venerdì 1 gennaio 2016
Archeologia. La Sardegna e la Grecia tra il XVI e il IX secolo a.C.: riflessioni sulle architetture idrauliche, di Riccardo Locci
Archeologia. La Sardegna e la
Grecia tra il XVI e il IX secolo a.C.: riflessioni sulle architetture
idrauliche
di Riccardo Locci
Il presente contributo si inserisce nell’ambito degli studi
sulle architetture idrauliche mediterranee e in particolare indaga quelle
categorie architettoniche che nella seconda metà del II millennio a.C.
testimoniano, in Sardegna e in Grecia, l’impiego di tecniche e soluzioni
architettoniche affini. Fra queste, la diffusione delle camere di raccolta
idrica circolari sembra documentare una tradizione architettonica mediterranea
di ampio respiro. I passaggi a luce ogivale delle riserve idriche a Tirinto e
Micene e dei probabili ponti micenei, invece, trovano confronti nel XIII a.C.
nel mondo ittita e nuragico. A contatti fra le due aree in esame, infine,
sembra ricondurre la copertura ad architravi digradanti nelle scalinate dei
pozzi egei e dei templi dell’acqua nuragici.
Nella seconda metà del secolo scorso la ricerca archeologica
ha approfondito la conoscenza delle testimonianze architettoniche protostoriche
nell’oriente e nell’occidente mediterraneo, evidenziando al contempo affinità e
differenze nelle tecniche edilizie delle diverse aree. Grande rilevanza hanno
avuto in questo settore le ricerche di D. Mitova Džonova e P. Belli, i quali
nell’indagare gli edifici dell’acqua, l’una da un punto di vista archeologico,
l’altro da uno architettonico, hanno saputo superare una visione regionale
proponendo una panoramica mediterranea del fenomeno. In tale ambito di studi si
inserisce il presente contributo, estrapolato da un lavoro più ampio il cui
obiettivo è indagare, in base ai dati desumibili dalla letteratura scientifica
e corroborati dalle ricerche sul campo, le testimonianze dell’architettura
idraulica attestate in Sardegna e in Grecia fra il XVI e il IX a.C.
L’architettura idraulica è una vasta branca dell’architettura protostorica che
racchiude al suo interno categorie eterogenee, contraddistinte da peculiarità
regionali e locali, la cui trattazione esaustiva richiederebbe uno spazio
maggiore di quello a disposizione; pertanto, in questa sede, l’analisi si
soffermerà sulle categorie architettoniche che palesano le maggiori affinità
fra le due aree. Elementi guida nell’indagine saranno le tecniche architettoniche,
le soluzioni planimetriche e gli
elementi strutturali che inducono a
ipotizzare, per la loro diffusione, conoscenze tecnologiche condivise, se non
proprio maestranze itineranti, nelle due aree mediterranee. In sede di
confronto, inoltre, saranno prese in considerazione, sebbene non organicamente,
le testimonianze pertinenti ad aree terze o ascrivibili a periodi
immediatamente precedenti o successivi, allo scopo di inquadrare puntualmente
le evidenze archeologiche egee e sarde nell’ambito del Mediterraneo dell’età
del Bronzo.
La circolarità e la tholos negli edifici dell’acqua
Con il
termine “edificio dell’acqua” si denota un manufatto incentrato su una camera
di raccolta voltata o ipetrale, atta a convogliare l’acqua di vena, sorgiva o
celeste. Tale genia di monumenti è, come noto, caratteristica della Sardegna
nuragica, e presenta una diffusione ben definita geograficamente e
cronologicamente nel continente e nelle isole greche. Non mancano, inoltre,
testimonianze architettoniche affini e coeve nelle altre regioni mediterranee,
a completare un quadro d’insieme ampio e complesso quanto confuso e
disarticolato, nel quale è arduo isolare gli elementi architettonici utili a
delineare i tratti essenziali del fenomeno. Fra questi possiamo annoverare la circolarità
della camera di raccolta e la volta a tholos o a forma tendenzialmente
emisferica, soluzioni architettoniche che sembrano essere, in associazione o
meno, una tradizione costruttiva diffusamente attestata negli edifici
dell’acqua mediterranei. Tale tematica, analizzata in particolare negli studi
di P. Belli (1990; 1992; 1996), suscita numerose suggestioni, le quali
difficilmente trovano conferma o falsificazione nel dato archeologico, poiché
le informazioni che quest’ultimo ci fornisce sono spesso troppo frammentarie e
non ancorate a dati stratigrafici certi. Nella Grecia insulare la circolarità
della camera di raccolta dell’acqua accomuna le cisterne, con o senza scala
d’accesso, di Creta; nell’Isola, un vano circolare, e verosimilmente ipetrale,
contraddistingue nel corso dell’età protopalaziale le due cisterne di Pyrgos
(Cadogan, 1972 p. 630; Cadogan, 1977-1978 p. 74) e quella di Tourkoghitonià ad
Epano Archanes (Evans, 1928 pp. 64-67, tav. 29-30; Sakellarakis &
SapounaSakellarakis, 1983 p. 48; Belli, 1996 p. 1382) e caratterizza, in età
neopalaziale, la camera di raccolta della cisterna di Kato Zakros (Platon, 1971
pp. 185-199, fig. a ; Platon, 1974 pp. 172-178; Cadogan, 1991 pp. 124-128;
Hitchcock, 2000 pp. 173-175) e, durante il periodo miceneo, l’edificio di
Tylissos (Hazzidakis, 1934 pp. 61-64, tav. 12: I, 33; Belli, 1996 p. 1382).
