sabato 31 agosto 2013
Utensili antichi da cucina e da viaggio: La Forchetta tridentata dei romani
Utensili antichi da cucina e da viaggio: La Forchetta tridentata dei romani
di Bartolomeo Durante
La Forchetta, tridentata, seppur non comune, era usata dai Romani: a Ventimiglia si conserva l’oggetto più sofisticato in quanto estremamente simile al coltellino svizzero da sopravvivenza, ma altri esemplari sono stati ritrovati e in questa immagine si propone un esemplare custodito al Metropolitan Museum of Art of New York. Sovviene sempre l’annoso discorso, che sentii per la prima volta dal compianto Prof. Giovanni Forni dell’Università di Genova, e cioè “quanto veramente noi conosciamo delle macchine e della tecnologia romane?”.
E’ conservato al Metropolitan Museum of Art of New York questo esemplare a doppio uso con la forchetta tridentata da viaggio, molto più evoluta data la caratteristica di strumento ripieghevole. Sotto è rappresentata la forchetta multiuso di Ventimiglia Romana che, dopo il restauro, sì mostra nel suo splendore, anche se per correttezza scientifica lo si è proposto qui da Albintimilium, antico municipio romano, al modo che fu rinvenuto e soprattutto nelle diverse posizioni che poteva assumere secondo l’uso dal volume una tomba della necropoli. In effetti quello di Ventimiglia Romana resta un unicum ma, assieme a quello conservato negli U.S.A., comprova come i Romani utilizzassero questa tipologia di utensili.
di Bartolomeo Durante
La Forchetta, tridentata, seppur non comune, era usata dai Romani: a Ventimiglia si conserva l’oggetto più sofisticato in quanto estremamente simile al coltellino svizzero da sopravvivenza, ma altri esemplari sono stati ritrovati e in questa immagine si propone un esemplare custodito al Metropolitan Museum of Art of New York. Sovviene sempre l’annoso discorso, che sentii per la prima volta dal compianto Prof. Giovanni Forni dell’Università di Genova, e cioè “quanto veramente noi conosciamo delle macchine e della tecnologia romane?”.
E’ conservato al Metropolitan Museum of Art of New York questo esemplare a doppio uso con la forchetta tridentata da viaggio, molto più evoluta data la caratteristica di strumento ripieghevole. Sotto è rappresentata la forchetta multiuso di Ventimiglia Romana che, dopo il restauro, sì mostra nel suo splendore, anche se per correttezza scientifica lo si è proposto qui da Albintimilium, antico municipio romano, al modo che fu rinvenuto e soprattutto nelle diverse posizioni che poteva assumere secondo l’uso dal volume una tomba della necropoli. In effetti quello di Ventimiglia Romana resta un unicum ma, assieme a quello conservato negli U.S.A., comprova come i Romani utilizzassero questa tipologia di utensili.
venerdì 30 agosto 2013
Palermo. Scoperta una moschea islamica nel cortile di una casa
Palermo. Scoperta una moschea islamica nel cortile di una casa
Una scoperta storia dal valore inestimabile: in un’abitazione di Palermo è stata ritrovata una moschea nascosta. In una casa in ristrutturazione, in via Porta di Castro nelle vicinanze del Palazzo Reale di Palermo, per la precisione Casa Cadili, ha regalato alla città un dono inestimabile: una moschea palatina, una moschea domestica, quattro mura, lati uguali, con incisioni artistiche e versetti del corano. La camera è venuta fuori sotto più e più strati di ducotone e muffa di salnitro: dipinta uniformemente, decorata di raffinate iscrizioni arabe dorate e argentate, orlata sul soffitto dell’eterno simbolo della lucerna. Il primo studioso chiamato a esaminarla, ovviamente, è lo storico Gaetano Basile, simbolo della palermitanità:
“Le iscrizioni sono di rara eleganza e ripetono lo stile della calligrafia arabo-cufica, una delle più antiche e raffinate forme di decorazione islamica” sottolinea lo studioso. “La via Porta di Castro – prosegue – fu tracciata ovviamente dopo l’interramento del Kemonia, anni attorno al 1595. Era cuore di commerci, arteria fondamentale fra il Palazzo Reale e i mercati.
L’edificio è del tardo ‘700, quindi è probabile che la casa appartenesse a un notabile o mercante maghrebino che aveva messo su casa a Palermo. A quell’epoca, i traffici con Tunisi erano fittissimi: datteri, scagliola per i gessi, foraggio, perché la nostra Isola era intensivamente seminata a frumento. A Tunisi ci sono ancora oggi eredi di trapiantati siciliani, e c’era un quartiere di nostri corregionali. Nel 1831 in Tunisia arrivarono i francesi e la corsia preferenziale si attenuò. Questo signore si fece in pratica la moschea a casa. Gli indizi: è esposta a est, ha lati perfettamente uguali di 3,5 per 3,5 metri, ha porte collocate in modo tale da impedire la collocazione di mobilia, al soffitto ridonda il motivo della lucerna. Una moschea di casa, insomma, che offriva anche la comodità di pregare tutti insieme, non essendo necessario il matroneo, cioè lo spazio riservato alle donne nelle moschee pubbliche” conclude Gaetano Basile. I padroni di casa, entrambi giornalisti del Giornale di Sicilia, ci tengono a sottolineare che: “Questa stanza trasmette una straordinaria sensazione di serenità. Ci piace stare in silenzio ad ammirare questi splendidi decori oro e argento fatti realizzare certamente da una persona profondamente religiosa. È uno scrigno venuto alla luce “grazie” all’umidità – era nascosto sotto diversi strati di calce di vari colori. Rispettiamo questo luogo di preghiera e di raccoglimento, e, come prevede la cultura musulmana, in questa stanza non serviamo mai alcolici“.
Fonte: www.palermonoi.it
Una scoperta storia dal valore inestimabile: in un’abitazione di Palermo è stata ritrovata una moschea nascosta. In una casa in ristrutturazione, in via Porta di Castro nelle vicinanze del Palazzo Reale di Palermo, per la precisione Casa Cadili, ha regalato alla città un dono inestimabile: una moschea palatina, una moschea domestica, quattro mura, lati uguali, con incisioni artistiche e versetti del corano. La camera è venuta fuori sotto più e più strati di ducotone e muffa di salnitro: dipinta uniformemente, decorata di raffinate iscrizioni arabe dorate e argentate, orlata sul soffitto dell’eterno simbolo della lucerna. Il primo studioso chiamato a esaminarla, ovviamente, è lo storico Gaetano Basile, simbolo della palermitanità:
“Le iscrizioni sono di rara eleganza e ripetono lo stile della calligrafia arabo-cufica, una delle più antiche e raffinate forme di decorazione islamica” sottolinea lo studioso. “La via Porta di Castro – prosegue – fu tracciata ovviamente dopo l’interramento del Kemonia, anni attorno al 1595. Era cuore di commerci, arteria fondamentale fra il Palazzo Reale e i mercati.
L’edificio è del tardo ‘700, quindi è probabile che la casa appartenesse a un notabile o mercante maghrebino che aveva messo su casa a Palermo. A quell’epoca, i traffici con Tunisi erano fittissimi: datteri, scagliola per i gessi, foraggio, perché la nostra Isola era intensivamente seminata a frumento. A Tunisi ci sono ancora oggi eredi di trapiantati siciliani, e c’era un quartiere di nostri corregionali. Nel 1831 in Tunisia arrivarono i francesi e la corsia preferenziale si attenuò. Questo signore si fece in pratica la moschea a casa. Gli indizi: è esposta a est, ha lati perfettamente uguali di 3,5 per 3,5 metri, ha porte collocate in modo tale da impedire la collocazione di mobilia, al soffitto ridonda il motivo della lucerna. Una moschea di casa, insomma, che offriva anche la comodità di pregare tutti insieme, non essendo necessario il matroneo, cioè lo spazio riservato alle donne nelle moschee pubbliche” conclude Gaetano Basile. I padroni di casa, entrambi giornalisti del Giornale di Sicilia, ci tengono a sottolineare che: “Questa stanza trasmette una straordinaria sensazione di serenità. Ci piace stare in silenzio ad ammirare questi splendidi decori oro e argento fatti realizzare certamente da una persona profondamente religiosa. È uno scrigno venuto alla luce “grazie” all’umidità – era nascosto sotto diversi strati di calce di vari colori. Rispettiamo questo luogo di preghiera e di raccoglimento, e, come prevede la cultura musulmana, in questa stanza non serviamo mai alcolici“.
Fonte: www.palermonoi.it
giovedì 29 agosto 2013
Terremoti e tsunami, Creta minaccia l’intero Mediterraneo. 21 luglio 365: il giorno dell’orrore
Terremoti e tsunami, Creta minaccia l’intero Mediterraneo. 21 luglio 365: il giorno dell’orrore
di Giampiero Petrucci
Ecco quanto avvenne il 21 luglio 365 che nell’immaginario collettivo dell’epoca diventa, non a caso, il “giorno dell’orrore”. Dalla bella isola minoica, infatti, possono arrivare gravi pericoli per l’intero Mediterraneo
Il terremoto più forte del Mediterraneo. Da milioni di anni il Mediterraneo è sede dello scontro tettonico tra la placca europea e quella africana che nel mar Egeo va in subduzione (ovvero si immerge) al di sotto della cosiddetta microplacca Egea. Questo accade lungo il cosiddetto “arco ellenico”, un vero e proprio piano di subduzione, il quale geograficamente va dalle isole Ionie alle coste della Turchia, passando proprio per Creta che quindi, confermando i princìpi fondamentali della sismotettonica, diventa sede privilegiata di terremoti distruttivi. E’ noto come la Grecia sia una delle nazioni europee più soggette al rischio sismico, sin dall’antichità: già Erodoto parla dei terremoti mentre Aristotele tenta di spiegarli scientificamente tramite una specie di “vento interno” nella terra che muovendosi genererebbe appunto questi sismi.
Oggi sappiamo che non è così e siamo in grado di ricostruire scientificamente eventi catastrofici anche molto lontani nel tempo. E’ il caso appunto dell’anno 365. Il 21 luglio avviene infatti un tremendo terremoto, di magnitudo compresa tra 8.3 ed 8.5, il più forte mai verificatosi nel Mediterraneo, che provoca valori di PGA (picco massimo dell’accelerazione indotta nel terreno dalle scosse) pari addirittura a 1.0 g (ricordiamo per semplice paragone che il terremoto emiliano del maggio 2012 ha provocato un valore di PGA intorno a 0.3 g). Un sisma quindi devastante, della durata di circa un minuto, con numerosi aftershocks (le scosse seguenti la principale) di magnitudo comunque rilevanti, sviluppatesi nel giro di pochi minuti. L’epicentro dell’evento tellurico si trova a sud-ovest dell’angolo sud-occidentale dell’isola di Creta, a qualche km dalla costa e, come dimostrato dalla ricercatrice inglese Beth Shaw, la faglia originante non coincide esattamente col piano di subduzione (come ritenuto sino a pochi anni fa), bensì si trova sopra esso, sulla microplacca egea. Orientata in direzione nord-ovest/sud-est, questa faglia ha un andamento sub-orizzontale (angolo di inclinazione di circa 30°), è lunga un centinaio di km e si trova a circa 45 km di profondità. Caratteristiche molto importanti per lo sviluppo del sisma perché, rispetto ad una faglia sub-verticale, questo tipo di struttura richiede una sforzo totale ben maggiore per innescare il movimento e dunque un’energia considerevole all’atto del movimento tellurico.
Ecco perché il terremoto è così devastante: nella porzione più occidentale di Creta sono stati rilevati spostamenti cosismici del terreno fino a 9-10 metri di altezza, confermati dal ritrovamento in queste litologie di coralli ed altri organismi marini la cui datazione col metodo del radiocarbonio conferma l’ipotesi che essi siano stati spinti così in alto proprio dal sisma del 365. Il terremoto distrugge l’intera Creta dove molte città vengono abbandonate e mai più ricostruite, compresa Cnosso, già devastata duemila anni prima dal mitico disastro provocato da Santorini. Gravissimi danni si verificano anche nel Peloponneso ed in particolare a Patrasso, distruzione anche ad Olimpia e nell’isola di Kythera. Le scosse sono chiaramente avvertite in tutto il Mediterraneo orientale, dall’Egitto alla Turchia alla Palestina ma è difficile, data la scarsezza delle informazioni bibliografiche, recuperare notizie esatte sulle devastazioni relative.
Lo tsunami. Più certo invece quanto accade dopo, quando il terremoto innesca un grande tsunami che si riversa per tutto il Mediterraneo centro-orientale. Modelli numerici di ricostruzione associati alle ricerche sulle varie sponde portano ad ipotizzare, con buona approssimazione, come possa essersi sviluppato il fenomeno. Partendo a sud-ovest di Creta, con altezze limitate ed intorno al metro, le onde si diramano nelle quattro direzioni cardinali: a nord vengono in parte arrestate dalle Sporadi mentre nella costa meridionale di Creta raggiungono i 9 metri di altezza. Ad est arrivano dapprima a Cipro (8 metri) e quindi finiscono la corsa in Palestina (6 metri). Ad ovest, la zona che più è per noi interessante, nel giro di 60-75 minuti giungono sulle coste di Calabria e Sicilia, con altezze intorno ai sette metri. Ciò è stato recentemente confermato da alcuni sondaggi eseguiti nel ragusano, in particolare nella zona del Pantano Morghella, un’area lagunare costiera nei pressi di Pachino, dove sono stati individuati livelli di sabbia a circa un metro di profondità intercalati alle argille. Tali sabbie, gialle e del tutto simili a quelle della spiaggia attuale prospiciente la laguna, contengono foraminiferi e frammenti di conchiglie tipicamente marini: la datazione tramite Carbonio 14 ha permesso di attribuire loro un’età compatibile col 365. Si presume quindi ragionevolmente che esse siano tsunamiti ovvero testimonianza dell’ingressione marina la quale avrebbe in quel punto raggiunto la distanza di almeno un km dalla linea di costa.
Studi analoghi, condotti tra gli altri dalla d.ssa Smedile dell’INGV, indicano una situazione similare per la baia di Augusta che pure sarebbe stata quindi interessata da questo evento. Ma lo tsunami di Creta provoca i danni più gravi a sud. La batimetria dei fondali e la morfologia delle coste amplificano gli effetti delle onde, in particolare nella città di Apollonia, in Libia, dove le onde arrivano fino a 15 metri di altezza, sommergendo l’intero litorale e creando devastazione totale. Stessa situazione nel delta del Nilo che, per il suo territorio ricco di vie d’acqua e canali, non offre particolare resistenza all’avanzata dello tsunami. Ad Alessandria, dove si trova lo storico Ammiano Marcellino che descrive gli eventi, le acque dapprima si ritirano, con la popolazione che si reca in massa al porto a vedere il fenomeno, poi tornano con estrema violenza (12 m di altezza), distruggendo tutto (ma non il celebre faro che resiste tetragono), penetrando per circa 2 km e provocando almeno cinquemila vittime che vanno a sommarsi alle altre 45mila stimate per tutto il Mediterraneo. Un evento dunque geograficamente molto vasto al punto che viene definito, non senza ragione, la prima catastrofe “globale” della storia mediterranea e che rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo delle popolazioni, portando pure (secondo diversi storici) al definitivo declino dell’Impero Romano ed alla sua separazione in due porzioni, con la nascita dell’Impero Bizantino. Un disastro poco considerato nel nostro paese, ma che invece dimostra perfettamente come per le nostre coste il pericolo possa giungere anche da oriente e come il mare intorno a Creta sia, in definitiva, una sorgente tsunamigenica di primaria importanza.
