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giovedì 9 luglio 2015
Archeologia. Porti e approdi della Sardegna Nuragica nel Sulcis: Sulki, Sant'Antioco
Archeologia. Porti e approdi della Sardegna Nuragica nel Sulcis: Sulki, Sant'Antioco
di Pierluigi Montalbano
Grazie alla ricchezza mineraria della
zona, il Sulcis-Iglesiente è l’area della Sardegna in cui troviamo la maggior
concentrazione d’insediamenti di età fenicia. Uno dei materiali più ricercati
era l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2
grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. Verso la fine
del II Millennio a.C. aumentò notevolmente la richiesta di metalli in tutto il
Mediterraneo, soprattutto rame e stagno per ottenere il bronzo, e la difficoltà
di reperimento spinse i commercianti oltre i confini naturali segnati dallo
Stretto di Gibilterra. Lo stagno era raro e proveniva prevalentemente dalle
mitiche Isole Cassiteriti, lungo le rotte marittime che attraversavano l’Oceano
Atlantico e giungevano in Cornovaglia e Bretagna. Per quanto riguarda il rame,
le miniere più importanti si trovano a Cipro e in Sardegna, ed è ipotizzabile
che le flotte mercantili fossero specializzate nel trasporto, in sicurezza, di
lingotti e panelle in rame. Questi traffici contribuirono al mescolamento di
uomini e idee, e favorirono il progresso arricchendo soprattutto gli
intermediari e le popolazioni costiere. Le autostrade del mare erano sicure, ma
qualche atto di pirateria accadeva certamente, pertanto è verosimile che ci
fossero genti specializzate nella difesa delle navi da carico e flotte militari
assoldate dai commercianti per evitare il rischio di essere derubati.
In Sardegna, il giacimento in rame di
Funtana Raminosa forniva notevoli quantità di rame di ottima qualità, ma non
era sufficiente per fondere tutto il bronzo necessario per il consumo interno,
pertanto i sardi, proprietari delle miniere d’argento, scambiavano questo
prezioso metallo per approvvigionarsi di rame cipriota, meno pregiato di quello
sardo ma altrettanto valido per la miscelazione con lo stagno. Oggi, in tutto
il mondo, è l’oro il metallo di riferimento, ma anticamente l’argento e il rame
erano i metalli più scambiati insieme al prezioso stagno.
Nel I millennio a.C., i fenici
avevano bisogno di porti e approdi favorevoli, ossia luoghi dove sostare con le
navi e che offrivano anche la possibilità di penetrare verso l’interno.
Qualunque porto, per quanto grande e attrezzato possa essere, se ha alte
montagne alle spalle perde il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino
all’attuale Carbonia, a sud, si trovano miniere di piombo argentifero e di
galena argentifera. I greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene
d’argento, e sono state censite 399 miniere di questo metallo.
I principali insediamenti nella
Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani
Loriga-Santadi e Bithia. I porti più importanti per imbarcare l’argento erano
Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva
semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino
Oriente.
Sulki
Già nella carta ottocentesca di
Alberto Ferrero La Marmora si nota come la città di Sulki, uno dei più antichi
agglomerati urbani sardi (780 a.C.), sia affacciata sullo stagno di
Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e ricercato
dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu uno scontro navale nel
Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del porto. Nella
battaglia di Sulki, l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a terra e,
come avveniva in quelle circostanze, fu crocefisso dal suo stesso equipaggio.
Nelle monete romane dell’epoca spesso sono rappresentati i rostri, elementi in
metallo posti all’estremità della trave principale della nave e utilizzati per
perforare le navi nemiche e metterle fuori uso. Costituivano un ambito trofeo
delle battaglie navali, ed erano denaro contante perché realizzati in bronzo.
Il porto fenicio di Sulki si trovava
dove ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal Castello di
Castro e da quello di Su Pisu. Per ripararsi dalla tramontana, l’unico vento
dannoso per questo porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi
sprofondato, sopra il quale Bartoloni ha individuato un edificio, anch’esso sommerso.
La struttura era realizzata con i blocchi delle fortificazioni di età punica.
