi decenni del secolo scorso.
Con pochissime varianti fonetiche ritroviamo questo termine nella Barbagia dove è invece conosciuta come cocco, nella Gallura, nel Logudoro e ad Orgosolo è invece generalmente noto col nome di pinnadellu, mentre nell’oristanese, a Desulo e nella Barbagia di Belvì viene denominato pinnadeddu.
Tradizionalmente nero, l’amuleto si ritrova talvolta anche rosso, di corallo, specialmente in Gallura e in alcuni paesi barbaricini, dove prende il nome di corradeddu ‘e s’ogu leau (corallino del malocchio) e dove lo si portava appeso alla spalla e ricadente sul braccio, unito a mazzo con altri amuleti sempre di corallo e incastonati in argento. In ogni caso la sabegia mantiene sempre la caratteristica di essere simbolo dell’occhio.
Sa sabegia veniva appesa alle culle, mentre i bambini più grandicelli la portavano generalmente al polso, legata con un fiocchetto verde e veniva loro tradizionalmente regalata dalla nonna o dalla madrina di battesimo.
Le donne invece la esibivano al collo o appesa al corsetto.

Fonte: http://ilmulinodeltempo.blogspot.com/2011/06/la-medicina-tradizionale-in-sardegna.html

domenica 22 gennaio 2012

Le chiese sono orientate astronomicamente?


Le Chiese sono orientate astronomicamente?
di Pierluigi Montalbano

Prima del XII d.C. le Chiese erano edificate secondo i canoni costruttivi e soprattutto di orientamento, stabiliti già nelle Costituzioni Apostoliche redatte nei primi secoli del cristianesimo. Sin dagli albori del cristianesimo era diffusa la tradizione di orientare i templi o più in generale i luoghi di culto verso la direzione cardinale est (Versus Solem Orientem) in quanto per i cristiani la salvezza era collegata alla generica direzione cardinale orientale.Infatti Gesù aveva come simbolo il Sole (Sol justitiae, Sol invictus, Sol salutis) e la direzione est era simbolizzata dalla croce, simbolo della vittoria.Nel Medioevo le chiese erano generalmente progettate a forma di croce, generalmente latina, con l'abside orientato ad est. L'ingresso principale era quindi posizionato sul lato occidentale, in corrispondenza dei piedi della croce in modo che i fedeli entrati nell'edificio camminassero verso oriente simboleggiando l'ascesa di Cristo. La direzione orientale corrisponde a quel segmento di orizzonte locale in cui i corpi celesti sorgono analogamente, dal punto di vista simbolico, alla stella della nascita di Cristo, nota come "la stella dell'est". Le chiese dovevano assolvere agli aspetti puramente liturgici quindi le istruzioni che venivano date agli architetti in fase di progettazione si basavano su tutta una serie di indicazioni tratti dalla simbologia liturgica della religione cristiana. Era poi l'architetto ad impiegare Matematica, Geometria e Astronomia al fine di esprimere simbolicamente la funzione liturgica del culto. Il significato metaforico era notevole infatti la cupola stava sovente a rappresentare la volta del cielo, mentre l'altare simboleggiava la cima della croce di Cristo. L'architetto sfruttava le proprie cognizioni di Astronomia di posizione per ricavare mediante osservazioni, calcoli e costruzioni geometriche la direzione di orientamento più opportuna per verificare le specifiche simboliche richieste dai committenti. L'Astronomia però era solo un mezzo per esprimere le funzioni liturgiche e simboliche del monumento. Le ragioni per cui vennero adottati criteri di orientamento astronomici furono spesso dettate da esigenze mistiche più che reali. Infatti è noto che la Croce di Cristo fu eretta sul monte Calvario in modo da essere rivolta verso ovest, quindi i fedeli in adorazione devono essere rivolti ad est che per antica tradizione è la zona della luce e del bene (pars familiaris) in contrapposizione con la "pars hostilis" che identifica la direzione occidentale. Per tradizione Cristo salì in cielo ad oriente dei discepoli e pare che così facessero anche i Martiri. Sempre secondo la tradizione l'aurora è il simbolo del Sole della Giustizia che si annuncia e anche il Paradiso Terrestre veniva ritenuto, dai primi cristiani, essere genericamente ad oriente. La simbologia solare così direttamente collegata al Cristo richiedeva quindi un'attenta progettazione dei luoghi di culto e della loro disposizione rispetto alle direzioni astronomiche fondamentali. Nelle Costituzioni Apostoliche del IV e V secolo veniva raccomandato ai fedeli di pregare dirigendosi verso l'est e lo stesso celebrante durante l'"Actio Liturgica" doveva parimenti essere rivolto in quella direzione. Come conseguenza di tali prescrizioni, tecnicamente si rese necessario progettare e costruire le chiese orientate con l'abside verso oriente e la porta d'ingresso in direzione occidentale rispetto al baricentro della costruzione. La rigorosità nell'orientamento è un elemento che andò decadendo nel tempo,attraverso i secoli. Siamo in grado, mediante opportune misurazioni e opportuni calcoli di formulare alcune ipotesi possibili sui criteri che anticamente furono connessi con l'edificazione dei primitivi luoghi di culto.

