Archeologia. Brevi considerazioni
tecniche sulle sculture “Giganti di Mont’e Prama”
di Raffaele Mondazzi (docente
di scultura all’Accademia delle Belle Arti di Torino)
(articolo pubblicato per gentile concessione dell'Associazione Agorà Nuragica che ha invitato il professore Raffaele Mondazzi a valutare le sculture in oggetto)
Inizio con alcune considerazioni su cosa questo scritto non
vuole essere: non vuole essere un giudizio storico, non una valutazione di
autenticità, non un tentativo di datazione. Non desidero dare, in questa sede,
una valutazione di merito ai restauri né al criterio espositivo. Dopo tute
queste negazioni, come S. Pietro, piangerò amaramente su ciò che, in positivo,
dirò. Ciò che dirò riguarderà esclusivamente l’aspetto tecnico della esecuzione
delle statue, cercherò di sostenere quanto affermo con la documentazione delle
fotografie che sono riuscito a fare e che spero confermeranno quanto ho
osservato.
Tipo di metallo:
ferro o bronzo
La prima cosa: le sculture, in pietra calcarea sedimentaria
non cristallina (non metamorfosata) relativamente tenera, sono state eseguite,
ognuna forse da un unico blocco, con utensili in ferro. Probabilmente è
osservazione banale: serve comunque a definire un momento post quem le statue
sono state eseguite. Le foto dello spazio scavato tra la coda del “gonnellino”
a punta che scende dietro le cosce e le gambe dei personaggi rendono
chiaramente l’idea di come siano stati ricavati gli spazi: usando uno scalpello
col fusto piegato “a calcagnolo” che si appoggia su un punto fronteggiante lo
scavo e che, colpito col mazzuolo in modo non eccessivamente violento, scava
lateralmente il corpo del materiale lapideo. L’uso del bronzo nell’utensileria
da scavo non consentirebbe la preparazione di tale attrezzo: la presenza di
questi spazi in quasi tutte le sculture dei Giganti dice chiaramente il
materiale di cui sono fatti gli stessi attrezzi ed il modo, assai raffinato,
paragonabile all’uso che se ne fa, a mano, tuttora nell’adoperarli. Anche l’
imponente scavo che ha dato origine allo spazio sottostante lo scudo (posto che
questo sia stato ricavato dal monolite della statua) non necessariamente deve
essere stato realizzato con un utensile in ferro: paradossalmente, pur essendo
di dimensioni enormi rispetto al piccolo vuoto tra gambe e costume del
personaggio, è meno complicato da fare: lo stesso spazio consente l’uso di
utensili eventualmente più tozzi (il bronzo non si tempra, lo si può indurire
martellandolo, ma difficilmente avrà un
taglio paragonabile a quello del ferro
temprato) dei ferri necessari allo scultore per ricavare il vuoto. Anche se
nell’attrezzo in bronzo fosse stata inserita una punta in pietra dura e
tagliente, ad esempio granato o ossidiana, se il calcagno necessario a fare la
curvatura dello spazio tra veste e gamba fosse stato di bronzo non avrebbe
retto alla pressione dei colpi necessari alla bisogna. Sul retro di alcune
statue sono chiaramente visibili i segni di utensileria metallica: in questi
casi è effettivamente più difficile affermare con assoluta certezza se
l’attrezzo usato fosse in ferro o in bronzo indurito in qualche modo: la pietra
è effettivamente così tenera da ricevere con effetti molto simili l’azione di
metalli di durezza assai differente. Si notano solchi, leggermente dilavati,
prodotti da subbia (punta a piramide allungata, quando è di ferro viene
temprata nei 3 o 4 millimetri di vertice) e tagli da scalpello piano,
ugualmente un po’ corrosi dall’acqua ma chiaramente interpretabili. Se ci sia
stato un permanere di utensileria in bronzo/pietra o se tale utensileria sia
stata sostituita integralmente dal ferro è difficile dire, per ciò che riguarda
le parti “facili” della lavorazione. È certo che nelle parti che comportano
l’uso di strumenti complessi l’uso del ferro deve essere considerato come
necessario a quel tipo di lavorazione.
