Diretto da Pierluigi Montalbano

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martedì 31 maggio 2011

Bronzetti nuragici.



Eccoli i nostri avi
di Pierluigi Montalbano


All'inizio dell'Età del Ferro, a partire dal IX a.C., i sardi sviluppano un gusto artistico che lega la metallurgia più raffinata (il metodo della fusione a cera persa) alla volontà di autorappresentarsi. Coevi alle statue giganti scavate a Monte Prama, i bronzetti nuragici sono il fiore all'occhiello delle botteghe artigianali sarde. Il grande archeologo sardo Giovanni Lilliu li descrive minuziosamente nel suo testo del 1966 "Sculture della Sardegna Nuragica", ma oggi possiamo ammirarli alla luce delle conoscenze acquisite nei successivi 45 anni. Nei prossimi giorni inserirò una serie di articoli (e immagini) che consentiranno un approfondimento su stile, forma e simbologia, e per iniziare questo viaggio nella bronzistica sarda della prima metà del I Millennio a.C. proviamo a leggere le espressioni di quegli incantevoli volti.
Ci osservano, si mostrano fieri, decisi, ma hanno tutti lo stesso sguardo interrogativo che pare suggerire una domanda: “Gli studiosi del XXI secolo d.C. capiranno chi siamo?”
Sembrano perplessi davanti alla nostra ignoranza. Erano convinti di aver lasciato una traccia indelebile nel tempo, un forte segnale che, attraversando i millenni, sarebbe arrivato forte e chiaro a illuminare la nostra ricerca. Ma
abbiamo perduto la memoria storica, non riusciamo più a distinguerli… eppure sono lì, a dimostrare con tutte le loro forze che parteciparono attivamente ad una società complessa e meravigliosa, in grado di produrre le più maestose architetture occidentali dell’epoca, e in grado al contempo di spingersi lungo il Mediterraneo per rapportarsi alle altre grandi civiltà del passato.
Osserviamoli con attenzione.
Illustri studiosi li dividono in due gruppi: popolani e guerrieri o, con più scrupolo, Uta e Abini-Teti. Qualcuno, forse più informato, aggiunge Ogliastra, a dimostrazione che tanti visi non possono essere racchiusi in due sole categorie. Ma io vorrei invitarvi ad osservarli ancora più nel dettaglio, desidero far rivivere per un istante quei volti, voglio capire insieme a voi perché hanno tutti caratteristiche così singolari, tanto da aprire la mente ad ipotesi suggestive che vedono una classificazione ad personam.
Nell’immagine ho sezionato solo le espressioni, così da agevolare le comparazioni. Solo uno fra questi personaggi nuragici appare in tutta la sua eleganza: passo incedente egizio e segno sardo di saluto, a simboleggiare un legame che i millenni non hanno cancellato. Ricordo due grandi statue identiche trovate (mi pare da Bernardini) negli anni Novanta nella necropoli di Sant’Antioco.
Una è stata restaurata malamente e sicuramente sarebbe stato il caso di lasciarla come era. L’altra è stata nascosta (tumulata nuovamente nella stessa tomba) perché le tracce di colore avrebbero forse svelato qualche segreto che non si vuole accettare. Ma passiamo oltre perché è troppo facile entrare in polemica quando le cose funzionano male.
Guardate i copricapo, gli occhi, la morfologia dei visi… sono quelli di tanti individui che appartenevano a popoli diversi, tutti rispettosi verso i sardi, tutti devoti nell’atto di offrire o impavidi guerrieri rappresentati nell’istante della sfilata dopo il trionfo.
Ecco cosa era la Sardegna: un luogo dove una moltitudine di popoli arrivava in segno di devozione, una terra nella quale le comunità si mescolavano fino a perdere l’identità originaria per diventare sardi. Vorrei che qualcuno dei lettori si cimentasse nel riconoscere alcuni volti. Io vedo magrebini, egizi, africani dell’interno, orientali, sudamericani… e voi?

Il collage di immagini è tratto da Lilliu, 1966, sculture della Sardegna nuragica

Archeoastronomia


Nei giorni 17 e 18 giugno 2011, si svolgerà una gita archeoastronomica organizzata da Paolo Littarru e Mauro Peppino Zedda.

Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta,
- il complesso nuragico della valle di Brabaciera ad Isili

L’incontro, per chi volesse partire da Cagliari, è previsto alle 14 del 17 giugno dall’ex Motel dell’AGIP a Cagliari, con facoltà, per chiunque, di raggiungere il gruppo nelle altre tappe.

Nel pomeriggio del 17 Giugno (h 15.30) si visiterà il pozzo di Santa Cristina. I relatori illustreranno il significato astronomico di questo straordinario monumento, recentemente definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità e il probabile punto d’inizio della scienza nel senso moderno del termine”.

Attorno alle ore 17 la visita si sposterà al nuraghe Zuras di Abbasanta, dove sarà illustrato il significato astronomico lunare di questo nuraghe, recentemente individuato.

Chi volesse potrà inoltre verificare al sorgere della luna piena il 14 giugno tale straordinario fenomeno, prendendo accordi direttamente con gli organizzatori; si precisa che si tratta di un’ulteriore escursione che si esaurirà nella serata del 14 giugno.

La sera del 17, ci recheremo al tramonto al Losa di Abbasanta, un nuraghe non solamente astronomicamente orientato, ma rientrante addirittura nel ristrettissimo novero delle architetture astronomicamente concepite, i cui lati sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento, si potrà osservare (nuvole permettendo) il tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’inverno – tramonto solstizio d’estate.

Cena e pernottamento a Isili.

La mattina del 18 giugno appuntamento presso il nuraghe Nueddas a Isili alle 6.20 del mattino, si inizierà con lo spettacolare sorgere del Sole sul nuraghe Longu, constatando empiricamente e personalmente il significato astronomico dello straordinario complesso nuragico della valle di Brabaciera.
Si tratta di uno stupendo esempio di archeo-astro topografia.

Nella mattinata è prevista la visita del magnifico nuraghe Is Paras di Isili, altro meraviglioso punto –chiave del sistema di Brabaciera.

La partecipazione alla gita è libera, gratuita, da effettuarsi con mezzo proprio e aperta a tutti; ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.

E’ gradita conferma telefonica (Paolo cell. 3395745528) ed è consentita la partecipazione anche a singole frazioni dell’escursione (es. solo il tramonto al nuraghe Losa, o solo la cena).

lunedì 30 maggio 2011

Acqua, culto e divinità.


Il Culto delle Acque e la Dea acquatica nell’Italia Meridionale
di Andrea Romanazzi

Il folklore italiano presenta spesso, nelle sue molteplici tradizioni e leggende, antichi retaggi culturali e rituali pagani assorbiti dalle usanze popolari, che però si ripresentano con forza nel tessuto popolare che ci circonda e che fanno capo alla dea dal volto bruno, la Mater che dona la vita e la morte.
Molteplici sono gli aspetti legati alla figura ctonia della dea della fecondità e tra questi di particolare rilievo appaiono quelli legati agli antri e al culto delle acque. Già dal VII a.C. in moltissime grotte europee sono presenti i segni del culto delle pozze carsiche e delle sacre stalattiti o stalagmiti spesso ornate dai simboli della dea. Se l’antro rappresenta il metaforico ventre della divinità, la stalattite diventa l’elemento priapico, l’immagine “acheropita” del dio generato dalla stessa mater. L’acqua accumulandosi in piccole cavità lascia il suo contenuto di carbonato di calcio e genera quelle concrezioni calcaree che sembrerebbero materializzarsi nel ventre della sua sposa.
Elemento importantissimo del culto diventa così l’acqua e le sorgenti, il mistico liquido che microcosmicamente ricorda la misteriosa umidità del “sesso” femminile e i liquidi naturali secreti dalla donna, che avvolgono l’infante nel momento della sua nascita.
Sarà questa acqua carbonatica che, a causa del suo colore lattescente, assume nell’immaginario popolare le sembianze del latte della Mater e dà vita alla tradizione tutta italiana delle “pocce lattaie” o “latte di grotta”.
Ancora oggi, secondo le tradizioni contadine, l’acqua delle sorgenti o quella raccolta in piccole pozze carsiche ha notevoli poteri curativi il cui ricordo rimane ben saldo nelle culture contadine successive ove alla sacra “coppella” è sostituito il pozzo, simbolo religioso ma anche materiale dato che l’acqua in esso accumulata può garantire la sopravvivenza di una famiglia o del raccolto. Il culto del pozzo come luogo sacro è già testimoniato da ritrovamenti di ceramiche votive dell’Eneolitico e proseguirà successivamente,, infatti sarà da questi atavici ricordi che nasce nel Medioevo la valenza magica di questi luoghi tramandata ancora oggi nelle leggende popolari che narrano di “pozzi dei desideri” ove basterebbe lanciare una moneta per realizzare quello a cui si aspira fortemente.
Successivamente con l’avvento della religione cristiana questi antichi luoghi di culto vengono demonizzati, e quindi il pozzo diventa la via per accedere agli inferi o spesso legati a santi, alla Vergine,a Santa Verena o a Santa Brigida.
Un interessante esempio potrebbe essere la il St. Brigid’s Well a Liscannor, la leggenda narra che la Santa giunse in questo luogo e raccogliendo a se tutti i pagani li battezzò con l’acqua della fonte ivi presente e ancora oggi il 1 Febbraio, data non casuale ma coincidente proprio con l’antica festa del fuoco di Imbolc. Si narra che l’acqua del pozzo abbia notevoli poteri taumaturgici e così si usa bagnare un pezzo di stoffa nella fonte e passarlo poi sul volto per guarire malattie agli occhi e successivamente appeso su di un albero, rituale che ricorda i culti arborei da sempre legati alla dea.
Altro luogo dedicato alla Madonna e alle miracolose acque è Chatres in Francia, sito sacro alle popolazioni celtiche e galliche che veneravano la dea madre all’interno di una grotta nelle vicinanze e utilizzavano le sacre acque ivi presenti per i loro rituali di fertilità.
Tradizioni legate al culto delle acque e della dea le troviamo diffuse in particolare nel sud Italia ove la tradizione della dea si è conservata per millenni nelle figure delle “masciare” le streghe-guaritrici che ancora fino ai primi del ‘900 operavano nelle campagne.
In Basilicata ancora oggi possiamo ritrovare nella toponomastica dei luoghi le tracce di un antico culto mai del tutto dimenticato, pensiamo a Melfi o al termine “Mofeta”, che riecheggiano il nome dell’antica divinità autoctona Meftis, dea della fertilità e prosperità e alla quale si raccomandavano le giovani spose partorienti, per arrivare al fiume Bradano, il cui nome nasconde nel “dan” il ricordo degli antichi popoli legati alla dea Dana, divinità che abbiamo incontrato anche nelle culture nordiche e che lega indissolubilmente popoli anche lontani tra loro come i Danai, i Dauni, gli Sherden, i Tuatha de Danan, i popoli autoctoni di quella zona dell’Europa dell’Est oggi vicina al Danubio e molti altri ancora.
Molto interessante è poi Matera, la “Mater Dea” che nasconde nel suo grembo di cunicoli, antri e anfratti i ricordi della dea e dove ancora oggi o ancora si venera il culto della Vergine Bruna, la venere “nigra sum sed formosa” che, sotto le sembianze della Madonna, nasconde atavici ricordi di un culto mai scomparso.
Un interessante centro è “Labrum” o meglio nota oggi come Lavello, “l’Abbeveratoio”, ove è stata portata alla luce una enorme acropoli nei pressi del cimitero cittadino e un tempio dedicato proprio a Mefite.
Moltissimi poi sono i ritrovamenti legati a questa antica divinità, in località Murgia Timone ad esempio, nei pressi di Matera sono presenti monumenti enigmatici non molto facili da spiegare se non nell’ottica del culto delle acque. Questi sono costituiti spesso da un doppio cerchio di pietre con al centro un foro che conduce nell’ipogeo, il ventre della dea segnato dal circolo femmineo esterno che indica la sacralità del luogo. Spesso questa entrata era ricoperta da cumuli di pietre e alcuni sono ancora visibili con una funzione che spesso è considerata oscura e che troppo facilmente si è definita sepolcrale. In realtà questi cumuli lapidei, spesso definiti “specchie”, avevano un ruolo importantissimo nel culto della dea delle acque, infatti per un semplice fenomeno di condensa la brina che si accumulava durante la notte tra le pietre condensava di giorno cadendo così nella camera sottostante, per il primitivo erano proprio questi massi a creare il liquido vitale, la dea che con il suo fresco umore garantisce la vita e la fertilità e dunque luoghi ove sicuramente si raccoglieva l’acqua per abluzione rituali e per garantire prosperità alle donne. Moltissime poi sono le cisterne e le coppelle sacre presenti nelle rocce e che servivano per la raccolta delle acque.