Nella Sardegna nuragica, invece, non abbiamo edifici paragonabili nella
funzione alle cisterne cretesi, anche se alcuni manufatti, ritenuti utili per
la captazione dell’acqua, potrebbero, invece, essere funzionali alla sola
raccolta del prezioso liquido, come recentemente proposto da F. Nieddu (2008 p.
381) per l’edificio di Monte S. Antonio a Siligo e, in via ipotetica, per il
manufatto di Riu Sallìu a Guasila. A differenza delle cisterne, la circolarità
non è propria dei vani di raccolta dei pozzi e delle fonti di Creta, i quali
presentano, invece, una pianta quadrangolare o triangolare; unica eccezione è
il pozzo di età neopalaziale ubicato nella corte centrale del palazzo di Kato
Zakros (Platon, 1971 pp. 185-199, fig. a; Platon, 1974 pp. 183-185, fig. 106;
Gesell, 1985 p. 140; Cadogan, 1991 pp. 124-128; Hitchcock, 2000 pp. 95-97),
che, composto di una scala ad “L” e di un vano di raccolta circolare, presenta
uno sviluppo planimetrico affine a quello dei cosiddetti “bacini lustrali”
minoici. In un arco cronologico coevo e in gran parte successivo a quello
testimoniato dai manufatti cretesi, si diffondono anche in Sardegna i pozzi e
le fonti con camera di raccolta idrica, i quali, nell’ambito degli edifici
idraulici, sono la testimonianza quantitativamente e qualitativamente più
rilevante dell’intero panorama mediterraneo. Gli edifici dell’acqua nuragici,
come noto, presentano nella maggior parte dei casi una camera di raccolta
voltata a tholos e contraddistinta da una pianta circolare, benché nell’Isola
siano attestate anche la copertura a piattabanda e una grande varietà
planimetrica nei vani di raccolta idrica. Nelle Sporadi, nell’isola di Cos, le
medesime soluzioni architettoniche contraddistinguono la fonte denominata
Burinna o Bulinna (Neppi Modona, 1933 pp. 161-163; Belli, 1990 p. 77; Belli,
1992 pp. 241-242). L’edificio, che sembra proporre lo stesso schema planimetrico
delle tombe a tholos, non ha restituito materiali datanti e può essere
attribuito, in base ad un’analisi formale, ad un arco cronologico molto ampio
compreso fra l’età del Bronzo e quella classica (Belli, 1990 p. 77). Una
situazione analoga si riscontra sfortunatamente per il pozzo di Ğarlo in
Bulgaria (Mitova-Džonova, 1983; Mitova-Džonova, 1992 pp. 587-607). L’edificio,
infatti, non ha restituito nessun elemento diagnostico in strato ed è datato al
XIV-XIII a.C., da D. Mitova-Džonova (1992 pp. 588-589), in base ad un frammento
ceramico rinvenuto davanti alla scalinata. Il monumento, come sostenuto dalla
studiosa e da altri autori (Belli, 1992 p. 242; MitovaDžonova, 1992 p. 587;
Ugas, 1996 p. 1610), palesa numerose affinità con i templi a pozzo nuragici: la
planimetria a “serratura di chiave”; il vano di raccolta circolare, che trova
confronti nel diametro con il tempio di Sa Brècca a Tertenia (Crispu, 2008); la
canna cilindrica del pozzo, ubicata al centro del pavimento lastricato,
rifasciata in muratura e affine nell’ubicazione, nella sezione verticale e
nelle dimensioni a quella nel tempio di Funtana Coberta a Ballao; la presenza
di due piccole stipi nelle pareti laterali del vano scala. Non mancano,
tuttavia, le differenze, a ragione delle quali si potrebbe ipotizzare che le
affinità sopra elencate siano il frutto di un fenomeno di convergenza piuttosto
che la testimonianza di conoscenze tecniche ed esperienze edilizie comuni. Fra
le differenze riscontrabili, le più significative consistono nel fatto che nel
pozzo di Ğarlo il paramento murario interno della camera inizia ad aggettare a
circa un metro di altezza dal piano pavimentale e che tale aggetto si sviluppa
verticalmente formando una volta di forma emisferica. L’accesso al vano di
raccolta del pozzo, inoltre, presenta un taglio ogivale, benché irregolare, e
utilizza come elemento di chiusura tre pietre affiancate e disposte di taglio,
tecnica non documentata in Sardegna e affine a quella attestata nel mondo
ittita. Per quanto riguarda il mediterraneo occidentale, G. Ugas (1996 p.
