sabato 19 marzo 2016
Archeologia in Sardegna. Le maschere di bronzo, di Marcello Madau
Archeologia in Sardegna. Le maschere di bronzo
di Marcello Madau
XLIV Riunione Scientifica - La preistoria e la protostoria
della Sardegna.
Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009
Sin dalla sua prima strutturazione, l’imponente corpus della
bronzistica figurata nuragica prodotto da Giovanni Lilliu negli anni Sessanta
(Lilliu 1966) fu, accanto ai percorsi conclusi nel riconoscimento delle
correnti stilistiche Uta, Abini e barbaricino mediterraneizzante, ricchissimo
di osservazioni e tracce che disseminavano di possibili sviluppi la ricerca.
Nei decenni successivi si sono aggiunte le osservazioni sul mondo figurato
nuragico sviluppate, oltre che dallo stesso Lilliu (1975-77; 1997), da Carlo Tronchetti,
segnatamente per la grande statuaria di Monti Prama (Tronchetti 2005), e Paolo
Bernardini (1985, 2000), i cui apporti innovativi nel metodo e
nell’inquadramento per scuole ed epoche hanno contribuito a spostare
l’orizzonte delle letture dal piano iconografico a quello iconologico (Panofsky
1962). Vorrei partire proprio da alcune osservazioni di Giovanni Lilliu
relative al trattamento plastico del volto in alcuni bronzetti nuragici per
affrontare il discorso sulla possibile presenza, in questa categoria e,
attraverso essa, nel mondo nuragico, del fenomeno del mascheramento, se siano
ravvisabili dinamiche di travestimento, dissimulazione, trasformazione e
interpretazione, eventualmente riconducibili a rituali definiti.
L’individuazione di tale possibilità crediamo possa contribuire alla
precisazione dei modi culturali delle ‘aristocrazie’ nuragiche e dei
suoi
contesti. Il mascheramento della figura umana, di una, alcune o tutte le sue
parti, è un fenomeno di grande antichità, segno di limite e confine; con i suoi
segni animali intimamente borderline fra natura e cultura dell’uomo, fra la
vita e la morte , riesce persino a resistere ad anatemi, divieti, scomuniche ed
inquisizioni, infine alla stessa civiltà moderna, costringendo spesso, in età
storica e nei contesti urbani, a normalizzazioni tramite figure e miti
religiosi istituzionalizzati. Il mascheramento intercetta forze altre dal sé,
superiori, extra-ordinarie, e ne trasmette natura e possesso. Nasce da uno
stretto contatto con il selvatico ed il ferino di radici paleolitiche (fig.
1.1), mostrando una lunghissima durata -almeno fino a quando l’ambiente
‘selvaggio’ ha un ruolo determinante nella società- ed un’attestazione
pressoché planetaria. Trova non a caso nel più antico patrimonio iconografico
della Mesopotamia, dove si esperiscono le prime grandi tensioni della
dialettica civilizzazione/mondo non civilizzato (quest’ultimo abitato da
animali feroci, mostri e nemici, nella sostanza omologati al di là delle mura
urbane), una piena e fantasiosa documentazione materiale e letteraria (almeno
dall’epopea di Gilgamesh sino all’Enûma Eliš, per proseguire in età storica
permeando di sé i Greci e l’orientalizzante). Il confine fra l’immagine divina
e ultraterrena e la sua presa in carico sotto forma di mascheramento animale,
non sempre di agevole determinazione iconografica (figg. 1.2-3), è ben
leggibile. In età storica, se vogliamo prima che, con una straordinaria
operazione culturale ed ideologica, l’invenzione del teatro sussuma in
