Diretto da Pierluigi Montalbano

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sabato 31 luglio 2010

Uccelli: la bussola del passato.


Gli uccelli: strumenti di navigazione nel mondo antico.
E' molto probabile, secondo l'opinione degli specialisti dei sistemi occasionali di navigazione nel mondo antico, che i comandanti delle navi minoiche e micenee portassero a bordo, nei lunghi viaggi per mare, qualche uccello che servisse al preciso scopo di fornire un aiuto durante la navigazione. Una reminescenza sicura di questa pratica la possiamo trovare ritrovare nel mito di Giasone. Il viaggio degli Argonauti segnava un itinerario che rendeva percorribile la rotta verso la Colchide e, nel contempo, fondava misticamente la possibilità di seguire una via marittima mai tracciata prima di allora.
Tutto il complesso del mito di Giasone parrebbe confermare l'ipotesi relativa all'uso degli uccelli come elemento per favorire la navigazione. Significativo, a questo proposito, è l'episodio delle rocce Simplegadi. Gli Argonauti avevano superato quell'ostacolo lasciando volare un non precisato uccello davanti alla nave, vogando poi a gran forza riuscirono a passare tra le rocce, nello stretto indicato dal volatile.

E' difficile pensare che tale stratagemma costituisca soltanto un espediente narrativo. Trattando del tema relativo all'uso degli uccelli come sistema occasionale di navigazione, lo studioso R. W. Hutchinson - pur ammettendo che " sarebbe interessante sapere se i comandanti dei mercantili minoici si valessero di un simile mezzo, poco necessario quando navigavano verso le Cicladi, ma non disprezzabile nel caso di viaggi più lunghi, senza terre in vista, dato che le stelle non erano sempre visibili neppure nelle acque del Mediterraneo" - ritiene che "nei poemi omerici non se ne trova traccia". Ma le cose non stanno in questo modo, si possono ritrovare inequivocabili elementi di questa pratica nei testi omerici ed esiste in proposito una lunghissima tradizione che arriva fino alla letteratura cristiana medioevale.
L'uso degli uccelli come aiuto alla navigazione è già in qualche modo adombrato nel mito di Utnapishtim (il Noè dei sumeri), contenuto nell'epopea dell'eroe sumerico Gilgamesh. In quest'importante racconto troviamo la ben nota narrazione dalla quale venne in seguito tratto l'episodio biblico del diluvio universale. La famosa vicenda lascia pochi dubbi sull'uso effettivo che nel mondo antico si faceva della pratica in argomento.
Per approfondimenti sul poema: http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/sintesi.htm
Utnapishitim aveva fatto costruire un'arca, "aveva navigato per sette giorni e sette notti, mentre le acque salivano e al settimo giorno l'arca aveva fatto approdo su una montagna "agli estremi limiti della terra", ed egli aveva aperto una finestra dell'arca, e ne aveva fatto uscire una colomba per vedere se il livello delle acque fosse sceso ma la colomba era tornata perché non aveva trovato un luogo dove posarsi poi aveva fatto uscire un corvo, e il corvo non aveva fatto ritorno. Il particolare del corvo che non ritorna al luogo della sua partenza indica chiaramente che il volatile ricopre la funzione di segnare una direzione, precisamente quella nella quale si sarebbe potuta trovare una terra emersa.

Nel mito di Utnapishtim, così come nell'espediente di Noè nel racconto biblico, l'uso di mandare in volo degli uccelli è la derivazione di una precisa consuetudine: quella di utilizzare dei volatili come "animale guida" con il preciso compito di "aprire nuove e più sicure vie". E' facile supporre che una tale abitudine "marinaresca" non sia stata inventata dai sumeri ma che venisse praticata già da epoche precedenti.

L'immagine in bianco/nero della navicella bronzea è tratta da Lilliu, 1966.
Le immagini a colori delle navicelle nuragichesono di Montalbano, SRDN, Signori del mare e del metallo.

venerdì 30 luglio 2010

Bronze Age - History Civiltà nuragica - Bronzetti -


Con l’acquaiolo prosegue l’analisi dei bronzetti sardi classificati da Lilliu nel 1966. Si tratta di un personaggio (n° 60 del libro di Lilliu) che saluta con la mano destra, e nella sinistra impugna una fune da cui pende un vaso del tipo di quello in terracotta inciso trovato a Sant'Anastasia di Sardara. È alto 13.3 cm, proviene dal pozzo sacro di santa Vittoria di Serri ed è conservato al museo di Cagliari. Il recipiente ha il corpo ovale col fondo stretto e piano. Il colletto è alto e rovescio ed è diviso dal corpo con una profonda gola. Sul ventre presenta un colatoio per versare il liquido. La tunica, con l’orlo inferiore prolungato a coda, è priva di maniche. Un pugnale ad elsa gammata, sospeso nella solita fascia a tracolla, costituisce l’unica arma del personaggio. Un cordone con nodo sul davanti chiude il vestito all’altezza della vita. Occhi a mandorla, sopracciglia e naso con schema a T e bocca carnosa completano la rappresentazione.

Una figura caratteristica e facilmente riconoscibile fra quelle esposte nei musei è “Barbetta”, classificato al n° 61 di Lilliu 1966, alto 12.5 cm, proveniente da Mazzanni (Villacidro) e conservato al museo di Cagliari. Nella mano destra mostra una ciotola emisferica con una forma di ricotta sul fondo. Nella sinistra presenta un piatto con 5 pezzi di frutta secca. Una larga banda posta sul capo lascia scoperti i capelli nella parte superiore e le ciocche ricadono anche sulla fronte e sulla nuca. L’espressione del volto è differente da quella consueta dei bronzetti. Mento e naso a punta, occhi globulari e sopracciglia ad arco costituiscono un unicum fra quelli conosciuti in Sardegna.Un corto gonnellino con lembo annodato sul davanti e un semplice corpetto liscio sono gli unici elementi del vestiario. A tracolla sul braccio sinistro si nota un tascapane come quelli usati ancora oggi dai pastori sardi quando si recano in campagna.
Una statuina caratteristica, simile a qualche figura rappresentata nelle grandi statue di Monte Prama, è il “pugilatore-corridore”, classificato al n° 64 di Lilliu, alto 12 cm, proveniente da cala Gonone – Dorgali e conservato al museo di Cagliari. Il braccio destro, piegato a gomito, è sollevato e il pugno è avvolto da un guantone in cuoio che ricopre tutto l’avambraccio e presenta nella parte superiore una prominenza metallica che lo rende pericoloso se utilizzato come arma. La mano sinistra tiene uno scudo flessibile, forse in cuoio, che copre il capo. La cintura con 4 borchie, che copre il ventre, tiene un gonnellino a coda, tipico di soldati e generici, come ci ricorda anche il Lilliu nella sua descrizione. Per il resto il corpo è nudo.

Per questo bronzetto vi consiglio la lettura della mia interpretazione di corridore nel post pubblicato in Marzo al seguente link:

http://pierluigimontalbano.blogspot.com/2010/03/i-corridori-di-monte-prama.html

Immagini tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica.

giovedì 29 luglio 2010

Bronze Age - History Civiltà nuragica - Bronzetti - Gli offerenti


Gli offerenti
Una serie di personaggi che mi ha sempre affascinato è quella degli “Offerenti”. È stata illustrata nel 1966 da Lilliu nel libro “Sculture della Sardegna Nuragica”, e in questo mio lavoro di sintesi mostrerò alcuni bronzetti rappresentativi che consentiranno ai lettori di farsi un’idea su queste sculture.
Il n° 48, alto 12.5 cm, proveniente dal tempio impetrale di Santa Vittoria di Serri, è esposto al museo di Cagliari. Il volto presenta il consueto schema con occhi a mandorla, naso e sopracciglia marcati a T, già visto anche nei menhir, e presenta un copricapo a calotta. La doppia tunica sovrapposta è anch’essa tipica di molti bronzetti, così come la bandoliera a tracolla che sostiene il pugnaletto a elsa gammata. Fin qua si tratta di una simbologia ripetitiva che suggerisce una cronologia ben definita per tutte le statuette con queste caratteristiche. La differenza rispetto ai guerrieri è rappresentata nelle mani. Quella destra mostra il “segno del saluto” di cui parleremo in futuro, mentre la sinistra “offre” un piatto tondo che contiene alimenti, forse fette di carne.

La statuina n° 51 è alta 19.5 cm, è esposta al museo Pigorini a Roma e proviene da una località sconosciuta della Sardegna. Pugnale a tracolla, atteggiamento di saluto, doppia tunica e copricapo sono quelli già descritti per la n° 48 ma sopra le vesti è posta una elegante stoffa con frangia che pare un mantello principesco e rende nobile il personaggio rappresentato. La mano sinistra è spezzata e impedisce di intuire cosa offrisse questo bronzetto. Non deve sfuggire che potrebbe essere un capotribù con bastone anziché un offerente, ma il bronzetto n° 52, che è identico e quindi è inutile la sua descrizione, toglie ogni dubbio.

L’offerta è di alimenti, forse dolci o pane. Per completezza di informazione segnalo che le statuette n° 53 e n° 55 di Lilliu sono identiche alla n°51.
Il bronzetto n° 56 segue lo schema dei precedenti ma l’offerta è portata a spalla ed è contenuta in un vassoio rettangolare in legno, o sughero, con l’orlo rialzato. Si tratta di ciambelle con il buco in mezzo. Da notare che il mantello, a differenza dei precedenti, è striato.