1610), sulla base di un’analisi formale e stilistica, inquadra nel Bronzo
Finale la camera di raccolta circolare dell’edificio termale di San Calogero,
ubicato nell’isola di Lipari (Cavalier, 1988; Bernabò Brea & Cavalier,
1990; Belli, 1990). Il manufatto è coperto da una volta che, pur non
conservando integralmente la sua struttura originaria, disegna una forma
emisferica, peculiarità che, come evidenziato da P. Belli (1990 p. 78),
accomuna l’edificio di Lipari al pozzo di Ğarlo.
Le scalinate e i
corridoi a luce ogivale
Diversamente dalle isole, nella Grecia continentale gli
edifici dell’acqua sono documentati in numero esiguo, quattro allo stato
attuale delle ricerche, e sono indicativamente accomunati da caratteristiche
quali la funzione, l’ubicazione e la pertinenza cronologico - culturale. La
costruzione degli edifici sembra essere stata dettata da un’esigenza
prettamente difensiva, come testimonia il fatto che essa ebbe luogo nei palazzi
di Atene, Tirinto e Micene nel corso del TE III B2, all’interno di un ampio
progetto edilizio volto ad ingrandire la cinta difensiva delle tre cittadelle e
a dotarla di un’adeguata riserva idrica accessibile dall’interno delle mura. La
contemporaneità delle riserve idriche, così come l’assenza di testimonianze
simili pertinenti ai periodi precedenti, sembra, dunque, circoscrivere il
fenomeno degli edifici idraulici micenei all'ultima fase edilizia delle
cittadelle, elemento significativo per meglio inquadrare tali testimonianze in
chiave mediterranea. Riserve idriche accessibili dall’interno di centri
fortificati, infatti, sono attestate in entrambe le sponde del Mediterraneo:
nell’area vicino-orientale sono diffusi gli edifici con tunnel d’accesso, come
la sorgente di Gibeon in Palestina, ascrivibile ad un periodo successivo al XII
a.C. (Pritchard, 1961 pp. 8-10; Wright, 1985 pp. 154-166); nel Mediterraneo
occidentale, invece, edifici nuragici come il tempio a pozzo del nuraghe
Cuccuru Nuraxi a Settimo S. Pietro (Atzeni, 1987 pp. 279-298) e la camera
sotterranea, dotata di pozzo a canna semplice, del nuraghe Tottubella a Sassari
(Melis, 1987-1992 pp. 269-272; Caputa, 2000 pp. 48-49), ben documentano questo
tipo architettonico in un arco cronologico coevo e in parte precedente a quello
testimoniato dai manufatti greci. Nell’ambito degli edifici idraulici micenei,
la sorgente di Atene si differenzia per le soluzioni architettoniche adottate a
ragione della sua ubicazione nel fondo della diaclasi aperta nel pendio nord
dell’acropoli (Brooner, 1938 pp. 317–433, fig. 4-20, tav. 11-13; Mountjoy, 1995
pp. 43-44; Belli, 1996 p. 1383). In particolare è importante evidenziare come
per raggiungere la sorgiva furono edificate, con un’ingegnosa opera di
carpenteria, rampe lignee ancorate alle pareti della spaccatura e rampe litiche
sorrette da una sottostruttura, in terra e pietre, stabilizzata da
un’intelaiatura lignea. Nell’ottica dei confronti con la Sardegna, è bene
sottolineare che l’ubicazione della riserva idrica ateniese trova un parallelo
nella sorgente che affiora nella diaclasi di Sa Grotta de is Caombus a
Morgongiori (Santoni, 1977 pp. 355- 356) e che una maestria nella lavorazione e
nell’impiego del legno analoga a quella documentata nel manufatto ateniese
doveva essere propria dei costruttori nuragici. Infatti, a giudicare dalle
riseghe murarie nei vani dei nuraghi e dalla disposizione della scala di camera
negli stessi, essi dovevano aver dotato le camere dei loro edifici di
impalcature e soppalchi lignei, come documentano i nuraghi Oes a Giave,
