la destra. Qualche raro auleta gestisce la destrìna con la mano sinistra, scambiando in tal modo la posizione delle canne melodiche. Entro le tre canne affiancate la bocca soffia l’aria con un sistema di “respirazione circolare”, che non s’interrompe grazie all’intervento sapiente della glottide e della lingua. Il circuito costante dell’aria è noto anche agli aborigeni australiani e ad altri popoli “primitivi”.
domenica 17 gennaio 2016
Meditazione sugli strumenti musicali arcaici della Sardegna ( launeddas ) e sul pane cerimoniale di Fonni, a cura di Salvatore Dedola
Meditazione sugli strumenti musicali arcaici della
Sardegna ( launeddas ) e sul pane cerimoniale di Fonni
di Salvatore Dedola
Launeddas. Questo strumento
musicale della preistoria sarda, unico del suo genere nella tipologia
universale degli strumenti arundìnei (assieme a quelli scozzesi e britannici
scolpiti nelle pareti di qualche chiesa celtica, o nell’abbazia di Westminster,
o dipinti in rari manoscritti medievali), viene ancora usato in Sardegna, anzi
sta conoscendo un momento di grande fortuna. È fatto di canna, composto da tre
corpi chiamati mancosa, mancosedda, tumbu o bàsciu.
La canna più lunga e più grossa, su tumbu, funge da bordone e
fornisce un’unica nota continua. Il tubo di media grandezza è la canna
melodica, fissata a su tumbu e suonata con la mano
sinistra (le due canne unite si chiamano croba). La seconda canna
melodica (mancosèḍḍa o destrìna) è tenuta libera e
suonata con
la destra. Qualche raro auleta gestisce la destrìna con la mano sinistra, scambiando in tal modo la posizione delle canne melodiche. Entro le tre canne affiancate la bocca soffia l’aria con un sistema di “respirazione circolare”, che non s’interrompe grazie all’intervento sapiente della glottide e della lingua. Il circuito costante dell’aria è noto anche agli aborigeni australiani e ad altri popoli “primitivi”.
la destra. Qualche raro auleta gestisce la destrìna con la mano sinistra, scambiando in tal modo la posizione delle canne melodiche. Entro le tre canne affiancate la bocca soffia l’aria con un sistema di “respirazione circolare”, che non s’interrompe grazie all’intervento sapiente della glottide e della lingua. Il circuito costante dell’aria è noto anche agli aborigeni australiani e ad altri popoli “primitivi”.
Linguisti ed
etnomusicologi si sono cimentati nella ricerca etimologica del termine launeḍḍas,
tra i primi Matteo Madau (1723-1800) e Giovanni Spano (1803-1878), che lo
credettero diminutivo di leone, per cui osarono pensare che le
delicatissime e leggerissime canne un tempo fossero confezionate con le
pesantissime e robustissime tibie del leone(ovviamente importate in
enormi quantità dal centro-Africa!...). Preda di una equazione fonica (leone-laune…),
i due studiosi non tennero nemmeno conto di un aspetto ineludibile, che cotali
triple-tibie avrebbero richiesto un soffio orale potentissimo, insostenibile da
chi lo emette con la modestissima pressione delle gote.
Il linguista
Tito Zanardelli propose l’origine del nome dal lat. calamus‘canna’,
‘flauto pastorale’, da cui provenz. caramel, sp. caramillo,
it.ciaramella, parole che in Sardegna s’avviarono ad evolversi in calumella> claumella > galumella > glaumella > laumella > launella > launeddas(faticosissima
e artificiosa ricostruzione di mutazioni sequenziali, che soddisfece soltanto
il proponente, il quale lasciò senza risposta i quesiti scaturenti da ben sette
variazioni fonetiche).
Nel 1909
l’etnomusicologo Giulio Fara ipotizzò che il nome derivasse dalionaxi ‘oleandro’
o, meglio, che fosse diminutivo di láu ‘alloro’ (è ciò per
l’ipotesi, irricevibile, che i rami delle due piante – specie dell’ultima –
possano essere svuotati da un inesistente “midollo”).
Il linguista
Pier Enea Guarnerio nel 1918 tornò a credere all’equazionelionaxi-launeddas (dimostrando
quanto sia mostruoso e fuorviante il “canto di sirena” che induce a credere ad
equivalenze meramente fonetiche).
Nel 1963
Francesco Alziator, studioso di tradizioni popolari, pensò all’equazione lácuna-launeddas,
ricordando che a Solarussa sa lácunaindica il ‘corso
d’acqua’; una fantasia, la sua, vagamente… fangosa, degna di
miglior causa, anche perché sa lácuna o lacuìna è
nient’altro che una cioffa, un fosso fangoso, una pozzanghera
stradale dopo la pioggia, il cui concetto (tranne la labilissima contiguità
fonetica) è antipodico a quello delle launeddas.