BIBLIOGRAFIA
• De Martini P.M. ed altri, A Unique 4000 Years Long Geological Record of Multiple Tsunami Inundation in the Augusta Bay, Marine Geology 276, 2010
• Lorito S. ed altri, Earthquake-generated Tsunamis in the Mediterranean Sea: Scenarios of Potential Threats to Southern Italy, Journal of Geophysical Research, Vol, 113, 2008
• Papadopulos G.A., Large Earthquakes & Tsunamis in the Mediterranean Segment of North Africa, IGNOA, 2010
• Shaw B. ed altri, Eastern Mediterranean Tectonics and Tsunami Hazard Inferred from the AD 365 Earthquake, Nature Geoscience, Vol. 1, April 2008
• Shaw B., Active Tectonics of the Hellenic Subduction Zone, Springer Theses, Springer-Verlag Berlin Heidelberg, 2012
• Smedile A. ed altri, Identification of Paleotsunami Deposits in the Augusta Bay Area (Eastern Sicily, Italy): Paleoseismological Implication, XXVI Convegno GNGTS, Extended Abstract Volume, 207-211, 2007
• Smedile A. ed altri, Paleotsunami Evidence in the Augusta Bay (Eastern Sicily, Italy), GNGTS, 2008
di Giampiero Petrucci
Ecco quanto avvenne il 21 luglio 365 che nell’immaginario collettivo dell’epoca diventa, non a caso, il “giorno dell’orrore”. Dalla bella isola minoica, infatti, possono arrivare gravi pericoli per l’intero Mediterraneo
Il terremoto più forte del Mediterraneo. Da milioni di anni il Mediterraneo è sede dello scontro tettonico tra la placca europea e quella africana che nel mar Egeo va in subduzione (ovvero si immerge) al di sotto della cosiddetta microplacca Egea. Questo accade lungo il cosiddetto “arco ellenico”, un vero e proprio piano di subduzione, il quale geograficamente va dalle isole Ionie alle coste della Turchia, passando proprio per Creta che quindi, confermando i princìpi fondamentali della sismotettonica, diventa sede privilegiata di terremoti distruttivi. E’ noto come la Grecia sia una delle nazioni europee più soggette al rischio sismico, sin dall’antichità: già Erodoto parla dei terremoti mentre Aristotele tenta di spiegarli scientificamente tramite una specie di “vento interno” nella terra che muovendosi genererebbe appunto questi sismi.
Oggi sappiamo che non è così e siamo in grado di ricostruire scientificamente eventi catastrofici anche molto lontani nel tempo. E’ il caso appunto dell’anno 365. Il 21 luglio avviene infatti un tremendo terremoto, di magnitudo compresa tra 8.3 ed 8.5, il più forte mai verificatosi nel Mediterraneo, che provoca valori di PGA (picco massimo dell’accelerazione indotta nel terreno dalle scosse) pari addirittura a 1.0 g (ricordiamo per semplice paragone che il terremoto emiliano del maggio 2012 ha provocato un valore di PGA intorno a 0.3 g). Un sisma quindi devastante, della durata di circa un minuto, con numerosi aftershocks (le scosse seguenti la principale) di magnitudo comunque rilevanti, sviluppatesi nel giro di pochi minuti. L’epicentro dell’evento tellurico si trova a sud-ovest dell’angolo sud-occidentale dell’isola di Creta, a qualche km dalla costa e, come dimostrato dalla ricercatrice inglese Beth Shaw, la faglia originante non coincide esattamente col piano di subduzione (come ritenuto sino a pochi anni fa), bensì si trova sopra esso, sulla microplacca egea. Orientata in direzione nord-ovest/sud-est, questa faglia ha un andamento sub-orizzontale (angolo di inclinazione di circa 30°), è lunga un centinaio di km e si trova a circa 45 km di profondità. Caratteristiche molto importanti per lo sviluppo del sisma perché, rispetto ad una faglia sub-verticale, questo tipo di struttura richiede una sforzo totale ben maggiore per innescare il movimento e dunque un’energia considerevole all’atto del movimento tellurico.
Ecco perché il terremoto è così devastante: nella porzione più occidentale di Creta sono stati rilevati spostamenti cosismici del terreno fino a 9-10 metri di altezza, confermati dal ritrovamento in queste litologie di coralli ed altri organismi marini la cui datazione col metodo del radiocarbonio conferma l’ipotesi che essi siano stati spinti così in alto proprio dal sisma del 365. Il terremoto distrugge l’intera Creta dove molte città vengono abbandonate e mai più ricostruite, compresa Cnosso, già devastata duemila anni prima dal mitico disastro provocato da Santorini. Gravissimi danni si verificano anche nel Peloponneso ed in particolare a Patrasso, distruzione anche ad Olimpia e nell’isola di Kythera. Le scosse sono chiaramente avvertite in tutto il Mediterraneo orientale, dall’Egitto alla Turchia alla Palestina ma è difficile, data la scarsezza delle informazioni bibliografiche, recuperare notizie esatte sulle devastazioni relative.
Lo tsunami. Più certo invece quanto accade dopo, quando il terremoto innesca un grande tsunami che si riversa per tutto il Mediterraneo centro-orientale. Modelli numerici di ricostruzione associati alle ricerche sulle varie sponde portano ad ipotizzare, con buona approssimazione, come possa essersi sviluppato il fenomeno. Partendo a sud-ovest di Creta, con altezze limitate ed intorno al metro, le onde si diramano nelle quattro direzioni cardinali: a nord vengono in parte arrestate dalle Sporadi mentre nella costa meridionale di Creta raggiungono i 9 metri di altezza. Ad est arrivano dapprima a Cipro (8 metri) e quindi finiscono la corsa in Palestina (6 metri). Ad ovest, la zona che più è per noi interessante, nel giro di 60-75 minuti giungono sulle coste di Calabria e Sicilia, con altezze intorno ai sette metri. Ciò è stato recentemente confermato da alcuni sondaggi eseguiti nel ragusano, in particolare nella zona del Pantano Morghella, un’area lagunare costiera nei pressi di Pachino, dove sono stati individuati livelli di sabbia a circa un metro di profondità intercalati alle argille. Tali sabbie, gialle e del tutto simili a quelle della spiaggia attuale prospiciente la laguna, contengono foraminiferi e frammenti di conchiglie tipicamente marini: la datazione tramite Carbonio 14 ha permesso di attribuire loro un’età compatibile col 365. Si presume quindi ragionevolmente che esse siano tsunamiti ovvero testimonianza dell’ingressione marina la quale avrebbe in quel punto raggiunto la distanza di almeno un km dalla linea di costa.
Studi analoghi, condotti tra gli altri dalla d.ssa Smedile dell’INGV, indicano una situazione similare per la baia di Augusta che pure sarebbe stata quindi interessata da questo evento. Ma lo tsunami di Creta provoca i danni più gravi a sud. La batimetria dei fondali e la morfologia delle coste amplificano gli effetti delle onde, in particolare nella città di Apollonia, in Libia, dove le onde arrivano fino a 15 metri di altezza, sommergendo l’intero litorale e creando devastazione totale. Stessa situazione nel delta del Nilo che, per il suo territorio ricco di vie d’acqua e canali, non offre particolare resistenza all’avanzata dello tsunami. Ad Alessandria, dove si trova lo storico Ammiano Marcellino che descrive gli eventi, le acque dapprima si ritirano, con la popolazione che si reca in massa al porto a vedere il fenomeno, poi tornano con estrema violenza (12 m di altezza), distruggendo tutto (ma non il celebre faro che resiste tetragono), penetrando per circa 2 km e provocando almeno cinquemila vittime che vanno a sommarsi alle altre 45mila stimate per tutto il Mediterraneo. Un evento dunque geograficamente molto vasto al punto che viene definito, non senza ragione, la prima catastrofe “globale” della storia mediterranea e che rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo delle popolazioni, portando pure (secondo diversi storici) al definitivo declino dell’Impero Romano ed alla sua separazione in due porzioni, con la nascita dell’Impero Bizantino. Un disastro poco considerato nel nostro paese, ma che invece dimostra perfettamente come per le nostre coste il pericolo possa giungere anche da oriente e come il mare intorno a Creta sia, in definitiva, una sorgente tsunamigenica di primaria importanza.
BIBLIOGRAFIA
• De Martini P.M. ed altri, A Unique 4000 Years Long Geological Record of Multiple Tsunami Inundation in the Augusta Bay, Marine Geology 276, 2010
• Lorito S. ed altri, Earthquake-generated Tsunamis in the Mediterranean Sea: Scenarios of Potential Threats to Southern Italy, Journal of Geophysical Research, Vol, 113, 2008
• Papadopulos G.A., Large Earthquakes & Tsunamis in the Mediterranean Segment of North Africa, IGNOA, 2010
• Shaw B. ed altri, Eastern Mediterranean Tectonics and Tsunami Hazard Inferred from the AD 365 Earthquake, Nature Geoscience, Vol. 1, April 2008
• Shaw B., Active Tectonics of the Hellenic Subduction Zone, Springer Theses, Springer-Verlag Berlin Heidelberg, 2012
• Smedile A. ed altri, Identification of Paleotsunami Deposits in the Augusta Bay Area (Eastern Sicily, Italy): Paleoseismological Implication, XXVI Convegno GNGTS, Extended Abstract Volume, 207-211, 2007
• Smedile A. ed altri, Paleotsunami Evidence in the Augusta Bay (Eastern Sicily, Italy), GNGTS, 2008
mercoledì 28 agosto 2013
Vocabolario trilingue di 3300 anni fa scoperto a Ugarit
Archeologia e scrittura. Vocabolario trilingue di 3300 anni fa scoperto a Ugarit (RS 94.2939)
di Beatrice André-Salvini e Mirjo Salvini
Una tavoletta, di cui si è conservata soltanto la metà, è un vocabolario trilingue redatto nel XIII secolo a.C., a uso della popolazione poliglotta di Ugarit. Apparteneva a una serie costituita da parecchie tavolette di cui sono stati scoperti degli elementi al tempo delle prime campagne, che contenevano una versione multilingue del vocabolario «Sa», che consiste in una lista metodica di segni e vocaboli, trascritti in forma sillabica. Questa serie didattica era destinata alla formazione degli scribi.
La tavoletta è divisa in sei colonne, divise a loro volta in tre sotto colonne; un centinaio di parole che ci sono rimaste vi sono registrate in tre lingue. Il sumerico, lingua morta da parecchi secoli, era la lingua degli intellettuali, l'accadico quella della diplomazia e l'urrita era parlato da una categoria di popolazione che si ritrova in numerosi centri del Vicino Oriente nel II millennio a.C.
Questo popolo urrita e la sua lingua non appartengono né al mondo semitico (come l'accadico), né all'ambiente indoeuropeo (come l'ittita). Questo nuovo documento porta un importante contributo all'interpretazione della lingua urrita che è ancora oggetto di un lento e paziente lavoro di decifrazione e della pubblicazione, a Roma, di un Corpus a cura di un’équipe italo-franco-tedesca. Esso ci offre parecchie decine di parole urrite sconosciute o poco attestate sino ad oggi e rivela elementi che hanno portato ad una migliore conoscenza della struttura di questa lingua.
La successione delle parole della lista è determinata dall'ordine sumerico, che occupa la prima sezione di ogni colonna, e corrisponde dunque ai criteri di classificazione dei segni di questa lingua, spesso di difficile comprensione. Il raggruppamento delle parole in specifiche categorie è dunque il solo modo di apprezzare l'insieme del contenuto lessicale urrita del testo che contiene verbi, nomi propri, sostantivi, avverbi, aggettivi e particelle grammaticali.
A titolo d'esempio le parole urrite che si riferiscono agli esseri umani di questo nuovo vocabolario, designano essenzialmente:
- i generi e le età della vita: bambino: hani; femmina: ašt i; uomo: tae; maschio: turuhhe;
- le relazioni famigliari: padre: attani; fratello: šenni; sorella: elli(?);
- funzioni: re: ewerni; ministro: sukkalli; servitore: purami; servo-schiavo: ulmi; eroe: uštanni;
- mestieri: indovino: wurullini; macellaio: zambahunni;
- parti del corpo: bocca: waši; coscia: zianni; dente: sini (/ir?)ni; grembo-seno: huri; naso: wuhhi; occhio: wuri; piede-gamba: urni; petto: niherni; sesso: inni; testa: pahi.
Parole attestate per la prima volta appartengono anche ad altre categorie lessicali (come: uccello: irate; luce: tagi; baruffa: turšena).
Certe equivalenze di vocabolario corrispondono ad una ideologia accadica, probabilmente estranea alla mentalità urrita. La stessa parola: urmi designa per esempio il «fegato», ma anche concetti astratti come lo spirito, il pensiero, i sentimenti che erano considerati dagli antichi abitanti della Mesopotamia come aventi la loro sede in questo organo.
Fonte: Redazione Archaeogate
di Beatrice André-Salvini e Mirjo Salvini
Una tavoletta, di cui si è conservata soltanto la metà, è un vocabolario trilingue redatto nel XIII secolo a.C., a uso della popolazione poliglotta di Ugarit. Apparteneva a una serie costituita da parecchie tavolette di cui sono stati scoperti degli elementi al tempo delle prime campagne, che contenevano una versione multilingue del vocabolario «Sa», che consiste in una lista metodica di segni e vocaboli, trascritti in forma sillabica. Questa serie didattica era destinata alla formazione degli scribi.
La tavoletta è divisa in sei colonne, divise a loro volta in tre sotto colonne; un centinaio di parole che ci sono rimaste vi sono registrate in tre lingue. Il sumerico, lingua morta da parecchi secoli, era la lingua degli intellettuali, l'accadico quella della diplomazia e l'urrita era parlato da una categoria di popolazione che si ritrova in numerosi centri del Vicino Oriente nel II millennio a.C.
Questo popolo urrita e la sua lingua non appartengono né al mondo semitico (come l'accadico), né all'ambiente indoeuropeo (come l'ittita). Questo nuovo documento porta un importante contributo all'interpretazione della lingua urrita che è ancora oggetto di un lento e paziente lavoro di decifrazione e della pubblicazione, a Roma, di un Corpus a cura di un’équipe italo-franco-tedesca. Esso ci offre parecchie decine di parole urrite sconosciute o poco attestate sino ad oggi e rivela elementi che hanno portato ad una migliore conoscenza della struttura di questa lingua.
La successione delle parole della lista è determinata dall'ordine sumerico, che occupa la prima sezione di ogni colonna, e corrisponde dunque ai criteri di classificazione dei segni di questa lingua, spesso di difficile comprensione. Il raggruppamento delle parole in specifiche categorie è dunque il solo modo di apprezzare l'insieme del contenuto lessicale urrita del testo che contiene verbi, nomi propri, sostantivi, avverbi, aggettivi e particelle grammaticali.
A titolo d'esempio le parole urrite che si riferiscono agli esseri umani di questo nuovo vocabolario, designano essenzialmente:
- i generi e le età della vita: bambino: hani; femmina: ašt i; uomo: tae; maschio: turuhhe;
- le relazioni famigliari: padre: attani; fratello: šenni; sorella: elli(?);
- funzioni: re: ewerni; ministro: sukkalli; servitore: purami; servo-schiavo: ulmi; eroe: uštanni;
- mestieri: indovino: wurullini; macellaio: zambahunni;
- parti del corpo: bocca: waši; coscia: zianni; dente: sini (/ir?)ni; grembo-seno: huri; naso: wuhhi; occhio: wuri; piede-gamba: urni; petto: niherni; sesso: inni; testa: pahi.
Parole attestate per la prima volta appartengono anche ad altre categorie lessicali (come: uccello: irate; luce: tagi; baruffa: turšena).
Certe equivalenze di vocabolario corrispondono ad una ideologia accadica, probabilmente estranea alla mentalità urrita. La stessa parola: urmi designa per esempio il «fegato», ma anche concetti astratti come lo spirito, il pensiero, i sentimenti che erano considerati dagli antichi abitanti della Mesopotamia come aventi la loro sede in questo organo.
Fonte: Redazione Archaeogate
martedì 27 agosto 2013
Linguistica Sardegna. MERE/I: «padrone-a», appellativo sardo illustre ma controverso.
MERE/I «padrone-a», appellativo sardo illustre ma controverso
di Massimo Pittau
Il sardo log. mere, camp. meri «padrone-a», diminutivo mericheddu, merigheddu, merixeddu-a «padroncino-a» (AIS 1602), è un appellativo pansardo, ossia diffuso e adoperato in tutta l'Isola, esclusi il Sassarese e la Gallura, ma la sua etimologia od origine è molto controversa.
Della sua etimologia si erano interesseati il Maestro della linguistica romanza o neolatina. Wilhelm Meyer-Lübke (Romanisches Etymologisches Wörterbuch, III Auflage, Heidelberg 1935, C. Winters Universitätsbuchhandlung, REW 5247) e il Maestro della linguistica sarda, Max Leopold Wagner, Historische Lautlehre des Sardischen, Halle 1941 §§ 62 e 356; Dizionario Etimologico Sardo, I-III, Heidelberg 1960-1964, s. v.), e d'accordo avevano concluso che l'appellativo sardo deriva direttamente dal lat. maior(e) attraverso le forme supposte *maire, *meire.
Senonché a questa spiegazione etimologica si oppongono due grosse difficoltà, una fonetica e una storica: I) Il lat. maior(e) ha dato regolarmente nel sardo medievale major e majore, nel sardo centrale odierno majore e nel log. maore; II) L'appellaivo mere/i non compare in nessun documento medievale (cfr. M. T. Atzori, Glossario di Sardo Antico – documenti dei secoli XI e XIV, Parma 1953) e particolarmente nei documenti dei “condaghi”, documenti nei quali invece, nella loro precipua caratteristica di atti di acquisto o di permuta di possedimenti, quel vocabolo sarebbe dovuto comparire parecchie volte.