Porcalzos a Uri, e Longu a Ploaghe (Lilliu, 1988 pp. 493-500). A differenza del
monumento ateniese, le riserve idriche dei palazzi di Micene e Tirinto sono
accomunate dal medesimo linguaggio architettonico ciclopico, proprio anche
delle mura dei palazzi micenei, e dalla stessa articolazione interna: una
scalinata d’accesso che, aperta nello spessore murario della cinta difensiva,
conduce alla camera di raccolta idrica. Nell’ottica dei confronti mediterranei
diversi autori hanno evidenziato come i corridoi a luce ogivale delle due
cittadelle siano affini ai corridoi nuragici, annoverando fra questi la
scalinata che conduce alla cisterna sotterranea di Micene (fra gli altri:
Contu, 1974 p. 160; Lilliu, 1975 pp. 308-309; Ugas, 1987 pp. 88-89), alle quale
credo si debbano affiancare per ragioni stilistiche e formali gli accessi ai
due pozzi nella città bassa di Tirinto. A un esame morfologico, tuttavia, le
scalinate degli edifici idraulici micenei manifestano l'impiego simultaneo di
due tecniche architettoniche differenti:
- la prima, denominata tecnica della copertura a taglio
ogivale, vede l’edificazione di pareti dall’aggetto costante dalla base fino
all’apice. Questa soluzione architettonica fu impiegata per edificare la prima
sezione della scalinata nella cisterna sotterranea di Micene (Ugas, 1987 pp.
88-89; Ugas, 2006 p. 200) e l’accesso ai due pozzi di Tirinto. Inoltre la
ritroviamo nell’ingresso alla scalinata sud-ovest della cittadella di Tirinto e
nella nicchia muraria ubicata nella rampa d’accesso nord-est della stessa
cittadella. Una variante di questa tecnica è attestata, infine, nella galleria
a luce tronco-ogivale nelle mura settentrionali di Micene (Wace & Rowe,
1954) e in quella, recentemente scoperta, che attraversa le mura della terrazza
ovest dell’acropoli di Midea (Whitley et al., 2006-2007 pp. 20- 21; Morgan,
2007-2008 pp. 29-30; Morgan, 2008- 2009 pp. 22-24). - la seconda tecnica
architettonica, denominata della copertura a taglio triangolare, consiste
nell’edificare pareti perpendicolari al piano di calpestio fino a perlomeno due
terzi della loro altezza e aggettanti nella parte sommitale. Questa tecnica è
impiegata nella sezione più interna della riserva idrica di Micene e una sua
variante è documentata nelle scalinate dei due pozzi nella città bassa di
Tirinto, dove il taglio triangolare non raggiunge il suo apice per la messa in
opera di un architrave. Inoltre la medesima tecnica contraddistingue i corridoi
dell’Unterburg di Tirinto, come evidenziato da G. Ugas (1987 pp. 89-90), e il
corridoio della Porta Sally sud a Micene. Particolare, infine, la nicchia
muraria nella città bassa di Tirinto, le cui pareti si sviluppano perpendicolarmente
al piano di calpestio per circa metà della loro altezza e aggettano nella metà
superiore. I corridoi a taglio triangolare potrebbero trovare precedenti
nell’architettura dei palazzi micenei nella Porta dei Leoni, attribuita al TE
III B1 (Mylonas, 1966 pp. 20-21; Loader, 1998 p. 115), e negli stomia delle
tombe a tholos. La tecnica del taglio ogivale, invece, non è documentata nelle
cittadelle micenee prima del TE III B2. Le scalinate delle riserve idriche e i
corridoi nelle cittadelle di Tirinto e Micene, d’altronde, sembrano presentare
maggiori affinità con i corrispettivi e coevi manufatti nuragici e ittiti. Nel
Mediterraneo orientale, nel corso del XIII a.C., i corridoi a luce ogivale
compaiono nella galleria di Yerkapu ad Hattusa (Ugas, 2006 p. 200), e nella
fonte della stessa Boghazköy (fig. 3:8) (Neve, 1969-70; Belli, 1996 pp.