Nei pressi Vaglio e Macchia Rossano, scavi archeologici hanno portato alla luce templi costituiti da grossi massi sui quali erano intagliati dei canali che portavano in loco l’acqua delle sacre fonti presenti nella zona. Anche in questo caso le numerose iscrizioni ritrovate hanno permesso di attribuire il luogo al culto della dea Mefite, e successivamente a quello di Venere e della ninfa Oina, il cui ricordo ancora oggi si cela tra i ricordi di una festa patronale dedicata alla Madonna e ad una sorgente che si trova nelle vicinanze. Sicuramente questo luogo era dedito, oltre che al culto acquatico, alla pratica della prostituzione sacra tipica dei rituali della dea come testimoniato da alcune dediche a Venus Ercynia il cui rituale era legato alle sacre meretrici.
La stessa idea la ritroveremo poi in due dei centri più antichi dell’area di culto in Lucania, datati VI a.C., Garaguso e Armento ove la presenza di antiche canalizzazioni riportano prepotentemente ai rituali acquatici e delle fonti.
Per quanto riguarda il primo, presso alcune sorgenti del paese sono stati trovati diversi depositi votivi, uno in contrada Fontanelle, il cui nome appunto ci rammenta il legame con i culti acquatici, e un secondo, scoperto nel 1922, in località Filera.
Molto interessanti sono stati i rinvenimenti, statuette di divinità femminili in piedi o sedute, portatrici di frutta e fiori, la statuetta della dea accompagnata da un porcellino o meglio un cinghiale, animale totemico dei culti arborei e una focaccia su di un piccolo vassoio, offerte votive per chiedere fertilità alla dea. Altro interessante sito piuttosto simile a quello di studio è quello che si trova nel bosco di cupolicchio ad Albano di Lucania, qui sarebbero presenti massi erratici e rudimentali vasche ricche di pittogrammi e graffiti.

La tradizione dei santuari dell’acqua è presente anche in Calabria, testimoniata da antiche tradizioni ancora oggi celate nel folklore locale, e così che per conoscere e entrare nel mistico “circolo femmineo” dovremo seguire le orme della dea che ancora oggi riecheggia nella regione tra cupe rocce megalitiche e volti di brune vergini.
Una interessante scoperta che collega prepotentemente queste aree al culto delle acque e della mater è quella recentemente effettuata nelle campagne di Nardodipace in località Sambuco e successivamente nelle aree limitrofe dei territori comunali si Serra S.Bruno e Stilo. Qui sono state individuate strutture megalitiche datate V-III millennio a.C. sicuramente collegate al culto delle acque. In quelli che sono stati definiti dagli studiosi i siti “A” e “B” sono presenti strane strutture megalitiche e diverse coppelle rituali, anche di enormi dimensioni tanto da poterle assimilare a vasche che ci riportano ai culti precedentemente descritti.
Non si conosce ancora la reale funzione di questi templi megalitici ma sicuramente essi sono legati al culto della fertilità e alla “mater aqua” che fa se stessa immanente nella grotta, alla guardia di quel mistico liquido che assicura la vita.
Del resto il culto della dea Madre non è estraneo a queste terre come testimoniato dai templi dedicati a Persefone e Demetra presenti a Vibo Valentia e dove son state ritrovate moltissime sono le statuette votive raffiguranti la dea e il toro, i suo animale totemico.
Ma forse ancora più importanti sono le testimonianze lasciate nelle famose lamine d’oro ritrovate a Vibo che ci descrivono il culto di Demetra e delle sacre acque riecheggiando atavici ricordi mai del tutto scomparsi.
“…troverai a sinistra delle case di Ade una fonte ed accanto ad essa un bianco cipresso:
a questa fonte non avvicinarti neppure.
Ma ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre dal lago Mnenosyne:
vi stanno innanzi custodi.
Dì “son figlia della terra e del cielo stellato, Urania è la mia stirpe e ciò sapete anche voi.
Di sete son arsa e vengo meno:
ma datemi presto la fredda acqua
che scorre dal lago Mnenosyne”.
Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina
E dopo d’allora con i sacri dei eroi sarai sovrana

domenica 29 maggio 2011

Gerusalemme, scoperta la più antica iscrizione.



Confermato: la Città Santa è l'antica Urusalim cananea

Secondo quanto riportato dall’Osservatore Romano Gerusalemme sorgerebbe sulle vestigia dell’antica Urusalim cananea, la cui localizzazione sul lembo meridionale del colle a est della Città Vecchia è confermata.
Il quotidiano romano ha dedicato ampio spazio a un servizio dedicato alla scoperta di un frammento di argilla con chiare tracce di bruciato, venuto alla luce durante il setacciamento del terreno di riporto vicino a una torre, che faceva parte delle fortificazioni della città del X-XI a.C., e considerato un tassello fondamentale per ricostruire la storia dell’antica città cananea, che dopo la conquista di Davide diventò la capitale degli Israeliti, in quanto rappresenta la più antica iscrizione scoperta a Gerusalemme.

Il ritrovamento è opera della spedizione archeologica affidata ad Eliat Mazar che da alcuni anni indaga la zona settentrionale della collina sud-orientale di Gerusalemme, il biblico Ophel. Il ductus dei cunei, interpretati dagli assiriologi Takayoshi Oshima e Wayne Horowitz, le dimensioni del reperto, l’analisi mineralogica dell’argilla effettuata da Yuval Goren hanno evidenziato che si tratta di una tavoletta cuneiforme risalente al XIV secolo a.C., realizzata con l’argilla locale delle colline centrali palestinesi, simile agli esemplari di el-Amarna, località egiziana dove venne scoperto alla fine del XIX secolo l’archivio della corrispondenza internazionale redatto su tavolette cuneiformi in lingua accadica dal faraone eretico Amenofi IV che si ribattezzò Akhenaton. Questo archivio contiene sette lettere inviate da Abdi-Khepa, re di Urusalim, importante città-stato palestinese, identificata con Gerusalemme.

Sino a pochi mesi fa, le informazioni contenute nell’Archivio di el-Amarna, benché precise, non avevano avuto alcun riscontro nell’archeologia gerosolimitana. Oltre un secolo di ricerche condotte in ogni luogo della Città Vecchia e, particolarmente, della Città di Davide avevano restituito soltanto pochi frammenti ceramici risalenti all’età del Bronzo Tardo e questo aveva spinto alcuni studiosi a dubitare dell’identificazione di Urusalim delle lettere dell’Archivio di el-Amarna con la Gerusalemme cananea.

Fonte: archeorivista

sabato 28 maggio 2011

Gli Ittiti, sconosciuti fino alla metà dell'Ottocento.


Gli Ittiti

Il 2 luglio 1834 l'architetto Textier fu inviato in Anatolia per conto del Ministero della Cultura francese e scoprì, nei pressi del villaggio di Bogazkòy, a 150 km da Ankara, le rovine di un'antica città. Soggiornò nei pressi una decina di anni, compose numerosi disegni e rimase colpito da una serie di rilievi scolpiti nella roccia di un vicino massiccio, lo Yazilikaya (la roccia iscritta) che raffigurano divinità ed uomini armati, donne con vesti fluenti, animali selvaggi ed esseri mostruosi.
I resoconti di Textier vennero pubblicati nel 1835 e fanno il giro del mondo, attirando curiosità ed attirando un gran numero di visitatori. Alle clamorose scoperte di Textier ne seguono altre, altrettanto importanti, sempre nei pressi di Bogazkòy. I rilievi ricordavano le antiche figurazioni mesopotamiche. Che civiltà produsse simili opere d'arte?
La risposta venne dalla decifrazione delle scritture cuneiformi del Vicino Oriente. Nei pressi di Bogazkòy e di Yazilikaya, infatti, erano emersi segni geroglifici incisi che conducevano ad un'antica lingua, affine all'ittita, parlata nella parte meridionale ed occidentale dell'Anatolia a partire dal II millennio a.C. Nel 1874-1875 l'assiriologo Smith rinvenne una serie di rilievi e di simili iscrizioni geroglifiche a Gerablus, sulle rive dell'alto Eufrate, non lontano dall'odierna Turchia e Siria. Il sito venne identificato con l'antica Karkemish, il cui nome appare nelle fonti assire, egizie e bibliche. Alcuni attribuirono i geroglifici agli ittiti e si stabilì che questa potente e sconosciuta popolazione risiedeva nell'area siriana e nell'Anatolia sud-orientale.
Nel 1902 uno studioso norvegese annunciò di aver scoperto una nuova lingua indoeuropea esaminando due tavolette in terracotta con segni cuneiformi, rinvenute quindici anni prima in Egitto, a Tell el-Amarna, capitale di Akhenaton. Queste tavolette facevano parte di una corrispondenza diplomatica dello stesso faraone e di suo padre Amenhotep III. Una delle due tavolette, redatta in una lingua incomprensibile, era indirizzata al re di un paese chiamato Arzawa. Questa lingua era simile alla lingua delle tavolette rinvenute a Bogazkòy.
Nel 1906 l'assiriologo Winckler e l'archeologo turco Makridi iniziarono lo scavo archeologico a Bogazkòy. Vennero immediatamente alla luce numerose tavolette scritte sia nella sconosciuta lingua di Arzawa, sia in accadico. Alcune di esse riportavano la corrispondenza e le bozze degli accordi politici intercorsi tra il re della città ed altri sovrani, tra cui il faraone. A questo punto fu chiaro che Bogazkòy non era stata una città qualunque, ma una grande capitale antica, Hattusa, capitale della terra di Hatti, sede di re che furono tra i più potenti sovrani durante i secoli che vanno dal XIV al XIII a.C. Una delle tavolette rinvenute durante la campagna di scavo del 1906, in particolare, offre la misura del potere raggiunto dalla gente di Hatti. Si tratta di un frammento fittamente iscritto che contiene un documento straordinario: il più antico trattato di pace finora noto, siglato nell'anno 1259 o 1258 a.C. dal re Hattusili III e dal faraone egiziano Ramses II a seguito della battaglia di Kadesh, sull'Oronte. Una copia di questo trattato di pace è ora esposta nell'atrio dell'edificio delle Nazioni Unite a New York. In essa si stabilisce un patto di non aggressione reciproca, l'impegno ad una comune difesa contro terzi, un accordo sull'immunità dei rifugiati. I documenti originali del contratto, iscritto su lastre d'argento e convalidate dal sigillo reale, sono andati perduti ma si sa che queste lastre erano conservate nei santuari delle rispettive capitali.
Gli scavi ad Hattusa, iniziati nel 1906, sono ancora oggi in corso ad opera dell'Istituto Archeologico Germanico. La capitale era circondata da una poderosa cinta muraria di oltre 6 km di lunghezza. Una prima cinta, più breve, racchiudeva una superficie di 75 ettari. Tra il XIV ed il XIII secolo a.C. vennero edificate le nuove mura cittadine su una serie di ripidi massi rocciosi che ampliarono la superficie cittadina a 181 ettari. A sud si ergeva la città alta, al centro, su uno sperone di roccia, la fortezza grande, dove sono emersi anche i resti di un vasto palazzo reale con ambienti residenziali, i magazzini, la sala delle udienze. A nord, nella vallata, si trovava la città bassa con l'area sacra dominata dal tempio monumentale dedicato alle due principali divinità del paese: il dio del Cielo e la dea del Sole. Le mura erano interrotte da tre grandi varchi: la Porta dei Leoni, la Porta delle Sfingi e la Porta dei Re.
Gli archivi del palazzo di Hattusa hanno restituito circa 30.000 tavolette dalle quali si è potuto comporre un quadro preciso sull'organizzazione sociale, politica e religiosa della civiltà ittita.
Il regno degli ittiti sorse nel XVII a.C. in Anatolia centrale.
Nel periodo di massima espansione (XIV-XIII a.C.) comprese gran parte dell'attuale Turchia e della Siria. Politicamente il regno di Hatti era uno stato feudale, composto da "terre interne" e da una serie di stati vassalli o "terre esterne". A capo di questo stato era un re che, al contempo, amministrava la terra, svolgeva funzioni da sommo sacerdote, giudice e capo dell'esercito. La carica regale era trasmessa di padre in figlio. Le decisioni politiche più importanti venivano discusse e deliberate nel bangu, assemblea della nobiltà ittita.
Ogni cittadino versava un contributo in giornate lavorative od in natura per mantenere la corte ed il tempio. Gli ittiti avevano anche degli schiavi, di solito prigionieri di guerra, ai quali spettava una certa protezione legale. L'esercito era composto da fanteria e carri da combattimento su cui viaggiava un auriga, un arciere ed un portatore di scudo.
Il tramonto degli ittiti avvenne attorno al 1200 a.C. a causa di liti dinastiche, una decadenza interna, una serie di terremoti e l’invasione dei popoli del mare. Un incendio devastante rade al suolo l'imponente palazzo di Hattusa. Nello scavo gli archeologi non hanno ritrovato alcuna traccia o resto di arma, di arredo o recipiente che possa testimoniare della vita che si svolgeva, un tempo, all'interno del palazzo.