Non sono in grado di documentare quando il vocabolo sia attestato la prima volta; a me risulta soltanto nel 1832, nel Nou Dizionariu Universali Sardu-Italianu, Casteddu [= Cagliari] di Vincenzo Porru.
Ciò premesso, io sono dell'avviso che invece il vocabolo sardo sia derivato dal francese maire. Questo attualmente significa «sindaco» e «prefetto», ma nel francese antico significava «maggiore» ed effettivamente deriva dal lat. maiore (REW 5247).
Io ritengo che questo vocabolo francese sia stato importato in Sardegna nei primi decenni del '700, quando l'Isola passò dalla Spagna al Piemonte, nel 1718. È abbastanza noto infatti che non soltanto nella corte dei Savoia, ma pure nel ceto colto piemontese, la lingua di cultura non era affatto l'italiano, ma era il francese.
Ebbene il francese maire «maggiore» degli amministratori e dei militari piemontesi entrò nel corrispondente linguaggio degli amministratori, militari e delle famiglie nobiliari sarde, finendo pure per entrare nel linguaggio di tutti i Sardi.
Successivamente al Meyer-Lübke e al Wagner erano intervenuti due autori per presentare due differenti etimologie del nostro appellativo mere/i: M. F. M. Meikeljohn (in “L'Italia Dialettale”, XXVI, Pisa 1963, pgg. 145-146) dalla locuzione al vocativo lat. mi ere «o mio padrone»; e Nunzio Cossu (Il volgare in Sardegna e studi filologici sui testi, Cagliari 1968, pg. 20) dal toscano medievale messere; spiegazioni che io avevo in successione di tempo accettato nelle mie opere: Grammatica del Sardo-Nuorese (Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986, § 108; Dizionario della Lingua Sarda - fraseologico ed etimologico, I vol., Cagliari 2000, s. v. Senonchè anche a queste due spiegazioni si oppongono, con la medesima pesantezza, le due forti difficoltà che, come ho detto, si oppongono a quella del Mayer-Lübke e del Wagner.
di Massimo Pittau
Il sardo log. mere, camp. meri «padrone-a», diminutivo mericheddu, merigheddu, merixeddu-a «padroncino-a» (AIS 1602), è un appellativo pansardo, ossia diffuso e adoperato in tutta l'Isola, esclusi il Sassarese e la Gallura, ma la sua etimologia od origine è molto controversa.
Della sua etimologia si erano interesseati il Maestro della linguistica romanza o neolatina. Wilhelm Meyer-Lübke (Romanisches Etymologisches Wörterbuch, III Auflage, Heidelberg 1935, C. Winters Universitätsbuchhandlung, REW 5247) e il Maestro della linguistica sarda, Max Leopold Wagner, Historische Lautlehre des Sardischen, Halle 1941 §§ 62 e 356; Dizionario Etimologico Sardo, I-III, Heidelberg 1960-1964, s. v.), e d'accordo avevano concluso che l'appellativo sardo deriva direttamente dal lat. maior(e) attraverso le forme supposte *maire, *meire.
Senonché a questa spiegazione etimologica si oppongono due grosse difficoltà, una fonetica e una storica: I) Il lat. maior(e) ha dato regolarmente nel sardo medievale major e majore, nel sardo centrale odierno majore e nel log. maore; II) L'appellaivo mere/i non compare in nessun documento medievale (cfr. M. T. Atzori, Glossario di Sardo Antico – documenti dei secoli XI e XIV, Parma 1953) e particolarmente nei documenti dei “condaghi”, documenti nei quali invece, nella loro precipua caratteristica di atti di acquisto o di permuta di possedimenti, quel vocabolo sarebbe dovuto comparire parecchie volte.
Non sono in grado di documentare quando il vocabolo sia attestato la prima volta; a me risulta soltanto nel 1832, nel Nou Dizionariu Universali Sardu-Italianu, Casteddu [= Cagliari] di Vincenzo Porru.
Ciò premesso, io sono dell'avviso che invece il vocabolo sardo sia derivato dal francese maire. Questo attualmente significa «sindaco» e «prefetto», ma nel francese antico significava «maggiore» ed effettivamente deriva dal lat. maiore (REW 5247).
Io ritengo che questo vocabolo francese sia stato importato in Sardegna nei primi decenni del '700, quando l'Isola passò dalla Spagna al Piemonte, nel 1718. È abbastanza noto infatti che non soltanto nella corte dei Savoia, ma pure nel ceto colto piemontese, la lingua di cultura non era affatto l'italiano, ma era il francese.
Ebbene il francese maire «maggiore» degli amministratori e dei militari piemontesi entrò nel corrispondente linguaggio degli amministratori, militari e delle famiglie nobiliari sarde, finendo pure per entrare nel linguaggio di tutti i Sardi.
Successivamente al Meyer-Lübke e al Wagner erano intervenuti due autori per presentare due differenti etimologie del nostro appellativo mere/i: M. F. M. Meikeljohn (in “L'Italia Dialettale”, XXVI, Pisa 1963, pgg. 145-146) dalla locuzione al vocativo lat. mi ere «o mio padrone»; e Nunzio Cossu (Il volgare in Sardegna e studi filologici sui testi, Cagliari 1968, pg. 20) dal toscano medievale messere; spiegazioni che io avevo in successione di tempo accettato nelle mie opere: Grammatica del Sardo-Nuorese (Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986, § 108; Dizionario della Lingua Sarda - fraseologico ed etimologico, I vol., Cagliari 2000, s. v. Senonchè anche a queste due spiegazioni si oppongono, con la medesima pesantezza, le due forti difficoltà che, come ho detto, si oppongono a quella del Mayer-Lübke e del Wagner.
lunedì 26 agosto 2013
Archeologia subacquea. In corso di scavo un villaggio villanoviano sommerso del IX a.C.
Archeologia subacquea. In corso di scavo un villaggio villanoviano sommerso del IX a.C.
di Laura Larcan
I sub sono al lavoro almeno da due ore senza mai riemergere, a una profondità di quattro metri. L’operazione è quanto mai delicata. Dal limo che ricopre il fondale sono riaffiorati negli ultimi giorni reperti di varia natura. Ci sono vasi, alcuni integri e ben conservati, piccoli rocchetti per filature, aghi da rete e ami, utensili in bronzo, frecce, un coltello, anellini metallici intrecciati quasi ad evocare un possibile «acchiappasogni». Ma soprattutto legni e fibre vegetali, delicatissimi perché impregnati d’acqua, e ad alto rischio distruzione, che testimoniano le strutture delle capanne del IX a.C. Siamo ad una sessantina di metri dalla costa del lago di Bolsena nel complesso archeologico sommerso del Villaggio preistorico del Gran Carro (o Gran Caro secondo la dicitura originaria), importantissimo insediamento d’età villanoviana, tra i più vasti e meglio conservati, scoperto nel 1959, ma da quasi trent’anni senza interventi di studio accurati, in balia dei tanti tombaroli subacquei che ne hanno approfittato.
Il guscio
È qui che il Nucleo di archeologia subacquea dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro diretto da Gisella Capponi conclude oggi la sperimentazione di un nuovo sistema hi-tech di recupero subacqueo di manufatti organici ad alto rischio, nell’ambito del progetto europeo Sasmap, di cui capofila è il National Museum of Denmark. «Abbiamo costruito una barella-guscio con fogli di carbonio e fogli di fibre sintetiche che hanno la caratteristica di essere ammortizzanti - racconta la responsabile scientifica Barbara Davidde - La particolarità è che questa sorta di culla può essere modellata direttamente sott’acqua e, prendendo la forma perfetta del manufatto, permette di recuperarlo in completa sicurezza. Una volta trasportata in laboratorio la barella può essere aperta e utilizzata dal restauratore come tavolo operatorio, dove iniziare la pulitura del manufatto dal sedimento e le operazioni di consolidamento e restauro». Un intervento provvidenziale, quello dell’Iscr, nella campagna di indagini sullo stato di conservazione delle strutture sommerse del villaggio.
Legno di quercia
Le immersioni, iniziate il 20 luglio scorso, si sono concentrate su un’area archeologica di circa 50 metri quadrati, dove sono state setacciate numerose teste dei pali di legno che quasi 3000 anni fa sorreggevano il sistema di capanne. Sono state le analisi effettuate da Manuela Romagnoli dell’università della Tuscia a riconoscerne ora l’origine di quercia. Come evidenzia la Petitti, quello del Gran Carro è uno degli insediamenti preistorici più interessanti al mondo, perché il suo stato di conservazione consente di fare luce sulla vita quotidiana di una delle prime testimonianze della civiltà villanoviana alla fine dell’età del Ferro. «La quantità di materiali emersa in questi giorni è enorme, impressionante, tra vasellame e strutture di legno», avverte Egidio Severi responsabile del Centro scuola sub. La scoperta di tracce di incendio su alcune teste dei pali potrebbe schiudere un nuovo scenario: «Bisogna verificare ora se è un incendio che ha devastato una sola capanna o tutto il villaggio - riflette Severi - Le cause dell’abbandono del sito sono ancora tutte da chiarire. Finora era emerso un innalzamento repentino, in antico, del livello delle acque forse dovuto alle origini vulcaniche del lago. Un incendio potrebbe essere la nuova ipotesi».
di Laura Larcan
I sub sono al lavoro almeno da due ore senza mai riemergere, a una profondità di quattro metri. L’operazione è quanto mai delicata. Dal limo che ricopre il fondale sono riaffiorati negli ultimi giorni reperti di varia natura. Ci sono vasi, alcuni integri e ben conservati, piccoli rocchetti per filature, aghi da rete e ami, utensili in bronzo, frecce, un coltello, anellini metallici intrecciati quasi ad evocare un possibile «acchiappasogni». Ma soprattutto legni e fibre vegetali, delicatissimi perché impregnati d’acqua, e ad alto rischio distruzione, che testimoniano le strutture delle capanne del IX a.C. Siamo ad una sessantina di metri dalla costa del lago di Bolsena nel complesso archeologico sommerso del Villaggio preistorico del Gran Carro (o Gran Caro secondo la dicitura originaria), importantissimo insediamento d’età villanoviana, tra i più vasti e meglio conservati, scoperto nel 1959, ma da quasi trent’anni senza interventi di studio accurati, in balia dei tanti tombaroli subacquei che ne hanno approfittato.
Il guscio
È qui che il Nucleo di archeologia subacquea dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro diretto da Gisella Capponi conclude oggi la sperimentazione di un nuovo sistema hi-tech di recupero subacqueo di manufatti organici ad alto rischio, nell’ambito del progetto europeo Sasmap, di cui capofila è il National Museum of Denmark. «Abbiamo costruito una barella-guscio con fogli di carbonio e fogli di fibre sintetiche che hanno la caratteristica di essere ammortizzanti - racconta la responsabile scientifica Barbara Davidde - La particolarità è che questa sorta di culla può essere modellata direttamente sott’acqua e, prendendo la forma perfetta del manufatto, permette di recuperarlo in completa sicurezza. Una volta trasportata in laboratorio la barella può essere aperta e utilizzata dal restauratore come tavolo operatorio, dove iniziare la pulitura del manufatto dal sedimento e le operazioni di consolidamento e restauro». Un intervento provvidenziale, quello dell’Iscr, nella campagna di indagini sullo stato di conservazione delle strutture sommerse del villaggio.
Legno di quercia
Le immersioni, iniziate il 20 luglio scorso, si sono concentrate su un’area archeologica di circa 50 metri quadrati, dove sono state setacciate numerose teste dei pali di legno che quasi 3000 anni fa sorreggevano il sistema di capanne. Sono state le analisi effettuate da Manuela Romagnoli dell’università della Tuscia a riconoscerne ora l’origine di quercia. Come evidenzia la Petitti, quello del Gran Carro è uno degli insediamenti preistorici più interessanti al mondo, perché il suo stato di conservazione consente di fare luce sulla vita quotidiana di una delle prime testimonianze della civiltà villanoviana alla fine dell’età del Ferro. «La quantità di materiali emersa in questi giorni è enorme, impressionante, tra vasellame e strutture di legno», avverte Egidio Severi responsabile del Centro scuola sub. La scoperta di tracce di incendio su alcune teste dei pali potrebbe schiudere un nuovo scenario: «Bisogna verificare ora se è un incendio che ha devastato una sola capanna o tutto il villaggio - riflette Severi - Le cause dell’abbandono del sito sono ancora tutte da chiarire. Finora era emerso un innalzamento repentino, in antico, del livello delle acque forse dovuto alle origini vulcaniche del lago. Un incendio potrebbe essere la nuova ipotesi».
sabato 24 agosto 2013
Notizia bomba: forse scoperto il sepolcro di Alessandro Magno
Notizia bomba: forse scoperto il sepolcro di Alessandro Magno
Fonte Ansa
Straordiario ritrovamento nella regione greca della Macedonia, vicino ad Anfipoli, di un complesso funerario del IV secolo a.C.:una parete lunga circa 500 metri e alta tre. Il tumulo, una sorta di collina artificiale, potrebbe essere una tomba reale, forse appartenente ad Alessandro Magno. Ma l'entusiasmo è stato subito frenato dal ministro della Cultura e dall'archeologa responsabile degli scavi, Katerina Peristeri: "E' prematuro e azzardato parlare del sepolcro del conquistatore macedone".
Il ritrovamento nella regione greca della Macedonia di un grande tumulo, ossia una di collina artificiale con la quale si coprivano le sepolture, ha fatto ipotizzare lì la tomba di Alessandro Magno. Il complesso funerario si trova vicino ad Anfipoli, e all’interno è stata scoperta una parete di circa 500 metri. Secondo la Peristeri, il ritrovamento è rilevante, dal momento che si tratta di un complesso funerario del IV a.C.. Sino ad ora però, non si può dire sia niente più di questo.”Ancora non abbiamo cominciato a scavare dentro il complesso, quindi non possiamo dire niente con certezza”, ha argomentato l’archeologa. Alessandro Magno morì nel 323 a.C. in Babilonia. I suoi resti furono deposti in un mausoleo in Egitto, ma dalla fine dell’età Antica si era persi i segni della tomba. Negli ultimi decenni, archeologi e investigatori l’hanno cercata senza esito ad Alessandria, in Uzbekistan e fino al nord dell’Australia.
Commento di Matteo Riccò
Occorre però fare alcune precisazioni. Sebbene questa tomba potrebbe essere oggettivamente stata destinata ad Alessandro, non ne ospitò mai il corpo. Alla morte di Alessandro (il 10. Giugno del 323 a.C.), questi non aveva dato precise disposizioni per la propria sepoltura. Non casualmente. La morte arrivò improvvisa ed inoltre, secondo la tradizione della dinastia Macedone, la sepoltura del sovrano era parte integrante del complesso rito di legittimazione del re subentrante, che passava per la preliminare accettazione da parte dell'esercito. E da qui cominciamo a capirci.
Per alcuni mesi (a dire il vero, per alcuni anni) Perdicca riuscì a tenere insieme gli eredi di Alessandro, per tramite del ricordo (celeberrime le riunioni in cui i diadochi discutevano di fronte ad un trono vuoto, sul quale erano deposti scettro e corona, quasi come se sul trono ci fosse uno spettro), della salma di Alessandro e dell'erede di Alessandro, Alessandro IV di Macedonia. La cui posizione, per altro, era discussa in quanto (per le leggi macedoni) egli non aveva diritto ereditario ancorché figlio di un erede legittimo (la madre non era infatti greca, ma barbara: ricordiamoci che da un secolo, Alessandro I aveva legittimato la posizione ellenica dei macedoni, e che la legittimità di Alessandro III il Grande nasceva dall'ancor più remota accettazione quale ellenici degli epiroti ergo degli Albanesi, etnia cui la madre Olimpiade apparteneva).
Bene. Nel susseguirsi degli eventi, mentre i Diadochi iniziavano a massacrarsi e ad insanguinare mezza Asia minore, Perdicca si preoccupò di fare imbalsamare alla maniera egiziana il corpo di Alessandro - non solo per omaggiare le manie globalizzanti del macedone, ma anche per guadagnare tempo in attesa della sepoltura. A tale proposito, si aggiunge un dettaglio macabro: le fonti antiche suggeriscono infatti che Alessandro non fosse realmente morto il 10. Giugno del 323 a.C., ma solo all'atto della sua imbalsamazione... colpito da Febbre del Nilo o similare, era entrato in stato di coma cerebrale a causa dell'infezione, il che rende merito della mancata decomposizione del cadavere, che stupì anche gli antichi, e della mancata coagulazione del sangue (che lasciò di stucco gli imbalsamatori).