Faccio l’esempio di una Chiesa che si trova nel territorio di Terni, ma questi dati si possono estendere alla maggior parte delle chiese italiane dello stesso periodo. Dai rilievi è stato possibile desumere che l'asse dell'edificio, nella direzione che parte dalla porta d'ingresso e continua verso l'abside, devia di soli 0.2 gradi rispetto alla linea equinoziale rappresentata dalla direzione est-ovest astronomica. Lungo la linea equinoziale è possibile osservare la levata, ad est ed il tramonto,a ovest, del Sole nei giorni dei due equinozi, quello di primavera e quello di autunno, all'orizzonte astronomico locale. Il criterio con cui il luogo di culto fu orientato sembrerebbe quindi essere il "Sol Aequinoctialis" fortemente raccomandato da Gerberto d'Aurillac salito al soglio pontificio, nel 999, con il nome di Papa Silvestro II e ribadito successivamente negli scritti di Guglielmo Dorando da Mende, vescovo del XIII secolo. L'orientamento equinoziale era connessa alla consuetudine di celebrare solennemente il rito di fondazione del luogo sacro all'alba del giorno di Pasqua. Questa direzione potrebbe essere a prima vista correlata con la data della Pasqua che, come è noto, si celebra la domenica più vicina al primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera. Essendo, però la data della Pasqua, mobile rispetto alla data di equinozio a causa della variazione della data di plenilunio rispetto ad esso, l'orientamento in accordo con la posizione del Sole nascente a Pasqua non poteva essere codificata in maniera fissa. Nel caso della chiesa parrocchiale di Terni dobbiamo rilevare che la sua orientazione equinoziale è molto accurata, deviando come già affermato di circa 0.2 gradi rispetto alla direzione dell'est astronomico. L'orizzonte naturale locale, rappresentato dal profilo del paesaggio retrostante la zona absidale, degradante da sud a nord, risulta essere elevato mediamente di una quindicina di gradi rispetto all'orizzonte astronomico locale, rappresentato dalla linea orizzontale ad altezza nulla. Questo fatto implica che il Sole equinoziale poteva essere osservato, dal luogo dove sorge l'edificio sacro, sorgere ad alba inoltrata da dietro il profilo delle montagne, lungo una direzione spostata oltre 10 gradi più a sud rispetto alla linea equinoziale. In poche parole se la chiesa fosse stata orientata adottando il criterio pasquale decritto, avremmo dovuto rilevare che il suo asse sarebbe stato orientato verso un punto dell'orizzonte posto rilevantemente più a sud rispetto a quanto misurato. Questa differenza è tale da rendere improbabile l'applicazione a Terni di un criterio di orientamento basato sul punto di levata del Sole pasquale. Oltre alla direzione della levata del Sole nel giorno della resurrezione di Cristo esistono anche altri significati mistici che la Chiesa antica collegò alla direzione equinoziale. Infatti tale direzione può essere correlata anche con la data della ricorrenza dell'Incarnazione (o Annunciazione) festeggiata il 25 Marzo, che fino al Concilio di Nicea (325 d.C.), presieduto dall'imperatore romano Costantino, era ritenuto erroneamente essere la data dell'equinozio di primavera, in accordo con il calendario giuliano allora accettato dalla Chiesa; dal punto di vista astronomico la data del 25 Marzo era corretta al tempo di Giulio Cesare. Nel 1172, anno in cui il Comune di Terni risulta espressamente documentato, la data giuliana dell'equinozio di primavera cadde il 13 Marzo, nel 1452, anno in cui è citata la "nuova" chiesa, il giorno 11 del mese e solo dopo la riforma si passò per decreto papale nuovamente al 21 Marzo. Sui calendari e gli almanacchi però l'equinozio era indicato al giorno 21 per cui la posizione del punto di levata del Sole all'orizzonte astronomico locale all'alba di quel giorno risultava sensibilmente spostata verso nord rispetto al vero punto relativo alla levata equinoziale. Le chiese che venivano orientate sulla base del punto di levata del Sole nel giorno dell'equinozio previsto dagli almanacchi mostrano un sensibile errore rispetto alla direzione equinoziale vera, proprio a causa dell'errore tra l'equinozio vero e la data riportata sugli almanacchi. Eseguendo gli opportuni calcoli ci accorgiamo che questo non può essere il caso della chiesa di Terni in quanto se il criterio di orientamento fosse stato quello descritto, l'asse del luogo sacro dovrebbe essere orientato consistentemente più a sud di quanto rilevato sperimentalmente. Un'altra ipotesi degna di interesse potrebbe essere quella di esaminare non l'equinozio di primavera, ma quello d'autunno, il quale, nel 1172 cadeva il 16 Settembre, mentre nel 1452, il 14 dello stesso mese. L'idea della correlazione con l'equinozio d'autunno deriva dalla dedicazione della chiesa, a S.Michele Arcangelo. Il giorno dedicato a S.Michele Arcangelo variò di molto durante i secoli passati e le date in cui la sua festa fu celebrata furono: il 7 Aprile, il 8 Maggio, il 6 Giugno, il 5 Agosto, il 9 Settembre, il 29 Settembre, il 8 novembre e il 8 Dicembre. Le date del calendario Gregoriano, in corrispondenza delle quali i due santi sono venerati,sono rispettivamente il 29 Settembre (S.Michele) e il 19 Marzo (S.Giuseppe). Nelle tradizioni popolari la celebrazione di questi due santi possiede una valenza astronomica di natura equinoziale. Infatti le date indicate sono prossime a quelle degli Equinozi rispettivamente di autunno e di primavera. La ricorrenza di S.Michele Arcangelo è consistentemente lontana dalla data effettiva dell'equinozio d'autunno, soprattutto nei tempio antichi, quindi la deviazione che potremmo aspettarci per l'asse della chiesa rispetto alla direzione equinoziale astronomica nel caso fosse stata orientata sul punto di levata del Sole nel giorno di S.Michele, è enorme superando i 20 gradi verso sud nel caso che l'orizzonte di riferimento fosse stato il profilo delle montagne poste ad est, ma ancora oltre 10 gradi se la linea di riferimento fosse stato l'orizzonte astronomico locale. La conseguenza è che la chiesa di Terni non verifica neppure il criterio che prevede che l'orientamento sia avvenuto in accordo con il Sole nascente a S.Michele Arcangelo. Rimane quindi solamente la possibilità che l'orientamento sia avvenuto in epoca antica sulla base di una metodologia geometrico-astronomica basata sull'impiego di metodi gnomonici, cioè sullo studio del moto dell'ombra proiettata da un palo verticale (Gnomone) illuminato dal Sole durante la giornata, con il fine ultimo di determinare nel modo più accurato possibile la direzione est-ovest astronomica, corrispondente al punto teorico di levata del Sole equinoziale, senza prendere in esame il punto effettivo di prima visibilità del Sole nascente all'orizzonte fisico locale.