Nell'immagine la città di hattusa, capitale del regno ittita
Fonte http://blog.libero.it/Chimayra/trackback.php?msg=8252559

venerdì 27 maggio 2011

Scuola di restauro italiana operativa in Egitto.


Collaborazione tra Egitto e Italia per la mostra “Restauri e Restauratori”
di Martina Calogero


Molti furono i viaggiatori, esuli ed emigranti italiani che si recarono o si stabilirono in Egitto e che si misero alla ricerca delle testimonianze del passato di questo paese in maniera appassionata scoprendo e valorizzando grandi capolavori. Grazie a questo straordinario interesse nel tempo maturò un approccio rivolto al significato e al valore storico delle vestigia del passato, svincolato dalla loro bellezza o condizione di ritrovamento.
Infatti, anche i reperti riesumati in stato non buono o frammentario non furono scartati o impiegati come materiali di cosiddetti restauri che risultavano veri e propri pastiches; invece, per ciò che concerne i monumenti, passato il periodo romantico durante il quale i ruderi venivano lasciati come tali, oppure spostati ad adornare piazze e giardini, si procedette a interventi di restauro e anastilosi per evitarne il degrado e il saccheggio.
Il forte interesse verso lo studio e il restauro dei monumenti antichi è presente in Italia fin dal Rinascimento, periodo in cui iniziò a svilupparsi anche una tradizione di restauro sulla scia della quale maturò anche una sensibilità di interesse e rispetto per i documenti antichi, che oggi caratterizza l’approccio di recupero, tutela e conservazione di monumenti e reperti antichi.
Non a caso il primo grande restauratore di monumenti in Egitto fu un Italiano d’Egitto: Alessandro Barsanti. Questo paese deve al Barsanti il salvataggio di numerosissimi dei suoi monumenti più importanti e grandiosi. Ed è proprio seguendo il suo spirito di collaborazione tra le nostre culture che l’Italia tutt’oggi offre le sue conoscenze più avanzate nel restauro per intrecciarle all’esperienza di restauro egiziana, creando una scuola nella quale pratica e teoria operano in sinergia, compiendo il recupero di un’ampia area monumentale e, contemporaneamente, con il lavoro sul cantiere, formando un nutrito gruppo di restauratori.
Il “cantiere-scuola”, avviato già da diversi anni, ha oggi recuperato una buona parte degli edifici storici della zona dove il Centro Italo-Egiziano di Restauro ed Archeologia è sito e opera, e, nello stesso tempo, ha formato centinaia di allievi.
La mostra Restauri e Restauratori presenta i lavori di restauro e formazione svolti tra il 2002 e il 2007 dal Centro Italo-Egiziano per il Restauro e l’Archeologia diretto dal professor Giuseppe Fanfoni ed è stata esposta dal 5 al 10 dicembre 2009 durante il “Cairo Congress 2009” – Cultural Heritage Cairo 2009 4th international Congress “Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage of the Mediterranean Basin” tenutosi a Il Cairo. Inoltre, la mostra è in esposizione fino al 31 dicembre 2009 in Italia, presso l’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Matera, promossa da Armando Sichenze, Preside della Facoltà, con la collaborazione dei docenti, Professor Antonio Conte, Professoressa Angela Colonna, Architetto Azzurra Pelle e Architetto Giuseppe Colonna.

Nell'immagine: centrorestaurovenaria.it

giovedì 26 maggio 2011

Foreste aperte 2011 - Iglesias - Sardegna


Visite guidate nei siti naturali
di Pierluigi Montalbano


Ritorna anche nel 2011 l'appuntamento in tutta la Sardegna di "Foreste Aperte", la manifestazione organizzata dall'Ente Foreste della Sardegna.
Le foreste demaniali della Sardegna sono un bene di straordinaria importanza naturalistica, ambientale, storica ed economica: per questo l'Ente Foreste propone per nove fine settimana, durante tutta la primavera, delle visite organizzate in alcuni siti naturali tra i più belli dell'Isola.
Quest'anno la nostra associazione "Riprendiamoci la Sardegna" e la nostra organizzazione "Viaggio nella Storia" parteciperanno alla rassegna. Invito tutti i nostri lettori agli appuntamenti in programma.
Ecco il calendario:
· 29 maggio 2011: Foresta Marganai - Iglesias
· 5 giugno 2011: Foresta dei Sette Fratelli - Sinnai
· 12 giugno 2011: Foresta Montarbu - Seui
· 19 giugno 2011: Foresta del Limbara - Tempio
Per ulteriori informazioni visitate http://www.sardegnaforeste.it/

PROGRAMMA DEL 29 MAGGIO 2011
Il programma della giornata, a partire dalle ore 9,30
Ore 09:30, 12:30 e 14:30 - Percorso (difficoltà media) escursionistico culturale-naturalistico guidato all’osservazione della natura e del paesaggio - (Durata 90/120 min)
Ore 09:30, 10:30, 11.30, 12:30, 13:30, 14:30, 15:30,
16:30, 17:00 - Percorso (facile) escursionistico culturale-naturalistico guidato all’osservazione della natura e del paesaggio da Case Marganai alla colonia Benek - (Durata 60/90 min)
Ore 10:30, 11:30 - Percorso (difficoltà media) escursionistico culturale-naturalistico guidato dall’Ente Foreste della Sardegna all’osservazione della natura e del paesaggio (Durata 240 min)
Ore 10.30, 15.00 - Percorso (facile) guidato all’osservazione della flora e della fauna, Biowatching (Durata 60 min)
Ore 09:30, 11:00, 12:30, 14:30, 16:00 - Escursioni guidate in Mountain Bike
Ore 10:00-13,30 - 15.00 -17.30 - Arrampicata su parete artificiale (bambini 5-14 anni)
Ore 10:00, 12:00, 14:30, 16:30 - Lezioni e prove pratiche di Nordic Walking;
Ore 10:00 13:00, 14:30 17.30 - Avvicinamento al cavallo “ Il battesimo della sella” (per i bambini)
Ore 09.30, 10.15, 11.00, 11.45, 12.30, 14.00, 14.45,
15.30, 16.15, 17.00 - Avvicinamento al tiro con l’arco (Durata 30 min)
Ore 10.00/17.00 - Orienteering in foresta
Ore 10:30/17.00 Corso di fotografia naturalistica a cura di Giovanni Paulis e Alessandro Spiga
Ore 10:30/17.00 “Disegna la natura”
Ore 10.00/13.00 e 15:00/17.00 - Laboratori di educazione ambientale per bambini a cura dell’Ente Foreste della Sardegna
Ore 11,00, 12,30, 15,00 - Laboratori di degustazione del miele a cura dell’Ente Foreste della Sardegna
Ore 11.00 16.00 - Laboratori di degustazione dei prodotti tipici locali e di educazione all’alimentazione a cura dell’associazione Slow Food
Ore 10:00, 10.30, 11.00, 11.30, 12:00, 12,30, 13,00,
14.30, 15.00, 15.30, 16.00, 16.30 -17.00 (Durata 30 min) Visite guidate al giardino botanico Linasia a cura dell’Ente Foreste della Sardegna
Ore 10:00/17:00 - Naturalmente Unidos: laboratori creativi e sensibilizzazione ambientale” (bambini 4/10 anni)
Ore 10:00/18:00 Visita alla mostre sulla Biodiversità curate dall’Ente Foreste della Sardegna. Mostra esposizione dei prodotti tipici locali agro-alimentari e dell’artigianato.

Immagine in alto e link di riferimento: Paradisola

Ego miles de Ordine Templi


Conversazioni con gli autori
Prosegue la rassegna promossa dall’Amministrazione
Comunale di Assemini e organizzata dalla Biblioteca
per creare occasione di scambio e confronto tra autori
e lettori. Due autori del panorama letterario — storico
sardo a diretto contatto con i lettori, in un ambiente
amichevole che stimola nuovi spunti di riflessione sui
libri e sulla letteratura storica.

Alcuni autori del panorama letterario sardo incontrano i lettori
A cura della RTI
So.Se.Bi. - La Memoria Storica
Biblioteca Comunale di Assemini— Maggio 2011
“Ego miles de Ordine Templi”
Interverranno
Ing. Massimo Rassu
Dott. Fabio Marcello
Venerdì 27 maggio ore 18.00
Biblioteca di Assemini
Per informazioni :
Biblioteca comunale di Assemini
Via Cagliari, 16 tel. 070949400
biblioteca@comune.assemini.ca.it

mercoledì 25 maggio 2011

Carte nautiche...geografiche...e traduzioni.