Torniamo a noi. Da accordi con Antigono Monoftalmo, il plenipotenziario dei sovrani macedoni, e con il fugace successore Cratero (che in realtà non entrò mai in carico) la tomba definitiva di Alessandro si sarebbe dovuta trovare in Macedonia, nella terra originaria della dinastia regnante - sita in prossimità di Tessalonica, città che per altro deve la sua moderna denominazione ad una sorella di Alessandro (altra curiosa storia dell'epoca dei Diadochi), ma non probabilmente a Vergina - sede dell'antica capitale, ma in un sito più nobile. All'epoca, Anfipoli era la città più importante dell'area (città greca DOC, anzi di sangue e diritto ateniese in territorio macedone, una clerurchia ovverosia una colonia di Atene) e quindi è ragionevole che lì fosse predisposto il sepolcro finale.
Quando infine arrivò il momento, Perdicca predispose che il catafalco giungesse in Macedonia dopo una lunga processione cerimoniale che avrebbe dovuto attraversare tutta l'Arché (impero) macedone, sia per legittimare la posizione della dinastia (Alessandro IV era ancora considerato erede designato e nominalmente regnava con lo zio Filippo Arrideo) sia per guadagnare tempo in attesa della decisione finale circa la sua sepoltura. Arrivato in area siriaca, che all'epoca apparteneva amministrativamente all'Egitto, Tolomeo I Sotere si impossessò dalla salma e la trasportò ad Alessandria d'Egitto seppellendola con rito macedone in un sito sotterraneo al cuore della città, il cosiddetto Souma (che in greco antico significa "corpo" ma in macedone significa "sepolcro"), di cui dal terremoto di Alessandria dell'VIII secolo d.C. si sono ampiamente perse le tracce.
In altre parole, il sepolcro di Anfipoli è un monumento eccezionale, è probabilmente ciò che si ritiene che sia - ma è sicuramente un sepolcro vuoto. Così come è sicuramente vuoto il Souma.
Pochi lo sanno, ma i resti di Alessandro furono trafugati in epoca medievale. Da alcuni mercanti. Veneziani.
Sì: i resti di San Marco, come suggerito dalla datazione al carbonio, potrebbero essere del III secolo a.C.
Potrebbero essere quelli di Alessandro il Grande.
Fonte Ansa
Straordiario ritrovamento nella regione greca della Macedonia, vicino ad Anfipoli, di un complesso funerario del IV secolo a.C.:una parete lunga circa 500 metri e alta tre. Il tumulo, una sorta di collina artificiale, potrebbe essere una tomba reale, forse appartenente ad Alessandro Magno. Ma l'entusiasmo è stato subito frenato dal ministro della Cultura e dall'archeologa responsabile degli scavi, Katerina Peristeri: "E' prematuro e azzardato parlare del sepolcro del conquistatore macedone".
Il ritrovamento nella regione greca della Macedonia di un grande tumulo, ossia una di collina artificiale con la quale si coprivano le sepolture, ha fatto ipotizzare lì la tomba di Alessandro Magno. Il complesso funerario si trova vicino ad Anfipoli, e all’interno è stata scoperta una parete di circa 500 metri. Secondo la Peristeri, il ritrovamento è rilevante, dal momento che si tratta di un complesso funerario del IV a.C.. Sino ad ora però, non si può dire sia niente più di questo.”Ancora non abbiamo cominciato a scavare dentro il complesso, quindi non possiamo dire niente con certezza”, ha argomentato l’archeologa. Alessandro Magno morì nel 323 a.C. in Babilonia. I suoi resti furono deposti in un mausoleo in Egitto, ma dalla fine dell’età Antica si era persi i segni della tomba. Negli ultimi decenni, archeologi e investigatori l’hanno cercata senza esito ad Alessandria, in Uzbekistan e fino al nord dell’Australia.
Commento di Matteo Riccò
Occorre però fare alcune precisazioni. Sebbene questa tomba potrebbe essere oggettivamente stata destinata ad Alessandro, non ne ospitò mai il corpo. Alla morte di Alessandro (il 10. Giugno del 323 a.C.), questi non aveva dato precise disposizioni per la propria sepoltura. Non casualmente. La morte arrivò improvvisa ed inoltre, secondo la tradizione della dinastia Macedone, la sepoltura del sovrano era parte integrante del complesso rito di legittimazione del re subentrante, che passava per la preliminare accettazione da parte dell'esercito. E da qui cominciamo a capirci.
Per alcuni mesi (a dire il vero, per alcuni anni) Perdicca riuscì a tenere insieme gli eredi di Alessandro, per tramite del ricordo (celeberrime le riunioni in cui i diadochi discutevano di fronte ad un trono vuoto, sul quale erano deposti scettro e corona, quasi come se sul trono ci fosse uno spettro), della salma di Alessandro e dell'erede di Alessandro, Alessandro IV di Macedonia. La cui posizione, per altro, era discussa in quanto (per le leggi macedoni) egli non aveva diritto ereditario ancorché figlio di un erede legittimo (la madre non era infatti greca, ma barbara: ricordiamoci che da un secolo, Alessandro I aveva legittimato la posizione ellenica dei macedoni, e che la legittimità di Alessandro III il Grande nasceva dall'ancor più remota accettazione quale ellenici degli epiroti ergo degli Albanesi, etnia cui la madre Olimpiade apparteneva).
Bene. Nel susseguirsi degli eventi, mentre i Diadochi iniziavano a massacrarsi e ad insanguinare mezza Asia minore, Perdicca si preoccupò di fare imbalsamare alla maniera egiziana il corpo di Alessandro - non solo per omaggiare le manie globalizzanti del macedone, ma anche per guadagnare tempo in attesa della sepoltura. A tale proposito, si aggiunge un dettaglio macabro: le fonti antiche suggeriscono infatti che Alessandro non fosse realmente morto il 10. Giugno del 323 a.C., ma solo all'atto della sua imbalsamazione... colpito da Febbre del Nilo o similare, era entrato in stato di coma cerebrale a causa dell'infezione, il che rende merito della mancata decomposizione del cadavere, che stupì anche gli antichi, e della mancata coagulazione del sangue (che lasciò di stucco gli imbalsamatori).
Torniamo a noi. Da accordi con Antigono Monoftalmo, il plenipotenziario dei sovrani macedoni, e con il fugace successore Cratero (che in realtà non entrò mai in carico) la tomba definitiva di Alessandro si sarebbe dovuta trovare in Macedonia, nella terra originaria della dinastia regnante - sita in prossimità di Tessalonica, città che per altro deve la sua moderna denominazione ad una sorella di Alessandro (altra curiosa storia dell'epoca dei Diadochi), ma non probabilmente a Vergina - sede dell'antica capitale, ma in un sito più nobile. All'epoca, Anfipoli era la città più importante dell'area (città greca DOC, anzi di sangue e diritto ateniese in territorio macedone, una clerurchia ovverosia una colonia di Atene) e quindi è ragionevole che lì fosse predisposto il sepolcro finale.
Quando infine arrivò il momento, Perdicca predispose che il catafalco giungesse in Macedonia dopo una lunga processione cerimoniale che avrebbe dovuto attraversare tutta l'Arché (impero) macedone, sia per legittimare la posizione della dinastia (Alessandro IV era ancora considerato erede designato e nominalmente regnava con lo zio Filippo Arrideo) sia per guadagnare tempo in attesa della decisione finale circa la sua sepoltura. Arrivato in area siriaca, che all'epoca apparteneva amministrativamente all'Egitto, Tolomeo I Sotere si impossessò dalla salma e la trasportò ad Alessandria d'Egitto seppellendola con rito macedone in un sito sotterraneo al cuore della città, il cosiddetto Souma (che in greco antico significa "corpo" ma in macedone significa "sepolcro"), di cui dal terremoto di Alessandria dell'VIII secolo d.C. si sono ampiamente perse le tracce.
In altre parole, il sepolcro di Anfipoli è un monumento eccezionale, è probabilmente ciò che si ritiene che sia - ma è sicuramente un sepolcro vuoto. Così come è sicuramente vuoto il Souma.
Pochi lo sanno, ma i resti di Alessandro furono trafugati in epoca medievale. Da alcuni mercanti. Veneziani.
Sì: i resti di San Marco, come suggerito dalla datazione al carbonio, potrebbero essere del III secolo a.C.
Potrebbero essere quelli di Alessandro il Grande.
Archeologia: Creta, trovato edificio minoico di 3500 anni fa
L'insediamento di Zominthos
di Demetrio Manolitsakis
Un incontro fortuito, avvenuto nel 1982, fra il noto archeologo greco Yannis Sakellarakis e un pastore cretese è all'origine di una scoperta archeologica eccezionale. Si tratta di Zominthos, un insediamento del periodo minoico nell'omonimo altopiano a 1.187 metri sul livello di mare, alle pendici dello Psiloritis, il monte più alto di Creta, e a circa 8 km dal villaggio di Anogia, sulla strada che portava da Cnossos all'Ideon Andron, la grotta dove secondo la mitologia nacque Zeus. Il pastore, che viveva ad Anogia, invitò l'archeologo - allora impegnato in alcuni scavi nella zona - a visitare il terreno di pascolo del suo gregge che si trovava appunto a Zominthos. Il nome era sufficiente per far sospettare ad un esperto come Sakellarakis che forse qualcosa di importante si trovava in quella località dal nome antico. Infatti, recatosi a Zominthos il giorno seguente, si rese conto di trovarsi davanti a un insediamento di epoca minoica i cui resti erano nascosti da una folta vegetazione. Un anno dopo, nell'estate del 1983, Sakellarakis insieme con la collega Efi Sapouna Sakellaraki (sua compagna di vita e di lavoro) avviò i primi scavi durati fino al 1990, poi ripresi nel 2004 e tuttora in corso.
Negli ultimi anni sono tornati alla luce i resti di un impressionante e lussuoso edificio di 3.500 anni fa, alto due o tre piani, con circa 80 locali fra cui magazzini e laboratori. L'edificio si estende su una superficie di circa 1.360 metri quadrati ed è in ottimo stato di conservazione. Si tratta - come ha spiegato la Sakellaraki al settimanale To Vima - del primo insediamento minoico di montagna costruito nello stesso periodo in cui venne eretto il Palazzo di Cnossos.
Inoltre, sostiene l'archeologa, è la piu' grande residenza estiva di epoca minoica finora conosciuta. La struttura della costruzione dimostra che non si trattava di una dimora stagionale di pastori, ma di una abitazione di lusso di personalità importanti della vita minoica. Senza dubbio, aggiunge Sapouna-Sakellarakis, l'edificio costituiva un grande centro amministrativo ed era stato costruito con grandi e lunghe pietre mentre tutti i muri erano dipinti con vari colori come dimostrano i pezzi dell'intonaco ritrovati sul posto. Il palazzo, secondo gli esperti, sarebbe stato distrutto da un violento terremoto. In base a quanto emerso finora dalle richerche, nel Palazzo di Zominthos si possono distinguere tre periodi che coincidono il primo con la sua costruzione intorno al 1900 a.C., il secondo intorno al 1600 a.C. all'epoca della sua massima prosperità e la distruzione causata dal sisma e, infine, intorno al 1400 a.C. che coincide con la costruzione di un altro edificio eretto a poca distanza.
I reperti archeologici trovati a Zominthos sono numerosi. Tra questi vi sono sigilli che raffigurano scorpioni oppure uccelli acquatici o leoni e oggetti ornamentali di rame e di avorio. Sono state anche ritrovate due statuette di rame "fra le più belle del periodo di massima prosperità dei minoici", afferma l'archeologa secondo cui il ritrovamento di tutti questi reperti dimostrerebbe che nel sito esisteva un tempo anche un luogo di culto. Infatti dagli scavi sono venuti alla luce, fra l'altro, anche un cilindro metallico con sopra scolpiti dei serpenti che potrebbe essere stato lo scettro di un sacerdote, una coppa di rame, incensieri e molti ex voto.
Fonte: ANSAmed
venerdì 23 agosto 2013
Stonehenge, scoperto un monolite in legno
Stonehenge, scoperta struttura in pali di legno
Accanto al complesso di monoliti di Stonehenge si cela un'altra struttura fatta di pali legno che, secondo gli archeologi, fu costruita nello stesso periodo rispetto al noto cerchio di pietre, cioè circa 4.500 anni fa. Lo riferisce il Daily Telegraph oggi, sottolineando che questa potrebbe rivelarsi come la più interessante scoperta archeologica sul misterioso sito nella piana di Salisbury in Gran Bretagna.
A circa 900 metri di distanza dalla struttura di pietre, i ricercatori hanno scoperto un fosso circolare che contiene cerchi più piccoli al suo interno, di circa un metro di larghezza, dove si ritiene fossero piantati dei pali di legno.
Il cerchio avrebbe due ingressi, uno sulla parte nord-est e uno su quella sud-ovest. Gli studiosi stanno raccogliendo dati per ricostruire l'immagine virtuale della struttura originaria. Lo studioso che ha seguito il progetto di ricerca, Vince Gaffney dell'Università di Birmingham, ha detto di esser sempre stato certo che sarebbe saltata fuori qualche altra scoperta visto che il 90% dei 2.600 ettari di terreno dell'area archeologica di Stonehenge non era mai stato esplorato.
"Si presumeva che fosse solo un campo vuoto", ha detto. "Adesso viene fuori un enorme monumento cerimoniale che può fornire un'immagine nuova dell'intero sito", ha concluso.
Una Stonehenge in Italia?
Intanto, sulle montagne di San Vittore al confine fra Lazio e Campania, vicino all'Abbazia benedettina di MonteCassino, è stata fatta una incredibile scoperta. Si tratta di una Stonehenge artificiale, composta da almeno sette perfetti cerchi concentrici posizionata in un luogo isolato, tra montagne frequentate soltanto da pastori e cacciatori. Un manufatto visibile soltanto da un aereo o con i satelliti artificiali dallo spazio, proprio come le note linee di Nazca, uno dei rompicapo più difficili da risolvere dalla scienza.
giovedì 22 agosto 2013
Civiltà nuragica. Terme, capanne lustrali o capanne del sudore?
Civiltà nuragica. Terme, capanne lustrali o capanne del sudore?
In giro per la Sardegna, nei principali siti nuragici, si notano strutture di difficile interpretazione, dedicate a una funzione che lega l'acqua e il fuoco. Intorno alla vasca centrale hanno un sedile circolare che può ospitare fino a una decina di persone. Sono piccole, e alcuni archeologi suggeriscono un utilizzo domestico. Fino a oggi le interpretazioni non sono giunte a una condivisione e le ipotesi sono suggestive: fornaci, terme, capanne per riti (ma non si sa quali) e altre. Oggi propongo un interessante articolo che riguarda la capanna sudatoria degli indiani d'America. Ho inserito un'immagine di un pannello espositivo del Museo Archeologico di Villanovaforru nel quale si racconta di un utilizzo simile. E nell'immagine sotto c'è una di queste capanne fotografata a Barumini.
Inipi: La capanna sudatoria
"C'è qualcuno che giace a terra in maniera sacra.
C'è qualcuno - sulla terra egli giace.
In maniera sacra l'ho fatto camminare".
Alce Nero
Fonte: http://www.ilcerchiosciamanico.it/inipi-capanna-sudatoria.php
Nelle parole dei suoi maestri, la parola “Inipi” significa nascere di nuovo per essere in relazione con tutto l’universo, è il canto di nonna terra che ci purifica e guarisce a tutti livelli. La capanna sudatoria è una preghiera per tutte le nostre relazioni. Questi antichi rituali costituiscono una grande fonte di guarigione, ci danno l’opportunità di riconnetterci con la nostra vera natura, con la Madre Terra e con tutto l’universo. I rituali creano magia e in questi momenti speciali diveniamo consapevoli che noi siamo in relazione con tutto quello che ci circonda e torniamo come neonati, semplici esseri meravigliati dalla bellezza che è tutta intorno.
La capanna sudatoria, o Inipi, è una delle cerimonie più importanti di purificazione dei nativi americani, anche se pratiche similari si trovano in altre parti del mondo (ad esempio il Temascal in Messico o il “Bagno degli Incas” in Perù). Anche nelle culture europee, soprattutto nel nord Europa, si sono trovate tracce di una antica pratica della capanna del sudore, come in Finlandia o nella tradizione celtica.
L’entrata nell’oscurità della capanna, l’atmosfera calda e umida, richiama il ritorno al grembo di Madre Terra, un momento dove ciascuno ha la possibilità di liberarsi dalle energie pesanti accumulate sin qui e potersi così trasformare e rinascere in una nuova forma e dimensione più libera e leggera. L’ambiente oscuro, umido, caldo e accogliente, richiamano le sensazioni oceaniche e paradisiache della nostra vita intrauterina dove ritroviamo sicurezza, protezione e soddisfacimento istantaneo e senza sforzo di tutte le nostre necessità. Il ritorno alla fase iniziale della nostra nascita e l’attraversamento dei vari passaggi fino alla nostra venuta al Mondo è una esperienza comune che i partecipanti possono vivere nella capanna del sudore. Questa esperienza può darci la possibilità di recuperare o integrare o quanto meno riconoscere parti perdute o frammentate del sé, magari causate momenti traumatici che hanno accompagnato la nostra nascita, od esperienze della vita adulta che li hanno ripetuti drammaticamente. Venendo alla luce, diamo la possibilità a queste energie oscure di trasformarsi e liberare ciò che hanno trattenuto sin qui.