Tutte le immagini sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica

mercoledì 28 luglio 2010

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti - Gli arcieri


Esaminiamo oggi 3 tipologie di arcieri, così da avere un quadro chiaro di questi guerrieri.
Il primo è la statuina n° 16 del libro di Lilliu, classificato come “arciere con asta a penna direzionale”. È alto 23.5 cm, proviene da Abini (Teti – Nuoro) ed è conservata al museo di Cagliari. L’atteggiamento è pronto per mirare e scagliare la freccia, con il piede sinistro in avanti. Nel polso destro si nota il brassard, in questa posizione forse perché l’arco è molto grande. Il copricapo è quello già visto nella statuina n° 12, così come la doppia tunica, anche se in questo caso non vi sono frange. A difesa del guerriero ci sono la goliera doppia e le gambiere. Al petto è presente la placca rettangolare dalla quale spunta, nella parte inferiore, il pugnale a elsa gammata. Sul dorso abbiamo l’astuccio conico per le punte di freccia, un fodero con la spada e una lunga asta che termina con tre anelli che la fissano ad una penna triangolare striata, forse di piume, considerata da qualche studioso un’insegna identificativa. Il copricapo a calotta presenta lunghe corna spezzate.

Il secondo personaggio è il n° 17 della classificazione di Lilliu, 1966, è alto 17 cm, proviene da Abini – Teti, ed è conservato al museo di Cagliari. Si presenta in posizione pronta al lancio, con i piedi girati e le braccia in perfetta posizione stilistica dell’arciere. Vesti, armatura e copricapo con lunghe corna sono identici al precedente arciere n° 16 ma in questo non c’è la goliera. I capelli che fuoriescono dall’elmo mostrano un tratteggio sulla nuca, resi con lo stilismo del ramo schematico. Sopracciglia e naso presentano il noto schema a T.

Il terzo guerriero con arco è il n° 36 di Lilliu, 1966, alto 18.8 cm, proveniente da Suelli e conservato al museo di Cagliari. Il consueto copricapo a calotta con lunghe corna e la doppia tunica lo avvicinano ai precedenti, ma in questo caso l’aspetto è rozzo, quasi come lo si dovesse ancora rifinire. Dalle spalle pendono due bande e indossa un corpetto striato. Le gambiere sono divise in due pezzi sul davanti, anziché dietro ai polpacci. La mano destra impugna una spada ma si nota solo l’impugnatura in quanto la rottura sopra l’elsa non consente di intuirne la forma. L’arco è grande, di quelli classificati “pesanti” da Lilliu. Si tratta di armi formidabili per i lanci a lunga distanza.
Immagini tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica

martedì 27 luglio 2010

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti - guerrieri


Guerriero con spada e arco n° 11 (classificazione di Lilliu, 1966) e Guerriero con spada e scudo n° 12 (classificazione di Lilliu, 1966).
Ambedue le sculture provengono da Monti Arcosu, Uta, sono alte 24 cm e sono conservate al museo di Cagliari. I due bronzetti sono identici nello stile, nel vestiario, nel supporto strappato e in parte immerso nella piombatura, per il tipo di veste a doppia tunica con frange. Presentano la stessa grande spada fogliata a nervature e lo stesso sistema di difesa con goliera e gambiere. L’elmo a due corna brevi rivolte in avanti ha due creste che armonizzano l’insieme e lo rendono più resistente. Occhi a mandorla, naso triangolare, capelli ben visibili e orecchie pronunciate sembrano eseguiti dalla stessa mano, e questo suggerisce la presenza di una bottega artigianale nella quale i maestri acquisivano le competenze necessarie per svolgere questa artistica mansione.

Fra i due personaggi vi sono anche delle differenze. Anzitutto il primo è un arciere con brassard in cuoio nell’avambraccio sinistro. La difesa è assicurata da una grande piastra rettangolare al petto legata con due striscie che passano sopra le spalle e tengono nel dorso un astuccio conico per le punte di freccia o per il grasso dell’arco. Nelle strisce si trova anche la faretra per le frecce. Il secondo guerriero ha uno scudo rotondo e nella mano che tiene la spada si nota un guanto striato che protegge la pelle nuda. Lo scudo è in cuoio e rinforzato da tre lamine circolari, e presenta l’umbone centrale in bronzo che costituiva un’arma da offesa. Sul retro dello scudo è fissato verticalmente un pugnale ad elsa gammata. Il pettorale presenta striature che Lilliu classifica come “pelle di muflone”, riconducendo alla letteratura antica che descriveva i sardi protetti da un’armatura in cuoio peloso.

Le immagini scultura n° 11 (arciere con spada) e n° 12 (guerriero con spada e scudo), sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica.

lunedì 26 luglio 2010

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti - Fromboliere e i lottatori


Fromboliere e lottatori
Il personaggio, alto 15 cm, proveniente da Monti Arcosu nel comune di Uta ed esposto al museo di Cagliari, presenta una fune attorcigliata afferrata con entrambe le mani strette a pugno. In realtà manca l’alloggiamento per l’oggetto da scagliare, ritengo quindi che non si tratti di un fromboliere. Proporrei un’ipotesi più realistica affermando che si tratta, invece, di un marinaio addetto alle corde delle vele o all’imbragatura degli oggetti riposti nelle stive delle navi. Un’ipotesi suggestiva potrebbe essere quella di vederlo come boia nell’attimo precedente l’esecuzione della condanna, ma visto che Lilliu propone un guerriero (classificato n° 8 del suo libro del 1966) mi terrò vicino alla sua prima proposta di fromboliere concordando su una poco dettagliata esecuzione da parte dell’artigiano che ha omesso di aggiungere la base nella quale inserire il proiettile, anche se rimane senza spiegazione la legatura a treccia: una fionda dovrebbe essere libera da nodi.

Il copricapo è a calotta liscia e sulle orecchie e sulla nuca si nota una corona di corti capelli. Il personaggio indossa una tunica senza maniche dalla quale, nella parte inferiore, spunta una sorta di pantaloncino corto guarnito da due frange. La consueta fascia a tracolla sostiene il pugnale ad elsa gammata. Naso triangolare, occhi a mandorla e pomo d’Adamo completano i dettagli di questo bronzetto. Dallo stesso sito di Monti Arcosu provengono alcuni personaggi abbigliati allo stesso modo ma privi di fune. Lilliu li classifica “Oranti” (n° 9, 1966) e “Lottatori” (n° 10, 1966).

Hanno dimensioni comprese fra 11 e 15 cm e sono anch’essi conservati al museo di Cagliari. Tutte le statuine mostrano la frattura dei perni con i quali erano attaccati ai supporti e dai quali sono stati strappati.

Immagini tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica

domenica 25 luglio 2010

Esposizione quadri a Pula


Si è svolta ieri sera a Pula l'inaugurazione della mostra artistica intitolata "I ritratti dell'introspezione" di Giuseppe Lulliri. L'esposizione dei quadri sarà aperta fino al 29 Agosto, presso casa Frau, nella piazzetta principale della cittadina della costa sud-occidentale della Sardegna, dalle 19 alle 24. Ingresso libero.
Di seguito ho inserito i commenti integrali degli amministratori e dell'autore.
Personalmente ho apprezzato lo stile e i soggetti scelti dall'artista. Ottimo disegnatore, dimostra la non consueta capacità di catturare la luce e una innata predisposizione a rappresentare il trascorrere del tempo sulla pelle dei personaggi scelti. Consiglio vivamente la visita.


Walter Cabasino, Sindaco:
Buonasera a tutti e benvenuti,
porto i saluti dell’amministrazione e della cittadinanza e ringrazio il sig. Lulliri per aver scelto Pula per questa sua importante mostra e ringrazio tutti coloro che si sono prodigati per la buona riuscita della mostra. Durante l’allestimento ho avuto modo di vedere i quadri e sono rimasto positivamente colpito per il fatto che la collezione racchiude tutte le fasi artistiche della vita del pittore, dall’età giovanile fino ai giorni nostri. Dalle prime tecniche a matita fino all’olio su tela, denotano la maturità artistica del sig. Lulliri. I quadri sono ritratti di vita quotidiana. Quando ho visto, ad esempio, “il pescatore” sono rimasto affascinato dal fatto che si può leggere la sua vita, dalle rughe alla pelle bruciata dal sole. Nel quadro della “Guaritrice”, Sa Bruxia, si evoca il ricordo di quegli anziani di paese capaci di guarire i mali della comunità passando dalle manipolazioni sulle articolazioni alla guarigione dal malocchio. Sono tutte azioni di vita quotidiana dei nostri paesi che mostrano come alcuni artisti, nello specifico di oggi il sig. Lulliri, amano la Sardegna e la nostra terra in particolare. Fra le tele ho gradito quella che rappresentava i “Cavalieri di Teulada”, e alcune opere che mostrano il papà dell’autore che suona la fisarmonica. Fra i quadri si notano alcune attività che occupavano la nostra comunità fino a qualche anno fa, quando nonostante l’economia non fosse florida c’erano gli spazi per alcune attività a carattere ricreativo e familiare. Oltre alla cattura quasi fotografica di momenti comuni del nostro territorio, ci sono anche degli aspetti che denotano la capacità introspettiva nel dipingere i personaggi. La gioia, l’angoscia, il dolore sono segni di una riflessione sui momenti della vita di ciascuno di noi e il sig. Lulliri dimostra di essere un pittore ormai maturo artisticamente. Oltre ai soggetti della vita quotidiana molto curati nei particolari, come si nota nei due pastori che lavorano il formaggio dove le pennellate di colore avvicinano la tela alla qualità fotografica, fra i quadri ci sono alcuni nudi ben proporzionati che denotano una ricerca del chiaro-scuro di ottimo livello, e varie opere che riguardano la vita politica, con personaggi dei giorni nostri accomunati con il mondo religioso. Si tratta di un’attività artistica che vuole ricercare tutte le sfaccettature della quotidianità. Ringrazio ancora l’artista per avere esposto in Casa Frau a Pula, un luogo nel quale si svolgono tante manifestazioni culturali e che rappresenta il cuore della nostra comunità, e auspico che questa prima mostra si rinnovi ogni estate e che il sig. Lulliri ripeta l’esperienza nella nostra cittadina.


