Fonte: www.lastampa.it
mercoledì 16 marzo 2016
AAA. Ironia cercasi: ascesa e declino delle scritte murarie, dai motti teneri e sarcastici sulle case di Pompei alle tristi imbrattature spray delle nostre periferie, di Gian Luigi Beccaria
AAA. Ironia cercasi: ascesa e declino delle scritte
murarie, dai motti teneri e sarcastici sulle case di
Pompei alle tristi imbrattature spray delle nostre periferie
di Gian Luigi Beccaria
I muri hanno
sempre parlato. Dai tempi della romana Pompei, colma di graffiti: pubblicità
elettorale (c’è un’iscrizione elettorale che compare sulla facciata della casa
di un certo Giulio Polibio che dice: «C. Iulium Polibium / aed(ilem) o(ro)
v(os) f(aciatis), panem fert», vi prego di eleggere Caio Giulio Polibio edile,
sa fare il pane), informazioni per i viandanti («Viator Pompeis pane gustas
Nuceriae bibes», gusta il pane a Pompei, vai a Nocera per il vino), divieti su
divieti («Otiosis locus / hic non est discede / morator», questo luogo non è
per gli oziosi, vattene bighellone; «Hospes ad hunc tumulum ni meias ossa
precantur / tecta hominis set si gratus homo es miser bibe da mi», passante,
non orinare presso questo tumulo chiedono le ossa sepolte di un uomo, ma se sei
una persona di buoni sentimenti, bevi (vino) e offrimene; «Cacator sic valeas /
ut tu hoc locum trasias», cacatore, possa tu stare così bene da passare oltre
questo luogo), un cumulo poi di epigrammi al modo di Marziale, di scritte
licenziose, ma anche gentili saluti epistolari («vellem essere gemma ora non
amplius una, / ut tibi signanti oscula pressa darem», dove lo scrivente
vorrebbe sostituirsi all’anello, sigillo che la donna porta alla bocca prima di
usarlo).
Come su di una
lavagna, si scriveva liberamente sui muri, rispettando spesso le regole della
metrica, e citando addirittura tra le righe, talvolta, Virgilio, Ennio, Ovidio,
Tibullo, Properzio. Graffitari semicolti. Citavo Pompei perché, anche se
l’abitudine di scrivere sui muri è antica, ora nelle nostre città è uno scempio
senza limiti di vie imbrattate. Non ne faccio una questione estetica, neppure
Renzo Piano pone il problema in questi termini, quando parla di «rammendi»
delle periferie. Non si
risolve il problema soltanto ridando mani di vernice
sulle pareti sconciate. Questi nostri muri fotografano il nostro disagio, il
nostro squallore, i nostri problemi sociali irrisolti. Comunque sia, sono
colatura di vernice che non sa più esprimersi a parole, ma soltanto
imbratta.
La protesta
si esterna sul muro pulito in quanto luogo istituzionalmente vietato. Come fare
la pipì nei giardinetti, in un aiuola pubblica. I muri erano sino a ieri
imbrattati almeno con parole. Oggi il mondo-spray evita nella maggior parte dei
casi ogni verbalizzazione. Un informe coro di sgorbi di bomboletta sporca senza
senso gli spazi appena ripuliti, fungendo da segno cifrato di riconoscimento
inespresso.
Schizzi analfabeti
per segnare il territorio. Di ben maggiore intelligenza comunicativa erano, per
chi se le ricorda, le scritte della contestazione studentesca, anni Sessantotto
e seguenti, pieni di risorse retoriche, rime e metro, endecasillabi a gogò. Il
muro era sporcato in forma di parole, non con colature rabbiose ma mute. Non ho
intenzione alcuna di idealizzare il Sessantotto, ma si leggeva però «Liberiamo
la creatività», «Spazio all'immaginazione», «La fantasia uccide il potere», «Ho
voglia di fare il matto»… Quanta utopia: «Il nostro obiettivo è il sole», «Il
cielo è tuo prendilo», «Occuperemo il cielo», «Voglio l’erba voglio», «Vogliamo
la luna»! Erano tante anche le scritte non politiche. Il muro diventava il
luogo privato dove il personale poteva essere raccontato: «Giovanna non ti amo
più / E mi dispiace», oppure «Ho finito i soldi». Sulla lavagna nell'Università di Bologna occupata stava scritto, primavera del ’77, «Ho sempre avuto paura
della DC / incomincio ad aver aver paura del PCI / ma il mio problema di fondo
rimane quello di Caterina». Aveva preso piede l’idea che ciascuno era attore di
se stesso, come se scrivere o ballare per le strade e le piazze assolvesse
un’ansia di comunicare collettivamente; era una sorta di riscoperta del gioco,
una volontà di riprendersi ciò che sembrava essere stato tolto: «Vietato
vietare». «Liberiamo la creatività» dicevano le scritte, «Spazio all'immaginazione», «I muri della città saranno i nostri urli».
Oggi, è
un’imbratto di rabbie. Confesso di sentirmi sollevato quando sbuca qualche
brandello di ironia, appena leggo su un muro «fin qui / tutto bene», «con
affetto / e / sentimento / meno te vedo / e meglio me sento!», o spiritose
correzioni, o aggiunte e glosse: in una compare in rosso «l orgoglio / non
serve» e accanto, in bianco, di altra mano «(ma l’apostrofo sì)»; oppure,
«grazie per / avermi fato / romanista» con aggiunta d’altra mano «e
analfabeta».
Su un masso di granito
che indica la direzione «costa smeralda», qualcuno ha cassato «smeralda», e
sottoscritto «troppo». Su un muro di Roma un cartello proponeva la vendita di
una «Duna», vecchio tipo di auto Fiat esteticamente poco riuscita:
sull’annuncio «Vendo “Duna” amaranto, ottimo stato, 200 km, sedili leopardati,
tel. Francesco, ora dei pasti, 02… ecc.» una seconda mano ha aggiunto: «A
France’, magna tranquillo». Ritorna il sorriso, anche in una periferia
degradata.
Fonte: www.lastampa.it
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