Civiltà nuragica e
mondo mediterraneo nell’Età del Ferro
(tratto dalla tesi di laurea triennale in Beni Culturali: "Civiltà nuragica e mondo mediterraneo nell'età del Ferro: contesti, materiali, problematiche", Università di Cagliari, 2011)
L'analisi delle interrelazioni tra
civiltà nuragica e altre civiltà del bacino Mediterraneo dovrebbe partire da
un'adeguata contestualizzazione della prima all'interno di un quadro
cronologico preciso, che ne possa mettere in risalto l'evoluzione dal punto di
vista della cultura materiale e l'evoluzione culturale in senso lato. Una
visione condivisa di questa evoluzione in realtà non esiste, per lasciare
spazio a correnti di pensiero la cui distanza reciproca diventa in certi casi
abissale. Nel momento in cui i diversi studiosi analizzando le evidenze
archeologiche (le quali, dal canto loro, sono spesso scarse per alcuni aspetti
dell'età in questione, o comunque di difficile interpretazione, come nel caso
dei ripostigli), partono spesso da diversi presupposti e approcci, che
finiscono col determinare dei risultati che difficilmente possono
"dialogare" tra di loro. Il risultato è stato, dal punto di vista di
questo lavoro, un tentativo di mettere a confronto punti di vista molto
distanti sulle varie tematiche. Tuttavia questo tentativo ha avuto in alcuni
casi come risultato una progressiva attenuazione degli elementi contrastanti.
Il caso dell'importazione di materiali ciprioti in Sardegna (e, in un momento
successivo, anche delle tecniche metallurgiche), è quello che più ci allontana
dall'età del Ferro: in questione vi sono materiali, come i lingotti oxhide, i
quali sono un prodotto tipico dell'età del Bronzo
Recente; il suo arrivo in Sardegna nel corso di quest'epoca sembra fatto
abbastanza sicuro, ma rimarrebbero da spiegare quali sono le relazioni che
quest'arrivo ha con lo sviluppo della produzione bronzistica sarda, e in
particolar modo di quella figurata (che, come si è visto, secondo alcuni
studiosi prende largamente spunto da tecniche e modelli di origine cipriota).
Il lasso di tempo che intercorre tra il momento dell'arrivo dei lingotti in
Sardegna e la datazione dei bronzi fatta dai sostenitori della
cronologia bassa
non troverebbe giustificazione se non in un lungo processo di acculturazione,
che avrebbe visto la presenza sull'isola, per secoli, di questo tipo di
lingotti, senza che a questa corrispondesse un know-how proprio di una civiltà
che ricerca il rame come materia prima indispensabile per la realizzazione dei
suoi prodotti. In ragione di ciò, sembra indispensabile un avvicinamento della
cronologia dei due momenti, sia questo in una direzione o nell'altra. Ma dietro
a una questione cronologica così spinosa se ne nasconde un'altra, di tipo
culturale, che è probabilmente ancora più difficile da risolvere. Dell'arrivo su
larga scala dei lingotti di rame cipriota in Sardegna non sono stati
identificati gli attori all'interno delle due civiltà: in altre parole, le
motivazioni di ordine sociale ed economico che diedero origine a questo
movimento di risorse rimangono ancora oscure. La totale assenza di tracce di
sfruttamento risalenti ad epoca nuragica degli abbondanti giacimenti di rame
sardo rende ancora più delicata la questione. Il tema dell’accumulazione di
risorse è a questo proposito centrale, e legato alla funzione delle strutture
di tipo cultuale. L’emergere delle élites che è alla base di questa tendenza
appare in Sardegna problematico, per via dell’assenza su larga scala di quel
simbolo di potere proprio dei ceti aristocratici della penisola in epoca
orientalizzante, cioè le grandi sepolture connotate dal punto di vista
monumentale e arricchite da beni di lusso. Per molti autori le poche sepolture
singole attribuibili a personaggi di rango (i casi di Monti Prama, Is Aruttas e
Antas) sarebbero da attribuire alla piena età del Ferro, ma anche dovendole
attribuire al periodo di massima fioritura della civiltà nuragica non
costituirebbero da sole una testimonianza abbastanza forte nel senso
dell’emergere di un ceto aristocratico; se mancano dunque i presupposti per
attribuire ad un ceto di questo tipo l’accumulazione di metalli come è
testimoniata in diversi centri, prende allora consistenza il modello secondo il
quale questi movimenti sarebbero dovuti alle esigenze di approvvigionamento di
materia prima dei ciprioti, che avrebbero così determinato il fiorire della