Augusto Porceddu, assessore alla cultura:

Un aspetto che mi ha colpito della mostra è la straordinaria capacità tecnica di Lulliri nell’uso del tratto, nella matita, e nella sua grande fantasia nel catturare i soggetti delle opere in momenti di quotidianità. Nelle opere traspare una convinzione profonda di ciò che è realizzato. È un excursus legato alla vita stessa dell’artista che segna progressivamente l’evoluzione e la sua maturità artistica. Nonostante Lulliri sia nativo di Domus de Maria possiamo annoverarlo fra i nostri concittadini, e con le nuove prospettive che si vanno ad elaborare per lo sviluppo del nostro territorio siamo felici di averlo come espressione artistica della nostra comunità cittadina. Casa Frau sta diventando un centro culturale importante nel quale si tengono appuntamenti come “La settimana della scienza” e tutta una serie di incontri letterali invernali e primaverili che vedono la presentazione di libri. Abbiamo l’ambizione di sviluppare questo settore delle arti figurative che così completa il quadro di quelle che sono le espressioni della creatività artistica, letteraria, poetica e musicale. Ringrazio Lulliri per questa bella esposizione di quadri che oggi inauguriamo e gli auguro di sondare anche altri campi dell’espressione pittorica anche se, in verità, nella mostra ci sono anche dei richiami all’arte di Caravaggio, una divinità nel campo della pittura. Altre due splendide opere mostrano alcuni pastori intenti a preparare il formaggio, e pare che dalla tela esca fuori la luce. Questi quadri sembrano finestre che si aprono per catturare la luce.
Angelo Tolu, assessore al turismo:
Ringrazio fortemente sig. Lulliri per aver voluto questa sua mostra personale a Pula. L’artista è un cittadino onorario di Pula avendo esposto parte delle sue opere per diversi anni al museo Norace, e quella di oggi è una mostra importante, visto il numero delle opere presenti, più di 80. Da vari anni in cui mi occupo di manifestazioni di diversi livelli e devo dire che questa di oggi è la più rilevante per numero di quadri. Casa Frau è un punto di riferimento per le mostre e per tutta una serie di attività a carattere culturale che hanno lo scopo di valorizzare la nostra cittadina e renderla appetibile non solo per il mare e per il sole ma anche per l’intrattenimento culturale. Questa è una mostra legata al territorio e pur non volendo entrare nell’esposizione critica, in quanto non sono un addetto ai lavori e preferisco non addentrarmi in discorsi che non mi appartengono, da semplice visitatore ho avuto modo di constatare che molti dei personaggi dipinti esistono nella realtà dei nostri paesi e ho identificato qualcuno dei soggetti con persone che conoscevo o con personaggi tipici delle varie comunità, della quotidianità, del nostro passato e delle nostre tradizioni. È la dimostrazione che il nostro territorio ha radici profonde e l’insieme di queste tradizioni fa della Sardegna una regione unica, apprezzata soprattutto per questi valori. È nostro compito conservarli gelosamente e auguro al sig. Lulliri che la sua arte possa avere un giusto riconoscimento perché si tratta di un pittore a 360°. Dalle qualità tecniche fino ai soggetti, tutto è utilizzato nel migliore dei modi.

Giuseppe Lulliri, artista:
La mia presenza artistica a Pula risale ai primi anni Novanta e con questa sono giunto ormai a 79 esposizioni personali fra Sardegna, Italia e 2 in Germania. Nel 2000, con l’attività che ho aperto a Pula in una sala di 8x6 metri, ho esposto costantemente oltre 50 tele che alternavo per dare una completezza al mio lavoro. Ciò è durato fino al 2008, raggiungendo circa 15.000 presenze ogni anno, grazie ai turisti che nei mesi caldi affollano la nostra cittadina. È gratificante per un artista vedere il proprio lavoro apprezzato e in questi anni di mia frequentazione a Pula mi sono adoperato per cercare di dare uno spazio adeguato ai quadri, come questo di Casa Frau, facendo una formale richiesta alle varie amministrazioni che si sono alternate. Questo mio sogno non si riusciva a concretizzare perché ogni pochi anni cambiavano i referenti. Oggi, grazie alla flessibilità dell’attuale amministrazione, questa mia vecchia idea vede la luce e non vi nascondo la gioia, l’emozione e la gratificazione che trovo a essere qua con voi e dare inizio a questa esperienza. Il titolo della mostra è “i ritratti dell’introspezione”, infatti per me l’arte non è solo l’astrattismo, il concettuale o il surrealismo. Queste forme d’arte mi interessano poco, preferisco ritrarre la figura umana e i volti delle persone perché in ogni faccia c’è una storia. Se si impara a leggere i tratti di un volto si arriva a conoscere la vita di quella persona. Sembra che i tratti prendano le sembianze in base alla vita e ai trascorsi di ogni singolo soggetto. Quando riesco a riprodurre un viso nella sua realtà e nella sua storia, raggiungo il mio traguardo. Nella vita, inoltre, ci sono tante altre cose: le belle ragazze, i personaggi di paese, i pastori, i musicisti, ma ci sono anche cose meno belle e nella pittura cerco di rappresentare tutti questi aspetti. Nelle mie tele troverete soprattutto figure umili perché non mi piace rappresentare baroni, conti o nobili. Io vengo da lì, mio padre suonava l’organetto e molte delle scene che ho dipinto sono momenti vissuti realmente a casa mia negli anni Cinquanta e Sessanta. Mio padre suonava, mio zio cantava e ci si riuniva nelle case per stare insieme. Ringrazio l’amministrazione per avermi dato questa opportunità e ringrazio voi oggi per essere intervenuti così numerosi a questa iniziativa.

Fotografie di Sara Montalbano.

sabato 24 luglio 2010

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti -Comparazione capotribù


Per una più completa informazione sul Capotribù, vi segnalo altre due statuette esaminate da Lilliu nel suo libro del 1966, e inserisco le relative immagini. Si tratta del n° 5, denominato Capotribù orante, alto 20 cm ritrovato a Teti (Abini), n° 6 Capotribù ritrovato nel tempio ipetrale a Santa Vittoria di Serri, alto 11 cm, e n° 7, Capotribù proveniente da Monte Arcosu, Uta, alto 39 cm, tutti esposti al museo di Cagliari.
La statuina n° 5 presenta i residui di metallo nell’ancoraggio dei piedi e nel bastone nodoso. Colto nel segno del saluto, il personaggio ha un berretto a calotta e nella fronte si nota una sottile banda mediana in risalto, decorata a striature. Il mantello è identico a quello del capotribù n° 4 ma è arricchito da una frangia a trattini incisi che percorre tutto il bordo. Una larga striscia in cuoio legata a tracolla custodisce il pugnale ad elsa gammata. Nel collo si nota il pomo d’Adamo e alcuni ciuffi di capelli sono raccolti nella nuca.
La statuina n° 6 calza un copricapo a calotta con banda mediana in risalto come nel n°5. Il mantello presenta simili caratteristiche al precedente con frangia lungo il bordo. Il giro vita è cinto da un cordone annodato e il pugnale ad elsa gammata è mantenuto da una cintura a tracolla nascosta sotto il manto. Gesto del saluto e bastone del “comando” sono mancanti ma si intuisce la loro presenza al momento della realizzazione. Solita stilizzazione di sopracciglia e naso a T.

La statuina n° 7 è la più grande fra tutti gli esemplari sardi. Fu rinvenuta nel 1849 sotto un sasso con altre 6 statuine più piccole. E con 8 spade, una delle quali sormontata da un cervo stilizzato. Lo Spano fu il primo illustratore di questa scultura che segue lo schema e lo stile delle altre figure descritte. La mano destra impugna una grossa daga con lama a foglia nervata e manico cilindrico. Capo e schiena sono inarcati all’indietro, indiscutibile segno di comando. Due frange rigate scendono dietro le spalle e il solito pugnale ad elsa gammata completa l’insieme. Lo sforzo espressivo è concentrato sul volto e sulla testa, coperta da una calotta che lascia scoperti i capelli, segnati da due bande triangolari striate sopra le orecchie e la nuca. Occhi a mandorla, grandi sopracciglia e lungo naso evidenziano il consueto schema a T.
Nelle immagini tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica:
Sopra i Capotribù n° 5 e n° 7.
Centrale Capotribù n° 6.