Antiche carte
di Rolando Berrett
a
Chi non conosce la celebre frase: ”Buscar l’Oriente per l’Occidente” che ha reso immortale Paolo dal Pozzo Toscanelli? Chi non è rimasto stupito davanti alle sue celebri carte? Ci sono due lettere, in latino, nella raccolta di PIO II che attestano una corrispondenza tra Toscanelli e Colombo che tradotte ….in nostra volgare favella suonano cosi:
A Cristoforo Colombo, Paolo fisico salute! Io vedo il nobile e grande desiderio tuo di voler passar là dove nascono gli aromati (spezie): onde, in risposta di una tua lettera, ti mando la copia di un'altra lettera, che poco fa io scrissi ad un mio amico, confidente del serenissimo re di Portogallo, in risposta di un' altra, che, per commissione di sua altezza, egli mi scrisse sopra detto caso. E ti mando un'altra carta nautica, simile a quella che io mandai a lui, per la quale resteranno soddisfatte le tue domande
La copia di quella mia lettera è questa:

A Fernando Martinez, canonico di Lisbona, Paolo fisico salute!
Molto mi piace intendere la dimestichezza, che tu hai col tuo serenissimo e magnificentissimo re: e quantunque molte altre volte io abbia ragionato del brevissimo cammino che è, per la via del mare, di qua alle Indie, dove nascono le spezierie, il quale lo tengo più breve di quel che voi fate per Guinea…


Basta questa frase per dimostrare che il Toscanelli, con questo testo, non ha nulla a che fare. Nel 1474 i Portoghesi non vanno assolutamente da nessuna parte. Capo di Buona Speranza fu doppiato da Bartolomeo Diaz nel suo celebre viaggio del 1487/88. Basta, poi, seguire le date della conquista portoghese per capire in che periodo…fu scritta la lettera. Per onestà di cronaca questo lo sanno, pure, tutti gli Accademici. Tralascio il resto della lettera che è uno scopiazzamento generale del Milione di Marco Polo e mostro la parte finale:
Da Firenze, addi 25 giugno dell'anno 1474.
(da: Francesco Costantino Marmocchi – 1840 – Raccolta di Moderni Viaggi dalla scoperta del Nuovo Continente fino ai dì nostri)

“Dalla città di Lisbona, dritto inverso ponente, sono in detta carta ventisei spazi,ciascuno de' quali contiene dugento e cinquanta miglia,fino alla nobilissima e grande città di Quisai; la quale gira cento miglia, che sono trentacinque leghe, ed ha dieci ponti di pietra marmorea. Il nome di questa città significa abitazione celeste, e di essa si narrano cose maravigliose intorno alla grandezza degli ingegni, e alle fabbriche e alle rendite. Questo spazio è quasi la terza parte della sfera.
Giace questa città nella provincia di Mango, vicina alla provincia del Cataio, nella quale sta la maggior parte del tempo il Re. Dall'isola d'Antilia, della quale avete notizia e chiamate di Sette Città, infino alla nobilissima isola di Cipango, sono dieci spazi, che fanno due mila e cinquecento miglia, cioè dugento e venticinque leghe: la quale isola è feracissima d'oro, di perle e di pietre preziose. E sappiate, che con piastre d'oro fino coprono i templi e le case regali in quell’isola; di modo tale che, per non esserne conosciuto il cammino, tutte queste cose rimangono nascoste e coperte, quantunque ad essa si possa andare sicuramente. Molte altre cose potrei dire; ma come io ti ho già parlato anche a bocca, e conosco che sei prudente e di buon giudizio, mi rendo certo che non ti resta cosa alcuna da intendere, e però non sarò più lungo.
E questo sia per soddisfazione delle tue richieste, quanto la brevità del tempo e le mie occupazioni mi hanno concesso. E cosi io resto prontissimo a soddisfare e compiutamente servire sua altezza in tutto quello che mi comanderà.


Nel 1511 i Portoghesi raggiunsero Canton che è posta sul Tropico del Cancro. Quest’ultima zona compare nelle carte Castiglioni, Ribeiro e Salviati che sono del 1527,29 e 30. Per veder Quinsay bisogna aspettare le carte del periodo di Gerardo Mercatore. Quisay (Quinsay- zona Pechino) è posta a 40° nord, quasi, di fronte a Lisbona. Nel 1474 era impossibile collocarla geograficamente.
Le carte del Toscanelli, che troviamo nei vari testi, sono opera di H.Wagner come sue sono le misure rilevate nei portolani; le distanze sono di 1.230 metri contro i 1.480 del miglio romano canonico o di 1.478,5 misurati sulla via Appia.
Torniamo alla lettera. Il re del Portogallo chiese al Toscanelli una spiegazione semplice per capire le distanze, a parità di gradi o meridiani, che si percorrevano sui vari paralleli. Tutto qui. Don Ferdinando Colombo (scusate: mi è scappata) non ci ha capito molto. Provo a spiegarvi la faccenda.
Siamo nella Firenze del Toscanelli. Si sta traducendo Tolomeo e stanno prendendo forma le sue celebri 27 tavole;180° di Terra. Tutte le città hanno la loro giusta collocazione. A questo punto sorgerebbe una domanda: ma era impossibile misurare il diametro della Terra all’Equatore ? Tolomeo dà 24.000 miglia. Tutti citano Tolomeo e le sue misure ma nessuno le ha mai verificate?
Secondo i nostri Accademici, sin dal 1.200, i nostri abili marinai disegnarono svariati portolani passando lungo le coste: dal Nord/Europa fino al M.Caspio. Saranno stati in grado di prendere la distanza esatta tra due località poste sullo stesso meridiano distanti 10° ? Anche di soli 5°.

Stabilita la distanza di 10° di meridiano con una semplice moltiplicazione * 36 si sarebbe conosciuta la misura della circonferenza dell’Equatore. Le linee verdi evidenziano una misura di 15° di meridiano. Sappiamo, oggi, che la circonferenza, o parallelo, dell’Equatore misura 40.076 Km. I nostri valenti cartografi, però, utilizzavano il Miglio romano pari a 1.480 metri (o di 1.478,5 ?). Con una semplice divisione possiamo ottenere la circonferenza dell’Equatore in miglia romane: 40.076 / 1,48 (km) = 27.078,378 (contro le 24.000 di Tolomeo e Alfragano).
Dai ricordi scolastici riemerge una formuletta che recita : Raggio (r) * 6,28 = Circonferenza.

Sappiamo che la Terra è attraversata da diversi paralleli (circonferenze) che si restringono
salendo verso il Polo e, conseguentemente, anche il raggio di un parallelo si restringe.
Volendo fare un giro completo, un viaggio, sul nostro pianeta Terra, è evidente che la distanza sulla linea dell’Equatore sarà massima. Sugli altri paralleli la distanza diminuirà in base alla distanza dal Polo. Al Polo basterebbe fare un giro su se stessi per percorrere i 360° di circonferenza.

Stabilito che la Terra è una sfera com’è possibile calcolare il raggio di un determinato parallelo per trovare la sua misura di circonferenza? Basta “proiettare” il raggio interessato sul raggio dell’Equatore già scomposto in cento parti. Si calcola quindi la percentuale. Provate a indicare con una matita un qualsiasi punto del goniometro che rappresenta i 90°. Osservate dove cade, sul raggio equatoriale, la sua perpendicolare. Roma, ad esempio, proietta un raggio pari al 74/100 del raggio equatoriale. (A parte preparatevi un foglio di calcolo di Excel e fate le verifiche con tanto di radianti e coseno). Anche “praticamente” non è impossibile avere dei valori molto vicini alla realtà.
Da parte mia sono rimasto “stupefatto” per una distanza segnalata nella lettera del Toscanelli.
Si parla di 26 parti da 250 miglia romane. Quella misura la conosco Io perché me l’ha suggerita Marino di Tiro. Quella misura è presente, solo, su un solo parallelo. Quella misura era riportata in qualche carta. Per capire di cosa sto parlando bisogna sviluppare, in piano, la sfera della Terra.
La figura ottenuta va divisa in 80 parti di meridiano pari a 4,5° (80*4,5=360).
Le 80 parti, da 250 miglia, si trovano solo su di un parallelo che mi passava sulla testa e, io, non lo sapevo. Il parallelo misura, esattamente 20.000 miglia.


Abbiamo, già, visto una Terra scomposta in 80 meridiani. Il meridiano 0 passa sopra il Gennargentu. A destra del Gennargentu c’è tutta l’Asia mentre a sinistra c’è tutta l’America. Abbiamo visto un’altra carta, con diverso sviluppo, perfettamente centrata sul Gennargentu; carta del 1.318.
Nell’immagine presentata, una modernissima proiezione satellitare, c’è inserita una carta veneziana del 1484. Se qualcuno pensa che quella carta sia opera dei nostri valenti marinai… non mi trova d’accordo. Combaciano perfettamente le griglie di quadratini.

Vediamola in dettaglio. (Occhio ai gradi che ho cercato di inserire).
La griglia evidenziata è una parte della griglia generale di 80 settori sull’asse est-ovest e di 34 settori sull’asse nord-sud. Ho riportato il valore in miglia romane di alcuni settori significativi.
Un settore all’Equatore misura 338 miglia. Sul parallelo delle Isole del capo Verde vale 324 miglia.
Vorrei ricordare che su questo parallelo sono state centrate la maggior parte delle carte. Quindi bisogna sviluppare alcuni degli schemi -a base 34- a tre (3) unità sopra il Polo Nord partendo dal Circolo Polare Antartico. Esempio tipico è la Carta Cantino del 1502.


Di questa carta VENEZIANA, attribuita ai cartografi portoghesi, parlerò a parte: in altra occasione.
Torniamo alle griglie.
Il settore delle Canarie vale 300 miglia. Il mitico settore che misura 250 miglia passa esattamente a 42,338°, sfiora la città di Terni e passa sopra la città di Cesi. ( Lisbona non c’entra nulla.)
Qui vorrei aprire una piccola parentesi. Cesi figura tra i paesi sede dei Templari. Papa Innocenzo VIII ( Papa Cybo, presunto padre di Cristoforo Colombo) era proprietario di una buona fetta della zona. Un altro fatto curioso è che la zona, da sempre, è metà di pellegrinaggio da parte di pellegrini che vengono dal nord/Europa e si parla di Druidi e di Celti. (Non riesco a legare i due fatti). Di sicuro so che, con quel parallelo, potevo misurare le distanze legate alla scoperta del Nuovo Mondo.
Se ritornate all’immagine che riporta tutta la Terra sviluppata su 80 settori e contate 26 settori, di fronte a Lisbona, vi ritroverete sul meridiano dove vennero ad unirsi le masse dell’Asia e dell’America. Li iniziava il Cataio. Prima, però, abbiamo visto la mitica Beringia. Quando si separarono le due masse, nelle carte del 1.550 circa, vi si ubicò la città di Quinsai. Se da quel meridiano tornate indietro di 10 settori vi ritrovate sul meridiano dell’isola di Haiti o Antilia.
Che combinazione!

Sulle Carte del Toscanelli del Wagner, e sulle Lettere, trovate il tutto sul sito:

Paolo dal Pozzo Toscanelli
e la distanza delle Indie


Sul sito dell’Osservatorio di Arcetri potrete conoscere, veramente, come stanno le cose. Il tutto è spiegato da Moderni Ricercatori. Nulla a che vedere con la mia esposizione. Noi dilettanti voliamo, solo, con la fantasia. Loro debbono dimostrare, scientificamente, quello che riportano.

Le immagini che riporto sono mie libere interpretazioni. La sola immagine della Terra –spaccata e graduata- è una elaborazione di Marco Berretta.

martedì 24 maggio 2011

Viaggio nella Storia - 11 - Mandas e Isili


Viaggio nella Storia, Mandas e Isili
con Alessandra Saba e Umberto Oppus


Si è svolto Domenica 22 Maggio a Mandas e Isili l’11° appuntamento con la rassegna culturale “Viaggio nella Storia” organizzata da Pierluigi Montalbano, in collaborazione con i docenti dell’Università di Cagliari, giunta alla terza edizione consecutiva.

