martedì 29 marzo 2016
Archeologia. L’invenzione del “sardo pellita” Biografia di una ricerca, di Alfonso Stiglitz
Archeologia. L’invenzione del
“sardo pellita” Biografia di una ricerca
di Alfonso Stiglitz
L’intervento analizza
l’utilizzo del termine “sardo pellita” in funzione dei modelli storici
utilizzati nelle varie epoche, per giungere alla proposta di un nuovo modello
di lettura. Nel Novecento il problema della romanizzazione viene inquadrato nel
quadro più ampio della resistenza al colonialismo, con Giovanni Lilliu precoce
nel proporre un modello resistenziale. Oggi emerge la necessità di un ulteriore
passo avanti reso possibile dalle riflessioni di Edward Said e dalla riscoperta
di Antonio Gramsci. L’utilizzo di alcune categorie gramsciane (egemonia, gruppi
sociali subalterni, trasformazione molecolare ecc.) sarà proposto come utile
strumentario dello storico dell’antichità.
Il titolo gioca sul duplice significato del termine
invenzione, quello attuale di “atto di concepire e ideare con l’immaginazione”
e quello etimologico di “ritrovamento”. È in questa ambiguità del termine che
si è persa, nel tempo, la possibilità di dare una risposta alla complessità e
fluidità delle identità della Sardegna antica. L’origine ideologica del termine
“sardo pellita”, coniato in età romana, ha trasformato quei gruppi sociali che
abitavano l’isola in entità astratte, metafisiche, impedendo il loro
ritrovamento concreto sul terreno attraverso indagini scientifiche. L’occhio
dello straniero La denominazione compare per la prima volta in Cicerone con un
senso negativo più che descrittivo: sordidissimae, vanissimae, levissimae genti
ac prope dicam pellitis testibus condonetur? Che l’uso fosse dichiaratamente
dispregiativo era manifesto, come sottolineato da Quintiliano: mastrucam, quod
est sardum irridens Cicero ex industria dixit . Più tardi, ma sempre nella
stessa ottica dell’osservatore colonialista esterno, Tito Livio utilizza la
denominazione per indicare qualcosa di più preciso, anche se non meno
dispregiativo, come sostituto di un etnico o, comunque, del nome, a lui ignoto,
di una comunità abitante in un qualche luogo al di fuori di Cornus: Hampsicora
tum forte profectus erat in Pellitos Sardos ad iuventutem armandam . Acutamente
Attilio Mastino ha posto in
relazione la denominazione liviana di “sardi
pelliti” con quella di Tolomeo che «nei pressi di Cornus indica i Kornénsioi oi
Aichilénsioi che può essere forse interpretato con riferimento ai Cornensi
coperti di pelli di capra, se il secondo componente contiene la radice della
parola aix, aigós capra» . Resta da capire, nel caso dell’interpretazione
“coperti di pelli”, se l’espressione tolemaica non dipenda da quella liviana,
perdendo quindi la veste di conferma del dato.
L’origine dell’espressione “sardo pellita” rientra nella
definizione colonialista dell’altro composto da genti barbare, incivili e,
conseguentemente, vestite di pelli che vivono «senza pensieri e travagli,
contenti dei cibi semplici» secondo la tipica immagine del “buon selvaggio”.