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti - Il Capotribù


Inizia con questo post una panoramica sui bronzetti nuragici esaminati da Lilliu nel 1966 e oggi conservati nei musei sardi.
Per una migliore comprensione si consiglia l’esame del testo “Sculture della Sardegna Nuragica” scritto dal grande archeologo sardo e tuttora fonte primaria di ogni studio che utilizzi basi scientifiche.
Il Capotribù
Contraddistinta dal n° 4 della classificazione di Lilliu, la statuina sorge tuttora su una base in piombo utilizzata per l’offerta alla divinità. Proviene dal Santuario di Santa Vittoria di Serri, nella torre con feritoie, e misura 30 cm di altezza. Si tratta del capotribù esposto al museo di Cagliari e ad una prima analisi si nota il consueto gesto di saluto con la mano destra alzata e il pollice aperto. Il personaggio impugna un bastone liscio con testa conica che vari studiosi considerano “insegna di comando”. Il copricapo è a calotta con losanga ornamentale nel mezzo. La tunica è doppia e aperta su un fianco, con i lembi chiusi da bottoni. Il mantello è ampio e scende fino alle ginocchia, mentre nella parte alta arriva fino ai gomiti. Le fibre striate che si notano in evidenza suggeriscono un tessuto in lana caprina. Nel petto è ben rappresentato il pugnale ad elsa gammata inserito in un fodero in cuoio. Due corte trecce a corda spuntano sulla nuca e il viso si presenta fiero, con sopracciglia grosse che si innestano sul naso triangolare e lineare e che, insieme, evocano una simbologia ben nota agli studiosi, rappresentata anche in menhir e nelle statue di Monte Prama. L’essenzialità, l’atteggiamento fiero e i tratti distintivi della figura sprigionano energia vitale e, nonostante la statuetta sia immobile, pare che il capotribù sia colto in una posa dinamica, sembra che si appresti a "tranquillizzare" i suoi interlocutori. Il contegno momentaneo dura solo un attimo, rapidamente diverrà movimento, una caratteristica dell'arte dei più grandi scultori della storia, azzarderei quasi…manieristica, quello stile che conosciamo attraverso lo studio dell’arte rinascimentale, giunta in Italia alla fine del XV d.C. e che, iniziando con Andrea Del Verrocchio e Donatello, ci regalò artisti del calibro di Michelangelo, proseguì la corrente dinamica con Benvenuto Cellini, Bandinelli e Giambologna ed espresse i suoi massimi virtuosismi con Gian Lorenzo Bernini.

L'immagine è tratta da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna nuragica

venerdì 23 luglio 2010

Bronze Age - Sardinian History - Civiltà nuragica - Bronzetti


I bronzetti
Fra i difensori delle fortezze nuragiche vi erano diverse specializzazioni: frombolieri, arcieri, lancieri, portatori d'ascia, spadaccini e portatori di pugnale. Ogni categoria aveva un ruolo particolare. Tutti questi diversi raggruppamenti sono ben raffigurati dall'arte bronzistica del I Ferro.
I bronzetti sardi sono stati oggetto di analisi da parte di Giovanni Lilliu che, iniziando dagli anni Quaranta, ha realizzato la più completa esposizione sistematica critica dei bronzi figurati sardi tuttora disponibile. La classificazione del 1966 distingue un filone linguistico geometrico (gruppo Abini-Uta) ed un filone libero o spontaneistico (gruppo barbaricino-mediterraneizante), dipendenti da due diversi livelli di committenza individuati nella componente aristocratica e nella componente popolare della struttura socio economica nuragica. Gli elementi fondamentali di questa produzione sono una spiccata originalità e la conoscenza dell'identità sarda.
Uno dei problemi più spinosi della bronzistica figurata sarda è costituito dall'inquadramento del cosiddetto “sacerdote-militare” di Vulci L 111. Questo bronzo proviene da una tomba ad incinerazione villanoviana della necropoli di Cavalupo, elemento prestigioso di un corredo ricchissimo depositato all'interno di una caratteristica urna cineraria biconica in un contesto del IX a.C. Allo stato attuale della ricerca non è possibile isolare singoli esemplari che possano convincentemente essere considerati più antichi di quest'esperienza.
Relativamente alla Sardegna, i contesti solitamente utilizzati come punto di riferimento cronologico per il bronzi figurati si rivelano inesistenti o problematici. Il discorso descrittivo è affidato quasi totalmente ad elementi di tradizione locale (veste, calzari, brassard, scudo, guanto armato). A livello simbolico è sottinteso il richiamo a modelli prestigiosi di ambito orientale: gesto della mano destra allungata e stile utilizzato per gli occhi. Questa capacità di sintesi formale e concettuale delle botteghe artigianali sarde fin dalle origini, attesta l'estrema originalità di questa produzione.
L'interpretazione del bronzetto di Vulci richiama l'esigenza ostentatoria di una committenza locale che condiziona maestranze che hanno già completamente assimilato modelli di cultura elevata, combinandoli in una nuova sintesi non riportabile a sollecitazioni esterne circoscritte. Il bronzo di Cavalupo trova riferimenti all'interno del gruppo Abini, così nominato dal celebre santuario del nuorese che, a tutt'oggi, ha reso la più grande quantità di bronzi figurati.
Abbiamo due seriazioni tipiche: i demoni-militari ed i guerrieri. Relativamente alla prima serie si possono confrontare il demone militare L 106 e gli esseri demoniaci L 109 - 110 con il famoso eroe con quattro occhi e quattro braccia L 104 e con l'analogo demone militare L 105. Si nota l’accentuarsi di un gusto decorativo, che fa pensare ad una elaborazione mitologica accanto alla celebrazione del rango.
Per un confronto è interessante esaminare la testimonianza dei cosiddetti betili con simboli oculari della fine del II millennio a.C., in rapporto alla moltiplicazione oculare nella serie dei demoni-militari. È rilevante il mutamento nel passaggio dalla astrazione della pietra alla iconografia, minuziosa e precisa, della figura dell'eroe mitico, segno di elaborazioni genealogiche precise all'interno della classe aristocratica isolana in direzione della codificazione di “eventi mitici” sullo sfondo religioso tradizionale. Il sacerdote-militare nasce all'interno di un contesto di tecnologia metallurgica assai avanzata e saldamente attestata in Sardegna almeno dal Bronzo Finale.

La nascita della rappresentazione figurata appare espressione di una società strutturalmente modificata che avverte come fondamentale il momento della riproduzione di simboli allusivi di uno status; in altri termini, una società in cui la produzione figurativa è finalizzata alle necessità politiche e celebrative di un gruppo o classe dominante. Non a caso il bronzo di Cavalupo si inserisce all'interno di un sepolcro villanoviano in un rapporto ideologico di altissimo livello con le nascenti aristocrazie tirreniche.
Nel Bronzo Finale la Sardegna è al centro di interessi commerciali da parte di aree sviluppate dell'oriente mediterraneo. Immediatamente collegabile a questa produzione ”alta”, si registrano l’apparizione della seriazione delle navicelle allusive alla sfera del commercio-pirateria e le straordinarie elaborazioni araldiche. Il quadro sicuro che è possibile delineare è il seguente: una produzione “orientale” ristretta è documentata in Sardegna alla fine dell’età del Bronzo, ma non può storicamente essere definita come fenicia visto che almeno due secoli separano questa produzione dall'avvio delle esperienze figurative sarde.
La tendenza ad accostarsi quanto più possibile al dato cronologico del bronzo di Cavalupo crea notevoli problemi sia a livello stilistico che cronologico della produzione bronzistica figurata. Le esperienze orientalizzanti sarde sono effettivamente meglio comprensibili se rapportate al quadro etrusco della fase orientalizzante; il panorama si completa con la forte incidenza di elementi orientalizzanti greco-etruschi riscontrata da Lilliu nella bronzistica isolana e con gli strettissimi rapporti intercorsi tra gruppi aristocratici sardi e tirrenici intorno all’VIII a.C. Non si pretende certo di affermare che i Levantini siano stati completamente estranei alla diffusione dei motivi orientalizzanti nell'isola, considerato anche che valenze fenicio-cipriote sono presenti nella bronzistica figurata isolana.
Ē plausibile che l'aspetto “antico”, come è definito da Lilliu, dell’orientalizzante sardo, discenda dalla familiarità con il bagaglio decorativo e con il gusto da tempo circolanti nell'isola e legati alla presenza orientale, a valenza prettamente Cipro-micenea, anatolica e siriana, riscontrabili in Sardegna allo scadere dell’età del Bronzo. In realtà il problema delle origini è forse un falso problema; la prospettiva corretta pare quella di registrare e valutare la formazione di una società tecnicamente avanzata e strutturalmente complessa nel momento in cui compie la scelta politica ed ideologica della rappresentazione figurata; una società in grado di disporre di artigiani e di botteghe capaci di rielaborare in forma estremamente originale fermenti stilistici e iconografici, motivi culturali, che fin dall’età del Bronzo Finale dovevano essere ampiamente circolanti nell'isola.
Ritengo legittimo postulare che tali botteghe si avvalessero della presenza e della conoscenza di artigiani stranieri, a riprova del grado di articolazione della società proto-sarda. I gruppi sociali che costituiscono la committenza della bronzistica si riconoscono nella tematica eroica, principesca e sacerdotale della gestione del rituale. Non esiste, al di fuori della committenza aristocratica, classe diversa che abbia diritto alla rappresentazione.
La società sarda percorre un cammino retto e coerente che approda allo stile di vita delle grandi famiglie. Tale capacità di concentrazione di intenti celebrativi e propagandistici in questa iconografia è forse riportabile ad un suo collegamento con un “fatto mitico” puntuale, nelle gesta di un “Dio-eroe” legato ad un gruppo o una famiglia. Si individuerebbe l'esistenza di un gruppo che si autocelebra.
I gruppi a due figure appaiono raramente nella bronzistica sarda e soltanto in un caso, con il tema della figura femminile seduta che tiene in grembo una figura maschile, l’iconografia è ripetuta tre volte, consentendoci di ipotizzare l'esistenza di un prototipo illustre e ben divulgato, legato alla sfera del culto. La “Madre dell'ucciso” , la “Grazia” e la “Madre con bimbo in grembo” , sono prodotti di importantissimo valore perché, nel riproporre la medesima iconografia con rendimenti stilistici e motivazioni concettuali profondamente diversi, offrono la possibilità di rendere evidenti le differenze fondamentali, di valore non soltanto estetico-stilistico, ma concettuale.
Dal VI a.C. si registra il passaggio nella sfera cultuale salutifera: è impressionante osservare come “l'offerta della gruccia” L 62 non costituisca altro che l'esito della seriazione tipologica del “Capotribù”. Soprattutto colpisce la nuova veste concettuale, simbolica; al “Capotribù” di Uta, rappresentante di una casta ancora aristocratica e guerriera, si sostituisce un modesto “borgomastro” che affida al tema figurativo non la casta né il rango, ma la soddisfazione di appartenere ad un gruppo umano meritevole di qualche distinzione, il gruppo degli uomini “miracolati”.
Le caratteristiche riscontrate accomunano quest’ultima seriazione sarda ad una produzione di ambito etrusco-italico proveniente da santuari e stipi votive. Il predominio iconografico dell’orante-offerente, abbinato ad un mutamento di culto in direzione della dimensione del risanamento e del miracolo, autorizzano a ritenere per la situazione sarda il parziale allineamento ad un fenomeno che risulta generalizzato sul continente intorno V a.C. Ci si riferisce all'esplosione della religiosità popolare che orienta il culto in senso sanatorio.
È plausibile tentare di definire la sopravvivenza di una cultura indigena “positiva” nell’evolversi dei quadri culturali isolani al di là del consolidamento cartaginese e del profondo trauma che ha investito l'isola dopo la conquista punica e la stabilizzazione del dominio straniero, certo dovuto ad una radicale risistemazione delle risorse e dei mezzi produttivi, che si concluderà nel nuovo assetto che assumerà la Sardegna: deposito granario e serbatoio di manodopera schiavile e di mercenari.