Uso della gradina
L’uso della gradina (scalpello piano in cui sono stati
ricavati denti, in numero variabile, che possono avere il vertice appuntito o
smussato) è possibile, anche se non certo, in un solo dettaglio della finitura
dei Giganti: la “frangia” che decora la parte anteriore di una delle statue ora
al Museo di Cagliari. Certamente la gradina non è stata usata per realizzare le
linee orizzontali, più lontane tra di loro, sovrastanti la “frangia”. I segni,
per quanto assai regolari ed eseguiti con accuratezza, non sono perfettamente
paralleli: la cosa comporta l’uso di uno scalpello piano, piuttosto piccolo,
usato di coltello. Il segno di un gradino avrebbe lasciato segni differenti,
con le masse in rilievo in qualche modo “pettinate” e regolarizzate dalle gole
infra i denti. Nello stesso modo potrebbero essere state realizzate le linee
verticali che disegnano quelle che per brevità denomino “frange” ma che
potrebbero essere la stilizzazione di una texture con andamento verticale.
Sembra di intravvedere dei raggruppamenti di cinque o sei linee, ma potrebbe
essere l’effetto ottico delle cavità naturali che costellano la piccola
superficie. Nulla impedisce di pensare che le linee siano state fatte una ad
una, segnandole con uno scalpello piano usato di taglio, regolarizzate poi con
un piccola lama e con l’aiuto di un abrasivo in polvere fine (ad esempio sabbia
di pomice). Sicuramente il gradino non è stato usato per le textures sopra
illustrate: le linee dello scudo tondo sono certamente fatte con una piccola
subbia, non troppo rifinite per conferire l’aspetto “rustico” della superficie
dell’oggetto, mentre le decorazioni del pettorale sono state ripassate con
abrasivo piuttosto fine. Il riparo della mano che impugna l’arco, probabilmente
raffigurante un robusto intreccio “a lisca di pesce” di materiale forse
vegetale, con funzione protettiva di un punto che quando lavora è assai
esposto, è stato eseguito con un piccolo scalpello tagliente, in modo da avere
continuità certa tra le linee del zig zag che formano la texture. Con l’uso
della gradina sarebbe stato molto difficile ottenere tale corrispondenza. Tutta
la superficie del guanto protettivo della mano dell’arciere è poi stata
lisciata con abrasivi fini. Sembra di non vedere una analoga finezza di
finitura sul resto della superficie della scultura: in particolare nella parte
della spalla che originariamente si trovava dietro l’arco si intravvedono dei
segni di attrezzi che possono essere stati lasciati per la difficoltà ed il
rischio di raggiungere, con utensili che vanno colpiti con una certa energia,
parti nascoste da dettagli molto delicati come la cocca e la corda dell’arco.
Ma potrebbero essere semplicemente gli effetti del dilavamento su una roccia
assai tenera e sensibile. Texture dello scudo Finitura della superficie della
statua e corrosioni.
Scalpelli lisci
scalpelli tondi
La grande parte della lavorazione ora visibile dei Giganti è
comunque stata eseguita con gli scalpelli. Ciò che è stato fatto con la subbia,
che concentra l’energia del colpo di mazzuolo in un solo punto e fa saltare via
una buona quantità di materiale, non è più visibile (salvo che in rari dettagli
che abbiamo considerato all’inizio) proprio perché le fasi successive della
lavorazione asportano le tracce delle azioni eseguite nelle fasi primarie. La
grande parte della superficie che abbiamo ora sotto gli occhi reca i segni di tre
agenti: gli scalpelli, gli abrasivi e la corrosione dovuta agli agenti
atmosferici o chimici per la permanenza sottosuolo. Questi naturalmente sono
gli ultimi in ordine di tempo, e cancellano, nei punti in cui operano, il segni
degli agenti precedenti. Per farla breve: se dopo il crollo la pietra calcarea
giace in un terreno umido a reazione acida la superficie visibile al momento
dell’interramento subirà corrosioni dovute all’acidità del terreno, assorbirà
parte dei sali disciolti in questo e presenterà, al momento dello scavo,
incrostazioni e colore che avranno intaccato la superficie stessa e vi avranno
aderito durante il tempo di inumazione. La stessa superficie, al momento del
crollo, difficilmente sarà stata uguale nella sua totalità al momento del termine
dei lavori: pioggia, vento, sale marino trasportato come aerosol avranno
intaccato il materiale delle statue durante la permanenza in situ. Non ostante
tutto ciò ampi brani di superficie sono ancora leggibili per come sono stati
lasciati dagli scultori: ovviamente nei punti più protetti dalle intemperie,
oppure in zone sottostanti una ipotetica colorazione, della quale non ho visto
tracce ma non impossibile da concepire in un tale tipo di manufatti. Si vede
chiaramente come a distanza molto ravvicinata convivano le tracce di
dilavamento e corrosione, di subbie, di scalpelli piuttosto grandi, usati per
la realizzazione di ampie superfici piane e di piccoli scalpelli, usati di
coltello, per la decorazione a linee parallele molto fini, rese possibili dalla
natura dolce del materiale calcareo. Natura talmente dolce che in alcuni punti
rende davvero difficile la ricognizione della forma originaria. La foto sopra è
ruotata, ma riconoscervi una gamba al di fuori dal contesto dei Giganti è
davvero impresa ardua. In altri dettagli abbiamo interessanti tracce di
lavorazione con utensili particolari; in questo frammento di mano che regge lo
scudo, per esempio, vediamo tra le dita il segno di un unghietto molto stretto
che disegna gli spazi, lasciando sul fondo una traccia morbida e arrotondata,
molto fresca per il punto particolarmente riparato, dello scavo che ha
delimitato le dita. Anche nello spazio tra il pollice e l’indice credo di poter
vedere la traccia, relativamente rara, di uno scalpello tondo. Mi sembra di
poter concludere che l’uso degli attrezzi, per quanto facilitato da un
materiale tenero, è molto raffinato, con la costruzione, per ogni uso
specifico, di un utensile ad hoc. Adattato quindi sia alla mano dello scultore
che all’uso particolare che questo ne deve fare.