1384-1389). I corridoi ittiti, tuttavia, pur caratterizzandosi per un aggetto
costante delle pareti, non raggiungono una sezione ogivale completa, in quanto
l’ultimo blocco di chiusura è costituito da un concio a cuneo che si infila fra
i due paramenti murari. Le testimonianze micenee, invece, trovano puntuali
paralleli proprio nella Sardegna del Bronzo Recente, dove tale tecnica è il
punto di arrivo di una lunga tradizione architettonica che, come evidenziato da
G. Ugas (1987 pp. 88-89), partendo dall’esperienza dei corridoi a taglio
quadrangolare e trapezoidale vede la costruzione di corridoi prima a taglio
tronco-ogivale, in seguito a luce ogivale gradonata e infine a taglio ogivale
continuo. Le due tecniche architettoniche documentate nelle riserve idriche dei
palazzi micenei, benché si presentino affini strutturalmente differiscono sul
piano morfologico: la tecnica della copertura a taglio ogivale, infatti, a
parità di altezza e a parità di inclinazione dell’aggetto, consente di coprire
una larghezza maggiore rispetto alla tecnica della copertura a luce triangolare.
In virtù di ciò è plausibile che la scelta della tecnica architettonica da
adottare fosse dettata da ragioni pratiche: nella riserva idrica di Micene
l’alternarsi della copertura a taglio ogivale e di quella a luce triangolare
potrebbe essere stato funzionale a ridurre il dispendio di energie nello scavo
delle gallerie; la copertura a taglio triangolare nei corridoi dell’Unterburg
di Tirinto troverebbe spiegazione nel ristretto spazio a disposizione dei
costruttori; mentre l’impiego della medesima tecnica nella “porta Sally” sud di
Micene potrebbe essere dovuto, qualora questa sia stata correttamente
interpretata come uscita secondaria e segreta, all’esigenza di edificare un
corridoio stretto e facilmente difendibile. Un’ulteriore interpretazione,
funzionale ad integrare l’ipotesi sopra esposta, è suggerita dall’analisi
contestuale sull’ubicazione delle testimonianze architettoniche nelle
cittadelle. I corridoi e le scalinate a luce triangolare furono edificati
principalmente nelle aree interne del palazzo e nelle sezioni più profonde
delle riserve idriche, dunque in luoghi non immediatamente visibili;
un’eccezione sembra la cosiddetta “porta Sally” sud di Micene, la quale,
d’altronde, se correttamente interpretata come sopra esposto, doveva
probabilmente essere difficilmente individuabile. I corridoi, le scalinate e le
nicchie a taglio ogivale, invece, furono indicativamente costruite agli
ingressi delle cittadelle o in luoghi, all’interno di esse, contraddistinti da
una sicura visività. Così la nicchia muraria nella rampa d’accesso nord-est di
Tirinto e l’ingresso alla scalinata sud-ovest della stessa cittadella certo non
potevano passare inosservati a chi si accingeva ad entrare nel palazzo. Ugualmente
gli ingressi ai pozzi sotterranei nella città bassa di Tirinto, così come
l’accesso alla riserva idrica nell’estensione nord-est della cittadella di
Micene, dovevano con la loro monumentalità attirare l’attenzione di chi era
all’interno della fortezza. Nel caso della cisterna sotterranea di Micene,
inoltre, quasi a rimarcare la monumentalità della prima sezione della
scalinata, fu edificato al termine della stessa un ingresso trilitico affine
morfologicamente alla Porta dei Leoni. Unica eccezione è la galleria a luce
tronco-ogivale nelle mura settentrionali di Micene, la cui poca visibilità
sembra dovuta a motivi funzionali; infatti, come propone K.R. Rowe (Wace &
Rowe, 1954 p. 257), era probabilmente il riparo per coloro che difendevano le
mura. Pertanto, benché entrambe le tecniche architettoniche siano state
impiegate nelle cittadelle di Micene e Tirinto per la loro valenza monumentale
non meno che per le loro caratteristiche architettonico - strutturali, si può,
verosimilmente, ipotizzare che nel corso del XIII a.C. ai corridoi, alle
scalinate e alle nicchie a luce ogivale fosse stato affidato il compito di
accrescere, agli occhi dell’osservatore, la sensazione di forza e possanza che
le poderose mura ciclopiche e le monumentali porte già attribuivano al palazzo.
Ipotesi quest’ultima corroborata dai dati concernenti gli alvei a sezione
ogivale e tronco-ogivale dei probabili ponti micenei, indicativamente ubicati,
allo stato attuale delle ricerche, nella sola Argolide. Il ponte, in quanto
manufatto atto all’attraversamento di un corso d’acqua o di un avvallamento del
terreno, si caratterizza come una struttura difficilmente attribuibile
cronologicamente poiché solitamente non conserva un deposito archeologico datante.