Una creazione dell’altro, sulla base di stereotipi, utile a trasformare
l’alterità in etnie, in cui la decostruzione/ricostruzione di queste diventa
importante fattore amministrativo di integrazione . In realtà, gli autori
romani mostrano «una conoscenza epidermica del paese reale visto con la lente
della cultura superiore greco-latina» . Sono rappresentazioni che rientrano
chiaramente nello strumentario descrittivo dell’etnografia colonialista, nella
quale la Sardegna, come l’Africa nei moderni resoconti di viaggio, «evoca una
natura possente e dominatrice, con popolazioni che ne incarnano ai nostri occhi
la primitività ancestrale» ; una visione che ha condizionato l’immaginario dei
visitatori dell’isola e che giunge sino ai nostri giorni provocando,
paradossalmente ma non tanto, l’“adesione entusiastica” degli stessi sardi:
«Sardinians are particularly enthusiastic participants in the analysis and
‘ethno-orientalization’ of their own culture […] a version of Stockholm
syndrome, in which the culture participates in extending the colonial rhetoric
applied to it» . Invenzione di una tradizione La riscoperta romantica moderna,
con un fiorire di opere biografiche e poetiche, avviene soprattutto
nell’Ottocento ed è connessa all’epopea di Hampsicora, nell’immaginario
intrinsecamente legato ai sardi pelliti al di là degli effettivi rapporti
intercorsi. Una riscoperta che ha al suo centro la nobiltà della sconfitta, con
l’esaltazione romantica del personaggio, all’interno di un quadro di forte
patriottismo cittadino caratterizzato dalla costruzione di glorie locali e
dalla necessità di creare una tradizione funzionale alla costruzione di un
passato comune, per rinsaldare un’identità di popolo nel periodo successivo
alla fallita rivoluzione angioiana. Una costruzione che, incardinandosi con le
Carte d’Arborea, crolla miserevolmente con la scoperta della falsificazione,
trascinando con sé anche aspetti storici non necessariamente falsi – basti
pensare alla sorte di molte iscrizioni latine oggi ampiamente rivalutate; i
sardi pelliti o Hampsicora non sono la creazione dei falsari delle Carte
d’Arborea, ovviamente, è falso il modello che gli è stato costruito intorno. Un
modello che, pur con linguaggi più moderni, è alla base dell’attuale
interpretazione del sardo pellita. La storia decolonizzata Nel Novecento, col
progredire della ricerca scientifica, il problema della romanizzazione e dello
studio delle molteplici comunità sarde dell’epoca romana viene inserito nel
quadro più ampio della resistenza al colonialismo, in sintonia con gli
avvenimenti che dal secondo dopoguerra caratterizzano le strutture coloniali
moderne. Per la Sardegna è l’opera di Giovanni Lilliu, precoce nel proporre un
modello resistenziale, che troverà in Marcel Bénabou il corrispettivo per
quanto riguarda l’Africa. Per Lilliu le popolazioni sarde sono quelle che
dovettero ritirarsi nella montagna per sfuggire all’aggressione cartaginese tra
la fine del vi e il v secolo a.C.: «da una parte stettero i sardi liberi nella
“riserva” montana, in posizione antagonistica e talvolta aggressiva nei
confronti di Cartagine […] dall’altra vi furono i sardi che accettarono il
dominio cartaginese (i c.d. sardopunici)» . Nell’ambito dei convegni de
L’Africa romana è stata l’edizione del 1989 a essere dedicata al tema con una
bella introduzione dello stesso Bénabou che, rileggendo il proprio modello, lo
apre a nuove strade, a partire dalla critica dei termini “sopravvivenze” e
“persistenze”, ai quali nega la qualificazione di categorie storiche utili: il
primo ha una forte connotazione negativa che rende l’idea della morte più che
della vita, mentre il secondo ha un connotato conservatore di attaccamento
ottuso a forme di vita arcaica: «Le thème, on le voit, il n’est peut-être pas
d’un maniement aussi simple, aussi comode, ni aussi innocent qu’il peut
paraitre à première vue» . Già il dibattito sorto con la pubblicazione del
volume di Bénabou, La résistence africaine à la romanisation, aveva prodotto
gli stimoli necessari per il superamento del modello dualista,
civiltà/barbarie, colonizzatore/ colonizzato. Questo avviene in particolare con
le felici intuizioni di Yvon Thébert che rifiuta l’esistenza di due Afriche
(nel nostro caso intenderemo le due Sardegne), una indigena e l’altra
romanizzata. Per Thébert esiste una sola Africa e le sue divisioni interne
fanno parte della sua definizione, per cui si rende indispensabile lo studio
delle formazioni sociali, unica strada per dare un’interpretazione coerente
della realtà. In altre parole, diversificazione sociale vs romanizzazione, per