Uso del trapano
L’uso del trapano da scultore, come siamo abituati a vederlo
impiegato abbondantemente nella scultura lapidea ad iniziare dall’epoca tardo
repubblicana, imperiale, bizantina e via via avvicinandosi al nostro tempo, non
è presente nei Giganti di Mont’e Prama. Come è noto i Greci, fino
all’occupazione romana, non usavano trapano. Una delle ragioni che hanno
portato Ernst Curtius, capo degli archeologi tedeschi che nel 1877 hanno
ritrovato la statua di Ermes con Dioniso bambino in una nicchia del tempio di
Era ad Olimpia a ritenerla originale greca, e di mano di Prassitele, è proprio
l’assenza dell’uso del trapano. Che invece fu sempre usato ed in modo sempre
più massiccio, dal momento del suo primo uso, in Roma nel III - II secolo a.C.
Una gentile guida del Museo di Cabras, che ringrazio per la straordinaria
pazienza e disponibilità, ha mostrato e permesso di fotografare una scheda con
le illustrazioni dei probabili attrezzi usati per fare le statue. La riproduco:
Prudentemente alla voce “Drill” non è stato inserito alcun disegnino schematico
illustrativo del “trapano”. Io non ho visto il frammento recante la serie di
fori (probabilmente è conservato in deposito) come non ho visto altre tracce, a
Cagliari come a Cabras, di lavorazione col trapano. Non escluderei che possa
trattarsi, per il frammento di Cabras, di un brano piuttosto eccezionale,
peraltro realizzato facilmente facendo ruotare, probabilmente tenendolo tra i
palmi delle mani, uno scalpello a punta tonda o un unghietto del tipo di quelli
usati per scolpire le mani. L’effetto non è faticoso da raggiungere e offre un
risultato vivido e “coloristico”, con una superficie del tutto particolare. Si
tratta comunque di effetto superficie e non di lavorazione sulla struttura,
come quella illustrata, con l’uso del trapano “a violino”, da Andrea Pisano nel
Campanile di Giotto.
Abrasivi
Il capitolo sull’uso degli abrasivi ci permette di
considerare l’impatto visivo attuale delle Statue. L’uso di sostanze, in
polvere o in blocchi sagomati, per spianare e lisciare la superficie è normale
nella finitura di opere di scultura lapidea. Basta pensare alla scultura
egizia, realizzata con l’uso di materiali durissimi, ed alla meraviglia delle
superfici di graniti, basalti, dioriti, grovacche e sieniti, tutte e sempre
splendidamente trattate nei lucidi, nelle textures e nelle parti vibranti per
le scanalature e per le linee incise che costituiscono la decorazione e la
qualificazione delle superfici stesse. Il materiale che noi esaminiamo e che costituisce
il corpo dei Giganti non è paragonabile a quelli citati poc’anzi perché è molto
più tenero e granuloso, quindi non lucidabile, , ma per la sua compattezza e
relativa uniformità di grana assai adatto alla lisciatura e alla resa di minuti
dettagli. Una spinosa questione che investe alcuni frammenti, percentuale
minima di ciò che è esposto nei Musei di Cagliari e di Cabras è la seguente: è
possibile che alcune parti di dettagli significativi (un paio di teste ed un
paio di avambracci) rechino le tracce di una abrasione superficiale non
corrispondente all’epoca della esecuzione, ma piuttosto a quella del restauro?