Si tratta di due quadrilateri affiancati che sono stati recentemente demoliti
perché i pescatori si sono serviti di questi blocchi per fare delle boe di
segnalazione per le reti. Probabilmente si trattava di un piccolo santuario
collocato lungo una strada rotaia, parallela alla linea di costa, che
consentiva alle navi di essere trascinate in porto con delle corde legate a
buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri luoghi.
La laguna non era certamente
navigabile a vela e, anche oggi, pur essendoci un canale profondo circa 5 metri
nessuno affronta il rischio di approdare procedendo solo con le vele. Il
livello dell’acqua dal 700 a.C. si è alzato di quasi un metro e mezzo e quindi
oggi lo scoglio si vede solo in caso di bassa marea.
In un portolano del 1261 d.C. che
illustra le isole dell’arcipelago del Sulcis, si nota che il passaggio fra lo
stagno di Sant’Antioco e il Golfo di Palmas è assente. In antichità il
passaggio del mare era garantito dal fatto che l’istmo non era completamente
consolidato, ma sappiamo che sopra sono stati rinvenuti due menhir del 3000
a.C. pertanto già da quel periodo l’istmo era percorribile via terra, pur non
essendo continuo. I depositi del Rio Palmas hanno contribuito, nel tempo, al
consolidamento completo della striscia di terra creando un tombolo che unisce
l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna.
Un altro portolano, del 1844, riporta
una fortezza posta nel passaggio del ponte e si nota anche il castello
bizantino di Castro, raso al suolo intorno al 1870 per far passare la ferrovia.
Oggi al suo posto c’è il campo di calcio. Negli anni scorsi, in collaborazione
con la guardia di finanza, Bartoloni ha istituito un progetto che prevede il
rilevamento di tutti gli insediamenti fenici con l’ausilio di 8000 foto aeree
che hanno documentato tutte le coste del territorio. Oggi abbiamo un quadro
chiaro dell’ubicazione e delle distanze fra gli insediamenti fenici. La
morfologia della costa è cambiata perché nel corso degli anni hanno demolito,
dragato, aggiunto e modificato le strutture, in funzione delle necessità del
porto.
Sulki si trova nel tratto di costa
che fa da cerniera tra il Mare di Sardegna e il Canale di Sardegna, in una zona
caratteristica anche dal punto di vista climatico. In caso di brezza, a nord di
Sant’Antioco spira il maestrale, mentre a sud c’è il vento di levante. Il
dragaggio del canale navigabile ha creato un isolotto chiamato Sa Barra.
L’antica linea di costa, oggi
interrata, è individuabile osservando la lunga fila di alberi piantata in città
negli anni Cinquanta. Oggi corre parallela al mare in corrispondenza dell’antico
tracciato della ferrovia.
Sant’Antioco è edificata totalmente
sulla città antica, e le indagini sul vecchio insediamento sono complicate.
Tutte le fontane alimentate dalla falda freatica che scende dalle colline verso
il porto sono state la condizione fondamentale per la fondazione di
Sant’Antioco. Senza acqua non c’è sopravvivenza e sotto il paese questo
prezioso liquido sgorga a una profondità di 6/7 metri, infatti, tutte le case
hanno un pozzo per la raccolta.
La costa dell’isola presenta vari
punti in cui si poteva fare l’operazione di carico dell’acqua potabile, quindi
i marinai provvedevano facilmente all’acquata e potevano proseguire la
navigazione. Il Golfo di Palmas è uno degli ancoraggi migliori della Sardegna,
paragonabile a quello di Porto Conte, dove si trova il sito di Sant’Imbenia.
Anche l’ammiraglio Nelson, che s’intendeva di baie con facile accesso al riparo
dai venti dominanti, scelse questo golfo per approdare in epoca napoleonica.
Giacomo II di Aragona, quando
conquistò la Sardegna, sbarcò nel Golfo di Palmas, e anche Carlo V, scendendo
verso Tunisi, si fermò a dormire a Palma de Sol. Se i naviganti calano le
ancore in queste acque significa che il golfo è propizio. Il sito offre una
profondità mai inferiore ai 20 metri, e consente l’ancoraggio sicuro su un
fondo sabbioso di posidonia.