bronzistica isolana. Una prospettiva simile si scontra con diverse obiezioni;
si dovrebbe chiarire perché questi portarono con sé la materia prima sotto
forma di lingotti, e se questi potessero avere avuto valore di scambio. Come
d’altra parte ha suggerito Bernardini, il complesso mondo che traspare dai
bronzetti sardi (e che si riflette da molto vicino nella grande statuaria di
Monti Prama), necessita di una compagine sociale perfettamente cosciente delle
proprie scelte, e che difficilmente avrebbe dato avvio a produzioni così
elaborate e originali unicamente come risposta ad uno stimolo esterno di natura
così contingente come quello al quale si è accennato. In linea generale, però,
la temperie culturale nella quale meglio si inquadrerebbero sarebbe quella di
un’incipiente affermarsi di ceti elitari, fenomeno che vediamo verificarsi in
Etruria a partire dalle ultime fasi dell’epoca villanoviana, per poi prendere
corpo definitivamente in età orientalizzante. È a questo punto che possiamo
spostare la nostra attenzione sul territorio che ha restituito i materiali
sardi di gran lunga più significativi per qualità e quantità: quello che qui è
stato chiamato “il caso di Cipro” appare ben lungi dall’esser risolto, e una
specifica presa di posizione a proposito non sarebbe suffragata da una disamina
completa dei dati che la tematica necessiterebbe. L’Etruria fornisce invece un
quadro di relazioni in qualche modo più definito, e che trova solide basi di
appoggio nel fatto che in tanti casi conosciamo la provenienza dei reperti
(spesso non il contesto nel suo dettaglio, ma questo non ha in tanti casi
impedito di avere delle datazioni abbastanza sicure). Gli estremi cronologici
della presenza di oggetti di produzione sarda vanno dall’850-800 a.C. nel caso
della tomba dei bronzetti di Cavalupo sino alla metà del VII secolo, come è
invece il caso delle navicelle provenienti da Gravisca e Crotone. Il quadro è
sostanzialmente confermato anche dai manufatti ceramici (in maniera pressoché
unica brocchette askoidi), che sono attestati a partire dalla metà del IX
secolo sino ad età orientalizzante (sebbene in misura drasticamente minore). Sulla base di questi dati, si può affermare che nessuno dei contesti
presi in considerazione giustificherebbe la tesi di una cronologia alta per i
manufatti ivi rinvenuti, se non a patto di ricorrere alla teoria dei falsi
contesti alla quale si è fatto più volte riferimento. Se questa teoria ha molti
punti a suo favore per quanto riguarda i materiali bronzei (che sono spesso
soggetti a fenomeni di riuso e di tesaurizzazione, e tendono a mantenere il
loro valore intatto nel tempo), diverso è il discorso per quanto riguarda le
brocchette: è vero che gli esemplari etruschi provengono spesso da contesti
funerari e sono poi fatti oggetto di imitazione, ma il rinvenimento di queste
in contesti come Cartagine e Huelva traccia un quadro alquanto diverso, dove le
indicazioni cronologiche riconducono alla piena età del Ferro, sebbene si debba
tener conto della problematicità di questi contesti (un contesto secondario nel
primo caso e una particolare situazione geologica nel secondo). In definitiva,
la posizione di Bernardini appare la più convincente, in quanto essa pone
l’accento sul fatto che a una presenza in quest’epoca dei materiali in varie
località del Mediterraneo dovette corrispondere una componente sociale ancora
attiva, sebbene il momento dell’apogeo della civiltà nuragica essere già
passato. La valenza ideologica dei bronzetti (da quelli “di ornamento” fino
alle navicelle) è confermata dalla presenza di questi oggetti in associazione
con altri materiali di prestigio: presupporne una scelta in base a criteri
puramente estetici o di tipo “antiquario” impoverisce notevolmente il grande
significato culturale che sembra sotteso alle relazioni tra Etruria e Sardegna.
Si è accennato inoltre alle relazioni con le popolazioni euboiche e filistee:
per quanto riguarda questi aspetti, i dati a disposizione sono piuttosto
scarsi, ma non di meno si sono potuti apprezzare diversi contributi in
proposito. Da un punto di vista cronologico, la presenza di popolazioni
filistee sembra essere la più antica, e attribuibile senz’altro ad un orizzonte
“precoloniale”. I dati qua presentati li dobbiamo in gran parte ad un contributo
del Bartoloni (2005), e molti di questi sono purtroppo decontestualizzati.