Nelle immagini i bronzetti al museo di Cagliari e un collage di personaggi da "Sculture della Sardegna Nuragica" di Lilliu, 1966.

giovedì 22 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Olbia


Olbia
É una città punica fondata nel IV a.C. ma presenta tracce più antiche. Le fonti greche e latine (Pausania) parlano di una fondazione attribuita a genti greche guidate da Jolao. Uno dei materiali più interessanti rinvenuti è un simulacro ligneo trovato fuori contesto nell’area di un pozzo sacro. Negli scavi della città più volte sono venuti fuori materiali da trasporto greci: anfore ioniche, attiche, corinzie e coppe ioniche. Tutti questi materiali facevano pensare ad una frequentazione greca della città, ma negli ultimi 5 anni è stato trovato da Rubens D’Oriano un contesto greco integro con una grande quantità di materiali mediterranei dell’VIII a.C. accompagnati da materiali greci di VII a.C. L’ipotesi è che la Olbia arcaica sarebbe di fondazione mediterranea nel 740 a.C. e fino al 650 a.C., seguì una fase di frequentazione greca fino al 540 a.C. quando la battaglia navale di Alaria per il controllo del Mediterraneo occidentale fra greci, etruschi e cartaginesi, combattuta nelle acque fra Sardegna e Corsica e persa da tutti i contendenti, pone fine alla frequentazione della città. Dal IV a.C. abbiamo molti più elementi di datazione. Forse era un emporio e l'impianto della città è fortificato infatti fino all’Ottocento erano percorribili le mura. Le fortificazioni sono quasi del tutto scomparse, sono visibili solo in pochi punti della città. Si tratta di muri simili a quelli di Lilibeo, con zoccolo costruito con grandi blocchi di granito, la pietra locale, torri sporgenti e cisterne. La pianta è trapezoidale con doppio paramento verso nord e ovest, con muro singolo verso il mare. L'area è quella di Iscia Mariana dove Taramelli mise in luce una struttura complessa con quattro torri quadrangolari a distanza di 58 m, una delle quali con cisterna a bagnarola. La struttura era cinta con blocchi squadrati in granito a doppio paramento con distanza di 4 m: forse un corridoio percorribile o forse un riempimento per una maggiore resistenza. Un'altra torre è stata individuata a "idda zonedda" vicino alla stazione.

Il santuario si trova al centro della città dove c'è la chiesa di San Paolo. Essendo un tempio di Melqart ci fa capire lo spirito con il quale Cartagine fondò le città. Nello scavo del 1939 sono stati rinvenuti grossi blocchi squadrati, non certo di una abitazione, e si pensò ad una struttura pubblica. Rubens Doriano ha individuato un accesso monumentale, un pavimento a ciottoli e altre strutture che evidenziano un tempio punico con blocchi isodomi in granito, cementati con malta pozzolana. Il tempio era dedicato a Eracle per la presenza di un frammento fittile, forse una maschera. Una equipe di subacquei ha recuperato nel 1990 una testa cava del II a.C. rappresentante Eracle, con la leontè sul capo. È stata riferita ad ambiente di elìte romana che riusciva a far arrivare da Roma manufatti di fattura elevata. Il manufatto a maschera non è altro che un elemento della testa recuperata. Quindi un tempio di Melqart (Eracle romano) del IV a.C., molto recente dunque. Per Rubens Doriano c'è un richiamo alle divinità della prima fondazione con spirito coloniale di Cartagine. Melqart era protettore delle fondazioni in aree non controllate direttamente dalla città fondatrice. Gli ultimi scavi evidenziano una città datata dal IV a.C, non sono documentati strati più antichi. In sintesi notiamo una progettazione fatta a tavolino con impianto regolare simile a Lilibeo.

Le necropoli sono tre: Funtana Noa, Abba Noa e Joanne Canu. Sono in due aree distinte ma probabilmente era un’unica grande necropoli che l'urbanizzazione ha diviso. Fu scavata da Doro Levi, dal 1936 al 1940, quando vennero portate alla luce ben 150 tombe. La maggior parte sono tombe a camera con modulo d’accesso a pozzo, ma in alcuni casi presentano alcuni gradini alla base e dei banconi dentro le camere, esattamente come molte tombe africane. Questo dimostra che la fondazione di Olbia fu resa possibile dalla presenza di coloni venuti dall’Africa che hanno portato le loro tradizioni. Sono documentate anche tombe a camera con pozzo senza riseghe ma con gradini alla base come quella di Soùsse, a sud della Tunisia. Ci sono anche banconi di tipo tunisino-libico per la deposizione del corredo. Il sistema di chiusura delle tombe è rappresentato da muretti costruiti con anfore capovolte da trasporto messe in verticale come quelle che troviamo nei siti tombali nord-tunisini. Quindi un rapporto strettissimo con la madrepatria africana. Troviamo anche delle tombe a fossa con riseghe tagliate a diverse altezze oppure delle scalette tagliate su un lato che non sono documentate in altre aree della Sardegna. La pratica funeraria più diffusa nel IV a.C., oltre ai primi due tipi, è quella a cassone.

Nel III a.C. si diffonde il rito dell’incinerazione, praticata in tombe a cista e a fossa, che sono però più numerose. Per i materiali preziosi abbiamo la collana di Funtana Noa del 350 a.C. che presenta una tecnica particolare: in età punica si usava la tecnica dove la pasta di vetro era applicata sul nucleo di argilla cruda apposto su un bastoncino. Sul nucleo, inserito nella pasta di vetro fuso, venivano realizzati i particolari con una pinzetta applicando gli elementi quando erano caldi. Al raffreddamento si eliminava il nucleo e quindi nella parte posteriore si vedono le tracce dei fori. Erano più preziosi dell’oro ed erano prodotti in varie aree mediterranee e puniche. C'era uniformità di produzione in base al tempo e contemporaneità in varie zone, praticamente delle mode. Erano trasportati per il commercio anche in ambito celtico.
Le immagini sono tratte dal sito www.comune.olbia.ss.it

mercoledì 21 luglio 2010

A volte la laurea non basta

I neolaureati italiani faticano a trovare lavoro

Se a Milano, la capitale economica d'Italia, la situazione lavorativa dei giovani e' quella descritta nel rapporto "Il lavoro dei laureati in tempo di crisi" della Camera di Commercio di Milano e Unioncamere Lombardia, allora c'e' molto di cui preoccuparsi. I neo-laureati faticano a trovare lavoro e, quando lo trovano, difficilmente riescono a guadagnarsi un contratto stabile.

Lavoro: un mercato difficile
Secondo la ricerca, tra quanti si sono laureati nel corso del 2008, il tasso di disoccupazione e' salito al 10,8% (nel 2008 era stato del 7%). Ad avvertire la nefasta influenza della crisi economica sono stati soprattutto i giovani appena usciti dall'università: il 20% dei quanti aveva terminato gli studi nel 2008 un anno dopo era ancora senza lavoro.

Il contratto indeterminato? Spesso rimane un sogno
Il lavoro adatto ai laureati, a quanto pare, si trova solo nelle grandi metropoli. In Lombardia, per esempio, e' Milano ad attrarre il 55% dei neo-dottori, offrendo loro un'occupazione (si parla di circa 11mila persone). Lavorare, pero', non significa potere contare su un contratto stabile. Il tempo indeterminato, infatti, e' un sogno che puo' toccare solo uno su quattro. Il 14% dei neolaureati ha la possibilità di farsi le ossa con un contratto di tirocinio: giunto il termine dell'esperienza di formazione, pero', solo il 6% dei giovani si vede offrire un contratto a tempo indeterminato; mentre per il 38% dei neo-laureati insieme al tirocinio arriva al capolinea anche l'esperienza formativa.