La giornata è iniziata alle 10.30 con la D.ssa Alessandra Saba che ha illustrato la storia degli scavi nel territorio di Isili, con una nota di approfondimento sul Nuraghe Asusa, scavato recentemente dall’archeologa isilese. Oltre la relazione, la studiosa ha mostrato una serie di immagini del territorio di Isili, soffermandosi sul paesaggio e sulle caratteristiche statue menhir, una cinquantina, portate alla luce nell’ultimo ventennio.

Gli scavi hanno consentito solo una parziale ricostruzione degli avvenimenti dell’epoca a causa della frammentarietà dei manufatti, forse distrutti intenzionalmente durante le lotte fra clan rivali.
Al termine della relazione, prima del pranzo, il gruppo è stato accompagnato dal sindaco Umberto Oppus lungo le stradine in pietra del centro storico.

Durante la visita guidata al museo di Arte Sacra, il sindaco ha mostrato ai partecipanti gli argenti e i preziosi oggetti sacri conservati nella suggestiva sala rossa, un fiore all’occhiello nell’itinerario turistico mandarese. È stata poi la volta dell’ex convento, recentemente ristrutturato e dotato di una biblioteca e di un interessante archivio storico. La visita al bellissimo e panoramico chiostro ha concluso la mattinata.

Alle 13.00 l’agriturismo “Le Vigne Ducali”, immerso nei vigneti che danno il nome alla struttura, ha allestito un ricco pranzo realizzato con alimenti prodotti localmente.

Alle 16.30 il gruppo si è spostato a Isili dove la D.ssa Saba ha illustrato il maestoso Nuraghe Is Paras con le sue poderose mura e la tholos più alta in Sardegna, giudicata fra le più belle dell’isola.
Risalente al XV a.C., è realizzato in calcare e marna locale, con filari regolari orizzontali. Nel XIII a.C. è stata aggiunta una torre orientata a sud-est, attraverso un cortile a cielo aperto. Nel XII a.C. vengono costruite altre due torri, una orientata a nord-est e una a ovest, e viene eretto l’antemurale costituito da torri e cortine.

Nel percorso la studiosa ha mostrato le tecniche di restauro del sito e i vari rimaneggiamenti che in questi 3000 anni hanno visto l’intervento di punici, romani, bizantini fino ad arrivare ad epoche recenti nelle quali la possibilità di dominare il panorama a 360° è stata sfruttata per scopi di controllo del territorio.

Alle 18.00 la carovana ha raggiunto il Museo del rame e dei tessuti, ospitato all’interno dell’antico convento dei Padri Scolopi. La guida locale ha accompagnato il gruppo nei due piani della struttura, risalente al XVII secolo, il più importante edificio storico del paese.

Le belle cornici in calcare bianco locale delle finestre e dei grandi archi che si affacciano all’esterno, o che concludono i lunghi anditi voltati a botte, creano un contesto di grande suggestione. È l’unico museo del rame in Sardegna e racconta come nella bottega di un ramaio nascono oggetti luminosi e solari con funzioni d’uso con forte valenza estetica. La sezione del tessuto è stata una sorpresa.

30 splendidi arazzi realizzati con fili d’oro, d’argento, di rame, di lino e di lane, di rafie e di spaghi, colorati a mano con erbe ed essenze antiche, nati da una progettualità artistica che unisce gusto tradizionale, innovazione e altissimo livello tecnico.

lunedì 23 maggio 2011

Le Colonne d'Ercole. 3° e ultima parte


Se oltre uno stretto c’è il mare esterno….
di Antonio Usai

Il primo, invece, a citare le colonne d’Ercole, se non si crede al racconto di Solone su Atlantide, è stato Pindaro (518-438 a.C.).
Ma viene spontaneo, però, chiedersi: come mai le colonne d’Ercole sono state piantate proprio lì tra la Tunisia e le isole Kerkenna?
La risposta si trova nel fatto che i Sami dicono di aver raggiunto Tartesso oltrepassando uno stretto, mentre i focesi non lo dicono.
Quindi in Europa, tra l’Iberia e Tartesso, per i greci non c’è nessuno stretto, mentre in Libia, formato dalla Tunisia e dalle isole Kerkenna, ce n’è uno che i cartaginesi non permettono loro di avvicinarsi. E dato che i Sami sono giunti a Tartesso oltrepassando uno stretto nel quale sono arrivati in quanto, salpati dall’isola di Platea, veleggiavano fuori rotta a causa del vento di Levante (e siccome il vento non cessava di spirare, hanno, appunto, oltrepassato quello stretto giungendo, come guidati da un dio, a Tartesso), quello formato dalla Tunisia e dalle isole Kerkenna, per i greci, è lo stretto che i Sami hanno oltrepassato per giungere a Tartesso.
E così, dunque, nascono le colonne d’Ercole.
Ma il blocco dalle Sirti da parte dei cartaginesi fa capire che i greci non hanno mai visto le colonne d’Ercole e questo spiega il perché, essi, non sapessero che Cartagine si trovava oltre le colonne d’Ercole (vedi p.s. a fine scritto), come spiega, anche, perché i greci, quelli fino, almeno, a quasi tutto il IV a.C. ma con l’eccezione di Aristotele, parlando delle colonne d’Ercole, le abbiano descritte senza che ci sia alcun riscontro; vedi Euctemone oppure Damaste che, secondo Avieno, diceva che l’acqua che passava fra le Colonne era di appena sette stadi (neanche 1 km e 250 metri) o Scilace di Carianda che, come diceva sempre Avieno, affermava che il mare che scorreva fra le colonne era largo quanto quello del Bosforo (anche questo neanche 1 km e 250 metri).
Continuiamo.
Un altro personaggio che avrebbe potuto vedere lo stretto di Gibilterra e quindi chiamarlo colonne d’Ercole è Pitea di Massalia (IV a.C.), che avrebbe visitato l’Europa settentrionale dalla Britannia fino ad arrivare a Tule e ad altre regioni.
Ma da ciò che ci è pervenuto su di lui, si capisce che, sicuramente, il massaliotta non ha mai attraversato lo stretto di Gibilterra; anche perché, guardando il periodo in cui si sarebbe svolto il suo viaggio (IV a.C.), difficilmente lo avrebbe potuto fare in quanto è improbabile che i cartaginesi avrebbero fatto transitare un greco nello stretto di Gibilterra (rimasto sotto il controllo dei cartaginesi fino al termine della seconda guerra punica, nel 202 a.C.).
Strabone dice:« Costui (Pitea) ha tratto in inganno molte persone, dicendo di aver percorso a piedi tutta la Britannia…ha inoltre riportato racconti circa Tule e circa quelle regioni nelle quali non esiste vera e propria terra….Questi sono i racconti di Pitea, il quale, dopo essere ritornato da quei luoghi, dice anche di aver visitato tutta la parte dell’Europa che si affaccia sull’Oceano, da Gades al Tanai» (quest’ultimo divideva, secondo alcuni degli antichi, l’Europa dall’Asia).
Se il massaliotta avesse attraversato lo stretto di Gibilterra avrebbe visitato, come primi luoghi, da Gades in su.
Mentre, come si può vedere, Pitea quei luoghi li ha visitati, invece, solamente dopo essere rientrato dal nord Europa.
Inoltre nessuno degli antichi che parlano di lui (tra cui Dicearco, Eratostene, Polibio e Strabone) ha detto che il massaliotta, quando ha intrapreso quel viaggio, ha attraversato le colonne d’Ercole.
Ma, se ammettiamo che Pitea abbia attraversato lo stretto di Gibilterra, bisognerebbe, allora, tener conto assolutamente di un dato: come mai per Dicearco, suo contemporaneo e morto vent’anni dopo di lui e per Apollonio Rodio, le colonne d’Ercole, come abbiamo visto più su, sono ancora nelle Kerkenna?
Quindi mettiamo da parte anche Pitea.
Ma dopo Pitea non c’è nessun altro personaggio da citare se non colui che ha spostato le colonne d’Ercole che, come ho detto più su, può averle spostate, solamente, il greco che ha visto con i propri occhi lo stretto oltre il quale c’è il vero mare esterno.
E il primo dei greci, da quando sono state piantate le colonne d’Ercole, ad aver visto coi propri occhi lo stretto oltre il quale c’è il mare esterno è stato Polibio. Gli è stato possibile perché riuscì, a Roma, a stringere amicizia con Scipione Emiliano che seguì nella terza guerra punica, assistendo anche alla distruzione di Cartagine. Polibio era un ipparco, cioè il capo della cavalleria della Lega Achea, la quale non si schierò né con la Macedonia e né con Roma. Fu coinvolto nella repressione contro i sostenitori del re macedone Perseo e di quelli che non si erano schierati apertamente con Roma e per questo fu portato prigioniero in quest’ultima per essere processato. A Roma, però, come ho detto, strinse amicizia con Scipione Emiliano e questa sua amicizia con il generale romano gli consentì di compiere lunghi viaggi: Alessandria, Iberia, Gallia, Africa e lungo la costa atlantica di quest’ultima.
E’ stato Polibio, dunque, ad aver spostato le colonne d’Ercole.
Ma, per Polibio di Megalopoli, le colonne d’Ercole sono sempre state a Gibilterra e lo sono sempre state perché lui non sapeva che si trovavano nelle Kerkenna.
Lo si capisce perché quando critica Dicearco, lo critica non per la posizione delle colonne ma per la distanza; quella distanza di 10.000 stadi dal Peloponneso alle colonne d’Ercole che a lui, Polibio, risulta, invece, essere di 22.500. Ma mentre il percorso di quella distanza di 10.000 stadi, come ho detto più su, era Peloponneso – Creta – Cirenaica – Grande Sirte – Piccola Sirte e Colonne d’Ercole (Kerkenna) = 10.000 stadi, per Polibio era, sintetizzando, Capo Malea – Stretto di Messina – Narbona e Stretto di Gibilterra ovvero le Colonne d’Ercole per convinzione = 22.500 stadi.
Polibio, come ho detto più su, ha criticato quella distanza di 10.000 stadi di Dicearco e lo ha fatto perché convinto che anche per lo storico di Messina le colonne fossero a Gibilterra e che, quindi, il percorso da fare per arrivarci fosse il suo stesso, quando lo storico di Messina afferma che dal Peloponneso allo stretto di Messina c’è una distanza di 3000 stadi, lui, Polibio, pensa che quei 3000 stadi facciano parte di quella distanza di 10.000 e che, quindi, sottraendoli da questi ultimi ne conseguirebbe una rimanenza di 7000 per coprire la distanza dallo stretto di Messina alle colonne d’Ercole (per convinzione) e questo, per Polibio, non era accettabile.
Strabone, in quanto è lui che ne parla, dice:« Quando Dicearco afferma che dal Peloponneso alle Colonne d’Eracle c’è una distanza di diecimila stadi e che maggiore è quella tra il Peloponneso stesso e l’ansa più estrema del Mar Adriatico (distanza, quest’ultima, con cui è d’accordo lo stesso Polibio), così come quando, della distanza fino alle Colonne, fa ammontare a tremila stadi il tratto fino allo Stretto di Sicilia, cosicché il rimanente tratto dallo Stretto alle Colonne risulta essere settemila, Polibio dice di non curarsi se il calcolo dei tremila stadi sia stato ricavato correttamente o meno; ma dell’altra distanza, quella dei settemila stadi, sostiene che non è comunque accettabile».
Anche per quanto riguarda Eratostene, Polibio è convinto che, per il Bibliotecario, le colonne d’Ercole siano a Gibilterra e un esempio sono proprio quelle distanze da Massalia e dai Pirenei fino alle colonne d’Eracle che lo stesso Polibio critica.
Ma Polibio non ha avuto bisogno di spostare le colonne d’Ercole e questo “grazie” a quella convinzione. Per lui, infatti, è un fatto normale che siano lì a Gibilterra e ha, proprio davanti a sé, la prova di quella convinzione: lì c’è uno stretto oltre il quale c’è il mare esterno e quindi se oltre uno stretto c’è il mare esterno, quello è lo stretto delle colonne d’Ercole.
Infatti più che Polibio, ad aver spostato le colonne d’Ercole è stata quella convinzione che è perdurata fino ai giorni nostri e questo spiega, anche, il fatto che nessuno degli antichi e non solo, abbia mai parlato di uno spostamento delle colonne d’Ercole.
Torniamo, ora, nuovamente al Timeo.
Il fatto che lo stretto di cui parla il sacerdote sia quello di Gibilterra, scagiona Platone ma anche Solone, dall’accusa di aver inventato la storia di Atlantide. Infatti, se fosse stata un’invenzione di uno dei due, l’autore sarebbe stato, senza ombra di dubbio, l’unico fra i greci a conoscenza dell’esistenza dello stretto di Gibilterra e anche come unico ingresso per il mare interno. E questo rende anche più attendibile ciò che dico nel mio scritto “Crizia: l’incompiuta di Platone?” e cioè che, come dice Plutarco in “Vite parallele”: «Platone nell’ambizioso tentativo di trattare con ampiezza e abbellimenti l’argomento dell’Atlantide…cominciò l’opera… Sennonché, avendo cominciato tardi a scrivere, terminò prima la vita che l’opera», Platone non ha terminato il racconto su Atlantide, cioè il “Crizia”, in quanto è morto. Inoltre la morte, come causa dell’incompiuta del “Crizia”, rende possibile, come dico sempre nel mio scritto, che Aristotele, il quale affermava che l’ultima opera di Platone era “Le Leggi”, riconoscesse, appunto come ultima opera del suo maestro, quest’ultimo e non il “Crizia”, perché non considerava, quest’ultimo, un’opera, in quanto incompiuto, motivato anche dal fatto che lui, Aristotele, riteneva il racconto di Atlantide frutto della fantasia di Platone.
Ma, Atlantide, è realmente esistita?
Secondo il mio punto di vista sì ed esiste ancora.
Infatti quella che si è inabissata, a mio avviso, è quell’isola formata dalle tre cinte di mare e due di terra dove risiedeva il re più importante.
E l’unica isola che ha le caratteristiche per poter essere stata Atlantide (ma anche questo non sono stato il primo a dirlo), è la Groenlandia.
La Groenlandia si trova in un mare che è circondato da un continente (le Americhe).
Sempre da essa è possibile ai naviganti passare alle altre isole (tra cui le Isole della Regina Elisabetta e l’isola di Baffin) e, da queste, all’intero continente che vi si trova di fronte (le Americhe, appunto).
Le sue dimensioni calzano a pennello con quelle di Atlantide. La sua superficie, infatti, è di circa 2.170.000 km quadrati e se si dovessero sommare le superfici delle parti dell’isola suddivise tra i dieci fratelli sovrani che, per primi, hanno governato Atlantide, delle quali parti, la più grande e la più bella era quella spettata al primo nato, Atlante, in cui si trovava quella pianura di tremila stadi per duemila (cioè circa 190 mila km quadrati) che circondava la città, più l’isola formata dalle cinte di mare e di terra dove si trovava la dimora del re più importante, spettata, sempre, ad Atlante e le cinte stesse e, inoltre, le parti dell’isola non sfruttabili, la coprirebbero, sicuramente, esattamente tutta.
Sempre la Groenlandia, inoltre, ha l’estrema parte meridionale che termina con Capo Farvel in direzione dello stretto di Gibilterra ed è quella parte che, a mio avviso, è spettata, come dice il Crizia, al gemello di Atlante di nome Eumelo:« il fratello gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l’estremità dell’isola verso le Colonne di Eracle...».