spettacolo il mascheramento, è possibile cogliere i mascheramenti rituali delle
aristocrazie attraverso la sfera del sacro, nei campi della guerra e della
morte. Proviamo ad osservare, in via preliminare e iniziando a raccogliere un
dossier di tipi, alcune testimonianze nuragiche, sottolineando -a sviluppo
della premessa su senso e natura del mascheramento- che per esso intendiamo non
solo quello facciale, ma l’insieme della produzione di segni attraverso
alterazioni fisiche e particolari elementi di vestiario. Nelle iconografie
nuragiche il mascheramento animale è certamente dominante. Una delle
attestazioni più ricorrenti è data dalle rappresentazioni degli elmi, che
rimandano spesso ad ambito taurino. Il copricapo a protome animale, diffuso in
diverse varianti talora fortemente accentuate (fig. 1.4), è la morfologia di
più antica tradizione e più vasta diffusione (Lilliu 1966, nn. 16-17, 26, 84,
96, 98). Un’osservazione specifica merita la sovrapposizione ulteriore di segni
sopra gli elmi, talora dietro o entro lo spazio delle corna: se viene discussa
l’identificazione del cosiddetto panache o pennacchio con una sorta di motivo
ad ureo, in alcuni casi (fig. 1.6) appare comunque evidente il segno animale
(Ibid., nn. 90-91, 94, 122, 127). La testimonianza più immediata viene da un
esemplare, purtroppo perduto, da Usellus (fig. 1.5: Ibid., n. 100): l’animale,
con la coda rovesciata in avanti a sovrastare muso e orecchie, viene pensato da
Giovanni Lilliu come un canide, forse una volpe, e riferito ad appartenenze
tribali. Il rimando al noto passo dell’Iliade (X, 429-30), nel quale è
descritto il guerriero troiano Dolone, è suggestivo: la persona della pelle
vestì di bigio lupo: poi chiuse il brutto capo entro un elmetto che d’ispida faìna
era munito Ricordando che la doloniade è ritenuta uno degli inserimenti di età
storica sul più antico nucleo orale ‘omerico’, ritroviamo il suo racconto nelle
raffigurazioni di una lekythos a figure rosse del 460 a.C. conservata al Louvre
(Dolone è con la pelle del lupo) e di un cratere a calice a figure rosse degli
inizi del IV secolo a.C. conservato nel British Museum (De Juliis 2001, p. 217,
tav. IVb), dove è invece evidente l’elmo teriomorfo. Per gli elmi sormontati da
animali di grande interesse -e in piena koinè egea ed orientale- sono i
personaggi in piombo dal santuario di Àrthemis Orthìa a Sparta (fig. 1.8:
Dawkins 1929, tavv. CLXXXIII, CXCI) . Iconografia ricorrente è quella dei
volatili (fig. 1.6); in un bronzetto proveniente dal santuario di Abini,
Giovanni Lilliu ipotizza addirittura la raffigurazione di un pellicano (Lilliu
1966, n. 93). Ancora, gli emblemi animali possono presentarsi in forma
combinata: l’associazione corna taurine-volatile (Ibid., nn. 210, 212) è
fortemente simbolica e radicata nel mito (fig. 1.7), non casualmente in
associazione e con posizioni preminenti nella prua, nell’albero, e nello stesso
talora assieme, delle navicelle (Ibid., nn. 294, 299, 312). Una delle
contaminazioni più alte fra uomo e animale è testimoniata dal ‘centauro di
Nule’ (Ibid., n. 267). L’àristos pugilatore quasi emerge, traendone forza
massima, da un corpo taurino (fig. 1.9). L’iconografia, ben presente in
contesti egei e vicinoorientali, affonda le radici in tradizioni mitologiche e
mitografiche nelle quali il ruolo del Vicino Oriente antico, dove prevale la