Le testimonianze della Grecia continentale, pertanto, sono attribuite
ipoteticamente all’opera di costruttori micenei non sulla base di ragioni
stratigrafiche ma per motivazioni di carattere deduttivo e morfologico, in
quanto i ponti sono ritenuti probabili elementi della rete stradale micenea,
che si sviluppa a partire almeno dal TE III B (Mylonas, 1966 p. 87; Loader,
1998 pp. 109-114), e poiché gli alvei dei manufatti sono formalmente e
strutturalmente affini ai corridoi edificati nel corso del TE III B2 a Tirinto
e Micene (Loader, 1998 p. 114). I ponti indagati nella Grecia continentale sono
ubicati nei pressi della cittadella di Micene, lungo la strada che conduceva
dalla Porta dei Leoni fino a Prosymna, e vicino al palazzo di Kazarma,
nell’arteria stradale che dalla piana Argolica si sviluppava in direzione del
golfo di Saronicco. In base alla sezione verticale dell’alveo si possono
distinguere tre tipi di ponte: - alveo a luce tronco-ogivale e copertura a
piattabanda, documentato nei ponti di Drakonera, Galousi e Broutzeika (Loader,
1998 pp. 110-112; Knauss, 1999 pp. 12-33, figg. 9, 13-17)
- alveo a taglio ogivale, attestato unicamente nel ponte di
Lykotroupi (Loader, 1998 p. 110; Knauss, 1999 pp. 12-14, fig. 10)
- alveo a luce tronco-ogivale e copertura con conci a cuneo,
documentato nel ponte di Arkadico a Kazarma (Loader 1998, pp. 111-112; Knauss,
1999 pp. 14-33, figg. 11-12, 17)
Grande importanza riveste, allo scopo di ricostruire i
rapporti fra le diverse aree mediterranee, l’alveo del ponte di Kazarma, il
quale ritengo possa essere annoverato fra gli edifici che sfruttano la tecnica,
non nota altrimenti in Grecia, della copertura con conci a cuneo. Quest’ultima,
come detto, trova confronti nel mondo ittita nella fonte e nella galleria di
Yerkapu a Boghazköy, motivo per cui possiamo ipotizzare una datazione del ponte
di Arkadico al TE III B2. La tessitura muraria dei probabili ponti micenei si
compone di conci poligonali di grandi dimensioni disposti in filari non
regolari; unica eccezione è l’ipotetico ponte di Aghios Yeoryios ubicato lungo
la gola del fiume Chavos, circa un chilometro a sud della cittadella di Micene
(Wace, 1949 p. 27; Mylonas, 1966 p. 87; Hope Simpson, 1981 p. 17; Loader, 1998
p. 111). Il manufatto fu edificato in tecnica ciclopica con grandi blocchi
rozzamente sbozzati nella fronte settentrionale, mentre il lato meridionale
presenta un ordito murario regolare, costituito da un’alternanza di filari di
pietre rettangolari e quadrate. Tale differente cura architettonica induce a
ritenere, secondo N.C. Loader (1998 p. 111), che la fronte rivolta a sud avesse
una maggiore importanza visuale rispetto alla fronte settentrionale, poiché era
il lato visibile da chi percorreva la strada in direzione del palazzo di Micene.
La medesima peculiarità si riscontra nel ponte di Arkadico, dove il lato
maggiormente visibile da chi percorreva la strada verso la cittadella di
Kazarma mostra, in particolare nell’alveo, una maggiore cura architettonica.
Caratteristica che, come sostiene N.C. Loader (1998 p. 117), ritroviamo anche
nei manufatti di Lykotroupi e Drakonera, e che avvalora la tesi secondo cui i
ponti e in particolare i loro alvei, così come i passaggi a luce ogivale delle
cittadelle, sarebbero stati depositari nel mondo miceneo di una rilevante
valenza monumentale. Diversamente in Sardegna, allo stato attuale delle
ricerche, sono poche le testimonianze dei ponti attribuibili, anche solo in via
ipotetica, all’opera di costruttori nuragici. È edito il ponte ubicato in
località Sas Bogadas a Birori (Foschi Nieddu & Paschina, 2007 p. 64; Foschi
Nieddu, 2008), il quale trova analogie con i corrispettivi manufatti elladici
nell’opera muraria poligonale e nella copertura a piattabanda dell’alveo a luce
trapezoidale. Al manufatto di Birori, inoltre, si affianca il probabile ponte
nuragico ubicato in agro di Desulo, il quale, tuttavia, è ancora
sostanzialmente inedito (Serra, 2008 p. 729).