Il viaggio interiore nel buio della nostra coscienza diventa, con l’aiuto degli spiriti, un momento catartico e al tempo stesso iniziatico di profonda trasmutazione e guarigione. L’atto fisico di purificazione che il corpo mostra nel lasciar uscire il sudore, quando “il popolo delle pietre”, o “gli anziani” come vengono chiamate dai Lakota, entrano nella capanna incandescenti e vivi, testimonia l’apertura della nostra anima verso infiniti spazi interiori alla quale, con l’accompagnamento e l’aiuto di preghiere, canti e dalla presenza degli spiriti, viene offerta una rinnovata possibilità di guarigione.
La sensazione di contenimento e connessione con gli altri e con il Tutto che si vivono durante l’esperienza permettono a chiunque di affidarsi con gioia ed amore ai canti, alle pietre, al calore, alle preghiere, certi che ogni reazione emozionale, ogni pianto o desiderio inespresso possano trovare uno spazio sicuro e amorevole ove potersi manifestare per poter portare a compimento la guarigione necessaria.
Rispetto, amore, sostegno e connessione emergono come risorse necessarie non solo allo sviluppo del processo di purificazione in atto durante la cerimonia ma come valori da recuperare e rendere manifesti in ogni momento della propria vita. E’ una esperienza di profonda guarigione ottenuta grazie agli elementi della natura, rappresentati tutti nella loro intima forza ed essenzialità, il fuoco al centro, l’acqua che porta la vita, la madre terra sotto di noi pronta ad accogliere le nostre sofferenze e a trasformarle, gli spiriti del vapore, dell’aria, che portano in alto le nostre preghiere.
La Cerimonia Lakota dell’Inipi
La capanna viene costruita solitamente con rami di salice inseriti nel terreno a forma circolare. I rami sono piegati verso il centro e legati assieme formando una cupola la cui dimensione può essere adattata in base al numero delle persone. L’ingresso può essere rivolto verso Est o Ovest (dipende dalle tradizioni e dal conduttore) e la struttura così ottenuta viene coperta tradizionalmente da pelli di bisonte, nelle cerimonie moderne da teli o coperte. In mezzo alla capanna si scava una culla dove verranno disposte le pietre (“gli anziani”) mano a mano che vengono portate all’interno della capanna. Un custode o portinaio apre e chiude la capanna dall’esterno, solitamente viene fatto quattro volte in tutto, segnando quattro momenti di passaggio durante la cerimonia.
Talvolta il conduttore chiede ai partecipanti di preparare dei nodi di preghiera, si scrivono su foglietti quegli aspetti di sé che si vogliono guarire o portare a trasformazione e si mettono all’interno di strisce colorate di stoffa, ritagliate a misura, e poi appese all’interno della capanna. Quando si entra nello spazio interno, si può dire “"Mitakuye Oyas'in", che in lingua Lakota significa siamo tutti fratelli, siamo tutti parenti, siamo tutti connessi. La porta, solitamente di misura inferiore al normale, costringe ad abbassare il capo in segno di rispetto e resa verso gli spiriti. Questa frase si ripete solitamente anche quando entrano “gli anziani” (le pietre). Si entra in senso orario, alcuni dispongono gli uomini da un lato e le donne dall’altro, e il conduttore chiama le prime pietre roventi che vengono disposte nella buca centrale e sistemate con corna di cervo. Chiusa la porta, si versa dell’acqua sulle pietre in modo che il vapore inizia a riempire lo spazio interno alla capanna e la temperatura inizia ad aumentare. Il conduttore inizia a pregare e cantare, se l’uomo di medicina ha un assistente può essere anch’egli colui che intona i primi canti e preghiere. Terminata la prima fase si apre la porta, vengono introdotte altre pietre, si richiude e si passa alla seconda fase e così via fino alla quarta e ultima fase. La durata dipende dai partecipanti, dal conduttore e dagli spiriti. Durante ciascuna fase, nella quale si alternano canti, preghiere e racconti differenti, i partecipanti possono vivere esperienze molteplici che arrivano a compimento nell’ultima fase, quando la porta viene aperta definitivamente.
La cerimonia non è competitiva, se qualcuno si sente male o vuole uscire può farlo, anche se affidandosi agli spiriti, alle preghiere e a Madre Terra si sente un profondo aiuto e sostegno che solitamente facilita l’esperienza e permette a tutti di arrivare sino alla fine senza difficoltà. Alla fine, il leader esce per primo, seguito dagli uomini e che terminano con l'assistente, in senso orario. Alla gente piace rinfrescarsi dopo la cerimonia, e qualche salto in un lago o nella neve, o semplicemente versare acqua su se stessi.
In giro per la Sardegna, nei principali siti nuragici, si notano strutture di difficile interpretazione, dedicate a una funzione che lega l'acqua e il fuoco. Intorno alla vasca centrale hanno un sedile circolare che può ospitare fino a una decina di persone. Sono piccole, e alcuni archeologi suggeriscono un utilizzo domestico. Fino a oggi le interpretazioni non sono giunte a una condivisione e le ipotesi sono suggestive: fornaci, terme, capanne per riti (ma non si sa quali) e altre. Oggi propongo un interessante articolo che riguarda la capanna sudatoria degli indiani d'America. Ho inserito un'immagine di un pannello espositivo del Museo Archeologico di Villanovaforru nel quale si racconta di un utilizzo simile. E nell'immagine sotto c'è una di queste capanne fotografata a Barumini.
Inipi: La capanna sudatoria
"C'è qualcuno che giace a terra in maniera sacra.
C'è qualcuno - sulla terra egli giace.
In maniera sacra l'ho fatto camminare".
Alce Nero
Fonte: http://www.ilcerchiosciamanico.it/inipi-capanna-sudatoria.php
Nelle parole dei suoi maestri, la parola “Inipi” significa nascere di nuovo per essere in relazione con tutto l’universo, è il canto di nonna terra che ci purifica e guarisce a tutti livelli. La capanna sudatoria è una preghiera per tutte le nostre relazioni. Questi antichi rituali costituiscono una grande fonte di guarigione, ci danno l’opportunità di riconnetterci con la nostra vera natura, con la Madre Terra e con tutto l’universo. I rituali creano magia e in questi momenti speciali diveniamo consapevoli che noi siamo in relazione con tutto quello che ci circonda e torniamo come neonati, semplici esseri meravigliati dalla bellezza che è tutta intorno.
La capanna sudatoria, o Inipi, è una delle cerimonie più importanti di purificazione dei nativi americani, anche se pratiche similari si trovano in altre parti del mondo (ad esempio il Temascal in Messico o il “Bagno degli Incas” in Perù). Anche nelle culture europee, soprattutto nel nord Europa, si sono trovate tracce di una antica pratica della capanna del sudore, come in Finlandia o nella tradizione celtica.
L’entrata nell’oscurità della capanna, l’atmosfera calda e umida, richiama il ritorno al grembo di Madre Terra, un momento dove ciascuno ha la possibilità di liberarsi dalle energie pesanti accumulate sin qui e potersi così trasformare e rinascere in una nuova forma e dimensione più libera e leggera. L’ambiente oscuro, umido, caldo e accogliente, richiamano le sensazioni oceaniche e paradisiache della nostra vita intrauterina dove ritroviamo sicurezza, protezione e soddisfacimento istantaneo e senza sforzo di tutte le nostre necessità. Il ritorno alla fase iniziale della nostra nascita e l’attraversamento dei vari passaggi fino alla nostra venuta al Mondo è una esperienza comune che i partecipanti possono vivere nella capanna del sudore. Questa esperienza può darci la possibilità di recuperare o integrare o quanto meno riconoscere parti perdute o frammentate del sé, magari causate momenti traumatici che hanno accompagnato la nostra nascita, od esperienze della vita adulta che li hanno ripetuti drammaticamente. Venendo alla luce, diamo la possibilità a queste energie oscure di trasformarsi e liberare ciò che hanno trattenuto sin qui.
Il viaggio interiore nel buio della nostra coscienza diventa, con l’aiuto degli spiriti, un momento catartico e al tempo stesso iniziatico di profonda trasmutazione e guarigione. L’atto fisico di purificazione che il corpo mostra nel lasciar uscire il sudore, quando “il popolo delle pietre”, o “gli anziani” come vengono chiamate dai Lakota, entrano nella capanna incandescenti e vivi, testimonia l’apertura della nostra anima verso infiniti spazi interiori alla quale, con l’accompagnamento e l’aiuto di preghiere, canti e dalla presenza degli spiriti, viene offerta una rinnovata possibilità di guarigione.
La sensazione di contenimento e connessione con gli altri e con il Tutto che si vivono durante l’esperienza permettono a chiunque di affidarsi con gioia ed amore ai canti, alle pietre, al calore, alle preghiere, certi che ogni reazione emozionale, ogni pianto o desiderio inespresso possano trovare uno spazio sicuro e amorevole ove potersi manifestare per poter portare a compimento la guarigione necessaria.
Rispetto, amore, sostegno e connessione emergono come risorse necessarie non solo allo sviluppo del processo di purificazione in atto durante la cerimonia ma come valori da recuperare e rendere manifesti in ogni momento della propria vita. E’ una esperienza di profonda guarigione ottenuta grazie agli elementi della natura, rappresentati tutti nella loro intima forza ed essenzialità, il fuoco al centro, l’acqua che porta la vita, la madre terra sotto di noi pronta ad accogliere le nostre sofferenze e a trasformarle, gli spiriti del vapore, dell’aria, che portano in alto le nostre preghiere.
La Cerimonia Lakota dell’Inipi
La capanna viene costruita solitamente con rami di salice inseriti nel terreno a forma circolare. I rami sono piegati verso il centro e legati assieme formando una cupola la cui dimensione può essere adattata in base al numero delle persone. L’ingresso può essere rivolto verso Est o Ovest (dipende dalle tradizioni e dal conduttore) e la struttura così ottenuta viene coperta tradizionalmente da pelli di bisonte, nelle cerimonie moderne da teli o coperte. In mezzo alla capanna si scava una culla dove verranno disposte le pietre (“gli anziani”) mano a mano che vengono portate all’interno della capanna. Un custode o portinaio apre e chiude la capanna dall’esterno, solitamente viene fatto quattro volte in tutto, segnando quattro momenti di passaggio durante la cerimonia.
Talvolta il conduttore chiede ai partecipanti di preparare dei nodi di preghiera, si scrivono su foglietti quegli aspetti di sé che si vogliono guarire o portare a trasformazione e si mettono all’interno di strisce colorate di stoffa, ritagliate a misura, e poi appese all’interno della capanna. Quando si entra nello spazio interno, si può dire “"Mitakuye Oyas'in", che in lingua Lakota significa siamo tutti fratelli, siamo tutti parenti, siamo tutti connessi. La porta, solitamente di misura inferiore al normale, costringe ad abbassare il capo in segno di rispetto e resa verso gli spiriti. Questa frase si ripete solitamente anche quando entrano “gli anziani” (le pietre). Si entra in senso orario, alcuni dispongono gli uomini da un lato e le donne dall’altro, e il conduttore chiama le prime pietre roventi che vengono disposte nella buca centrale e sistemate con corna di cervo. Chiusa la porta, si versa dell’acqua sulle pietre in modo che il vapore inizia a riempire lo spazio interno alla capanna e la temperatura inizia ad aumentare. Il conduttore inizia a pregare e cantare, se l’uomo di medicina ha un assistente può essere anch’egli colui che intona i primi canti e preghiere. Terminata la prima fase si apre la porta, vengono introdotte altre pietre, si richiude e si passa alla seconda fase e così via fino alla quarta e ultima fase. La durata dipende dai partecipanti, dal conduttore e dagli spiriti. Durante ciascuna fase, nella quale si alternano canti, preghiere e racconti differenti, i partecipanti possono vivere esperienze molteplici che arrivano a compimento nell’ultima fase, quando la porta viene aperta definitivamente.
La cerimonia non è competitiva, se qualcuno si sente male o vuole uscire può farlo, anche se affidandosi agli spiriti, alle preghiere e a Madre Terra si sente un profondo aiuto e sostegno che solitamente facilita l’esperienza e permette a tutti di arrivare sino alla fine senza difficoltà. Alla fine, il leader esce per primo, seguito dagli uomini e che terminano con l'assistente, in senso orario. Alla gente piace rinfrescarsi dopo la cerimonia, e qualche salto in un lago o nella neve, o semplicemente versare acqua su se stessi.
mercoledì 21 agosto 2013
I gioielli spaziali degli antichi Egizi: lavorati con il ferro dei meteoriti
I gioielli spaziali degli antichi Egizi: lavorati con il ferro dei meteoriti
Arriva dallo spazio il ferro delle perline dei più antichi gioielli Egizi realizzati con questo metallo. Il ferro era contenuto nei meteoriti, come mostra l'analisi della struttura interna delle perle condotta da un gruppo di ricerca dell'University College London e pubblicato sul Journal of Archaeological Science. Realizzati oltre 5.000 anni fa, i gioielli dall'origine cosmica, inoltre, spostano indietro nel tempo di almeno due millenni l'origine della lavorazione del ferro.
Le perline realizzate con il ferro presente nei meteoriti sono nove, sono state scoperte nel 1911 in una tomba egizia del IV millennio a.C. e attualmente sono conservate presso il Museo di archeologia egizia Petrie Museum, dell'University College London. L'origine extraterrestre di questi gioielli è stata scoperta analizzando le perle con fasci di neutroni e raggi gamma, che hanno svelato l'alta concentrazione di nichel, cobalto, fosforo e germanio presente negli oggetti e che è caratteristica del ferro che si trova nei meteoriti.
L'indagine non invasiva ha mostrato anche la struttura interna degli oggetti e ha permesso di scoprire che sono stati realizzati a partire da lamine sottilissime, arrotolate per ottenere le sfere.
Le perline così ottenute sono state utilizzate per realizzare le più antiche collane in ferro: gioielli che contenevano anche oro e pietre preziose, e ciò dimostra l'alto valore attribuito a questo materiale dagli antichi Egizi.
Per dare al ferro la forma di sottili lamine, "il metallo è stato sottoposto a più cicli di martellamento, una tecnica molto diversa da tutte le altre allora usate per realizzare monili", ha osservato il coordinatore della ricerca, Thilo Rehren, che lavora nella sede del Qatar dell'University College London.
La ricerca ha messo in luce anche la particolare abilità degli antichi artigiani egizi nel lavorare un materiale molto difficile come il ferro meteoritico, una lega di ferro e nichel molto più dura e più fragile di quella del materiale comunemente usato all'epoca, il rame. Secondo gli esperti l’esperienza maturata con la lavorazione del ferro dei meteoriti sarebbe stata tanto più importante nel II millennio a.C., con l'arrivo della produzione del ferro con la tecnica della fusione, che avrebbe permesso a questo metallo di sostituire il rame e il bronzo.
Fonte www.ansa.it
Arriva dallo spazio il ferro delle perline dei più antichi gioielli Egizi realizzati con questo metallo. Il ferro era contenuto nei meteoriti, come mostra l'analisi della struttura interna delle perle condotta da un gruppo di ricerca dell'University College London e pubblicato sul Journal of Archaeological Science. Realizzati oltre 5.000 anni fa, i gioielli dall'origine cosmica, inoltre, spostano indietro nel tempo di almeno due millenni l'origine della lavorazione del ferro.
Le perline realizzate con il ferro presente nei meteoriti sono nove, sono state scoperte nel 1911 in una tomba egizia del IV millennio a.C. e attualmente sono conservate presso il Museo di archeologia egizia Petrie Museum, dell'University College London. L'origine extraterrestre di questi gioielli è stata scoperta analizzando le perle con fasci di neutroni e raggi gamma, che hanno svelato l'alta concentrazione di nichel, cobalto, fosforo e germanio presente negli oggetti e che è caratteristica del ferro che si trova nei meteoriti.
L'indagine non invasiva ha mostrato anche la struttura interna degli oggetti e ha permesso di scoprire che sono stati realizzati a partire da lamine sottilissime, arrotolate per ottenere le sfere.
Le perline così ottenute sono state utilizzate per realizzare le più antiche collane in ferro: gioielli che contenevano anche oro e pietre preziose, e ciò dimostra l'alto valore attribuito a questo materiale dagli antichi Egizi.