Un altro approdo è il Golfo di
Maladroxia, una piccola insenatura dotata di sorgente di acqua termale e di una
valle coltivabile a grano. E’ citato in un portolano francese del 1344 e il suo
nome, secondo Bartoloni, proviene dallo stesso vocabolo fenicio che origina anche
il nome dell’isola di Malta, ossia Malad, che significa rifugio. Essendo
Malad-roxia un nome composito, visto che le parole fenicie sono scritte prive
di consonanti, e considerato che rox (sc) in fenicio significa capo, la parola
sarebbe “il rifugio del capo”, che corrisponde al promontorio di Capo Sperone,
la prima struttura a sinistra che si trova entrando nel Golfo di Palmas.
Dalla parte opposta abbiamo Cala
Sapone, importante sede per le tonnare. In sintesi abbiamo una strada che
unisce un fiume perenne alle sorgenti di acqua termale e un golfo che offre
riparo dai venti dominanti e vede tante cale per fare carena. L’isola è
protetta da un nuraghe polilobato, denominato Sega-Marteddu, a dimostrazione
che i nuragici avevano i loro porti e predisponevano torri per il controllo
degli approdi, inoltre tutta la valle è accuratamente circondata da nuraghe.
A Nord c’è il porto di Inosim,
l’isola dei falchi, ossia Carloforte. Per i greci era "Hieracon
Nesos" e per i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli
sparvieri, o dei falchi). Il nome deriva dalla presenza di un piccolo uccello
migratore, il falco della regina, presente e nidificante in una numerosa
colonia, accuratamente protetta dalle inaccessibili e scoscese falesie
costiere.
Nel quartiere cagliaritano di
Stampace è stata trovata un’iscrizione monumentale, conservata al museo di
Cagliari, che ci parla di un Dio Baal dei cieli, signore di Inosim, ossia di
Carloforte. Si tratta forse di una pietra utilizzata come zavorra, scaricata
nella spiaggia quando la nave salpò per una nuova destinazione.
Le indagini archeologiche hanno
individuato l’antico insediamento intorno alla torre di San Vittorio, dove si
trova l’osservatorio astronomico. Il sito è segnalato dalla presenza di anfore
fenicie di inizio VIII a.C., con il porto vicino alle attuali saline, nella grande
insenatura che si vede a occidente dell’isolotto di San Vittorio.
A Portoscuso è stata individuata, da
Bernardini, la più antica necropoli fenicia della Sardegna, databile al 750
a.C. Carloforte si trova a nord dell’antico insediamento, ma è l’erede naturale
di quell’insediamento.
Più a sud troviamo Portopino, in
prossimità dello stagno di Is Brebeis, un approdo protetto da un antemurale
fino a Punta Menga, sede di un’antica tonnara. Il Sulcis è pieno di antiche
tonnare, ma l’unica rimasta attiva è quella di Portoscuso. La cala di Portopino
era sicuramente un ricovero per barche, e le opere più importanti sono quelle
cartaginesi, come ad esempio il canale che precede temporalmente quello oggi in
funzione. I canali servivano come scolmatori per la conservazione del pescato.
I cartaginesi erano produttori di
cibi in conserva, soprattutto prodotti derivanti dal pescato. Il garum, ad
esempio, era un condimento fatto con le interiora di sgombro. Anticamente
andava di moda il contrasto fra agro e dolce, e la ricetta principale di
Cartagine era la minestra. I romani, consumatori della proteina nobile della
carne, indicavano con ironia i cartaginesi come mangiatori di minestre. Una
delle ricette più prelibate si è conservata fino ai nostri giorni: in una
pentola si aggiungevano 5 parti di semola, 1 di formaggio fresco e all’interno
il miele. Poi si mescolava per ottenere un cibo agrodolce che rispecchiava i
gusti di quei tempi. Oggi quella pietanza è ancora consumata in Sardegna e
prende il nome di “Seadas”.