Diversamente accade per l’anfora genericamente definita “cananea” proveniente
da Sant’Imbenia, attribuita anche questa ad un contesto precedente la
colonizzazione fenicia; non a caso proprio nella discussione degli elementi
culturali di questo sito si è deciso di dare spazio alla questione della
presenza filistea in Sardegna. Sebbene questa ipotesi dovrà essere confermata
da nuovi dati, l’idea della derivazione delle anfore tipo “Sant’Imbenia” da
questo prototipo non è assolutamente da scartare, anche se i fenomeni di tipo
sociale e culturale sottesi a questo fenomeno presentano ancora contorni
indefiniti. Per quanto riguarda la presenza euboica, si sono evidenziate le due
principali correnti di pensiero esistenti a proposito: da una parte vi è chi
vede nelle testimonianze materiali il riflesso di una presenza organizzata e
addirittura “stanziale” nel caso di Sant’Imbenia, di genti euboiche, già in una
tra il IX e l’VIII secolo. Dall’altra vi è invece chi vede in queste
testimonianze precedenti l’espansione greca in Occidente soltanto il frutto di
attività commerciali che erano sotto il controllo di altre genti, probabilmente
di origine siro-levantina. Il problema non coinvolge peraltro solo la Sardegna,
ma anche un sito come Huelva, che ha sollevato la stessa disparità di vedute.
Come per la maggioranza delle questioni che si sono volute evidenziare con
questo lavoro, soltanto dei sistematici supplementi d’indagine potranno gettare
luce sull’argomento, in particolar modo per la Sardegna, dove la documentazione
per le fasi più antiche di questo fenomeno appare ancora insufficiente. Le
perplessità da più parti sollevate sull’attendibilità delle diverse
classificazioni (e relative cronologie) dei materiali euboici proposte,
complica ulteriormente il quadro. Quello appena definito, che appare comunque
come un quadro di notevole vitalità delle popolazioni nuragiche per il periodo
in questione, esce rafforzato nel considerare i quadri culturali dei siti sardi
che presentano testimonianze di interrelazioni. Da un punto di vista
strettamente cronologico, è difficile contestare una forte presenza
dell’elemento indigeno, nei contesti analizzati in questo lavoro, nel corso
dell’età del Ferro: si pensi ai materiali che si rifanno alla tradizione
vascolare nuragica rivenuti al Nuraghe Sirai e al Cronicario e nel Tofet di
Sulky Soltanto ulteriori indagini potranno però permettere di verificare quale
fu la misura reale di queste relazioni: dal punto di vista sociale, dai dati
esposti si evince come probabilmente siano state persone comuni a lasciarci
questo tipo di testimonianze, che condividevano la vita quotidiana. Possiamo in
questo modo riassumere in questo modo quali sono le principali carenze a
proposito delle ricerche finora condotte sull’argomento: - in primo luogo vi è
la mancanza di un universalmente riconosciuto modello antropologico che serva
da punto di partenza per analizzare le dinamiche sociali interne alla civiltà
nuragica, sia in senso sincronico che diacronico; - si è spesso constatato come
le diverse ricerche prendano avvio tra presupposti troppo diversi tra di loro
per poter “dialogare” adeguatamente. Se ogni studioso non piò chiaramente
rinunciare ad una propria impostazione metodologica (o anche a delle concezioni
di fondo quanto ai temi in questione), è allo stesso tempo vero che divergenze
molto marcate come quelle che si sono riscontrate in questo lavoro hanno
portato ad una situazione che complica notevolmente l’approccio alla tematica,
che implica il rischio di prese di posizione troppo nette, laddove le risposte
alle domande poste non potranno che derivare da un’adeguata considerazione dei
vari punti di vista; - problema che invece è senz’altro comune ad altri campi di
ricerca è invece quello della scarsità dei dati messi a disposizione degli
studiosi per contesti che potrebbero ancora fornire dati fondamentali
nell’ottica della comprensione dei fenomeni di interrelazione tra la civiltà
nuragica e le altre popolazioni del Mediterraneo; a questo proposito, i casi di
Sant’Imbenia e del Nuraghe Nurdòle sono particolarmente preoccupanti. Soltanto
un’analisi accurata, da tutti i punti di vista, dei siti che interessano le
basi di questa tematica potrà cominciare a costituire il giusto punto di
partenza per una ricerca basata sulla raccolta sistematica dei dati e sul loro
confronto.
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