Per dare al ferro la forma di sottili lamine, "il metallo è stato sottoposto a più cicli di martellamento, una tecnica molto diversa da tutte le altre allora usate per realizzare monili", ha osservato il coordinatore della ricerca, Thilo Rehren, che lavora nella sede del Qatar dell'University College London.
La ricerca ha messo in luce anche la particolare abilità degli antichi artigiani egizi nel lavorare un materiale molto difficile come il ferro meteoritico, una lega di ferro e nichel molto più dura e più fragile di quella del materiale comunemente usato all'epoca, il rame. Secondo gli esperti l’esperienza maturata con la lavorazione del ferro dei meteoriti sarebbe stata tanto più importante nel II millennio a.C., con l'arrivo della produzione del ferro con la tecnica della fusione, che avrebbe permesso a questo metallo di sostituire il rame e il bronzo.
Fonte www.ansa.it
martedì 20 agosto 2013
Eccezionale scoperta archeologica in Sardegna: trovata la prima raffigurazione del mitico dio sardo al tempio di Antas.
Trovata la prima raffigurazione del mitico dio sardo al tempio di Antas.
di Fabio Isman
Per quasi 50 anni, erano rimaste in una cassa. Sono le decorazioni in terracotta del Tempio di Antas in Sardegna, vicino a Iglesias, uno dei più antichi e dei più misteriosi dell’isola. Le ha ordinate e studiate Giuseppina Manca di Mores, archeologa isolana e vicepresidente dell’ANA, l’Associazione nazionale Archeologi. E ha scoperto così la più antica raffigurazione del “Sardus Pater”, mitico progenitore della Sardegna, la cui immagine di divinità con il cappello inequivocabilmente piumato si fonde con quella di Iolao, il nipote di Eracle. Perché nella prima raffigurazione di questo mitico personaggio, si uniscono le tradizionali origini greche e fenicie della fondazione dell’isola.
Antas. Vicino a Fluminimaggiore, c’è uno dei grandi misteri sardi: un tempio punico del 500 a.C. dedicato al dio Sid Addir, forse dove già c’era un luogo di culto nuragico per il dio delle acque. Due secoli dopo, è ristrutturato. Per volere di Augusto (27 a.C.-14 d.C.), restaurato da Caracalla (213 – 217 d.C.) diventa un tempio romano. Lo scopre nel 1836 il generale Alberto La Marmora; oggi, lo vediamo, sei colonne ioniche alte otto metri, come è stato ricostruito nel 1967. Da un dito trovato in loco, doveva esserci una statua alta tre metri: quella del Sardus Pater, cui il tempio è dedicato, e una cui effige fu collocata al Santuario di Delfi.
La nemesi. Una tra le frasi preferite di un famoso archeologo che non c’è più, Sabatino Moscati, era che «gli scavi più importanti sono quelli nei magazzini dei musei»: una nemesi. A scavare il tempio di Antas (e molto altro) è stato infatti proprio lui. Ma le terrecotte che, sulla facciata del tempio, ne proteggevano e decoravano il legno, sono finite nei depositi; e lì sono rimaste per oltre mezzo secolo, non studiate da nessuno.
Libro dei Lincei. A metà del prossimo anno, sarà pronto un poderoso libro sul tempio, curato, per l’Accademia dei Lincei, da Mario Torelli, un maestro dell’archeologia. E per questo lavoro a più voci, Giuseppina Manca ha finalmente esaminato, dal 2008 in poi, proprio quegli oggetti. Davvero importanti: il tempio di Antas è tra i più remoti ed importanti dell’isola. In un iscrizione, si legge la dedica: «TEMPL(um) DE SARDI PATRIS BAB», al Sardus Pater, così chiamato dai Romani, che può essere identificato con il dio Sid dei Cartaginesi. A ribadire l’importanza del luogo, Tolomeo lo cita già.
Nascita dell’isola. Sul sorgere della Sardegna abitata, si fronteggiano, entrambe con nobili sponsor e dotta letteratura, due diverse tradizioni. Sallustio e Pausania la vogliono colonizzata da Sardo, il figlio dell’Eracle libico, cioè del fenicio Melqart; Diodoro Siculo e altri, da Iolao, che sarebbe il padre degli Iliensi, giunto sull’isola con i figli di Eracle. Tra le terrecotte nei magazzini, Manca di Mores ha ricomposto una figura di Eracle con la leonté, e un personaggio maschile nudo, in piedi, con la doppia corona di piume in testa che lo qualifica con certezza come Iolao. Lo vediamo sulle monete romane di Azio Balbo, in un bronzetto punico trovato a Genoni, ed altrove.
Un “primum”. «Ma questa è la prima raffigurazione che ora, finalmente, conosciamo», racconta Giuseppina Manca; risale alla fase romana non imperiale, ma repubblicana, «nel primo, finora unico tempio romano-repubblicano con decorazione architettonica completa, tra gli ultimi decenni del II e la prima metà del I secolo a.C.». Chi arrivava al tempio, si trovava immediatamente di fronte le figure della mitica fondazione dell’isola. Solo che, per saperlo, abbiamo dovuto attendere mezzo secolo dagli scavi, perché «quelli più importanti avvengono nei depositi dei musei»: Moscati aveva proprio ragione; evidentemente, anche per quanto riguardava lui stesso.
Fonte: ww.artemagazine.it
di Fabio Isman
Per quasi 50 anni, erano rimaste in una cassa. Sono le decorazioni in terracotta del Tempio di Antas in Sardegna, vicino a Iglesias, uno dei più antichi e dei più misteriosi dell’isola. Le ha ordinate e studiate Giuseppina Manca di Mores, archeologa isolana e vicepresidente dell’ANA, l’Associazione nazionale Archeologi. E ha scoperto così la più antica raffigurazione del “Sardus Pater”, mitico progenitore della Sardegna, la cui immagine di divinità con il cappello inequivocabilmente piumato si fonde con quella di Iolao, il nipote di Eracle. Perché nella prima raffigurazione di questo mitico personaggio, si uniscono le tradizionali origini greche e fenicie della fondazione dell’isola.
Antas. Vicino a Fluminimaggiore, c’è uno dei grandi misteri sardi: un tempio punico del 500 a.C. dedicato al dio Sid Addir, forse dove già c’era un luogo di culto nuragico per il dio delle acque. Due secoli dopo, è ristrutturato. Per volere di Augusto (27 a.C.-14 d.C.), restaurato da Caracalla (213 – 217 d.C.) diventa un tempio romano. Lo scopre nel 1836 il generale Alberto La Marmora; oggi, lo vediamo, sei colonne ioniche alte otto metri, come è stato ricostruito nel 1967. Da un dito trovato in loco, doveva esserci una statua alta tre metri: quella del Sardus Pater, cui il tempio è dedicato, e una cui effige fu collocata al Santuario di Delfi.
La nemesi. Una tra le frasi preferite di un famoso archeologo che non c’è più, Sabatino Moscati, era che «gli scavi più importanti sono quelli nei magazzini dei musei»: una nemesi. A scavare il tempio di Antas (e molto altro) è stato infatti proprio lui. Ma le terrecotte che, sulla facciata del tempio, ne proteggevano e decoravano il legno, sono finite nei depositi; e lì sono rimaste per oltre mezzo secolo, non studiate da nessuno.
Libro dei Lincei. A metà del prossimo anno, sarà pronto un poderoso libro sul tempio, curato, per l’Accademia dei Lincei, da Mario Torelli, un maestro dell’archeologia. E per questo lavoro a più voci, Giuseppina Manca ha finalmente esaminato, dal 2008 in poi, proprio quegli oggetti. Davvero importanti: il tempio di Antas è tra i più remoti ed importanti dell’isola. In un iscrizione, si legge la dedica: «TEMPL(um) DE SARDI PATRIS BAB», al Sardus Pater, così chiamato dai Romani, che può essere identificato con il dio Sid dei Cartaginesi. A ribadire l’importanza del luogo, Tolomeo lo cita già.
Nascita dell’isola. Sul sorgere della Sardegna abitata, si fronteggiano, entrambe con nobili sponsor e dotta letteratura, due diverse tradizioni. Sallustio e Pausania la vogliono colonizzata da Sardo, il figlio dell’Eracle libico, cioè del fenicio Melqart; Diodoro Siculo e altri, da Iolao, che sarebbe il padre degli Iliensi, giunto sull’isola con i figli di Eracle. Tra le terrecotte nei magazzini, Manca di Mores ha ricomposto una figura di Eracle con la leonté, e un personaggio maschile nudo, in piedi, con la doppia corona di piume in testa che lo qualifica con certezza come Iolao. Lo vediamo sulle monete romane di Azio Balbo, in un bronzetto punico trovato a Genoni, ed altrove.
Un “primum”. «Ma questa è la prima raffigurazione che ora, finalmente, conosciamo», racconta Giuseppina Manca; risale alla fase romana non imperiale, ma repubblicana, «nel primo, finora unico tempio romano-repubblicano con decorazione architettonica completa, tra gli ultimi decenni del II e la prima metà del I secolo a.C.». Chi arrivava al tempio, si trovava immediatamente di fronte le figure della mitica fondazione dell’isola. Solo che, per saperlo, abbiamo dovuto attendere mezzo secolo dagli scavi, perché «quelli più importanti avvengono nei depositi dei musei»: Moscati aveva proprio ragione; evidentemente, anche per quanto riguardava lui stesso.
Fonte: ww.artemagazine.it
lunedì 19 agosto 2013
600.000 visite. Per festeggiare parliamo di navigazione antica.
600.000 visite. Per festeggiare parliamo di navigazione antica.
di Pierluigi Montalbano
L’antica marineria della Sardegna.
Sarei felice di poter raccontare le vicende di qualche marinaio nuragico, ma le fonti storiche, avarissime di dati per questo periodo, non me lo consentono. In ogni caso, vista la tecnologia navale del tempo e tenendo conto del carattere notoriamente invariato del mare, sono ragionevolmente certo che qualche tempesta e vari naufragi abbiano accompagnato la storia di questi antichi naviganti. Certamente si andava per mare solo nella buona stagione ma, nonostante queste gravi difficoltà, i mari erano solcati da navi ed equipaggi coraggiosi, consentendo alle genti di conoscersi, di attivare traffici e scambi, ma anche di organizzare atti di pirateria. I sardi hanno un forte debito di riconoscenza nei confronti di questi marinai perché aiutano a superare un preconcetto al quale qualcuno è affezionato: la repulsione verso i viaggi in mare. La Sardegna è abitata (non stagionalmente) da almeno 80 secoli ma alcuni studiosi sostengono, a mio avviso erroneamente, che i sardi si sono tenuti rigorosamente lontani dal mare: tutti sul Gennargentu insomma…con qualche sofferta eccezione per il Limbara. Un record planetario ineguagliabile, peccato che non sia vero. Per me, studioso e appassionato di paleostoria, affascinato dalle incantevoli navicelle bronzee nuragiche, nucleo della mia tesi di laurea, i dubbi sull’ipotesi “sardi impauriti dal mare” sono leciti, a meno che non mi convincano che i modellini riproducano efficaci mezzi di trasporto per andare da Su Nuraxi di Barumini al Nuraghe Losa. Qualche studioso ha tentato di convincermi che le barche nuragiche in bronzo sono mezzi per raggiungere l’aldilà, quindi i nostri antenati progettavano le crociere solo dopo la morte. Per gli studiosi che non vedono di buon occhio una civiltà sarda proiettata verso il Mediterraneo, tutte le proposte sono buone, ma devono convincermi che le navicelle non riproducano modelli navali realistici. Va detto, comunque, che finora nessuno ha ipotizzato che fossero giocattoli per i giovani nuragici o portacenere. Resta poi da domandarsi come siano arrivati i primi abitanti. Esclusa la germinazione spontanea si intuisce un affannoso bruciare di barche, zattere e remi e vele. “Dae su mare su male” mi è capitato di sentire con toni di compiaciuto pessimismo.
Alcuni documenti egizi, tra i quali il papiro di Wilbour citato da Lilliu a proposito del periodo degli attacchi dei popoli del mare a Qadesh e nel Delta del Nilo, nel pieno sviluppo della Civiltà Nuragica, riferiscono di Sherden dal cuore ribelle, invincibili guerrieri che giungono dal mare. Non si ha la certezza assoluta che si tratti dei nuragici ma tutti gli indizi portano a questa deduzione. Inoltre, i rilievi di Medinet Abu, Abu Simbel e Karnak, che riferiscono di questi popoli, mostrano (rappresentati sui templi) personaggi molto simili ai guerrieri dei bronzetti nuragici, soprattutto nel vestiario e nelle armi. Le piccole sculture che fanno la fortuna dei musei di tutto il mondo, mostrano uno spiegamento di armi e armati eccessivo se il compito di questi ben equipaggiati guerrieri si limitava a regolare faide tribali interne all’isola. Inoltre ci sono le navicelle. Le coste italiche non sono lontane: risalendo le coste sarde e quelle della Corsica, e dirigendosi verso l’isola d’Elba, si può navigare a vista fino all’arcipelago toscano. Vi erano tutte le condizioni favorevoli per uno scambio commerciale fra le due sponde, e l’archeologia conferma questa proposta: a cavallo fra Bronzo e Ferro, nell’isola,si trovano asce, spade, fibule, anfore e brocche per il vino, e sono frequenti i bronzi sardi in tombe e ripostigli dell’Etruria. Nelle città di Tarquinia, Vulci, Populonia, Vetulonia troviamo un repertorio archeologico molto vicino al mondo nuragico. Inoltre sono provati scambi col mondo miceneo, e ceramiche nuragiche sono presenti a Lipari.
Ora descriverò come si muovevano i sardi di due millenni fa.
di Pierluigi Montalbano
L’antica marineria della Sardegna.
Sarei felice di poter raccontare le vicende di qualche marinaio nuragico, ma le fonti storiche, avarissime di dati per questo periodo, non me lo consentono. In ogni caso, vista la tecnologia navale del tempo e tenendo conto del carattere notoriamente invariato del mare, sono ragionevolmente certo che qualche tempesta e vari naufragi abbiano accompagnato la storia di questi antichi naviganti. Certamente si andava per mare solo nella buona stagione ma, nonostante queste gravi difficoltà, i mari erano solcati da navi ed equipaggi coraggiosi, consentendo alle genti di conoscersi, di attivare traffici e scambi, ma anche di organizzare atti di pirateria. I sardi hanno un forte debito di riconoscenza nei confronti di questi marinai perché aiutano a superare un preconcetto al quale qualcuno è affezionato: la repulsione verso i viaggi in mare. La Sardegna è abitata (non stagionalmente) da almeno 80 secoli ma alcuni studiosi sostengono, a mio avviso erroneamente, che i sardi si sono tenuti rigorosamente lontani dal mare: tutti sul Gennargentu insomma…con qualche sofferta eccezione per il Limbara. Un record planetario ineguagliabile, peccato che non sia vero. Per me, studioso e appassionato di paleostoria, affascinato dalle incantevoli navicelle bronzee nuragiche, nucleo della mia tesi di laurea, i dubbi sull’ipotesi “sardi impauriti dal mare” sono leciti, a meno che non mi convincano che i modellini riproducano efficaci mezzi di trasporto per andare da Su Nuraxi di Barumini al Nuraghe Losa. Qualche studioso ha tentato di convincermi che le barche nuragiche in bronzo sono mezzi per raggiungere l’aldilà, quindi i nostri antenati progettavano le crociere solo dopo la morte. Per gli studiosi che non vedono di buon occhio una civiltà sarda proiettata verso il Mediterraneo, tutte le proposte sono buone, ma devono convincermi che le navicelle non riproducano modelli navali realistici. Va detto, comunque, che finora nessuno ha ipotizzato che fossero giocattoli per i giovani nuragici o portacenere. Resta poi da domandarsi come siano arrivati i primi abitanti. Esclusa la germinazione spontanea si intuisce un affannoso bruciare di barche, zattere e remi e vele. “Dae su mare su male” mi è capitato di sentire con toni di compiaciuto pessimismo.