Una risposta certa e assoluta a questa imbarazzante domanda può essere data
solo da chi abbia, in tempi ormai risalenti ad una quarantina d’anni addietro,
dato inizio ai restauri. La Carta di Venezia per il restauro e la conservazione
di monumenti e siti , che è stata pubblicata nel 1964 e fornisce linee guida
per un restauro conservativo di tipo più scientifico che ornamentale e
decorativo, e che certamente non tiene conto delle esigenze mediatiche per la
presentazione “spettacolare” di un qualunque manufatto antico, che sia di
natura “artistica” o no, era da poco conosciuta, con valore di moral suasion e
non certo prescrittivo: si può quindi pensare che, senza voler gettare la croce
addosso a chicchessia, qualche piccolo aiuto sia stato dato alla ricostituzione
delle superfici come potevano o dovevano essere in origine, magari rimuovendo
cose che non potevano essere ritoccate se non aggiungendo materiale. Destano
qualche sospetto, a tal proposito, delle strane linee, visibili nella più
riprodotta delle teste, che sembrano delimitare, senza che in realtà vi sia
alcun rilievo, le trecce che compaiono, più o meno danneggiate, in tutte le
altre teste dei Giganti. Sono chiaramente visibili, anche in foto istantanee
fatte senza l’aiuto di particolari illuminazioni, delle linee appena graffite e
riempite di materiale beige. Difficile dire se tale materiale sia la
concrezione naturale che si vede nei pezzi appena scavati depositati a Cabras o
il frutto di un restauro davvero molto, molto accurato. Anche il colore della
patina sembra diverso. Una conclusione assoluta su questo argomento non è forse
possibile, ma non escluderei, per i primi tempi dal ritrovamento, una fase di
restauro un po’ radicale e forse meno accorta di quelle attuali, in cui sono
rispettate con grande scrupolo le caratteristiche delle condizioni dei
conservazione degli oggetti: siano esse scenograficamente significative o, al
contrario, presentino caratteristiche meno accattivanti.
Appoggi – piedi
Un altro capitolo spinoso: non tanto per ciò che comporta
l’osservazione oggettiva di ciò che abbiamo sotto gli occhi, ma per le
conseguenze culturali che queste osservazioni hanno. Abbiamo sotto gli occhi
statue, di taglia leggermente superiore al naturale, che poggiano i loro piedi
su basi a parallelepipedo che assicurano una certa stabilità. E qui cominciano
i problemi. Abbiamo appurato che, tra quelle che sono visibili, nessun
gonnellino a punta posteriore appoggia la sua punta a terra. Soluzione che
avrebbe permesso di scaricare il peso (notevole, certamente poco inferiore alla
tonnellata per ogni esemplare, ma ricordiamo la dolcezza del materiale!)su tre
punti, pressappoco equidistanti tra loro, invece che su due soli. Ma i caparbi
scultori antichi hanno considerato che nessun modello delle loro statue
trascinasse sul terreno la coda del proprio abbigliamento e si sono ben
guardati dal modificare un dato reale. Lealtà di scultori! Assai rara, non solo
tra gli scultori stessi ma in generale tra gli esemplari del genere umano…
Questo ci pone però di fronte ad un problema statico di non facile soluzione:
come si reggevano le statue? Che possano aver avuto qualche problema è
testimoniato oggettivamente dal numero dei frammenti in cui sono state
ritrovate: non una in piedi (se ne era persa memoria) e quelle atterrate
ridotte ad un numero esorbitante di frammenti (per i primi ritrovamenti se non
ricordo male era 5200 circa, ma i recenti scavi hanno sicuramente aumentato la
cifra a dismisura). Si potrebbe pensare a un collocazione addossata ad un muro:
funzione di telamoni sul tipo di quelli del tempio di Zeus ad Agrigento. Ma se
non ho capito male nel sito non è stata trovata traccia di muro. Che avrebbe
dovuto essere, seppure non altissimo, comunque di massa tale da lasciare
qualche volume rintracciabile dagli archeologi. Una palizzata di legno? Anche
per queste tracce (di incendio, di frammenti carbonizzati o semi fossilizzati)
avrebbero dovuto essercene. Naturalmente il fatto che le figure abbiano potuto
reggersi per alcuni secoli sulle proprie caviglie, robuste ma non troppo, non è
impossibile: ciò ha sicuramente abbreviato la vita alle statue, facendole
crollare in un tempo relativamente vicino alla loro costruzione e permettendo
forse una conservazione, sottoterra, migliore che non esposta all’aria aperta.
Un altro argomento che potrebbe far pensare ad un sistema per assicurare una
scultura all’altra è la presenza di piombo colato in fori praticati
appositamente: probabilmente servivano per collegare alla pietra dei perni di
metallo con funzione di raccordo e sostegno: forse per dettagli dell’immagine
scolpiti a parte e poi applicati? Per grappe o tenoni, sempre in metallo, che
collegassero varie figure? Impossibile dire fino a che non si trovino dei pezzi
di scavo che possano far pensare a qualcosa di sensato. In mancanza di ciò è
meglio attendere prudentemente, notando però come questa tecnica di assemblaggio
tra pietra e metalli abbia avuto nei secoli grande successo: in epoca
ellenistica e romana i blocchi che costituivano le grandi costruzioni erano
assemblati con perni di ferro assicurati al marmo o al travertino da colate in
piombo. I buchi che costellano le parti marmoree, ad esempio, del Colosseo
furono praticati nel Medioevo per ricuperare le grappe in ferro, legate col
piombo, che collegavano la muratura. Dopodiché la fabbrica veniva ruinata ed
anche il marmo già tagliato era ricuperato per nuove imprese edilizie. Senza
tale furia abbattitrice - ricuperatrice le antiche fabbriche monumentali
sarebbero probabilmente per la maggior parte ancora in piedi. Una piccola
stranezza: sia a Cagliari che a Cabras sono esposte delle sculture che mostrano
una stranissima frattura: quella sotto la pianta dei piedi. Una frattura
normale è questa riprodotta: la pietra calcarea si rompe nel punto più sottile
e le parti più spesse rimangono coerenti. Il fatto che alcuni piedi siano
staccati dalla base in corrispondenza dello stacco di un essere umano dal
terreno mi lascia veramente perplesso. L’unico esempio assimilabile che conosco
è il Temenos di Delfi: là, sul lastricato di marmo grigio che costeggia la
salita al Tempio di Apollo ci sono migliaia di impronte di piedi di statue: la
spiegazione è facile: le statue dei donari erano in bronzo, prive di base fusa
insieme (vedi i Bronzi di Riace), e le impronte erano la sede che permetteva
alle statue di reggersi in piedi, aiutate dai soliti tenoni in ferro legati al
marmo con piccole colate in piombo. L’asportazione delle statue ha lasciato la
desolata distesa di impronte, quasi un’attesa di un impossibile ritorno. Ma
qui? Veramente difficile pensare qualcosa.
Monoliti?
L’ultima questione che intenderei pormi è anch’essa di non
facile e non sicura risposta: sono monoliti? Considerando la natura della
pietra e le modalità della lavorazione la risposta dovrebbe essere positiva.
Rimane il fatto che ricavare delle sporgenze e degli aggetti grandi come quelli
degli scudi sulla testa o degli archi impugnati, o dell’altro modello di scudo
tondo tenuto col pugno, in modo assai realistico, comporta l’estrazione di
blocchi grezzi di enormi dimensioni e di un grandissimo lavoro di intaglio. Si
torna per l’ennesima volta sull’argomento della scarsa durezza della pietra:
Rimane la problematica del peso e del trasporto dalla cava al sito di
lavorazione, probabilmente vicini, e soprattutto da questo al sito di
collocazione definitiva: è pur vero che il peso , con tutto quello scavare, può
essere diminuito anche di due terzi, ma aumenta nel contempo la fragilità,
obbligando i trasportatori a un tipo di movimento estremamente cauto. Non
escluderei completamente l’ipotesi di un assemblaggio di pezzi particolarmente
sporgenti scolpiti singolarmente, almeno in piccole parti. Gli attacchi degli
scudi sulle teste non sono così freschi da obbligare a pensare ad una frattura
occasionale, l’uso del piombo per motivi peraltro ancora misteriosi è comunque
appurato: ciò non toglie nulla alla principale ipotesi dell’intaglio a corpo,
partendo da un grande blocco calcareo. In conclusione: se si esclude qualche
piccolo intervento di restauro forse eccessivo il fascino terribile dei Giganti
di Mont’e Prama trova nella loro esecuzione tecnica una conferma. La pietra non
è di quelle che incutano sacro timore: ve ne sono altre in Sardegna (graniti
basalti porfidi trachiti) che sono state usate nel corso dei millenni per la
edificazione di luoghi sacri che forse anche dalla tremenda difficoltà di
costruzione traggono un frammento della loro maestà misteriosa; in ogni caso la
perizia di esecuzione, il numero degli esemplari e l’unitarietà del linguaggio
plastico dei Giganti riescono a forare il muro del tempo, e a portarci in un
mondo antico e misterioso.
Questa non
c’entra nulla: l’ho messa solo per la sua eccessiva bellezza.
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