L'orientamento rigoroso di una costruzione lungo la direzione equinoziale era durante il Medioevo, dal punto di vista operativo,un problema di non facile soluzione. Inizialmente era necessario disporre di una semplice, ma efficiente strumentazione atta ad individuare la direzione cercata, in secondo luogo era richiesta l'applicazione di un procedura di lavoro, basata su semplici ed elementari cognizioni di Astronomia di posizione, ma capace di condurre a risultati corretti e terzo erano richieste una o più persone esperte e capaci di portare a termine l'operazione in maniera sufficientemente accurata. Le metodologie più moderna disponibile durante il Medioevo e il Rinascimento sono quanto riportato sul "De Geometria" di Gerberto d'Aurillac oppure nel "De Architettura" di Vitruvio o nel "De limitibus constituendi" di Igino il Gromatico o addirittura nella "Naturalis Historia" di Plinio il Vecchio e le necessarie conoscenze astronomiche erano per lo più bagaglio culturale degli esponenti del clero. La strumentazione più semplice per determinare le orientazioni equinoziali era rappresentata da un semplice bastone piantato verticalmente nel terreno, uno gnomone, che illuminato dal Sole proiettava la sua ombra in direzione esattamente opposta a quella del Sole.Il moto dell'ombra quindi era esattamente simile a meno di un fattore di scala dipendente dalla lunghezza dell'asta, al moto apparente del Sole sulla sfera celeste, ma nella direzione opposta. Il metodo, probabilmente il più preciso disponibile a quei tempi era quello del "Cerchio Indiano" che e' descritto da Vitruvio (De Architettura, I,6,6), ma di cui si hanno notizie già dai papiri egiziani e dai documenti provenienti dall'India antica, da cui la sua particolare denominazione.Il metodo risulta applicabile qualsiasi giorno dell'anno. Fissato lo gnomone verticale si segnava alla mattina la posizione raggiunta dall'estremità dell'ombra. Successivamente si tracciava una circonferenza centrata nel piede dello gnomone e passante per il punto segnato sul terreno, poi si attendeva,durante il pomeriggio, il momento in cui l'ombra lambiva nuovamente il cerchio e si segnava sulla circonferenza il punto ottenuto. La linea passante per i due punti sulla circonferenza rappresentava la direzione equinoziale cercata. Un metodo sostanzialmente simile, ma un po' più complesso è descritto nell'ultimo capitolo della "Geometria" di Gerberto da Reims (Caput XCIV, "Alia ratio meridianum describendi"). Questo metodo richiedeva la misura di tre ombre qualsiasi dello stesso gnomone durante la giornata e il calcolo dei rapporti tra le loro lunghezze. Poiché i calcoli, anche i più banali, erano a quei tempi difficili a causa dell'abitudine di usare i numeri romani, Gerberto suggerisce l'uso di una tavola di moltiplicazioni precalcolate. Dopo qualche calcolo si perveniva alla determinazione della direzione della linea meridiana la cui perpendicolare è l'equinoziale cercata. Rimane ora un ultimo importante quesito, quello relativo all'epoca in cui presumibilmente questo rito potrebbe essere avvenuto.