Il rischio di sbagliare gli studi
Non tutto il mondo accademico e' uguale, pero'. Se i neo dottori in ingegneria, farmacia, matematica e in professioni infermieristiche presentano un tasso d'occupazione che oscilla tra il 70 3 l'80%, molto più dura e' la vita dei laureati in medicina (risultano disoccupati nel 70% dei casi), veterinaria (disoccupati nel 44% dei casi) e giurisprudenza (disoccupati nel 40% dei casi). In ogni caso, tuttavia, gli stipendi non sono certo d'oro: chi ha la fortuna di mettere la firma sotto un contratto a tempo determinato o indeterminato guadagna in media tra i 1200 e i 1500 euro al mese; lo stipendio di chi lavora con contratto di collaborazione va dai 500 ai 750, mentre i tirocinanti difficilmente raggiungono i 500 euro mensili.

fonte: http://finanza.tiscali.it/FP_articolo.aspx?data=09/07/2010&codice=20100709Lavoro_1

martedì 20 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Tharros


Tharros

A Tharros abbiamo la città punica e la città romana ma la Tharros mediterranea non si capisce dove fosse ubicata. Iniziamo con le due necropoli: quella settentrionale posta nel villaggio di San Giovanni, e quella meridionale. Tutti i musei del mondo hanno migliaia di reperti mediterranei e punici provenienti dalle tombe di Tharros. Non sappiamo se le due necropoli servissero due centri diversi. Della città mediterranea ci sono il tophet e qualche tomba. La necropoli meridionale è molto estesa e fu saccheggiata nell’Ottocento. Fino a qualche anno fa si pensava che la necropoli mediterranea fosse piccola e si trovasse presso la Torre Vecchia, mentre la necropoli punica doveva essersi estesa nell’area circostante ma gli ultimi scavi hanno dimostrato che non è così. Le tombe arcaiche sono di due tipi: a fossa e a cista litica. In molte di quelle a fossa ci sono tracce di bruciato e abbiamo incinerazione primaria. Altre, più piccole, sono a deposizione secondaria. L’unica tomba mediterranea documentata nella necropoli meridionale è stata trovata a filo con una tomba punica, quindi i punici conoscevano l’esatta ubicazione delle tombe fenicie e scavavano le loro a filo, rispettando le precedenti. La tomba mediterranea a fossa era coperta con lastre di arenaria cementate con argilla. Sotto le lastre la deposizione era ad incinerazione secondaria con il corredo costituito dalla brocca con orlo a fungo, il piatto e la pentola. Nell’Ottocento il Pais segnalò una tomba a cista litica.

In età punica ci sono due tipi di tombe: a fossa parallelepipeda e a camera. Le prime erano scavate nella roccia e coperte da lastre, a volte inserite in riseghe scavate in alto e cementate con argilla. Quelle a camera occupavano il terreno in profondità, mentre negli spazi liberi si alternavano quelle a fossa che erano più superficiali. Il modulo di accesso era a dromos, con scale che nella fase più antica occupavano tutto il lato breve, mentre nelle tombe più recenti si limitavano ad una fascia, come quelle africane. Un unicum è costituito da una tomba che ha la scala al centro. Dopo la deposizione del defunto l’ingresso veniva sigillato con una lastra cementata con argilla e il dromos della tomba veniva riempito di terra. Le camere sono piccole, spesso con delle nicchie sulle pareti laterali e i pavimenti si trovano a livello più basso del dromos. In molti casi ci sono delle linee dipinte in ocra rossa, come le tombe africane e una cinquantina di Cagliari. Come a Kerkouane, vi sono delle tombe che sono state intercettate dal dromos di altre tombe costruite successivamente. In questi casi veniva ricostruito il paramento murario della tomba. Il dromos veniva ultimato prima di costruire la camera perché ci sono casi in cui è completo ma la camera non è stata costruita perché avrebbe distrutto la tomba adiacente. Gli scavi hanno evidenziato tantissimi cippi funerari. La necropoli settentrionale è simile dal punto di vista tipologico a quella meridionale e sono state trovate anche qui delle tombe fenicie integre, scavate nella sabbia anziché nella roccia, coperte con lastre e il rito di sepoltura prevedeva l’incinerazione primaria. La necropoli è stata depredata ma le tracce hanno restituito dei materiali interessanti che mostrano tombe puniche con dentro materiali mediterranei. Anche questa potrebbe essere una prova della precoce penetrazione da parte dei cartaginesi, già intorno al 680-650 a.C.
Il testo di Acquaro su questo importante centro è completo e ne consiglio la consultazione.

Nelle immagini aeree il territorio di Tharros con strutture sommerse che potrebbero rivelarsi un antico porto.

lunedì 19 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Neapolis


Neapolis
Si trova all'estremità sud del Golfo di Oristano, nel territorio di Guspini. C’era un porto ma sappiamo poco della città perché gli scavi sono vecchi (Spano nell’Ottocento) e mostrano elementi romani mentre dell'età punica abbiamo poco. Si pensava che Neapolis fosse di fondazione cartaginese intorno al 300 a.C., “città nuova” in opposizione a Othoca “città vecchia”, basandosi su un frammento di 15 cm trovato in superficie riferito ad un vaso ma Bartoloni ha ipotizzato che il pezzo appartenesse a un sarcofago filisteo, anche se è molto piccolo. Il centro poteva riferirsi ad un fondaco pre-coloniale, infatti la frequentazione è sicuramente antica. Lo Spano descriveva un circuito murario arcaico curvilineo a blocchi sbozzati e altri conci di età punica. Lilliu ha scavato negli anni Cinquanta portando alla luce gli impianti termali. Gli ultimi scavi mostrano un altro elemento: la presenza di materiali fuori contesto del VIII a.C. che stravolgono ciò che era riportato nei testi: il golfo era controllato da tutti e tre i centri. Non sono state individuate ancora strutture ma gli scavi procedono. Le indagini superficiali hanno documentato anche manufatti attici del V-IV a.C. di buona fattura, con vasi di pittori importanti di Atene, quasi ci fosse un rapporto privilegiato fra le due città. Si parla anche di nome greco della città già dall'origine. Neapolis è nota anche per un lotto di terrecotte rinvenute da Zucca che ha ipotizzato la città come porto di arrivo delle merci che poi venivano smerciate. Erano nella favissa di un santuario salutifero del IV-III a.C. Esistono vari santuari di questo tipo: sono caratterizzati dalla presenza di terrecotte fatte a mano che rappresentano figure umane che si toccano le parti dolenti del corpo, quindi edifici costruiti per le dediche dei malati. All'interno sono state trovate anche rappresentazioni fittili anatomiche di gambe, mani e piedi che si aggiungono alle statuette realizzate al tornio in epoca punica ed esposte al museo di Sardara. Sono tutte diverse, realizzate con la tecnica a mano del pastillàge. Le statuette ci danno indicazioni sulle patologie dell'epoca e una delle malattie più diffuse era sicuramente il tracoma agli occhi.

L'immagine delle terme di Neapolis si trova al seguente link: http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=29289

sabato 17 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Sant'Imbenia


ALGHERO - Non smette di stupire Sant'Imbenia.

L'insediamento archeologico nella Baia delle Ninfe, messo ai raggi x, dagli studiosi delle Università di Sassari e Cambridge continua a restituire importanti chiavi di lettura del passato.
Tra le più significative scoperte delle ultime settimane un ripostiglio interrato zeppo di lingotti in rame.

link diretto: http://www.alghero.tv/articoli.asp?id=7752

Immagine e articolo tratti da Alghero.TV del 16.7.2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Golfo di Oristano - Othoca


Il Golfo di Oristano
Fu importante in età mediterranea e punica per le risorse agrarie e come via di accesso dal mare verso l’interno. Era controllato da tre città: Neapolis a sud, nel territorio di Guspini, Othoca al centro, nel territorio di Santa Giusta e Tharros a nord nel territorio di Cabras. Neapolis significa città nuova e Othoca indica città vecchia. La città più antica sarebbe Othoca, risalente al VIII a.C., poi Tharros e infine Neapolis dopo la conquista cartaginese. Ultimamente a Neapolis sono stati recuperati materiali dell’VIII a.C. e quindi anche questo centro potrebbe essere una fondazione mediterranea. Erano tre città indipendenti in seguito controllate da Cartagine.
Othoca
Si trova in corrispondenza del bacino lacustre dell’attuale Santa Giusta. Le ultime ricerche hanno arricchito i ritrovamenti nonostante il centro moderno sia sorto sopra il vecchio insediamento, che era sotto l’attuale Basilica di Santa Giusta, l’unico rilievo che svetta sulla piana. Sotto la cripta della chiesa sono state individuate negli anni Novanta delle strutture in parte attribuite ad età nuragica (quelle curvilinee), e in parte ad età punica (quelle rettilinee che si incontrano ad angolo retto). Nell'abitato, sulla collina dove si trova la basilica di Santa Giusta, ci sono tracce puniche, forse l'Acropoli. Nella zona del sagrato c'è una cortina muraria a doppio paramento con blocchi poligonali in basalto. All'esterno c'è un fossato e, fuori contesto, ci sono materiali arcaici (VIII a.C.) Nella stessa area, sotto la cripta, sono documentate strutture nuragiche di un villaggio e altre con materiali di età ellenistica (III a.C.). A fine 1800 sono stati trovati alcuni carnofòiri (bruciatori) con testa femminile, dedicati a Demetra, un culto introdotto in tarda età e proveniente dalla Sicilia. In via Foscolo è stato trovato un muro a L con blocchi di basalto attribuito alle fortificazioni arcaiche, come il muro del sagrato. Gli scavi degli anni Novanta nella parte settentrionale dell’abitato hanno permesso di individuare delle strutture che forse si riferiscono a fortificazioni o ad abitazioni. C’è stata continuità d’uso fino al medioevo e ciò che conosciamo meglio è la necropoli, ubicata nella zona sud di Santa Giusta, in corrispondenza della chiesa romanica di Santa Severa, lungo la via principale. Già nell’Ottocento furono scavate un gran numero di tombe, ma i materiali sono stati prevalentemente venduti. Solo pochi reperti sono stati esposti nei musei. Nel 1910, in occasione della costruzione dell’edificio dell’ex genio civile, vennero individuate una serie di sepolture e nel 1984 sono riprese le indagini quando, nel corso della sistemazione del giardinetto della chiesa di Santa Severa, la ruspa intercettò una grande tomba mediterranea a camera, costruita sul fondo di una fossa a 4 metri di profondità. Furono utilizzati grandi blocchi in arenaria perché il materiale litico non è presente a Santa Giusta, infatti il territorio è una piana alluvionale. É una tomba ricchissima, con oltre cento manufatti ceramici punici e di importazione, un piatto attico, gioielli, amuleti e strigi (strumenti in ferro ricurvi di tradizione greca utilizzati per detergere e cospargere d’olio gli atleti che partecipavano a giochi o frequentavano le palestre). Già qualche decennio fa fu trovata una tomba simile, dalla quale furono prelevati tanti materiali, in parte dispersi, ma quella tomba non è più stata rintracciata. Il pavimento è in lastre, i paramenti murari presentano delle nicchie e la copertura è costituita da 4 lastre poste di piatto. La tomba è stata in uso dal VII a.C. fino al IV d.C. ma alcuni studiosi ritengono che sia punica, visto che i materiali si datano prevalentemente dal V a.C. Il modulo d’accesso è scavato nel bancone alluvionale ma la forma dell’ingresso non è chiara perché la tomba risulta aperta più volte. Furono rinvenute delle pitture che purtroppo sono svanite poche ore dopo l’apertura a causa della luce e dell’aria che hanno rovinato velocemente l’intonaco non più sigillato. Pare ci fosse la rappresentazione di un cane e di un simbolo astrale colorato di nero. Le deposizioni erano ad inumazione, ad eccezione di un’incinerazione deposta all’interno di un’urna cineraria romana.