A Portoscuso c’è lo scoglio della
Ghinghetta, oggi sede di un famoso ristorante ma fino a qualche anno fa
attrezzato sito per un’importante tonnara, a dimostrazione che i sardi erano
grandi consumatori di tonno. Conoscevano i meccanismi degli spostamenti di
questo pesce azzurro che, come gli sgombri e le sardine, gradisce un tasso di
salinità costante, a differenza di spigole e orate che possono risalire i
fiumi. I pescatori gettavano le reti in punti strategici e catturavano una
grande quantità di tonni. Impararono velocemente le abitudini dei pesci, ed essendo
esperti navigatori capirono come sostentarsi in mare. La commercializzazione
del pesce divenne di fondamentale importanza per la loro economia.
L’antico porto di Portoscuso si
trovava in prossimità della torre, vicino al porto attuale. La necropoli di San
Giorgio è stata trovata nella zona dei bagni rossi vicino alle industrie. Si
tratta di 11 tombe del 750 a.C. appartenenti a una famiglia nobile. I corpi dei
defunti venivano bruciati e sepolti all’interno di anfore. Il tappo dell’anfora
è una coppa, e il corredo funerario comprende sempre una brocca per la
libagione sacra.
Traspare il rapporto strettissimo tra
il vino e il mondo funerario: questo prezioso liquido era un elemento
indispensabile nel rito funerario fenicio. In Sardegna ci sono tracce di 24
tonnare, e la maggior concentrazione si trova proprio nel Sulcis Iglesiente, a
dimostrazione del rapporto fra residenti e mare. Era una caccia vivace che
alimentava anche l’industria della conservazione del pescato. I fenici viaggiavano
in tutto il Mediterraneo, e avevano bisogno di prodotti conosciuti e
certificati per aumentare le esportazioni.
Quando Roma era ancora un villaggio,
Sant’Antioco commerciava dall’Atlantico fino al Vicino Oriente. La situazione
portuale dell’epoca ci mostra una morfologia precisa dei luoghi nei quali le
navi approdavano, ma bisogna sempre tenere presente che la situazione cambiò
col passare del tempo, e la linea di costa continua ancora oggi a cambiare.
Alcuni porti non consentirono più alle navi di approdare in sicurezza e
dovettero essere spostati, come avvenne anche a Cagliari intorno al III secolo
a.C.
Le navi dell’epoca erano lunghe fino
a 40 metri, e caricavano 10.000 anfore. I viaggi erano difficili e visto che si
navigava solo nella buona stagione, gli approdi che offrivano ospitalità a buon
mercato erano graditi e le rotte duravano diversi anni. Come tutti i marinai
sanno, la terra è nemica e la navigazione a vela sotto costa costituisce dei
pericoli per le azioni di pirateria dei locali. Di conseguenza cercavano di
navigare lontani dalle coste, così da avere più possibilità di manovra.
Affrontare la costa sottovento causava parecchi incidenti, infatti la maggior
parte dei relitti sono ancora lì a dimostrarlo.
Per quanto riguarda i rapporti
commerciali, c’è un bel racconto di Erodoto che dice come i fenici si
procuravano l’oro dalle popolazioni che non conoscevano. Arrivavano in
spiaggia, scaricavano le mercanzie, accendevano un fuoco e risalivano sulle
barche allontanandosi qualche miglio dalla costa. Gli indigeni vedevano il
fumo, scendevano in spiaggia, controllavano le mercanzie, mettevano un
corrispettivo in oro e rientravano verso l’interno del villaggio. I fenici sbarcavano
nuovamente, verificavano se la quantità di oro era sufficiente per le merci e
concludevano l’affare. Se l’oro non era proporzionato, si allontanavano senza
prenderlo, così che gli indigeni potessero aumentare l’offerta. La trattazione
generalmente finiva bene perché se uno scambio non funzionava i fenici non
sarebbero più ritornati in quel luogo, e il mercato finiva.
I nuraghi sulla costa servivano anche per sorvegliare le occasionali bardane
di saccheggio avviate dai cantoni nuragici vicini. Bartoloni afferma che la
Sardegna non conosceva un’unità nazionale, così come nessuno nel mondo antico.
I fenici si riconoscevano nel diritto cittadino, e si consideravano appartenenti
a un popolo ben preciso identificato in una città: quello di Tharros, di Sulki,
di Cartagine, di Karalis. Forse anche i nuragici seguivano lo stesso sistema ed
erano divisi in cantoni.Immagine di www.lepavoncelle.it
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