La risposta è difficile da formulare, ma sicuramente il 1452 rappresenta il limite più recente per l'epoca del rito di fondazione.La caratteristica accuratamente equinoziale dell'orientamento della costruzione potrebbe suggerire l'esistenza di una costruzione precedente fondata durante un periodo appena successivo alle prescrizioni di Dorando da Mende, quindi tra il 1200 e il 1300, epoca in cui le orientazioni equinoziali risultano essere molto frequenti. E' possibile anche ipotizzare qualcosa di più antico,edificato qualche tempo dopo le indicazioni di Silvestro II relativamente all'orientamento equinoziale delle chiese, ma in questo caso il primo edificio di culto potrebbe essere stato edificato grosso modo tra il 1000 e il 1200, epoca quest'ultima in accordo con il periodo di governo comunale di Terni. Guglielmo Dorando da Mende, a proposito dell'orientamento delle chiese, scrisse:
<...Debet quoque (ecclesia) sic fundari, ut caput inspiciat versus Orientem... videlicet versum ortum solis, ad denotandum, quod ecclesia quae in terris militat, temperare se debet aequanimiter in prosperis, et in adversis; et not versus solstitialem, ut faciunt quidam>>,
Il passo è tratto dall'edizione del 1584 del "Rationale Divinorum Officiorum", pubblicata a Lione. Uno dei proverbi più comuni recita: “San Michele porta il candeliere (dal cielo) e S. Giuseppe lo riporta indietro”. Il riferimento al Sole equinoziale e alla sua luce è evidente. Infatti il significato di San Michele che porta il candeliere è che nel periodo della sua celebrazione (Equinozio di Autunno) il Sole si avvia a tramontare sempre più presto in quanto la sua altezza apparente sull'orizzonte, quando transita al meridiano, diminuisce sempre più fino ad arrivare al suo valore minimo in corrispondenza del solstizio di inverno presso il quale si celebra la festa solstiziale cristiana per eccellenza: il Natale.Durante il periodo successivo alla festa di S. Michele Arcangelo quindi era necessario accendere il lume sempre più presto la sera a causa della progressiva riduzione delle ore di luce diurna. Il significato di San Giuseppe che riporta il candeliere indietro è esattamente quello opposto dal punto di vista astronomico. In prossimità dell'equinozio di primavera il Sole sale, ad ogni giorno che passa, sempre più in alto nel cielo quando a mezzodì transita al meridiano locale e di conseguenza l'ora del tramonto ritarda sempre più fino a raggiungere il suo massimo nel giorno del solstizio d'estate. La ripartizione stagionale basata sugli equinozi e sui solstizi è testimoniata anche da un altro proverbio relativo a S. Michele Arcangelo che recita: “Se San Michele Arcangelo si bagna le ali (ossia se piove il 29 Settembre, festa di S. Michele Arcangelo) allora pioverà fino a Natale”. In questo caso la piovosità della stagione viene predetta dalla festa equinoziale autunnale (S. Michele) fino a quella solstiziale invernale (Natale) che scandiscono nella tradizione popolare la ripartizione stagionale, a fini agricolo,dell'anno solare tropico. Infatti la ripartizione stagionale astronomica che prevede che le stagioni vadano da un solstizio al successivo equinozio e viceversa, alla latitudine della valle ternana non descrive bene l'andamento stagionale climatico locale, quindi la tradizione popolare preferiva associare alle ricorrenze dei santi durante il corso dell'anno la pianificazione delle pratiche agricole tenendo anche presente l'andamento della fasi della Luna.
Immagine della Chiesa bizantina di Mesumundu, Siligo, è di Wikipedia
Immagine della Chiesa di Santa Maria di Sibiola, Serdiana, è di sardegnacultura.it
L'immagine della chiesa di San Lorenzo di Rebeccusono, Bonorva, è di sardegnacultura.it
L'immagine della chiesa di Sant'Antioco di Bisarcio è di http://www.flickr.com/people/antonio_romano_liscia/