Nella stessa area, vicino alla chiesa, sono venute fuori tante tombe ma altre si trovano sotto le costruzioni attuali. La maggior parte sono mediterranee e romane perché probabilmente la necropoli punica è ubicata in un’altra zona. Le più antiche, del VII a.C., sono a fossa ad incinerazione secondaria con corredo formato da brocche panciute. Sono sempre coperte da lastre in arenaria sovrapposte. Il corredo è completato da brocche con orlo a fungo, coppe proto-corinzie, brocche trilobate, piatti, pentole ed elementi etruschi come i buccheri. In associazione ci sono oggetti d’ornamento e oggetti di importazione: anelli in argento, scarabei, amuleti e vaghi. A Santa Giusta è documentata anche l’incinerazione primaria, si nota dalla lunghezza e dalle tracce di bruciato, nonché dall’argilla delle pareti interne che risulta vetrificata dal calore. In due casi abbiamo tombe a cista litica con lastre poste a coltello, verticalmente. La maggior parte delle tombe sono del VI a.C. Le urne sono composte da vasi, a volte tagliati, con all’interno le ossa, il piatto e il pentolino. In qualche caso i sarcofagi punici sono andati a finire trasversalmente a precedenti tombe mediterranee, a dimostrazione della frequentazione assidua della zona. Le tombe puniche, quelle a partire dal V a.C., presentano prevalentemente dei sarcofagi. In un caso è stata rinvenuta una punta di lancia. Un grande sarcofago punico, lungo oltre due metri, è stato riutilizzato dai romani come luogo di incinerazione del defunto, si nota dalle bruciature laterali. I materiali presenti nel sarcofago sono stati spostati all’esterno per fare posto alle ossa del romano e al suo corredo.
Ci sono anche tombe infantili ad enkitrismos con corredo di braccialetti e altri materiali.
A Santa Giusta l’incinerazione è arrivata prima del resto della Sardegna, con tracce risalenti al VI a.C., forse a segnalare che l’influenza cartaginese arrivò precocemente. Questa ipotesi è rafforzata dalla presenza, in una tomba del VI a.C., di un rasoio, strumento tipico dei cartaginesi non presente in ambito mediterraneo arcaico.
In epoca romana si passò all’incinerazione entro urne formate da semplici pentole con coperchio, mentre più rare sono le tombe ad inumazione.
Dal 2005 sono iniziate le indagini subacque nello stagno. Già nel corso di scavi precedenti erano state ripescate delle anfore mediterranee e puniche con all’interno resti ovi-caprini di ossa macellate ma la soprintendenza ha deciso di approfondire l’indagine. I materiali erano sparsi in una vasta area e si è deciso di montare il cantiere in un’area limitata a 60 x 60 m, con delle maglie di 13 m di lato, per scendere in profondità. Purtroppo l’acqua non è limpida e solo di mattina si sono potute fare delle foto che hanno evidenziato la situazione. Con una pompa è stato asportato il sedimento e si è grigliato il materiale. La situazione archeologica ha mostrato la dispersione dei manufatti e si è notato che sotto un primo strato di fango di circa 50 cm c’erano decine di anfore sotto le quali si trovava uno strato di conchigliette. Sotto le conchiglie c’era un altro strato di fango e sotto di questo sono stati rinvenuti numerosi legni (di imbarcazioni e forse di qualche struttura), alcuni curvi e altri bruciati. Se i legni fossero rimasti in mare non si sarebbero conservati ma in questo caso la fauna ignivora non era presente perché gli strati erano sedimentati nel fango. All’interno delle anfore c’erano resti di animali, pesci e derrate alimentari: semi di uva, pigne intere, pinoli, semi di ciliegie, nocciole, olive, mandorle e altro. L’interpretazione di questo straordinario giacimento distante 600 m dalla riva pone problemi di natura morfologica perché sappiamo che il mare si è innalzato di oltre 2 metri negli ultimi 3500 anni e non sappiamo come fosse conformata la linea di costa. Certamente i materiali sono stati sepolti al massimo nel giro di qualche giorno, altrimenti le genti del luogo li avrebbero recuperati. Probabilmente si trattò di un evento alluvionale che ha provocato lo straripamento del Tirso con conseguente trascinamento dei materiali a valle. Forse una nave carica di anfore è affondata ed è stata portata lì dalla corrente. I materiali, venuti a contatto con il mare, non sono stati recuperati. Il contenuto delle anfore attesta attività di allevamento e di conservazione del pesce. Solo in Sardegna ci sono quel tipo di anfore e siamo dunque certi che la zona, in quell’epoca, svolgeva un ruolo economico importante. Solo a Olbia sono state trovate anfore con pesce, ma nella maggior parte degli scavi si trovano resti animali. Questo recentissimo ritrovamento è importante anche per conoscere la situazione faunistica di quel periodo, il VII a.C., perché si potrebbero datare i reperti entro un margine di 25 anni e scoprire razze che oggi sono estinte. Nel Mediterraneo sono stati trovati due relitti di navi antiche cariche di merci: una in Spagna, esposta al museo di Cartagena, e l’altra a Marsala. Con i ritrovamenti di Othoca si è scoperto che nelle anfore delle navi venivano trasportati, oltre il vino e l’olio, anche molti altri generi alimentari.
Nelle immagini di Sara Montalbano: Tharros.

venerdì 16 luglio 2010

Phoenike - Fenici in Sardegna - Cagliari


Cagliari
Gli scavi dal dopoguerra a oggi hanno modificato radicalmente la visione della città di Cagliari. L’insediamento arcaico si posiziona nell’area della città-mercato di Sant’Avendrace e S. Gilla e della vicina centrale elettrica, nella piana compresa fra lo stagno e la zona di Tuvixeddu. Ai bordi di questo piccolo promontorio si situava il porto, oggi completamente coperto dai fanghi derivanti dal disinquinamento di S. Gilla. Il porto era lagunare, quello attuale è romano. Un primo insediamento mediterraneo era ubicato a Sa Illetta, nella collinetta attualmente occupata da Tiscali, ma non sono mai stati pubblicati scavi. È probabile che qui fosse presente un villaggio nuragico, come farebbe pensare qualche frammento ceramico del Ferro. Quindi anche per Cagliari, come abbiamo riscontrato in altri luoghi, il primo insediamento arcaico, fine VIII a.C. avviene, in un ambito nuragico.
Non sappiamo ancora quando si passa alla vera e propria struttura urbana, ma l’ampiezza e la qualità della necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu, fanno pensare che già alla fine del VI a.C., l’insediamento abbia acquisito lo status urbano. Anche se è molto probabile che si debba risalire ancora nel tempo. Purtroppo la città moderna occulta molto.
Il promontorio della città mercato-centrale elettrica doveva ospitare il tempio di Melqart, attestato da un’iscrizione e da una statua di Bes, oggi al Museo; Bes è normalmente associato a Melqart. L’abitato è stato rinvenuto nelle vie contigue, Brenta, Po, Simeto ecc. I limiti erano dati dal tophet, nell’area delle ferrovie e dal tempio di Eshmun rinvenuto (ed è visibile) sotto l’agenzia viaggi Orofino davanti alla chiesa dell’Annunziata.
In un qualche momento tra VI e IV sec. a.C. una seconda necropoli con tombe a camera è localizzata nella collina di Bonaria, collegata, probabilmente, con un secondo centro, periferico, o meglio, satellite, legato a uno scalo portuale, da collocarsi a San Bartolomeo e connesso con lo sfruttamento delle saline. Oggi il tutto è stato colmato e al di sopra hanno costruito il quartiere e lo stadio di Sant’Elia.
A partire almeno dalla fine del IV sec. a.C. si forma un quartiere satellite testimoniato da una terza necropoli, nella via Regina Margherita e collegata, secondo me, alla necessità di spostare il porto dall’area di S. Gilla ormai irrimediabilmente impaludata all’attuale collocazione in mare aperto. Non a caso questa necropoli proseguirà in piena età romana come attestano gli straordinari recenti scavi nella Scala di Ferro, e la stranota necropoli dei marinai della flotta di Miseno. La singolarità di Cagliari rispetto alle altre città sarde è proprio questo spostamento. Infatti la vecchia sede urbana di Santa Gilla resta in vita sino agli inizi del II sec. a.C., in età romano-repubblicana. In questo momento la città si sposta definitivamente nell’attuale centro, con fulcro in quello che sarà il foro, Piazza Carmine, sotto la protezione di un nuovo tempio, quello di via Malta, dietro le poste, dedicato a Venere e Adone, e realizzato da quella che ora è la comunità mista punico-romana. Tant’è che il tempio è effigiato in una moneta romana emessa dai due suffeti della città, Aristo e Mutumbal.
Altre tracce puniche si trovano in Castello, nei pressi della Cittadella dei Musei, dove era edificata l’acropoli, ma le tracce si limitano ad una cisterna a bagnarola e qualche muretto. La stratigrafia è difficile da studiare perché Cagliari è fortemente urbanizzata molti metri sopra i resti del passato. A Capo Sant’Elia è stato identificato un tempio, riferito ad età tardo punica e, grazie ad un’iscrizione, è stato assegnato ad Astarte. La necropoli si trova alle spalle dell’abitato, come a Cartagine, sulla collina di Tuvixeddu. Da questo momento la città si estende nei quartieri di Stampace e Marina.
Castello in realtà non restituisce resti di acropoli come riteneva Barreca, ma, sinora situazioni o civili o, forse di culto; non è escluso che potesse esserci un tempio. Ma siamo già decisamente fuori della città. L’anfiteatro doveva segnarne i limiti.
Nell'immagine le tombe di Tuvixeddu