Il linguista
M.L. Wagner, concorrente dell’Alziator, ipotizzò l’origine dal gr. monaúlos ‘flauto
dritto a becco o ancia’, da cui i passaggi monauledda> molaunedda > launedda (prodigioso
esito d’una miope fantasia, che non dà conto della perdita dell’iniziale mon-).
Manco a
dirlo, tutte queste (e altrettante, impresentabili) elucubrazioni sono azzardi
disperati, privi di logica e di rigore scientifico. L’ultimo recente azzardo è
del linguista Giulio Paulis, il quale propone l’origine del termine launeddas dal
lat. ligula o lingula ‘linguetta’ (ch’era
l’ancia vibrante delle tibiae): onde ligula > ligulella > liulella > liunella > liunedda >launeddas.
«Poiché la variante launeddas, oggi prevalente, è più recente del
tipo liuneddas e simili, dominante nel Settecento e
nell’Ottocento, e a tutt’oggi presente in aree conservative dello spazio
linguistico meridionale, s’impone la conclusione che l’etimo della nostra
parola è il diminutivo latino ligulella, propriamente ‘linguetta’,
con la dissimilazione di ligulella =liulella in liunella (donde liuneddas e
simili)».
Fin qui ho estrapolato e
sintetizzato le elucubrazioni di personaggi presentati da Marco Lutzu (Enciclopedia
della Musica Sarda XI 36-44).
Invito
ad apprezzare la magia operata dal Paulis con la paroladissimilazione,
gettata con nonchalance da buon prestigiatore, per la quale
non viene proposta alcuna ragione; tantomeno viene spiegato perché alla linguetta (all’ancia)
sia stata riservata quella sconfinata devozione, tale da farci vedere in essa
l’archetipo degli strumenti a fiato, l’idea sacra tramandata fulgidamente sino
a noi per meglio venerare la santità del calamo a soffio più affascinante del
Mediterraneo. La linguettasarebbe una sorta di Uovo Cosmico da
cui prese avvio ogni strumento a fiato: dall’ancia al nome dello strumento,
quindi, e non viceversa, come logica vorrebbe; come dire: è l’unghia a generare
l’uomo, il ruggito a generare il leone, lo starnuto a generare l’influenza,
l’escremento il cibo, l’ubriaco il vino. E come la mettiamo con le altre decine
di strumenti ad ancia inventati in Sardegna e nel Mediterraneo, tuttora orfani
di un nome tanto “generativo” come la linguetta?
Non si
riuscirà mai a rendere giustizia a questo straordinario strumento se non
abbandoniamo l’asfittica aiuola linguistica del cosiddettoindoeuropeo per
indagare tra le lingue semitiche. Prima ancora, siamo obbligati ad abbandonare
uno stereotipo ancora più nefasto, quello che obbliga a vedere Roma come “madre
e fomentatrice” delle lingue neolatine, la conditio-sine-qua-non della
nascita delle lingue medievali e moderne nel Mediterraneo. E dire che già Dante
Alighieri nel De Vulgari Eloquentia ricordava che il latino è
una lingua artificiale, imposta nelle curie ma non carnale al volgo, mentre
soltanto il Volgare è la lingua ereditata dalle genti fin dal
primo balbettio dell’Umanità (infatti Dante creò in volgare la
sua opera immortale). Un altro stereotipo induce a rifiutare le lingue
semitiche «per l’impossibilità o l’estrema difficoltà di dimostrare contatti
prolungati che abbiano portato a significative e durature influenze culturali
tra i sardi e le popolazioni» semitiche (Marco Lutzu); e non si tiene conto di
una verità rivoluzionaria, che le lingue del Mediterraneo esistono prima del
latino e non sono mai morte, e sono il risultato evolutivo da una sola Lingua
Madre (Ursprache), ossia la Lingua Mediterranea, che aveva le identiche
basi che noi oggi riscontriamo nelle lingue sumero-semitiche. Quando la
Sardegna, in epoca nuragica, utilizzava il proprio ricchissimo vocabolario,
Roma era in mente Dei e dovette aspettare altri 1000 anni per
manifestarsi sul Palatino con un patetico villaggio di frasche. Tutte le parole
da noi oggi chiamate “latine” sono parole del vocabolario sardo di 5000 anni
fa, che poi furono assimilate anche dai Romani (non viceversa).