La volta ad
architravi digradanti
Nell’ottica dei confronti tra l’oriente e l’occidente
mediterraneo particolare attenzione merita la copertura ad architravi
digradanti o “a scala rovescia” documentata nelle scalinate degli edifici
idraulici sardi ed egei. Questa, inserita da G. Ugas (1987 p. 91) fra gli
elementi architettonici peculiari della comune temperie mediterranea alla fine
del II millennio a.C., è ampiamente diffusa nei templi dell’acqua nuragici e
caratterizza in tutta la loro estensione le scalinate dei pozzi nella città
bassa di Tirinto. La scala rovescia dei templi dell’acqua nuragici trova
precedenti nel Bronzo Medio sardo nei corridoi aggettanti dei protonuraghi,
dove il suo impiego sembra dettato dalla necessità di trovare una soluzione
pratica per la copertura del vano scala o di un corridoio in pendenza, come
testimonia il protonuraghe Carrarzu Iddia a Bortigali (Moravetti, 1998 p. 250).
A partire dal Bronzo Recente, quando l’evoluzione delle tecniche
architettoniche rese possibile, invece, la costruzione di un vano scala a
sezione ogivale, come testimonia il nuraghe Santu Antine a Torralba (Moravetti,
1988 p. 48), nei templi a pozzo la copertura della scala sembra cristallizzarsi
nella forma ad architravi digradanti. Tale elemento architettonico, inoltre, si
ritrova in una fase tarda, corrispondente all’ultima parte dell’età del Bronzo,
secondo M.A. Fadda (1988 p. 28), o alla prima età del Ferro, secondo G. Lilliu
(1955-1957 p. 266), in un edificio differente dal tempio a pozzo, ma a questo
affine dal punto di vista funzionale, il tempio a fonte di Su Tempiesu (Lilliu,
1955-1957 pp. 216-281; Fadda, 1982 pp. 284-286; Fadda, 1984 pp. 229-230; Fadda,
1988). Quest’ultimo, benché per sua natura non necessiti di una scala per
raggiungere e attingere l’acqua, presenta una “scaletta”, così la definisce G.
Lilliu (1955-1957 p. 219), coperta ad architravi digradanti, che ha dimensioni
tali da non poter essere realmente funzionale. La scala del tempio di Orune è
ubicata nella medesima posizione che essa occupa nei templi a pozzo, ovvero come
elemento di raccordo fra l’atrio e il sacello, perciò è verosimile che questa
svolga una funzione di richiamo architettonico, e forse ideologico, al tempio a
pozzo. La cristallizzazione della copertura a scala rovescia in Sardegna
potrebbe essere, pertanto, un elemento importante ai fini del confronto fra i
templi nuragici e le affini testimonianze extrainsulari. Tale tecnica, infatti,
è attestata, oltre che nei pozzi di Tirinto, in altri due edifici ubicati nel
Mediterraneo orientale, il pozzo di Aghia Irini nell’isola di Kea, o Keos,
nelle Cicladi, e il già citato pozzo di Ğarlo in Bulgaria. Il primo edificio,
forse simile nella funzione a quelli di Micene e Tirinto, presenta una pianta
rettangolare e si articola in una scalinata e in una camera a pianta irregolare
(Caskey, 1971 pp. 365-367, fig. 6, tav. 7; Davis, 1986 pp. 9-12, tav. 4, 40:
d-e, 1:a; Schofield, 1998 pp.119-120). Lo stesso P. Belli (1996 p. 1383)
paragona la copertura della scala del pozzo a quella dei templi sardi,
evidenziando come tuttavia l’edificio greco sia più antico, poiché fatto
risalire da J. L. Caskey al XVI a.C. Se l’affinità fra il pozzo di Agya Irini e
gli esemplari nuragici potrebbe essere il frutto di un fenomeno di convergenza,
differente è la situazione per quanto attiene il pozzo di Ğarlo. Nel manufatto
bulgaro la copertura ad architravi digradanti si inserisce in un contesto che
presenta, come detto, diverse affinità con i templi dell’acqua sardi, tuttavia
è proprio questo elemento architettonico, sottolineato da D. Mitova-Džonova
(1992 p. 589), che avvalora l’ipotesi della presenza di influenze, se non di
maestranze, nuragiche nella penisola Balcanica. Difficilmente, infatti, si
potrebbe attribuire ad un fenomeno di convergenza l’impiego di un elemento
architettonico quale la scala rovescia, in associazione con l’aggetto murario
delle pareti, in un edificio come quello di Ğarlo che testimonia, con
l’ingresso a luce ogivale della camera di raccolta, la capacità dei costruttori
di sfruttare altre tecniche architettoniche per raggiungere il medesimo scopo.