Alcuni documenti egizi, tra i quali il papiro di Wilbour citato da Lilliu a proposito del periodo degli attacchi dei popoli del mare a Qadesh e nel Delta del Nilo, nel pieno sviluppo della Civiltà Nuragica, riferiscono di Sherden dal cuore ribelle, invincibili guerrieri che giungono dal mare. Non si ha la certezza assoluta che si tratti dei nuragici ma tutti gli indizi portano a questa deduzione. Inoltre, i rilievi di Medinet Abu, Abu Simbel e Karnak, che riferiscono di questi popoli, mostrano (rappresentati sui templi) personaggi molto simili ai guerrieri dei bronzetti nuragici, soprattutto nel vestiario e nelle armi. Le piccole sculture che fanno la fortuna dei musei di tutto il mondo, mostrano uno spiegamento di armi e armati eccessivo se il compito di questi ben equipaggiati guerrieri si limitava a regolare faide tribali interne all’isola. Inoltre ci sono le navicelle. Le coste italiche non sono lontane: risalendo le coste sarde e quelle della Corsica, e dirigendosi verso l’isola d’Elba, si può navigare a vista fino all’arcipelago toscano. Vi erano tutte le condizioni favorevoli per uno scambio commerciale fra le due sponde, e l’archeologia conferma questa proposta: a cavallo fra Bronzo e Ferro, nell’isola,si trovano asce, spade, fibule, anfore e brocche per il vino, e sono frequenti i bronzi sardi in tombe e ripostigli dell’Etruria. Nelle città di Tarquinia, Vulci, Populonia, Vetulonia troviamo un repertorio archeologico molto vicino al mondo nuragico. Inoltre sono provati scambi col mondo miceneo, e ceramiche nuragiche sono presenti a Lipari.
Ora descriverò come si muovevano i sardi di due millenni fa.
domenica 18 agosto 2013
Archeologia subacquea: individuato un relitto di nave romana nelle isole Eolie.
Individuato un relitto di nave romana nelle Isole Eolie, a Filicudi
E' stato scoperto dall'archeologo Philippe Tisseyre, sub della Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, un relitto di epoca romana nella Secca di Capo Graziano a Filicudi. Nell'area erano già state individuate numerose anfore romane e alcuni relitti di varie epoche, testimoni della pericolosità della navigazione in questa area marina. Il nuovo relitto si trova a 50 metri di profondità, nei fondali delle isole Eolie ribattezzate come museo archeologico subacqueo. Philippe Tisseyre ha dichiarato: "Finora era noto che vi fosse la presenza di una nave romana solo attraverso le notizie di furti di una certa tipologia di anfore, ma non si conosceva l'ubicazione della nave. Oggi, nel quadro di una ricognizione sistematica del sistema informatico territoriale della soprintendenza coordinata dal professore Sebastiano Tusa, Soprintendente del Mare, è stato possibile rinvenire il relitto in questione". Per il recupero hanno collaborato i carabinieri di Filicudi e il museo archeologico regionale Luigi Berbabò Brea di Lipari.
Come le altre vicine isole, Filicudi fu popolata già 3.000 a.C., come è testimoniato a Capo Graziano dove gli archeologi hanno scavato una ventina di capanne dalla forma ovale poste su un promontorio a circa 100 m sopra il livello del mare. All’interno delle capanne sono state rinvenute ceramiche di produzione autoctona e frammenti di ceramica appartenenti al periodo di Diana. Altre ceramiche di stile protomiceneo suggeriscono che il villaggio ha continuato la sua vita fino al 1430 a.C, quando ci fu una violenta distruzione. Sul punto più alto di Capo Graziano si trova l’antico altare sacrificale di queste genti. Capo Graziano nelle sue acque custodisce millenni di storia, ed è stato istituito un museo sottomarino accessibile solo ai sub più esperti in possesso di un brevetto avanzato e rigorosamente accompagnati da guida specializzata. Sono bene nove i relitti adagiati nel fondo. Si può scendere fino ad una profondità di 45 metri, punto dal quale si può ammirare il relitto A, di età greca, che risale al II a.C. e sempre dallo stesso punto si scorge il relitto G, ancora oggi quasi interamente insabbiato, che risale al V a.C.
Nelle immagini, di Salina Live, i sub in azione e la Grotta del Bue Marino, nei pressi di Capo Graziano
E' stato scoperto dall'archeologo Philippe Tisseyre, sub della Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, un relitto di epoca romana nella Secca di Capo Graziano a Filicudi. Nell'area erano già state individuate numerose anfore romane e alcuni relitti di varie epoche, testimoni della pericolosità della navigazione in questa area marina. Il nuovo relitto si trova a 50 metri di profondità, nei fondali delle isole Eolie ribattezzate come museo archeologico subacqueo. Philippe Tisseyre ha dichiarato: "Finora era noto che vi fosse la presenza di una nave romana solo attraverso le notizie di furti di una certa tipologia di anfore, ma non si conosceva l'ubicazione della nave. Oggi, nel quadro di una ricognizione sistematica del sistema informatico territoriale della soprintendenza coordinata dal professore Sebastiano Tusa, Soprintendente del Mare, è stato possibile rinvenire il relitto in questione". Per il recupero hanno collaborato i carabinieri di Filicudi e il museo archeologico regionale Luigi Berbabò Brea di Lipari.
Come le altre vicine isole, Filicudi fu popolata già 3.000 a.C., come è testimoniato a Capo Graziano dove gli archeologi hanno scavato una ventina di capanne dalla forma ovale poste su un promontorio a circa 100 m sopra il livello del mare. All’interno delle capanne sono state rinvenute ceramiche di produzione autoctona e frammenti di ceramica appartenenti al periodo di Diana. Altre ceramiche di stile protomiceneo suggeriscono che il villaggio ha continuato la sua vita fino al 1430 a.C, quando ci fu una violenta distruzione. Sul punto più alto di Capo Graziano si trova l’antico altare sacrificale di queste genti. Capo Graziano nelle sue acque custodisce millenni di storia, ed è stato istituito un museo sottomarino accessibile solo ai sub più esperti in possesso di un brevetto avanzato e rigorosamente accompagnati da guida specializzata. Sono bene nove i relitti adagiati nel fondo. Si può scendere fino ad una profondità di 45 metri, punto dal quale si può ammirare il relitto A, di età greca, che risale al II a.C. e sempre dallo stesso punto si scorge il relitto G, ancora oggi quasi interamente insabbiato, che risale al V a.C.
Nelle immagini, di Salina Live, i sub in azione e la Grotta del Bue Marino, nei pressi di Capo Graziano
sabato 17 agosto 2013
Età del Ferro in Sardegna: L’archivio delle tombe impossibili
L’archivio delle tombe impossibili
di Paolo Bernardini
Fonte: Tharros - Felix 4
La letteratura archeologica sarda, da Giovanni Spano a Giovanni Lilliu, conserva un importante nucleo di notizie che fanno riferimento all’esistenza di tombe individuali, a pozzetto, a fossa e a fossa costruita, così come a oggetti particolarmente significativi, come i bronzi figurati, provenienti da sepolcri di questo genere. Intendo valorizzare, in questo paragrafo, una ricerca lucidamente avviata da Raimondo Zucca in anni lontani (1981), a corollario di uno studio sulla statuaria nuragica a Narbolia, purtroppo mai edito e che l’autore, generosamente, mi ha esortato a riprendere. Sono evidentemente ben conscio che le notizie che mi appresto a ricordare sono oggi, nella forma in cui sono esposte, scientificamente inutilizzabili se non come spunto per l’avvio di una rigorosa ricerca sul campo che, sulla base dei pochi dati certi richiamati in precedenza, si ponga l’obiettivo di chiarire l’estensione e la sostanza reali delle necropoli del Ferro in Sardegna. È significativo che nessuno dei luoghi che citerò dappresso – ma neppure quelli meno nebulosi, legati ai ritrovamenti di Sardara e di Senorbì – siano stati interessati da ricerche ulteriori e da critici approfondimenti; giacimenti fondamentali come quelli di Antas, di Is Aruttas e di Monte Prama sono anch’essi indagati in modo parziale e preliminare. Mi pare estremamente pericoloso, partendo da una situazione obiettiva di generale “disattenzione” su queste tematiche, trasformare la lacuna della documentazione sulle necropoli del Ferro in Sardegna in un assunto storico netto e categorico: l’inesistenza di una cultura indigena viva e vitale in queste fasi storiche. L’assenza complessiva di un panorama articolato di necropoli del Ferro diventa infatti la conseguenza storica di un rapido tracollo della società nuragica alla fine del Bronzo, di un veloce annichilimento culturale la cui agonia emerge dagli sparsi e sbrindellati documenti che riusciamo a intravedere e che sono intesi in qualche modo come disorganici e incoerenti. Dell’archivio delle “tombe impossibili” fanno parte le notizie che ho già ricordato sul nuraghe Lunghenia di Oschiri e sul nuraghe Iselle di Tertenia, ma vi appartengono anche le tombe a inumazione segnate da stele incise ricordate da Contu nella località di Lazzaretto di Alghero o i pozzetti funerari rivestiti in pietra e coperti da lastrone segnalati ad Austis e a Tula da Spano; le tombe “circolari” di Sorgono, menzionate da Lilliu, da cui deriva un bronzo figurato, un milite con stocco e scudo sulle spalle; le tombe ritrovate nell’area della chiesa parrocchiale di Lanusei, che hanno restituito numerosi i discussi pendagli a catenelle desinenti in elementi lanceolati o quella, probabilmente a fossa, di Isili, registrata ancora da Spano, che conteneva una figura maschile in bronzo, o quella, a cassone e loculi laterali, di Gestori, che richiamava a Lilliu architetture funerarie dell’agro falisco e capenate. Vi sono quelle, a fossa o a pozzo, di Nurri, da cui proviene un bronzo figurato, o i numerosi pozzetti di Guasila o le tombe “costruite” di Ussana ricordate da Taramelli. Appartengono all’archivio anche quelle tombe di antica tradizione megalitica in cui vengono registrati elementi di “contaminazione”, di transizione verso nuovi rituali con l’apparizione di oggetti di corredo inconsueti: sono le tombe di giganti a filari regolari di pietre squadrate in regione Bopitos di Laerru descritte da Taramelli, con i defunti in posizione seduta o rannicchiata, la gigantesca sepoltura di un inumato segnalata da Spano a Oniferi, forse accompagnato da un cavallo, o quella, con i resti di una biga e altri bronzi, che lo stesso studioso descrive a Terranova; il sepolcro a corridoio di Paulilatino, che conteneva panelle e una navicella in bronzo, o quello, altrettanto imponente, in località Subbulè di Urzulei, con bronzi figurati e d’uso; il monumento a filari di blocchetti regolari di marna di Motrox’e Bois di Usellus, con cremazioni e inumazioni accompagnate da vaghi in ambra e vetro fuso, spilloni crinali e bracciali di rame. Un rapido sguardo alla carta distributiva relativa ai ritrovamenti certi e alle “tombe impossibili” (vedi immagine) dimostra quanto sia urgente abbandonare posizioni aprioristiche e attivare viceversa nuove ricerche e indagini mirate; il momento è del resto quanto mai opportuno, poiché finalmente emergono, su altri fronti, chiare testimonianze dell’esistenza di una cultura nuragica vitale e propulsiva nei primi secoli dell’Età del Ferro.
Nell'immagine la localizzazione delle tombe impossibili.
venerdì 16 agosto 2013
Archeologia in Sardegna. Dal villaggio nuragico Su Brunk'e Somu germina la Bannari storica
Archeologia in Sardegna. Dal villaggio nuragico Su Brunk'e Somu germina la Bannari storica
di Vitale Scanu
Morgongiori, Pau, Usellus, Villa Urbana…, ognuno di essi ha la sua parte montana di riferimento e di appartenenza. Anche Bannari (oggi Villa Verde) ha una zona di monte sulla quale fin dalla preistoria gravita, rappresentata dalla Mitza Mraxiãi e suoi dintorni.
A questa terra noi bannaresi moderni ci sentiamo appartenere in modo intimo e naturale. Ci sentiamo una scheggia di questa terra: più che dire questa terra appartiene a noi, è giusto dire che noi apparteniamo a questa terra. Viviamo da sempre in simbiosi con essa e con essa condividiamo l’aria, le acque, le temperie stagionali, il sole, su lugòri della notte, tutte le vicis-situdini belle o tristi, i lavori dei campi, perfino le cellule e gli atomi, invisibili ma pure in essa presenti, dei nostri padri antichi. Conosciamo intimamente ogni angolo, ogni siepe, ogni tratturo, ogni tana, ogni sentiero, e li chiamiamo addirittura per nome: Muntãiedda, Lĩus Arbus, Minda ‘Uréu, Giuabi, Mind’e Pira, Carongi’arrùbiu, Trunchéddu, Prã Monti, Padènti, Mitza Mraxiãi, sa Cannìga, Bosãu… Quando li pronunciamo ci si illumina un’idea, un’immagine localizzata ben precisa e unica. Quando diciamo “Atziaus a mònti”, ci si materializza una meta e un percorso ben chiari e definiti; se siamo sulla montagna e diciamo “Abaxiáus a bidda”, intendiamo immancabilmente quei viottoli sotto le ombre che andiamo a percorrere. Sentiamo la "nostra" montagna come casa nostra. Anche un abitatore preistorico ragionava così e così interagiva col territorio. Come noi diciamo “la nostra montagna”, così è lecito ipotizzare che i nostri antenati preistorici abbiano detto “la nostra valle”. Da tutto ciò, a dedurne che la Bannari storica è germinata dai preistorici abitatori di su Brunk’e s’Omu, il passo è assai breve. E il motivo è semplice: non c’è un discorso alternativo.
Un dato comprensorio, è stato rimarcato dagli etnologi, presenta identiche e marcate peculiarità nei suoi abitanti; al contrario, quelli che vivono ai margini di esso, esternano culture, usi, parlata, modi di vivere poco o tanto divergenti, estranei alle caratteristiche dell’area “nostra”. In altre parole: gli abitatori della montagna di Baini condividevano peculiarità identiche, che contribuivano a formare un comprensorio "bainese", caratteristiche rimaste inalterate lungo i secoli. Con il loro DNA essi ci hanno trasmesso, lungo una carsica continuità millenaria, anche il carattere (per gli animali diciamo sa intĩa), le attitudini e sicuramente pure tante parole del loro dialetto arcaico che noi a tutt’oggi usiamo nel parlare, e che non hanno riscontro, non solo con le semantiche di altre lingue conosciute, ma spesso neanche con particolari dialettali di comunità viciniori. Come il paesaggio bannarese si è mantenuto sostanzialmente identico, non adulterato da intrusioni o modifiche da parte dell’uomo, così abbiamo ereditato un paesaggio spirituale ed etnico condiviso con i nostri avi nuragici.
Dalla fase della caccia e della raccolta dei frutti spontanei, verso la fase della coltivazione, ossia dell’agricoltura. Conoscendo le cifre storiche del tracciato di civilizzazione percorso da tutti gli altri popoli e stabilendo analogie con quelli impliciti con la realtà dell’ossidiana, diciamo, a buona ragione, che il primitivo nucleo abitato di su Brunk’e s’Omu, situato a poche decine di metri dalla fonte di Mitza Mraxiãi (creduta acqua salutifera fin dai tempi più antichi), può essere ritenuto il fulcro antropico da cui, fin da tempi remotissimi, germinò una migrazione a valle originata dalla ricerca di un’esistenza più agevole, verso l’agricoltura. Noi, bannaresi di oggi, possiamo pertanto chiamare gli abitatori di su Brunk'e s'Omu i nostri “compaesani” della preistoria.
L’ubicazione montana del villaggio di questo villaggio era giustificata da una scelta elettiva, riconosciuta nei popoli primitivi, più per le alture che per le valli, per la presenza di ottime e abbondanti acque, per l’abbondanza della cacciagione, per l’aria più fine e salubre, per la vicinanza ai giacimenti dell’ossidiana, per essere un sito più adatto per la propria difesa, per essere un importante incrocio lungo l’asse pedemontano che correva lungo lo zoccolo sud-orientale dell’Arci. Il nucleo, riqualificato verosimilmente in periodo romano, slitterà verso un logico nuovo assetto più a valle: dalla pastorizia e dalla caccia verso l’agricoltura stanziale.
Ubicato ai piedi del nuraghe omonimo di tipo complesso (la cui esplorazione, condotta nel 2005 dai responsabili scientifici del sito: Emerenziana Usai, Giuseppina Ragucci, Carmen Locci, Gabriella Puddu e Sandrina Carta, ancora non è stata completata), il villaggio è ben definito nella descrizione che Diodoro Siculo (90-27 a.C., Bibliotheca historica, IV, 30) fa delle abitazioni dei coevi plessi nuragici degli Ilienses, «che hanno le proprie sedi sui monti, dove abitano certi luoghi impervi e di accesso difficile…, abituati a nutrirsi di latte e di carni, perché vivono di pastorizia e non hanno bisogno di grano. Abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie al posto di case, e così evitano con facilità i pericoli delle guerre. Perciò, quantunque i Cartaginesi ed i Romani spesso li abbiano inseguiti colle armi, non poterono mai ridurli all’obbedienza». E aggiunge: «Sebbene i Cartaginesi al vertice della loro potenza si fossero impadroniti dell’isola, non poterono però ridurre in servitù gli antichi possessori, essendosi gli Iliensi rifugiati sui monti ed ivi, fattesi abitazioni sottoterra, mantenendo quantità di bestiame, si alimentavano di latte, di formaggio e di carne, cose che avevano in abbondanza. Così, lontani dalle pianure, si sottrassero anche alle fatiche del coltivare la terra e seguitano ancora oggi a vivere sui monti, senza pensieri e senza fatiche, contenti dei cibi semplici… In tal modo essi si preservarono liberi»... «Infine, i romani, potentissimi per il loro vasto impero, avendo fatto spessissimo la guerra, per nessuna forza militare che impiegassero, poterono giungere a soggiogarli.»