Per quanto riguarda, invece, i metalli e la pianura, non si può parlarne in quanto l’84% della Groenlandia è, ora, ricoperta dai ghiacci.
Le traduzioni di un termine che si trova in un passo del Timeo, però, sembrerebbero escludere la Groenlandia. Infatti nel passo in questione c’è scritto che Atlantide si trovava “prò tou stomatos ” che è stato così tradotto: “davanti allo stretto” o “a quella imboccatura” e “innanzi a quella bocca”. Quindi, secondo queste traduzioni, Atlantide era di fronte allo stretto di Gibilterra, mentre la Groenlandia non lo è. Ma il termine “prò”, oltre a “davanti” e ad “innanzi”, si traduce anche “avanti”. Ma mentre “davanti” e “innanzi” per essere definiti come tali devono, necessariamente, essere visibili, quindi “di fronte”, “al cospetto” etc., “avanti” non lo necessita. Un esempio: l’isola di Madeira, le isole Canarie , le isole Azzorre e le Americhe sono avanti allo stretto di Gibilterra, non davanti o innanzi. Infatti quei luoghi non sono visibili dallo stretto (le Canarie e Madeira, che sono i luoghi più vicini allo stretto, distano, dallo stesso, le prime quasi 1000 km. e la seconda più di mille). Quindi la Groenlandia non è da escludere in quanto, essa, è avanti allo stretto di Gibilterra.
Infine c’è anche un altro dato che depone a favore della Groenlandia = Atlantide ed è che sfogliando la storia geologica di quell’isola che fa parte del Regno Unito di Danimarca e che in danese significa Terra Verde, si scopre che la sua parte centrale è incurvata, formando, così, un avvallamento che raggiunge la profondità di 360 metri sotto il livello del mare.
Causa il peso del ghiaccio come dicono i geologi? Oppure…
Grazie, ancora una volta, per l’attenzione prestatami.


P.S.
A conferma che i greci non sapevano che Cartagine si trovasse oltre le colonne d’Ercole, c’è un episodio riportato dallo storico Sallustio (I a.C.) nel suo “La guerra Giugurtina”. L’episodio ha come protagonisti Cartaginesi e Cirenei che, dopo tante battaglie, decisero di stabilire quale sarebbe stato, nella Grande Sirte, il confine dei rispettivi imperi. Il cap. 79 de “La guerra Giugurtina” recita:« Al tempo in cui i Cartaginesi estendevano il loro dominio su gran parte dell’Africa, anche i Cirenesi erano ricchi e potenti; sabbioso e uniforme era il territorio intermedio (la Grande Sirte): né fiume né monte vi era che segnasse i loro confini. Questo fatto li indusse a gravi e incessanti lotte reciproche…durante una tregua stabiliscono un accordo secondo il quale, in un giorno determinato, degli ambasciatori partissero ciascuno dalla propria città (Cartagine e Cirene): il punto (della Grande Sirte) in cui si fossero incontrati sarebbe stato considerato il confine comune di entrambi i popoli. Pertanto due fratelli di nome Fileni, inviati da Cartagine, si affrettarono a compiere il cammino; quelli di Cirene procedettero più lentamente… I Cirenesi, resisi conto di essere alquanto più indietro…accusano i Cartaginesi di essere partiti dalla patria prima del tempo, rompono i patti,… Poiché i Cartaginesi chiedevano altri patti, purché giusti, i Greci lasciano ai Cartaginesi la scelta: o essi, in quel luogo che pretendevano come confine al popolo loro, si lasciassero seppellire vivi o, alle stesse condizioni, potessero essi stessi avanzare fin dove volessero. I Fileni, accettato il patto, sacrificarono sé e la loro vita alla patria: così furono sepolti vivi. In quel luogo, i Cartaginesi dedicarono are ai fratelli Fileni».
Se i Cartaginesi non fossero stati certi che i Greci non sapevano dove si trovasse Cartagine, non avrebbero mai accettato o proposto l’accordo suddetto, per un motivo evidente (la distanza di Cartagine dalla Grande Sirte rispetto a quella di Cirene). I fratelli Fileni sono partiti, certamente, da Leptis Magna, la città che, sicuramente, i greci pensavano, e i Cartaginesi glielo facevano credere, fosse Cartagine.
Antonio Usai

Bibliografia: Platone “Timeo” Bur, RCS Libri S.p.A. Milano 2003— “Timeo” e “Crizia” Platone/Le Opere Newton & Compton editori s.r.l. Roma 2005--- “Timeo” e “Crizia” /Platone Opere complete 6 Editori Laterza Roma 2003---le Colonne d’Ercole un’inchiesta di Sergio Frau 2002 Nur Neon s.r.l. Roma --- Erodoto “Storie” a cura di Luigi Annibaletto Arnoldo Mondatori editore S.P.A. Milano 2009 I° libro par.163, II° libro par. 32, 33, III° libro par. 115 IV° libro par.42, 43, 45, par. dal 150° al 159°--- Erodoto Storie volume secondo libro IV° par. 42 Bur Rizzoli editore Milano 1984--- Erodoto Le Storie introd. e comm. di Aldo Corcella vol. IV° libro IV° par. 42 Fondazione Lorenzo Valla A. Mondadori editore Vicenza 1993 --- “Sulle coste marine” di Ruffo Festo Avieno e “Periplo delle terre libiche” da “Antichi viaggi per mare” a cura di Federica Cordano edizioni Studio Tesi Pordenone 1992--- Polibio “Storie” a cura di Roberto Nicolai 1998 Newton & Compton editori s.r.l. Roma XXXIV libro par. 5/6/7--- “Trattato Sul cosmo per Alessandro” di Giovanni Reale/Abraham P.Bos ed. Vita e Pensiero Milano 1995--- Strabon “Geographie” a cura di Germane Aujac ed. Les Belles Lettres Paris 1969 livre I/ 4,5 livre II/ 1,1/1,21/1,40/1,41/4,2/4,4/4,5/4,8---Apollonio Rodio “Le Argonautiche” introduzione e commento di Guido Paduano e Massimo Fusillo traduzione di Guido Paduano edit. RCS Rizzoli Libri S.p.A Milano 1986 dalla riga 1225 alla riga 1584 --- Omero Odissea Fondazione Lorenzo Valla 1981 Mondadori 2008 Cles (Trento)---Omero Iliade casa editrice Einaudi Torino 2009---Esiodo Le Opere Teogonia a cura di Aristide Colonna Tea 1993 Utet Torino--- Olimpiche Pindaro editore Garzanti Milano 1981---Plutarco “Vite parallele 1” Solone par.32,1 Utet S.p.A Torino 2005--- Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani Roma 1955---Enciclopedia Zanichelli editore Bologna 1992---

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domenica 22 maggio 2011

Le Colonne d'Ercole. 2° parte di 3.