Anche i
Babilonesi, ovviamente, parlavano l’Ursprache sardo-mediterranea. Infatti è
dall’archivio babilonese (un’arcaica lingua sepolta ed oggi riesumata) che
abbiamo conferma dell’antichissimo termine sardo-mediterraneo, composto
da laḫu ‘mascella, bocca, ganascia’ + nīlu‘ingolfamento,
riempimento, allagamento’ = ‘allagamento delle guance’. Se invece assumiamo
come originario il termine liuneddas (usato nel ‘700-‘800),
allora la base etimologica è l’antico accadico le’um‘competenza nel fare,
padronanza di un’arte’ + nīlu ‘ingolfamento, riempimento,
allagamento’: in composto genitivo le’um-nīlu ‘padronanza, arte di
ingolfare, riempire, allagare’ (le gote).
Quindi launeḍḍas è
un composto copulativo indicante le due sequenze, le modalità con le quali è
suonato lo strumento, cioè gonfiando le gote ininterrottamente e spingendo
l’aria attraverso le labbra (prendendo il respiro dal naso). Oppure è un
composto genitivo dov’è indicata la maestria nel gonfiare le guance. L’uno e
l’altro composto sono una sineddoche, ch’estende al nome dello strumento il
nome della tecnica per sonarlo.
In Gallura e
in Logudoro ancora per tutto l’Ottocento (ed ancora oggi) lelauneddas sono
chiamate truveḍḍi, trueḍḍi, la cui base
etimologica è il sum. dur ‘crepa, fenditura’
+ ellum ‘song’; il composto dur-ellum significò in origine
‘(canna) che canta dalle fenditure (dai fori prodotti)’: parola veramente
arcaica.
In altre
contrade sarde le launeddas sono ancora dette bídulas,
la cui base etimologica è l’akk. itû ‘vicino, contiguo’ (tutto un
programma), di cuibìdulas risulta essere un aggettivale in -la.
Launeddas, trueḍḍi, bìdulas sono
parole arcaiche, nate migliaia d’anni prima della lingua latina; la loro
etimologia sconfigge gli ascari “derivazionisti” che ne pretendono l’origine
dall’italiano leone (Madau, Spano), dal latino calamus o ligula (Zanardelli,
Paulis), dal grecomonaúlos (Wagner), e sconfigge la gente ignorante
e miope che ne vede l’origine dal sardo lionaxi o lacuna (Fara,
Guarnerio, Alziator).
Alcuni pani della Sardegna sono straordinari, ad
esempio quello di Fonni
Coccòne, cohòne. A differenza di cocco, coccòi (dall'accadicokukku, 'un genere di dolce'), il nome
di questo pane ha base etimologica nell'antico accadico kukunnû 'tempio elevato' (termine
usato dagli Accadici come apposizione di ziqquratu'tempio elevato', a sua volta derivante dal sumero). La straordinaria
spiritualità di questo pane, veramente strabiliante, confezionato a Fonni,
resta attestata pure dalla linguistica, che ne propone un aspetto di preghiera,
un Osanna nel più alto dei cieli, in onore del Dio supremo. È – guarda caso
– un pane composto da una sorta di ZIQQURAT costruito interamente
con UCCELLI, che salgono a gradoni sempre più alti.
SU COHONE DE
FRORES è confezionato per la festa di san Giovanni (24 giugno), e dopo la
benedizione della Messa viene portato in processione, dove tutto il paese
partecipa in costume, moltissimi a cavallo.
Il termine FRORES
è normalmente il plurale relativo ai 'fiori' dal lat. flos, floris.
Ma quando esso è abbinato a questo straordinario tipo di pane-dolce diventa
automaticamente una paronomasia, un adattamento fonetico "ad
orecchio" di un più remoto termine del quale, con l'avvento dei Romani e
poi della religione cristiana, il popolo smarrì via via il significato
originario.
Sa Die de frores di Fonni è la stessa festa di san Giovanni
Battista. Richiamando l'etimologia di cocòne < ass. kukku 'dolce', incrociato anzi
giustapposto a kukunnû 'tempio
elevato' (a causa della costruzione a ziqqurat di questo celeberrimo
pane-dolce), analizziamo adesso l'intero sintagma Cohone e frores, che non ha
proprio alcuna attinenza coi 'fiori' (vedi la magistrale disamina antropologica
di Franco Diana nel libro "Il canto del pane"). Ciò che la
paretimologia fa intendere come FRORES (= 'fiori') originariamente era un
vocabolo rintracciabile nel sumerico BURU ‘bird, UCCELLO’, poi imbastardito
foneticamente in virtù della metatesi BURU > bru-. Pertanto COHONE E FRORES
significa, fin dalle origini, "CASTELLO DI UCCELLI", "ZIQQURAT
FATTO CON GLI UCCELLI".
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