dimensione eroica, appare determinante. È questa traccia orientale che pare
doversi riconoscere nel nostro esemplare. Nell’ambito delle raffigurazioni
eroiche bronzetto assai rappresentativo è il cosiddetto ‘demone con quattro
occhi e quattro braccia’ (figg. 2.1-6). La tipologia è attestata da diversi
esemplari (Ibid., nn. 104-110), ed è in particolare il più celebre di essi, da
Abini-Teti (NU) (fig. 2.1; Ibid., n.104), a essere illuminante. L’ampio
specchio facciale -che già Lilliu definiva nella sua scheda come volto che si
applica come una maschera laminata- fa pensare ad una maschera, come già notato
in un singolare lavoro . In tale direzione, ad un’analisi autoptica preliminare
condotta poco prima di queste giornate, porta l’evidenza del bordo rilevato e
distinto rispetto al piano del viso, ben leggibile nell’osservazione laterale e
in quella posteriore (figg. 2.1-3, 6). Nel suo insieme la raffigurazione di
questo bronzetto, condivisa o meno la lettura di un supporto distinto, è di per
sé un mascheramento. I tratti rimandano al mito in ambito orientale, e in
maniera stretta, dal punto di vista iconografico, alla regione iranica. Al
confronto convincente proposto a suo tempo con un ‘mostro alato’ del Luristan7
, affianchiamo un altro esemplare del Luristan conservato al British Museum
(fig. 2.5), nel quale resa del volto e dettagli rappresentano a nostro avviso
un confronto pertinente e meritevole di approfondimento (figg. 2.6-7). Ma è proprio
per un aspetto iconografico fondamentale, quello del raddoppiamento fisico, in
particolare per quanto riguarda gli occhi, che torniamo al mito. Ci aiutano i
racconti dell’Oriente riguardanti la divinità a quattro occhi, l’eroe Marduk
dell’Enûma Eliš, capolavoro sapienziale babilonese databile attorno al XIII a.C.
L’eroe divino che sconfigge Khumbaba (archetipo dei mostri mascherati che
saranno nel mondo greco la più temibile delle maschere, quella di Gorgo), è un
vero capo guerriero. Conosciamo in teogonie successive personaggi polioftalmici
(come Kronos o Zeus), con attestazioni anche in ambienti fenici egittizzanti
(assieme a personaggi dai singolari mascheramenti animali, con pelli calate su
testa e schiena, in lamine d’oro tharrensi: Cintas 1946, figg. 95-96; Harden
1973, fig. 73). Ma la figura di Marduk, che assomma la potenza del
raddoppiamento alle capacità guerriere, è quella che ci sembra agire meglio,
come retroterra, per il nostro ‘demone nuragico’. Concludiamo con un bronzetto
proveniente dal nuraghe Nurdòle di Orani (Madau 2002, pp. 336- 337, tav. IB),
personaggio di estrema resa bozzettistica, nudo, con spada a tracolla. Può
essere ipotizzato un altro tipo ancora di mascheramento, almeno parziale, nella
parte superiore del viso e nella bocca, resa con placca distinta ad andamento
orizzontale (fig. 2.5). In Sardegna l’esemplare condivide assieme al bronzetto
di Antas forti suggestioni egee e vicino-orientali (Ibid.). Il richiamo è anche
alla temperie geometrica e iconografica del vaso e del carrello di Bisenzio
(Torelli 1997, pp. 33-46, figg. 25-38), con mascherate, danze di guerrieri nudi
e il cane che morde il cervo (come nell’iconografia della complessa scena dal
megaron nuragico di Esterzili: Fadda 2006, fig. 81). Il gruppo di bronzetti
rinvenuto di fronte al megaron di Monte Santa Vittoria di Esterzili (Ibid., pp.