Se oltre uno stretto c’è il mare esterno….
di Antonio Usai


Nel suo “Sulle Coste Marine” (De ora marittima), l’iberico Rufo Festo Avieno (IV d.C.), parlando delle coste meridionali dell’attuale Spagna, riporta una descrizione fatta dall’ateniese Euctemone (V a.C.) che, però, non ha riscontro con lo stretto di Gibilterra. L’autore iberico dice: «Fra le due località passa un canale, che è detto Herma oppure strada di Ercole. Euctemone, abitante della città di Anfipoli, dice che non misura in lunghezza più di cento e otto miglia (circa 160 km; un miglio equivaleva a 1480 metri), e che la distanza fra i due lati è di tre miglia (circa 4,5 km)», e continua dicendo: «L’ateniese Euctemone dice pure che non sono rupi o vette che si innalzano dai due lati; racconta che a metà fra la terra libica e la sponda d’Europa si trovano due isole e dice che queste si chiamano Colonne d’Ercole; riferisce che esse sono distanti fra loro trenta stadi (poco più di 5 km)…Dice anche che intorno ad esse, e per un largo tratto, il mare ristagna a poca profondità; e che le navi cariche non riescono ad avvicinarsi per il fondo basso e la melma della spiaggia».
Come si può vedere questa descrizione non rispecchia lo stretto di Gibilterra. Infatti lo stretto di Gibilterra non è lungo 160 km ma, esagerando, al massimo 70 km; la larghezza, poi, non è di 4,5 km ma di 14 km nel punto più stretto. Ma anche lasciando da parte la lunghezza e la larghezza dello stretto che non corrispondono, quello che non quadra in assoluto è la presenza, in mezzo allo stretto («fra la terra libica e la sponda d’Europa»), di quelle due isole (più una terza a loro vicina, sempre a detta di Euctemone) le quali sarebbero, addirittura, anche circondate, per un largo tratto, da un mare così basso che l’acqua ristagna e che, a causa del fondo basso e della fanghiglia della spiaggia, le navi cariche non riescono ad avvicinarsi (nello stretto di Gibilterra il punto meno profondo è di 300 metri).
Quindi sorvoliamo su quella descrizione, a dir poco, fantasiosa.
Mentre, il primo fra i greci che fa capire chiaramente dove sono posizionate le colonne d’Ercole, cioè tra la Tunisia e le isole Kerkenna, è Aristotele (vedi il mio scritto “Le prime colonne d’Ercole degli antichi...”); ma lo fa capire anche Dicearco da Messina (350-290 a.C.), che era un allievo del filosofo. Dicearco affermava che la distanza dal Peloponneso alle colonne d’Ercole era di 10.000 stadi ed infatti lo è in quanto il tragitto da percorrere era: Peloponneso - Creta - Cirenaica - Grande Sirte - Piccola Sirte - Colonne d’Ercole (Kerkenna) = quasi 1800 km., ovvero 10.000 stadi (uno stadio attico misurava 177,60 metri).
Quella distanza di 10.000 stadi, come vedremo più avanti, è stata criticata da Polibio (200- 118 a.C.)
Che il tragitto per arrivare alle colonne d’Ercole fosse quello suddetto, lo si capisce, anche, nel poema “Argonautiche” di Apollonio Rodio (295-215 a.C.), secondo Direttore della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, come si capisce, anche e sempre nel poema “Argonautiche”, che le colonne sono ancora nelle Kerkenna.
Il poema di Apollonio Rodio tratta del viaggio di Giasone alla ricerca del vello d’oro e racconta che quando Giasone con i suoi compagni, ormai alla fine del viaggio, stanno rientrando in Grecia, in vista del Peloponneso succede che:« Ma non era destino che gli eroi sbarcassero sulla terra di Grecia prima d’avere penato agli estremi confini di Libia » e poco dopo dice: «Allora una tremenda tempesta di Borea (vento del nord) li rapì e li portò verso il mare di Libia per nove giorni e nove notti, fin quando arrivarono profondamente dentro la Sirte, dove non c’è più ritorno per le navi forzate ad entrare». Per Apollonio la Sirte si trova agli estremi confini della Libia la quale, per Erodoto, terminava, come abbiamo visto, col promontorio Soloentos - Solòeis che, sempre per Erodoto, si trovava subito dopo o poco dopo aver oltrepassato le colonne d’Ercole, le quali, per Aristotele (vissuto, come anche Erodoto, prima di Apollonio), si trovavano tra la Tunisia e le isole Kerkenna, cioè subito dopo la Piccola Sirte (vedi lo scritto “Le prime colonne d’Ercole degli antichi…”).
Continuiamo.
Gli Argonauti trasportano la nave Argo sulle spalle per dodici giorni e per dodici notti finché giungono al lago Tritonide, dove cercano, senza successo, un passaggio per uscirne. Allora, dopo aver offerto un dono agli dei del luogo, viene loro incontro Tritone che, dopo aver sentito le parole dell’argonauta Eufemo, stendendo la mano e indicando agli eroi in lontananza il mare e la bocca profonda del lago, dice: «Il passaggio è laggiù…è uno stretto cammino che porta di fuori. Là, oltre Creta, si stende il mare nebbioso fino alla terra di Pelope (il Peloponneso). Ma quando dal lago sarete usciti nel mare, dirigetevi a destra, e tenetevi stretti alla terra finché risale (sta descrivendo la Grande Sirte), poi quando piega dall’altra parte, vi si apre un viaggio sicuro, dopo che avrete passato il promontorio (ha descritto la Cirenaica, sopra la quale c’è Creta e, sopra ancora, il Peloponneso). Ma ora andate e siate pure tranquilli….».
Come si può vedere, da ciò emerge sia che il tragitto dal Peloponneso alle colonne d’Ercole era quello suddetto e sia che fino ad Apollonio Rodio compreso, le colonne sono ancora nelle Kerkenna.
Dopo Apollonio Rodio chi parla di colonne d’Ercole è Eratostene di Cirene (276-194 a.C.), nato quasi 20 anni dopo Apollonio, quindi suo contemporaneo e suo successore alla direzione della Biblioteca di Alessandria.
Per quanto concerne la nostra ricerca, le notizie su di lui ci sono pervenute tramite Strabone (I a.C.- I d.C).

A prima vista, da un passo di Strabone, sembrerebbe che, per Eratostene, le colonne siano a Gibilterra; cito:« Eratostene afferma che da Massalia (Marsiglia) alle Colonne d’Eracle la distanza è di settemila stadi, seimila invece dai Pirenei ».
Ma, quelle distanze che il Bibliotecario cita nel passo suddetto gli sono state riferite (o lette in qualche libro), in quanto, come si capirà da quanto riporta Strabone, lo stesso non è mai andato nei posti di cui parla. Gli è stato riferito, sicuramente, che quelle distanze da Massalia e dai Pirenei erano quelle fino allo stretto che lui, da buon greco del III a.C., chiama colonne d’Ercole in virtù di quella convinzione su citata (chiamandolo solamente colonne d’Ercole per comodità, come ha fatto il traduttore in greco del viaggio di Annone e della quale comodità parlo in “Annone e la beffa dello stretto” e come hanno fatto, sempre per comodità, tutti i greci e le persone di cultura greca) ed interpreta quelle distanze fino allo stretto, come le distanze dai due luoghi fino, appunto, alle colonne d’Ercole.
Proseguiamo.
Il Bibliotecario di Cirene è stato accusato, dalla teoria Sardegna = Atlantide, di essere colui che avrebbe spostato le colonne d’Ercole a Gibilterra e, secondo l’accusa, potrebbe averlo fatto o per amor di simmetria oppure per un malinteso su quale fosse il mare esterno.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, il Bibliotecario di Cirene, secondo l’accusa, potrebbe aver spostato le colonne d’Ercole a Gibilterra per una simmetria che, sempre secondo l’accusa, per lui ci sarebbe dovuta essere tra l’Occidente e l’Oriente dovuta al fatto che il mondo era diventato più grande in quanto Alessandro Magno aveva ampliato i confini verso est arrivando fino all’India e ad ovest non c’era più la tenaglia cartaginese.
Ma, se di simmetria si tratta, se ne deve parlare, invece, di quella tra la parte Nord e la parte Sud dell’ecumene (la terra abitata). Strabone, infatti, dice:« Nel III° libro della sua Geografia Eratostene traccia la carta del mondo abitato. Egli la divide in due, da Occidente a Oriente, con una linea parallela all’equatore. Come limiti, egli prende a Occidente le Colonne d’Ercole, a Oriente i capi e gli ultimi monti della catena che delimita il lato nord dell’India. La linea che egli traccia parte dalle Colonne, passa dallo Stretto di Sicilia, i capi meridionali del Peloponneso e dell’Attica, e continua fino a Rodi e al golfo di Issos. Fin là, egli dice, la linea in questione traversa il mare e passa tra i continenti che la costeggiano (il nostro mare si allunga in effetti su tutta la lunghezza fino alla Cilicia), poi, all’incirca in linea diritta, essa seguita di vetta in vetta la catena del Tauro fino all’India », e più avanti dice: «si serve di questa linea per dividere il mondo abitato in due metà che egli chiama rispettivamente metà nord e metà sud».
Dunque, Eratostene ha diviso a metà il mondo abitato tra nord e sud e non tra Occidente e Oriente.
Inoltre da un altro passo di Strabone emerge uno “stratagemma” usato dal Bibliotecario per salvare, invece, qualcosa che faceva parte della sua visione globale della terra abitata.
Infatti, riportando le misure che il Bibliotecario dà a delle distanze tra luoghi che partono dall’India fino alle colonne d’Ercole, Strabone dice: «Poi Eratostene aggiunge, alle distanze citate per la lunghezza, duemila stadi in più verso occidente e altrettanti verso oriente, al fine di salvare la teoria che vuole che la larghezza valga meno della metà della lunghezza».
Quindi non è per amor di simmetria che Eratostene potrebbe aver spostato le colonne d’Ercole.
Per quanto riguarda, invece, la seconda ipotesi, il Bibliotecario, sempre secondo l’accusa, potrebbe aver spostato le colonne d’Ercole per un malinteso su quale fosse il mare esterno, dovuto al fatto che potrebbe essere successo che si continuasse a utilizzare testi antichi in cui si parlava sempre di Mare Interno e Mare Esterno anche in anni in cui, invece, la conoscenza di Gibilterra e di quel mare che da lì comincia, era ormai cosa assodata.
Ma da Strabone si capisce, invece, che la conoscenza di Gibilterra e, di conseguenza, di quel mare che da lì comincia, per Eratostene cosa assodata non lo era affatto.
Infatti lo storico afferma:
«Non può andare oltre nell’ignoranza dei luoghi, di questi luoghi e di quelli che fanno loro seguito verso l’Ovest fino alle colonne d’Ercole» riferendosi al Bibliotecario che mette sullo stesso meridiano Roma e Cartagine.
«Diciamo solamente per il momento che Timostene, Eratostene e i loro predecessori ignoravano totalmente l’Iberia e la Celtica».
Quindi non è neanche per un malinteso su quale fosse il mare esterno che Eratostene potrebbe aver spostato le colonne d’Ercole a Gibilterra.
Come non può essere stato, neppure, lo stesso Bibliotecario ad averle spostate.
Infatti, come abbiamo visto, prima del Bibliotecario le colonne d’Ercole sono ancora nelle Kerkenna; quindi se fosse stato lui ad averle spostate, le avrebbe dovuto spostare in un luogo di cui, come abbiamo visto più su, ne ignora l’esistenza.
Quindi mettiamo da parte il Bibliotecario di Cirene.
Eppure qualcuno le ha spostate quelle colonne ed è da notare che quel qualcuno ha spostato un importante punto di riferimento per i greci senza, però, che nessuno ne abbia saputo niente, senza che nessuno se ne sia accorto; cioè lo spostamento è passato inosservato. Ma come è stato possibile? In un modo o in un altro lo si sarebbe saputo e se non direttamente da colui che le avrebbe spostate, almeno da altri posteriori a lui. Invece niente, nessuno ne ha mai parlato.
Ma, allora, chi ha spostato le colonne d’Ercole e come è riuscito a tenerlo nascosto?
La risposta alla prima domanda è che solamente il greco che ha visto, con i propri occhi, lo stretto oltre il quale c’è il vero mare esterno avrebbe potuto spostare le colonne d’Ercole.