L’impiego della scala rovescia nell’edificio bulgaro potrebbe, pertanto, essere
dovuto ad una scelta consapevole dei costruttori. Ad una ipotesi simile
potrebbe ricondurre l’analisi della copertura ad architravi digradanti delle
scalinate dei pozzi a Tirinto, dove tale elemento strutturale è associato ad
una variante della copertura a taglio triangolare, laddove i coevi corridoi
della stessa cittadella e la scalinata della cisterna di Micene mostrano una
luce triangolare piena.
Considerazioni La diffusione dei vani di raccolta idrica
circolari nelle isole dell’oriente e dell’occidente mediterraneo potrebbe
sottintendere la presenza di conoscenze e tradizioni architettoniche condivise,
tuttavia la mancanza dei dati stratigrafici relativi ad importanti edifici
esorta a sospendere, in attesa di nuove ricerche, la valutazione in proposito.
È principalmente in Sardegna, invece, che negli edifici idraulici alla
circolarità si associa la volta a taglio ogivale dei vani, così come
nell’architettura funeraria questa associazione è propria delle tombe a tholos
egee, motivo per cui aumenta il rammarico per l’assenza dei dati stratigrafici
relativi all’edificio di Cos, che sembra rappresentare sul piano formale
l’anello di congiunzione fra le due tradizioni architettoniche. Grande
interesse suscitano gli edifici di Lipari e di Ğarlo, i quali sembrano
preferire l’impiego di una volta di forma emisferica alla tholos,
caratteristica da valutare attentamente con l’ausilio di nuove ricerche.
Nell’ottica dei rapporti fra le diverse aree mediterranee nel corso del XIII
secolo a.C. è importante sottolineare che la costruzione, nelle cittadelle
argoliche, di scalinate e corridoi a luce ogivale potrebbe verosimilmente essere
il frutto di influenze esterne al mondo miceneo. Quali quelle che, attraverso
Lipari e la Sicilia, avrebbero potuto raggiungere il continente greco dalla
Sardegna nuragica, dove, come detto, troviamo le testimonianze più affini a
quelle micenee. Tale ipotesi è corroborata dal fatto che, come sostiene G. Ugas
(1987 p. 92), mentre in Sardegna i corridoi e le scalinate a luce ogivale si
inseriscono in un sistema architettonico omogeneo e organico, di cui si può
seguire interamente l’evoluzione, nell’architettura micenea questi elementi
strutturali sembrano inseriti in maniera all’apparenza occasionale all’interno
di un sistema architettonico dove non sembrano avere antecedenti e seguito.
Parimenti è importante sottolineare che in Argolide nel corso del TE III B2
sembrano affluire da oriente anche esperienze architettoniche proprie del mondo
ittita. Il XIII a.C. appare, dunque, alla luce di queste osservazioni come un
periodo di grande vitalità e forti tensioni nella civiltà micenea. Doveva certo
essere un momento di benessere e ricchezza, come testimonia la costruzione di
un articolato sistema viario e verosimilmente di opere idrauliche, quali i
ponti, di certo dispendiose economicamente e al contempo indici di una vigorosa
politica edilizia operata dal potere centrale. Tuttavia la fase edilizia del TE
III B2, è bene ricordarlo, operò un sostanziale miglioramento del sistema
difensivo delle cittadelle micenee, sia allargando il perimetro delle mura, sia
dotandolo di una riserva idrica accessibile dal suo interno. In un tale
contesto è verosimile che i sovrani micenei abbiano assoldato maestranze
dall’oriente e dall’occidente mediterraneo, allo scopo di costruire opere
difensive e di architettura idraulica capaci al contempo di difendere e
riaffermare con la loro monumentalità il potere regale. Sembra, infatti, di
poter leggere una volontà autocelebrativa e propagandistica sia nell’ubicazione
dei corridoi e delle scalinate a luce ogivale nei palazzi sia nella cura
architettonica delle fronti a vista dei probabili ponti micenei. Concludendo,
se le relazioni fra mondo egeo e Sardegna sono attestate già nel XIV a.C., è
proprio nel XIII a.C., quando le ceramiche nuragiche arrivano a Kommos e le
ceramiche micenee sono attestate in Sardegna, che l’architettura idraulica
palesa più strette affinità tra le due aree.
ArcheoArte. Rivista elettronica di Archeologia e Arte (ISSN
2039-4543) Supplemento 2012 al numero 1
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