restituire agli africani, per lui, ai sardi, per noi, il loro posto sulla scena
storica. Le prospettive della biografia della ricerca, anche personale, sui
sardi pelliti, ha in questa impostazione di Thébert il lievito naturale per il
suo sviluppo, che trova un’accelerazione nell’incontro con gli studi
postcoloniali nati con le riflessioni di Edward Said sull’orientalismo,
destinate a rivoluzionare l’impostazione delle ricerche. Nel suo lavoro, Said
analizza le abitudini colonialiste «di operare ampie generalizzazioni, con cui
suddividere la realtà in varie categorie – lingue, razze, tipi, pigmentazione
della pelle, mentalità – ognuna delle quali esprimeva non tanto criteri
neutrali, quanto interpretazioni valutative. A tali categorie è sottesa la rigida
opposizione binaria “nostro” e “loro”» . Il suo percorso s’incontra
“naturalmente” con la riscoperta di Antonio Gramsci e sulla scia del suo
pensiero l’analisi non si pone più come ricerca sui resistenti, sopravviventi,
paleosardi, ma come studio dei gruppi sociali subalterni e dei rapporti di
potere connessi; una linea di lettura che permette di dare conto della
complessità del mondo sardo del primo millennio a.C. e oltre. Subalternità nel
senso pieno di Gramsci, espressione non di un indistinto mondo di oppressi – i
resistenti della costante resistenziale –, bensì di un complesso insieme di
settori (o classi) sociali da identificare con chiarezza senza generalizzazioni
ma con attenzione a differenziare i vari gradi di subalternità e di potere. Nel
momento in cui i gruppi sociali subalterni più attrezzati non riescono a
spezzare il meccanismo di dominio, la risposta è la ribellione, di tipo
organizzato, quando ve ne sono le capacità, come nel caso delle grandi
ribellioni degli Iliensi, Balari e Corsi che, visto il fallimento, si
trasformano nel tempo in forme disorganiche di ribellione; per usare
un’espressione di Gramsci, «i subalterni sono solo in istato di difesa
allarmata». Nella contrapposizione tra i gruppi dominanti e quelli subalterni
si inserisce la capacità egemonica dei primi, che riescono a inglobare con
spazi di potere, spesso ridotti, esponenti delle classi subalterne e,
contemporaneamente, a promuovere un processo di trasformazione molecolare, che
porta a un cambiamento culturale dei subalterni, senza per questo rinunciare
all’impiego della forza quando utile ai propri disegni, come nelle deportazioni
conseguenti la rivolta del 176 a.C.
Il riconoscimento e il ritrovamento del sardo pellita si
gioca, quindi, su una pluralità di piani, nei quali la distinzione non si fonda
più su basi etniche, ma su livelli di potere e di subalternità, che possono
essere visivamente illustrati dalle stele funerarie di Q(uintus) Volusius
Nercau da Sedilo (fig. 1), cittadino romano, e di Nispeni da Borore, priva di
tale status, assieme al marito Urseti (fig. 2): entrambi (Nercau e Nispeni) si
affidano agli Dei Mani, entrambi usano formulari romani, entrambi scrivono in
latino, parzialmente dimentichi dell’origine “pellita”, sintomo della capacità
egemonica, in questo caso in campo culturale, del potere dominante romano. Ma
allo stesso tempo sono memori delle proprie identità “altre”, manifeste nei
loro nomi e non solo; ad esempio, nel caso di Q(uintus) Volusius Nercau, la
stele funeraria ostenta lo status di cittadino e, quindi, di partecipe al
potere, ma è anche luogo di travestimento delle altre identità di cui Nercau è
portatore: la raffigurazione schematizzata del viso (fig. 3), che rimanda agli
stilemi per così dire archetipici delle antiche statue nuragiche di Mont’e
Prama, «è una forma simbolica utilizzata per celare identità destinate
all’alterità, confinate nel silenzio e nell’invisibilità» (fig. 4).
Con questa schematica illustrazione si vuole proporre il
superamento dell’ideologia (nel senso dell’invenzione del sardo pellita) come
schermo che ha oscurato la realtà, impedendoci di discernere le varie forme che
questa ha assunto e ci ha lasciato nelle brume di quell’Oriente inventato
dell’entusiasta Albert Morcef, personaggio del conte di Montecristo, che
davanti al racconto di Haydee, la schiava del conte, esclama: «mi trovo in
Oriente, nel vero Oriente, non come l’avrei potuto vedere, ma come lo sogno».
La nostra ricerca ha, invece, il compito di restituire la loro storia a quelle
donne e uomini che abitavano in Sardegna in epoca coloniale, non come li
sogniamo, ma come li avremo potuti vedere realmente.
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Libero meticciato in libera continuità resistenziale. Senza forzature però. Altrimenti ci si inganna.
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