giovedì 15 luglio 2010

Iron Age - Sardinian history - Storia del tempio di Antas


Il tempio di Antas
Si trova sul territorio di Fluminimaggiore in piena area mineraria e non presenta insediamenti vicini. Fu ricostruito di sana pianta negli anni Settanta. Le fonti letterarie classiche lo descrivono ed è stato oggetto di problemi storici e archeologici risolti solo negli anni Cinquanta. In particolare Tolomeo e l’Anonimo Ravennate, citano un tempio del Sardus Pater che non si riusciva ad individuare. Si cercava soprattutto nelle zone di Capo Pecora e Capo Frasca, in strutture che poi si sono rivelate ville romane.
Il tempio di Antas era conosciuto ma non si pensava fosse proprio quello del Sardus Pater. Si individuarono delle iscrizioni nell’epistilio ma erano relative all'iscrizione dedicatoria delle Terme di Caracalla. Non erano sufficienti per classificare il tempio, e si pensava che la struttura fosse riferita ad una città romana, forse Metalla. Si è arrivati ad una prima identificazione nel 1954, quando una laureanda trovò un frammento dell’epistilio che aiutò ad interpretare l’iscrizione. Nel 1967 fu trovato un altro pezzo nella campagna di scavo promossa dall’Università “La Sapienza” di Roma. Questo scavo ha portato alla luce un basamento circondato da una serie di elementi. Nel 1974 hanno ricostruito la parte anteriore della facciata e hanno lavorato blocchi nuovi per adattare la struttura. Tutti questi lavori riguardano il tempio romano perché quello punico si trova davanti all’ingresso.
A circa 200 m dal tempio si trova un villaggio nuragico del Bronzo Medio, ma l’area del tempio non è sede di una frequentazione prima del Ferro, intorno agli inizi del IX a.C. Nel 1981 Ugas ha scavato tre tombe nuragiche a pozzetto, allineate, profonde circa 40 cm, di forma circolare e con un diametro di circa 80 cm. Nella prima venne individuato un inumato con un corredo composto da una perlina in bronzo e due vaghi in oro; nella seconda non c’era defunto ma solo un vago in cristallo di rocca, ed è stata interpretata come cenotafio (monumento funerario a ricordo di un personaggio sepolto altrove); nella terza tomba c’era un inumato dolicomorfo (molto alto) in ginocchio, un bronzetto e numerosi oggetti d’ornamento in pasta vitrea, argento, cristallo di rocca e un anello. Il bronzetto ha influenze orientali.
Successivamente, intorno al 500 a.C., abbiamo l’impianto del tempio punico, costituito da muri realizzati con schegge cementate con malta di fango e pavimento in calcare e pietrame. Presenta tre gole egizie ma ci manca la fase arcaica. Secondo Barreca il tempio punico avrebbe visto due fasi. Nella prima ci sarebbe stato un grande recinto quadrato con un edificio di culto di forma rettangolare che custodiva al centro una roccia sacra, citata in una iscrizione scoperta recentemente nell’area, circondata da un muretto di protezione. In prossimità della roccia sacra sono stati trovati resti di fuochi e resti ossei che dimostrano l’adozione di pratiche cultuali. Intorno al 300 a.C. l’area posteriore del tempio sarebbe stata suddivisa in due da un muretto e sarebbe stato cambiato l’ordine architettonico utilizzato, nel senso che l’ordine dorico delle colonne sarebbe stato sormontato da gole egizie. Questa ricostruzione di Barreca è dovuta al fatto che le gole egizie sono state ritrovate riutilizzate nel tempio romano.
Bernardini capovolge completamente le ipotesi di Barreca: in un articolo divulgativo sostiene che il recinto non è punico, perché è impiantato sopra strati di deposito romano, e che l’altare in realtà è la copertura di una sepoltura, invisibile perché posizionata sotto la struttura. Inoltre sostiene che il tempio punico si trova sotto quello romano ma per verificare questa ipotesi si dovrebbe smontare tutto per cercarlo.
Ci sono alcune iscrizioni che si riferiscono al tempio punico, come ad esempio la scritta Sid Addir Bab, e si è ipotizzato che il culto fosse svolto non solo da semplici fedeli ma da funzionari, come se si trattasse del tempio ufficiale di Cartagine, una sede centrale presso la quale arrivavano fedeli e funzionari da tutte le città puniche. Gli amuleti ritrovati costituiscono un problema per la ricostruzione storica di Antas perché nel mondo punico gli amuleti sono caratteristici dell’ambito funerario. Erano oggetti della vita quotidiana che venivano deposti insieme al defunto. Solo a Kition (Cipro) abbiamo un tempio nel quale sono stati ritrovati amuleti. Fra gli altri oggetti rinvenuti ci sono dei piccoli giavellotti in bronzo, una testina maschile in osso, teste in marmo di produzione greca, numerose monete, caducei in bronzo, amuleti, oggetti in oro e altri manufatti che dimostrano un livello di benessere molto alto dei fedeli che frequentavano questo tempio.
Le tracce di fuoco dimostrano che la struttura fu distrutta brutalmente e anche gli oggetti votivi furono frantumati intenzionalmente.
Dopo la fase punica c’è un reimpianto del tempio in età augustea, lo dimostrano alcune terrecotte architettoniche, come i gocciolatoi a testa di leone, che ci fanno capire che il tempio fu ricostruito nel I a.C. Una moneta che riporta l’immagine e la dizione del “Sardus Pater” dell’epoca di Azio Balbo, parente di Augusto, che fu pretore di Augusto in Sardegna nel 59 a.C. venne battuta al conio fra il 39 e il 19 a.C., quindi il vecchio tempio del Sid Addir Bab fu trasformato in tempio del Sardus Pater.
Un’ultima trasformazione è del 213 d.C. sotto Caracalla quando il tempio, come indica chiaramente l’iscrizione nell’epistilio, venne restaurato e sistemato dall’imperatore Caracalla.
Ricapitolando si potrebbe dire che in età nuragica c’era un culto riferito a Sid Addir Bab, ripreso in età punica e poi trasformato in Sardus Pater in età romana. Manca completamente la fase mediterranea fra l’VIII e l’inizio del V a.C. Finora il tempio di Antas è l’unico tempio dedicato a Sid in tutto il Mediterraneo.
Chi è Sid? Si tratta di una divinità secondaria. Nel mondo semitico sono noti molti nomi teofori, cioè che contengono all’interno il nome della divinità. Ad esempio Amilcare significa Ab Melqart, servo di Melqart. Anche i nomi ebraici che finiscono in “Ele” come Gabriele, Emanuele, Raffaele, Michele hanno la radice che significa Dio. La divinità Sid, che significa potente, è a volte associata con Tanìt e altre volte con Melqart, ma ad Antas è da sola. Un altro significato di Sid è “cacciare”, e in questo caso i giavellotti in bronzo possono essere ben inseriti in un culto al Dio della caccia. Secondo il Garbini Sid avrebbe il significato di “fondatore”.
Chi è Bab? Pare si riferisca ad una divinità nuragica, Babbai, che indicherebbe un’assimilazione ad una divinità paterna. In semitico padre si dice Ab, così come ipotizzato da Ferron il quale afferma che Babai sarebbe da riferire appunto alla radice semitica Ab
La distruzione del tempio ha creato problemi fra studiosi. C’è chi parla dei romani o chi dice siano stati i mercenari di Cartagine in occasione della rivolta del 241 a.C. L’esercito cartaginese era composto da mercenari e, poiché Cartagine non rispettò i patti monetari, si ribellarono molti dei componenti delle varie truppe dislocate nell’isola: iberici, sardi, siciliani, italici, libici e balearici chiamarono in aiuto Roma e determinarono la perdita della Sardegna da parte di Cartagine.
Il tempio di Antas era strategico ed era simbolo della potenza di Cartagine sull’isola perché questa aveva bisogno di due cose fondamentali dalle colonie per affermare la supremazia e per tenere in armi l’esercito: i metalli e le risorse agricole (orzo e grano). Il fatto che Cartagine avesse costruito un tempio per il culto ufficiale proprio ad Antas dimostra che le risorse minerarie recitarono un ruolo importante. In sostanza i mercenari distrussero il tempio perché era il simbolo della potenza cartaginese e vollero cancellarne il ricordo.