73-75, figg. 81, 83), nel quale l’ideologia principesca della caccia non poteva
essere più eloquente, si propone come vera disposizione scenica e racconto,
come rappresentazione e assieme mascheramento. Questi alcuni degli elementi
iconografici proposti, tutti di riferimento militare, dalla bronzistica
nuragica. Attraverso questi mascheramenti si percepiscono specifiche modalità
ed espressioni di autorappresentazione delle élites nuragiche e cerimoniali con
segni distintivi di appartenenza, ai quali per la verità nessuna comunità
arcaica a base tribale dovette sottrarsi. I rituali sembrano basarsi sulla
diretta rappresentazione di forze soprannaturali e ambientali, mediate dal
mascheramento nei luoghi santuariali, soprattutto attorno ai templi a pozzo e
generalmente connessi con fonti, sorgenti e vene sotterranee. Le immagini
offerte esprimono nel loro assieme un mondo di allevamento e agricoltura ancora
profondamente permeato dalla caccia: arieti, volpi, cinghiali, tori, cervi,
forse stambecchi, spesso in pregnanti raffigurazioni araldiche, si offrono
all’osservazione divina ed alla lettura simbolica. Si chiude il cerchio fra
ideale e materiale poiché la gestione di questi complessi simbolici coincide e
afferma, specificamente nei santuari, proprietà e gestione dei mezzi di
produzione. Mi sembra anche che siano segni distintivi che assumono un valore
speciale nel contesto storico entro il quale si manifestano: nell’età
geometrica ed orientalizzante, fra la parte finale del IX ed il VII a.C.,
quando il mondo nuragico manifesta una forte connotazione memoriale con il
territorio abitato. Più che un recupero antiquario, lo vedo come la costruzione
di un nuovo senso di appartenenza, di una trama storica da richiamare nei
grandi mnemotopoi intercantonali. Le aristocrazie portano quindi in scena la
cultura del territorio ed i suoi mondi mitologici, ancora sommersi ma orientati
verso divinità legate al mondo selvatico, della caccia, garantendo con appositi
riti di passaggio che ancora sfuggono l’ingresso nel mondo del valore militare
che rappresentava la società, interpretandone nel contempo lo sfondo religioso
e le tradizioni territoriali. Non sfugge alla suggestione, che voglio
richiamare con prudenza, dell’acquisto di senso del bronzetto da Nurdòle con
figura femminile in atto di porgere le bende (Ibid., p. 72, fig. 73, databile
in età geometrica), legato a milieux che non paiono lontani da quelli
conosciuti per Artemide. È quindi legittimo inquadrare la cultura nuragica
entro una vicenda dinamica e ricca di umori, di non facile lettura e
composizione ma con evidenza presenti. Prevalgono gli elementi vicino-orientali,
essi stessi contaminati e ricchi di complessità per la presenza di segni
siriani, assiri, egei (Creta e Cipro), fenici, urartei e luristei, non
spiegabili attraverso la cifra, che sarebbe comunque errato considerare
esclusivamente eclettica, dell’orientalizzante. Esemplare il caso del Luristan,
apparentemente più complesso. La presenza di segni di scrittura semitica
meridionale su una spada luristea di fine IX secolo (Lasse et alii 1988) e,
nella regione, di nuclei aramaici (che sappiamo presenti nella prima spinta
coloniale verso Occidente e contemporaneamente ben radicati entro i palazzi
assiri niniviti, fra la seconda metà dell’VIII secolo a.C. e gli inizi del
secolo successivo: Oded 1979; Tadmor H. 1982; Millard 1983; Sciacca 2005, p.
421; Matney 2012), ci aiuta a cogliere la natura complessa delle suddette
articolazioni -nelle quali è centrale il ruolo assiro e si combina con la
circolazione di materiali luristei nella costa siro-palestinese (Ibid., p. 267,
nota 64) e con il ruolo di Aram in Occidente, forse in Sardegna. La
significativa presenza di materiali luristei nel ‘circuito’ fenicio, dal Vicino
Oriente a Creta alla penisola iberica, rende perfettamente congrua e
comprensibile la traccia luristea leggibile nei materiali nuragici. Nello
stesso tempo (e nella stessa logica) vanno le recenti acquisizioni
archeologiche, che testimoniano una decisa e sempre meglio definita presenza
nuragica nei contesti fenici del ‘Circuito dello Stretto’ (per tutte le recenti
scoperte da Malaga). Ne esce confortata l’idea che geometrico, orientale e
orientalizzante sardo non siano solo e tanto termini cronologici ma
appartenenze culturali aperte, pur declinate con capacità selettive ed un forte
senso delle tradizioni memoriali di un territorio diventato proprio. Ciò che
emerge dalla chiave ‘mascheramento’ può dare un contributo al chiarimento di
una fase storica che non mancherà di riservarci sorprese.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento