martedì 12 gennaio 2016
Storia e archeologia della Sardegna. Quando i poveri mangiavano aragosta e parlavano in sardo.
Quando
i poveri mangiavano aragosta e parlavano in sardo.
di
Sandra Mereu
Quando a Parigi
scoppiava la rivoluzione c’era una cittadina, nella costa nord-occidentale
della Sardegna adagiata sulle rive del fiume Temo, dove la regina Maria
Antonietta avrebbe potuto pronunciare una frase del tipo: “Non hanno pane?
Mangino aragosta!”, senza correre il rischio di perdere la testa. Perché
davvero a Bosa c’è stato un tempo in cui l’aragosta era il cibo dei poveri,
talvolta l’avanzo del pescato che i pescatori tenevano per sfamare se stessi e
le loro famiglie. Lo apprendiamo da un interessante documento del 1789 conservato
nell’archivio comunale di Bosa. Si tratta di un registro in cui un ufficiale
dell’antica città regia di
Bosa annotava scrupolosamente, tra le altre cose, il prezzo
stabilito per la vendita degli alimenti. L’aragosta, oggi cibo di lusso per eccellenza,
costava allora “chimbe cagliaresos
sa libera”: era cioè
più a buon mercato dell’anguilla, “s’ambidda frisca de su Riu”, che
invece costava “noe cagliaresos sa libera”, e quanto “sa
salpa”, oggi considerato un pesce di terza scelta.
L’aranzellu,
così è denominato questo documento, è dunque un’importante testimonianza di
come i gusti alimentari sono cambiati nel corso della storia e del fatto che
molti cibi un tempo riservati ai poveri sono diventati oggi cibo d’élite. Ma
l’aranzellu è un prezioso documento anche per
ricerche di tipo
linguistico, già a partire dalla doppia denominazione con cui viene indicato
l’ufficiale che lo redigeva:amostassen e castaldo. La coesistenza
di due diversi modi per indicare la medesima figura fa pensare che il “castaldo”,
che si ritrova anche negli statuti sassaresi e in quelli di Castelsardo, sia
stato sostituito dall’amostassen, un ufficiale pubblico che
svolgeva funzioni analoghe al castaldo di origine italiana, ma il cui nome di
derivazione araba rimanda alla conquista dell’isola da parte dei
catalano-aragonesi, avvenuta tra il XIV e il XV secolo.
Dal punto di
vista linguistico, in questo documento è curioso notare che mentre il termine
italiano è presente solo nel testo dell’aranzellu, il termine amostassen viene
usato in tutti gli altri documenti dell’archivio
storico comunale in cui si fa specifico riferimento a quella funzione. Ciò
si spiega con il fatto che l’intero testo del registro è scritto in sardo,
mentre gli altri documenti sono scritti in catalano e successivamente in
spagnolo. Evidentemente il termine più antico, per quella tendenza
conservativa tipica della lingua sarda, era sopravvissuto nell’uso della
popolazione anche dopo il tramonto dei comuni italiani istituiti dai genovesi e
dai pisani. L’aranzellu conteneva infatti dettagliate prescrizioni
di carattere annonario e igienico che per essere rispettate da tutta la
popolazione venivano rese pubbliche attraverso un bando nella lingua conosciuta
e parlata da tutti, ovvero il sardo logudorese nella variante bosana. La
persistenza del termine “castaldo” nell’uso popolare, dopo quattrocento anni di
dominazione iberica, ricorda un po’ quel fenomeno linguistico che si osservava
sino a qualche tempo fa tra in nostri anziani i quali continuavano ad usare l’espressione
“cincu francusu” per dire “cinque lire”. Ma l’aspetto più
interessante, a mio parere, risiede nel fatto che, come emerge chiaramente in
questo documento, in passato l’uso del sardo nei documenti ufficiali serviva
per facilitare la comprensione del contenuto degli ordini impartiti dalle
autorità cittadine o delle informazioni utili alla convivenza civile.
Assolveva cioè a quella che è la funzione fondamentale di una lingua:
comunicare. E proprio per questo il sardo usato nei documenti ufficiali era la
trasposizione scritta di quello parlato abitualmente dalla popolazione, per lo
più analfabeta.
La lezione
linguistica che ho appreso dallo studio di questo singolare documento mi viene
spesso in mente ogni volta che sento parlare oggi di una lingua sarda comune
costruita a tavolino (LSC), da usare nei documenti scritti ufficiali. Una
lingua che nessuno parla, che per comprendere bisogna prima studiare, impararne
il lessico e la sintassi. E mi domando quanto il sogno di una lingua finalmente
comune a tutti i sardi, prima scritta che parlata, possa avere una qualche
possibilità di realizzazione su larga scala, senza che vi sia accanto alla
motivazione ideale una finalità pratica tale da spingere le persone ad
impararla. Tanto più oggi che anche gli anziani dialettofoni faticano meno ad
apprendere i contenuti di una delibera del consiglio comunale in italiano
piuttosto che in LSC.
Fonte:
http://unaltrasestu.com
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peccato....le 3 foto sono illeggibili... (sfocate)
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