Quindi si deve tornare indietro fino, almeno, ai focesi i quali sono, come dice Erodoto, i primi fra i greci ad essersi dati ai grandi viaggi. Ma Erodoto non dice che i focesi sono stati anche i primi, sempre fra i greci, ad andare oltre le colonne d’Ercole, come non dice, in quel passo suddetto, che Tartesso è stato scoperto oltrepassando le stesse.
Se, però, lo storico non dice che Tartesso è stato scoperto oltrepassando le colonne d’Ercole è perché i focesi non hanno detto che, quando lo scoprirono, avevano oltrepassato quelle o lo stretto.
Lo si capisce leggendo un passo tratto da una storia che raccontavano i Terei riportata da Erodoto in un altro libro delle sue “Storie”. Il passo, infatti, dice: «Quindi essi (i Sami), salpati dall’isola (Platea, ora Bomba, vicino alla Cirenaica) con gran desiderio di raggiungere l’Egitto, veleggiarono, trasportati dal vento di Levante, fuori rotta e, siccome il vento non cessava di spirare, oltrepassate le colonne d’Ercole, come guidati da un dio giunsero a Tartesso».
Ebbene, se i focesi avessero detto che quando essi scoprirono Tartesso avevano oltrepassando le colonne d’Ercole o lo stretto, i Sami, come dicono invece i Terei, non sarebbero arrivati a Tartesso “come guidati da un dio”, perché quello sarebbe stato il percorso da fare per arrivarci.
Inoltre, i Sami non avrebbero avuto neppure bisogno della guida di un dio per arrivarci. La loro nave, infatti, è stata in balìa del vento di levante solamente fino alle colonne; mentre oltrepassatele, la nave, come si capisce dal passo, era governabile; infatti essi,i Sami, sono arrivati a Tartesso non “come aiutati da un dio” come se si fossero trovati in difficoltà, ma “come guidati da un dio”, cioè come se avessero seguito le indicazioni di qualcuno e il che è possibile solo se la nave è, appunto, governabile.
Quindi i Sami non sapevano che, oltrepassate, dicono i Terei, le colonne d’Ercole, sarebbero giunti a Tartesso.
Per questo motivo, per Erodoto, Tartesso si trovava all’interno della terra abitata.
Infatti, come abbiamo visto, Erodoto non conosce, come lui stesso dice e come dice anche Strabone quando (vedi più su) parla di Eratostene, le regioni più occidentali dell’Europa, cioè la penisola iberica e la Francia; quindi, non sapendo, sempre lo storico, dove in Europa iniziasse o terminasse l’interno della terra abitata, se a lui non veniva riferito che un qualcosa o un qualcuno si trovava o veniva raggiunto oltrepassando le colonne d’Ercole o lo stretto, quel qualcosa o quel qualcuno si trovava, per lui, all’interno della terra abitata.
Un esempio lo si trova in un passo sempre dello storico: «i Celti sono stanziati oltre le colonne d’Ercole e confinano con i Cinesii, che sono gli ultimi abitanti dell’Europa a occidente». I Celti, come si vede, abitano, anche per lo storico, in Europa; abitano, però, all’esterno della terra abitata e abitano lì in quanto allo storico è stato riferito, perché lui non è mai andato in quei posti, che i Celti abitano oltre lo stretto che lui, come si capirà più avanti, in virtù di quella convinzione chiama, però, colonne d’Ercole. I Celti non avrebbero potuto abitare, per esempio, in Iberia, perché, a Erodoto, nessuno ha mai detto che i focesi l’hanno scoperta oltrepassando le colonne d’Ercole o lo stretto. Di conseguenza l’Iberia si trovava, per lo storico, all’interno della terra abitata e così anche Tartesso.
Idem per quanto riguarda Cartagine. Quest’ultima, infatti, anche se si trovava oltre le colonne d’Ercole (Kerkenna), per i greci (quindi anche per Erodoto) si trovava prima e quindi all’interno della terra abitata e questo perché, appunto, nessuno aveva mai detto loro che si trovava oltre le colonne (e meno che mai avrebbero potuto dire loro, per un motivo evidente, oltre lo stretto).
Quindi, per Erodoto i focesi scoprono Tartesso arrivandoci nella sequenza Tirrenia – Iberia – Tartesso, mentre i Sami, sempre per Erodoto, ci arrivano oltrepassando le colonne d’Ercole ma “come guidati da un dio”.
E dato che:
i focesi hanno fondato, intorno al 600 a.C., Menace che si trovava nei dintorni di Malaga che, a sua volta, si trova a circa 130 km dallo stretto di Gibilterra, ma è Tartesso il posto più lontano in cui essi sono arrivati.
Quindi, Tartesso si trovava dopo Menace.
Dato che Tartesso si trovava dopo Menace, se lo stesso si fosse trovato prima dello stretto di Gibilterra e lo storico di Alicarnasso fosse stato a conoscenza dell’esistenza di quello stretto, è impensabile che lo storico non avesse citato Tartesso come facente parte dell’Iberia anziché presentarlo come un posto a sé stante come, invece, fa.
Da tutto ciò si capisce che Tartesso si trovava oltre lo stretto di Gibilterra e che, quindi, le colonne d’Ercole di cui parlano i Terei in quel passo suddetto sono quelle per convinzione.
Ciò che lo dimostra è un altro dato dal quale emerge il motivo principale per il quale quanto su è giusto ma, anche, per cui i focesi non hanno detto che quando essi scoprirono Tartesso abbiano oltrepassato le colonne d’Ercole:
i Sami sono arrivati a Tartesso dopo i focesi e poco prima della fondazione di Cirene.
Ma poco prima della fondazione di Cirene, ai greci la Libia era ancora sconosciuta, inesplorata.
Lo si capisce quando Erodoto parla, appunto, della fondazione di Cirene avvenuta nel VII a.C.
Lo storico riporta, prima, ciò che raccontavano i Terei e cioè che Grinno, re dell’isola di Tera, andò a Delfi dove interrogò l’oracolo la Pizia la quale gli disse che avrebbe dovuto fondare una città in Libia. Che Grinno disse all’oracolo che lui era troppo vecchio per assumersi tale impresa e che chiese, sempre all’oracolo, di impartire l’ordine ad uno dei giovani che lo avevano seguito, accennando a un tale di nome Batto. Il racconto continua dicendo: «ma poi, partitisi di là non fecero più alcun conto dell’oracolo, dato che non sapevano in quale parte della terra fosse la Libia e non osavano far partire una colonia verso destinazione ignota».
Dato, però, che sull’isola di Tera non cadde pioggia per sette anni di seguito, i Terei consultarono l’oracolo la Pizia che ripeté loro il comando di mandare una colonia in Libia. E dato che non c’era rimedio per i loro malanni, i Terei inviarono delle persone a Creta a cercare se qualcuno dei cretesi e non, fosse mai giunto in Libia. E continua in questo modo:« Aggirandosi qua e là per l’isola questi messi… incontrarono un pescatore di porpore, di nome Corobio, il quale affermava di esser giunto, portato dal vento, in Libia e a Platea, un’isola della Libia…..Avendoli Corobio guidati a quest’isola di Platea, ivi lo lasciarono con una scorta di viveri per un certo numero di mesi; essi, invece, ripresero il mare in tutta fretta per fare ai Terei una relazione riguardo all’isola. Siccome, però, la loro assenza si prolungava più del tempo stabilito, Corobio venne a mancare di tutto. Ma poi una nave di Samo, di cui era proprietario Coleo e che faceva vela verso l’Egitto (l’Egitto non faceva parte della Libia), fu dal vento dirottata verso quest’isola di Platea e i Sami, da Corobio informati di tutta la questione, gli lasciarono viveri per un anno. Quindi essi, salpati dall’isola con gran desiderio di raggiungere l’Egitto…come guidati da un dio giunsero a Tartesso ». Nel frattempo i Terei, tornati in patria, riferirono di aver preso possesso di un’isola presso la Libia e si decise, allora, di mandarvi degli uomini che avrebbero avuto Batto come capo e re e li inviarono con due navi a 50 remi.
A questo punto Erodoto prosegue riportando ciò che raccontavano i Cirenei i quali, dopo aver raccontato la loro versione per ciò che riguarda Batto, continuano dicendo che i Terei rimasero nell’isola di Platea due anni; che dopo i due anni nell’isola colonizzarono, sempre i Terei, una località di nome Aziri che si trovava in terra libica di fronte all’isola di Platea dove ci rimasero sei anni e che al settimo anno i Libici riuscirono, scaltramente, a convincere i Terei ad andare più a occidente dove, sempre i Terei, fondarono Cirene. Il racconto continua dicendo: «Finché fu in vita il fondatore Batto, che regnò per 40 anni, e suo figlio Arcesilao, che ne regnò 16, gli abitanti di Cirene rimasero tanti di numero, quanti erano stati in principio mandati a fondare la colonia. Ma sotto il terzo re, Batto soprannominato Felice, la Pizia con i suoi responsi prese a incitare i Greci di ogni regione ad imbarcarsi, per abitare la Libia insieme con i Cirenei; poiché questi li allettavano con la promessa di una ripartizione del terreno».

Come si vede, poco prima della fondazione di Cirene, la Libia, ai greci (i Terei erano greci), era sconosciuta, inesplorata e, quindi, Ercole non poteva, ancora, aver piantato le sue colonne.
Dunque ai tempi di quei focesi e di quei Sami che arrivarono a Tartesso, le colonne d’Ercole non esistevano ancora e, di conseguenza, i Sami non potevano aver detto di aver oltrepassato le colonne d’Ercole; hanno detto, invece, di aver oltrepassato uno stretto, uno stretto oltre il quale c’è il mare esterno, cioè lo stretto di Gibilterra.
Come, Erodoto, non poteva dire che i focesi erano stati anche i primi, tra i greci, ad averle oltrepassate.
Come inoltre, Erodoto non poteva dire, neppure, che erano stati i Sami i primi ad averle oltrepassate perché per lui, una volta oltrepassatele, per giungere a Tartesso essi sono rientrati all’interno della terra abitata.
L’unica differenza tra queste due stirpi di greci, per quanto riguarda Tartesso, è che i Sami hanno raggiunto quello scalo commerciale, oltre che attraversando lo stretto di Gibilterra, passando, anche, dalla Libia all’Europa, mentre i focesi hanno scoperto quello scalo commerciale costeggiando e solo, l’Europa (Tirrenia - Iberia - Tartesso) e questo potrebbe spiegare il perché i focesi non abbiano detto, neppure, di aver oltrepassato uno stretto.
Dunque, le colonne d’Ercole nasceranno dopo la fondazione di Cirene (avvenuta, all’incirca, nel 630 a.C.) ma, solamente dopo che Cartagine, allarmata per l’espansione greca nel Mediterraneo occidentale, bloccherà ai greci la possibilità di raggiungere Tartesso, quindi di oltrepassare, di fatto, lo stretto di Gibilterra, bloccandogliela, in Europa, dalla Spagna (controllandone la parte meridionale), e in Libia, dalle Sirti (da Leptis Magna, situata a meno di 100 km dalla Grande Sirte, potevano bloccare un’eventuale avanzata greca da Cirene).
E così si capisce, anche, per quale motivo Omero (VIII a.C.) ed Esiodo (tra l’VIII e il VII a.C.) nei loro poemi non parlano mai di colonne d’Ercole.

Domai la 3° e ultima parte