Con corretta analogia possiamo giustapporre le abitazioni e la vita semplice ma libera degli abitatori di su Brunk’e s’Omu alla descrizione che lo storico greco fa dei villaggi e dei popoli nuragici. Essi hanno in comune non solo la loro primitiva condizione economico-sociale, ma soprattutto condividono lo status di uomini “liberi”, unici padroni di se stessi. E’ verosimile che, se lo storico Diodoro, vissuto nel primo secolo avanti Cristo, è nella condizione di descrivere tanto minuziosamente i popoli neolitici della Sardegna (come quello di su Brunk’e s’Omu), viventi ancora nelle loro condizioni primitive, questi uomini abbiano vissuto nelle condizioni neolitiche fino a incontrarsi con i romani.
di Vitale Scanu
Morgongiori, Pau, Usellus, Villa Urbana…, ognuno di essi ha la sua parte montana di riferimento e di appartenenza. Anche Bannari (oggi Villa Verde) ha una zona di monte sulla quale fin dalla preistoria gravita, rappresentata dalla Mitza Mraxiãi e suoi dintorni.
A questa terra noi bannaresi moderni ci sentiamo appartenere in modo intimo e naturale. Ci sentiamo una scheggia di questa terra: più che dire questa terra appartiene a noi, è giusto dire che noi apparteniamo a questa terra. Viviamo da sempre in simbiosi con essa e con essa condividiamo l’aria, le acque, le temperie stagionali, il sole, su lugòri della notte, tutte le vicis-situdini belle o tristi, i lavori dei campi, perfino le cellule e gli atomi, invisibili ma pure in essa presenti, dei nostri padri antichi. Conosciamo intimamente ogni angolo, ogni siepe, ogni tratturo, ogni tana, ogni sentiero, e li chiamiamo addirittura per nome: Muntãiedda, Lĩus Arbus, Minda ‘Uréu, Giuabi, Mind’e Pira, Carongi’arrùbiu, Trunchéddu, Prã Monti, Padènti, Mitza Mraxiãi, sa Cannìga, Bosãu… Quando li pronunciamo ci si illumina un’idea, un’immagine localizzata ben precisa e unica. Quando diciamo “Atziaus a mònti”, ci si materializza una meta e un percorso ben chiari e definiti; se siamo sulla montagna e diciamo “Abaxiáus a bidda”, intendiamo immancabilmente quei viottoli sotto le ombre che andiamo a percorrere. Sentiamo la "nostra" montagna come casa nostra. Anche un abitatore preistorico ragionava così e così interagiva col territorio. Come noi diciamo “la nostra montagna”, così è lecito ipotizzare che i nostri antenati preistorici abbiano detto “la nostra valle”. Da tutto ciò, a dedurne che la Bannari storica è germinata dai preistorici abitatori di su Brunk’e s’Omu, il passo è assai breve. E il motivo è semplice: non c’è un discorso alternativo.
Un dato comprensorio, è stato rimarcato dagli etnologi, presenta identiche e marcate peculiarità nei suoi abitanti; al contrario, quelli che vivono ai margini di esso, esternano culture, usi, parlata, modi di vivere poco o tanto divergenti, estranei alle caratteristiche dell’area “nostra”. In altre parole: gli abitatori della montagna di Baini condividevano peculiarità identiche, che contribuivano a formare un comprensorio "bainese", caratteristiche rimaste inalterate lungo i secoli. Con il loro DNA essi ci hanno trasmesso, lungo una carsica continuità millenaria, anche il carattere (per gli animali diciamo sa intĩa), le attitudini e sicuramente pure tante parole del loro dialetto arcaico che noi a tutt’oggi usiamo nel parlare, e che non hanno riscontro, non solo con le semantiche di altre lingue conosciute, ma spesso neanche con particolari dialettali di comunità viciniori. Come il paesaggio bannarese si è mantenuto sostanzialmente identico, non adulterato da intrusioni o modifiche da parte dell’uomo, così abbiamo ereditato un paesaggio spirituale ed etnico condiviso con i nostri avi nuragici.
Dalla fase della caccia e della raccolta dei frutti spontanei, verso la fase della coltivazione, ossia dell’agricoltura. Conoscendo le cifre storiche del tracciato di civilizzazione percorso da tutti gli altri popoli e stabilendo analogie con quelli impliciti con la realtà dell’ossidiana, diciamo, a buona ragione, che il primitivo nucleo abitato di su Brunk’e s’Omu, situato a poche decine di metri dalla fonte di Mitza Mraxiãi (creduta acqua salutifera fin dai tempi più antichi), può essere ritenuto il fulcro antropico da cui, fin da tempi remotissimi, germinò una migrazione a valle originata dalla ricerca di un’esistenza più agevole, verso l’agricoltura. Noi, bannaresi di oggi, possiamo pertanto chiamare gli abitatori di su Brunk'e s'Omu i nostri “compaesani” della preistoria.
L’ubicazione montana del villaggio di questo villaggio era giustificata da una scelta elettiva, riconosciuta nei popoli primitivi, più per le alture che per le valli, per la presenza di ottime e abbondanti acque, per l’abbondanza della cacciagione, per l’aria più fine e salubre, per la vicinanza ai giacimenti dell’ossidiana, per essere un sito più adatto per la propria difesa, per essere un importante incrocio lungo l’asse pedemontano che correva lungo lo zoccolo sud-orientale dell’Arci. Il nucleo, riqualificato verosimilmente in periodo romano, slitterà verso un logico nuovo assetto più a valle: dalla pastorizia e dalla caccia verso l’agricoltura stanziale.
Ubicato ai piedi del nuraghe omonimo di tipo complesso (la cui esplorazione, condotta nel 2005 dai responsabili scientifici del sito: Emerenziana Usai, Giuseppina Ragucci, Carmen Locci, Gabriella Puddu e Sandrina Carta, ancora non è stata completata), il villaggio è ben definito nella descrizione che Diodoro Siculo (90-27 a.C., Bibliotheca historica, IV, 30) fa delle abitazioni dei coevi plessi nuragici degli Ilienses, «che hanno le proprie sedi sui monti, dove abitano certi luoghi impervi e di accesso difficile…, abituati a nutrirsi di latte e di carni, perché vivono di pastorizia e non hanno bisogno di grano. Abitano in dimore sotterranee, scavandosi gallerie al posto di case, e così evitano con facilità i pericoli delle guerre. Perciò, quantunque i Cartaginesi ed i Romani spesso li abbiano inseguiti colle armi, non poterono mai ridurli all’obbedienza». E aggiunge: «Sebbene i Cartaginesi al vertice della loro potenza si fossero impadroniti dell’isola, non poterono però ridurre in servitù gli antichi possessori, essendosi gli Iliensi rifugiati sui monti ed ivi, fattesi abitazioni sottoterra, mantenendo quantità di bestiame, si alimentavano di latte, di formaggio e di carne, cose che avevano in abbondanza. Così, lontani dalle pianure, si sottrassero anche alle fatiche del coltivare la terra e seguitano ancora oggi a vivere sui monti, senza pensieri e senza fatiche, contenti dei cibi semplici… In tal modo essi si preservarono liberi»... «Infine, i romani, potentissimi per il loro vasto impero, avendo fatto spessissimo la guerra, per nessuna forza militare che impiegassero, poterono giungere a soggiogarli.»
Con corretta analogia possiamo giustapporre le abitazioni e la vita semplice ma libera degli abitatori di su Brunk’e s’Omu alla descrizione che lo storico greco fa dei villaggi e dei popoli nuragici. Essi hanno in comune non solo la loro primitiva condizione economico-sociale, ma soprattutto condividono lo status di uomini “liberi”, unici padroni di se stessi. E’ verosimile che, se lo storico Diodoro, vissuto nel primo secolo avanti Cristo, è nella condizione di descrivere tanto minuziosamente i popoli neolitici della Sardegna (come quello di su Brunk’e s’Omu), viventi ancora nelle loro condizioni primitive, questi uomini abbiano vissuto nelle condizioni neolitiche fino a incontrarsi con i romani.
giovedì 15 agosto 2013
Archeologia: strumenti musicali antichi. Tromba Celtica.
Tromba celtica.
Recentemente è stata presentata presso lo Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas, a Trento, la ricostruzione in ottone di una singolare tromba celtica che terminava in una testa d’animale. Usato dai Celti in battaglia per spaventare i nemici, il karnyx è oggi oggetto di uno studio diretto dalla Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici della Provincia autonoma di Trento. Alla presentazione sono intervenuti Paolo Bellintani e Rosa Roncador, archeologi della Soprintendenza, e Alessandro Ervas di Fucina Ervas che ha riprodotto lo strumento in base alle analisi archeometallurgiche effettuate sui frammenti del manufatto scoperti a Sanzeno. Invece, il Maestro Ivano Ascari, docente di tromba al Conservatorio Bonporti di Trento, ha affrontato gli aspetti legati alla produzione di suoni del karnyx, ed Elena Negriolli ha mostrato in anteprima alcune sequenze della pellicola realizzata da Decimarosa Video per illustrare le fasi della ricostruzione sperimentale.
Da quattro anni il progetto di ricerca sul Karnyx di Sanzeno si articola in scavi archeologici, curati da Rosa Roncador, di approfondite analisi sulla composizione del materiale della tromba, effettuati da Benoit Mille e Paolo Piccardo, rispettivamente del Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France e dell’Università degli Studi di Genova, e di raffronti con strumenti similari relativi ad altri ambiti culturali e cronologici, a cura di Roberto Melini, paleomusicologo e docente di pianoforte del Conservatorio Bonporti Trento.
Informazioni:
Provincia autonoma di Trento
Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici
sopr.librariarchivisticiarcheologici@provincia.tn.it
Recentemente è stata presentata presso lo Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas, a Trento, la ricostruzione in ottone di una singolare tromba celtica che terminava in una testa d’animale. Usato dai Celti in battaglia per spaventare i nemici, il karnyx è oggi oggetto di uno studio diretto dalla Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici della Provincia autonoma di Trento. Alla presentazione sono intervenuti Paolo Bellintani e Rosa Roncador, archeologi della Soprintendenza, e Alessandro Ervas di Fucina Ervas che ha riprodotto lo strumento in base alle analisi archeometallurgiche effettuate sui frammenti del manufatto scoperti a Sanzeno. Invece, il Maestro Ivano Ascari, docente di tromba al Conservatorio Bonporti di Trento, ha affrontato gli aspetti legati alla produzione di suoni del karnyx, ed Elena Negriolli ha mostrato in anteprima alcune sequenze della pellicola realizzata da Decimarosa Video per illustrare le fasi della ricostruzione sperimentale.
Da quattro anni il progetto di ricerca sul Karnyx di Sanzeno si articola in scavi archeologici, curati da Rosa Roncador, di approfondite analisi sulla composizione del materiale della tromba, effettuati da Benoit Mille e Paolo Piccardo, rispettivamente del Centre de Recherche et de Restauration des Musées de France e dell’Università degli Studi di Genova, e di raffronti con strumenti similari relativi ad altri ambiti culturali e cronologici, a cura di Roberto Melini, paleomusicologo e docente di pianoforte del Conservatorio Bonporti Trento.
Informazioni:
Provincia autonoma di Trento
Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici
sopr.librariarchivisticiarcheologici@provincia.tn.it
mercoledì 14 agosto 2013
I primi passi di un archeoastronomo
I primi passi di un archeoastronomo
di Mario Codebò, Membro IISL, SAIt
Ogni volta che a qualcuno racconto che m’interesso di archeoastronomia, invariabilmente mi sento porre una domanda: come sono pervenuto a occuparmi di archeoastronomia?
Galeotto fu il libro I misteri dell'antica Britannia: brutta versione italiana del più serio originale inglese Circles and Standing Stones, pubblicato nel 1975 da Evan Hadingam, un giornalista scientifico che ha divulgato i severi studi in materia condotti dai ricercatori anglosassoni, principalmente Alexander e Archibald Thom (padre e figlio) e Gerald Hawkins.
Non è neppure il caso di menzionare qui la ricca messe di risultati conseguita da tutti costoro: i curiosi e gli interessati potranno attingere a una bibliografia ormai vasta. All’epoca della lettura di questo libro, nel 1986, mi occupavo ormai da circa quattro anni di paletnologia, soddisfacendo così una mia antica passione germogliata fin dalla fanciullezza. Avevo già visitato tutti i principali siti archeologici del Finalese, percorso tutti i suoi sentieri segnati e mi accingevo a iscrivermi (come in effetti feci l’anno successivo) all'Istituto Internazionale di Studi Liguri, IISL.
La frequentazione della sezione Finalese dell’IISL, presso il Civico Museo Archeologico di Finale Ligure, mi aveva permesso di scoprire, tra le varie pubblicazioni, notizie riguardanti presunte strutture di tipo megalitico (non più di cinque) sparse su tutta la Liguria.
E così, stimolato dalla lettura del testo di Hadingam, più per interesse verso il megalitismo che verso l’archeoastronomia, andai a visitare i cosiddetti menhir di Torre Bastìa, nel territorio comunale di Borgio Verezzi (SV). Confesso, senza falsa modestia, che a prima vista mi resi conto del possibile allineamento di questa struttura sull’equinoziale. Così, tornato sul posto con bussola e altri strumenti, eseguii le misurazioni necessarie, trovando piena conferma della mia ipotesi.
Negli anni successivi, tornai due volte sul posto agli equinozi per fotografare il tramonto del Sole sull’allineamento tra la pietra eretta ed un palo (o una persona) posto ai piedi di quello coricato, dal lato corrispondente all'allineamento di poco meno i 270° (l’orizzonte visibile, infatti, è alto circa 60): ne risultarono due complete sequenze fotografiche che confermano visibilmente l'evento.
Assai meno fortunati furono i tentativi di fotografare, nella direzione opposta, l’alba equinoziale, perché entrambe le volte in cui dormii sul posto con la tenda, al mattino la spessa coltre di nubi occultò il Sole fino a tarda ora. I risultati di questo mio primo studio archeoastronomico sono stati pubblicati.
Dopo la fruttuosa esperienza con i menhir di Torre Bastia, estesi le ricerche agli altri "megaliti" segnalati e, successivamente, a quelli che, via via, con l'intensificarsi delle ricerche di superficie e la collaborazione tra alcuni ricercatori, venivano alla luce. Fu la volta della pietrafitta di Tríora (IM), del menhir di Cian da Munega (SV), del bellissimo dolmen di Verezzi (SV), vicinissimo a Torre Bastía; della pietra di Marcello Dalbuono, della pietra-altare sopra la grotta Strapatente e del circolo a tecnica megalìtìca di Camporotondo, tutti nel Finalese (SV); del complesso di Roccavignale in Val Bormida (SV) e del menhir di Tramonti (SP), oltreché di un certo numero di incisioni cruciformi, sempre nel Finalese, che si sono rivelate orientate verso i quattro punti cardinali, quasi fossero rudimentali rose dei venti.
di Mario Codebò, Membro IISL, SAIt
Ogni volta che a qualcuno racconto che m’interesso di archeoastronomia, invariabilmente mi sento porre una domanda: come sono pervenuto a occuparmi di archeoastronomia?
Galeotto fu il libro I misteri dell'antica Britannia: brutta versione italiana del più serio originale inglese Circles and Standing Stones, pubblicato nel 1975 da Evan Hadingam, un giornalista scientifico che ha divulgato i severi studi in materia condotti dai ricercatori anglosassoni, principalmente Alexander e Archibald Thom (padre e figlio) e Gerald Hawkins.
Non è neppure il caso di menzionare qui la ricca messe di risultati conseguita da tutti costoro: i curiosi e gli interessati potranno attingere a una bibliografia ormai vasta. All’epoca della lettura di questo libro, nel 1986, mi occupavo ormai da circa quattro anni di paletnologia, soddisfacendo così una mia antica passione germogliata fin dalla fanciullezza. Avevo già visitato tutti i principali siti archeologici del Finalese, percorso tutti i suoi sentieri segnati e mi accingevo a iscrivermi (come in effetti feci l’anno successivo) all'Istituto Internazionale di Studi Liguri, IISL.
La frequentazione della sezione Finalese dell’IISL, presso il Civico Museo Archeologico di Finale Ligure, mi aveva permesso di scoprire, tra le varie pubblicazioni, notizie riguardanti presunte strutture di tipo megalitico (non più di cinque) sparse su tutta la Liguria.
E così, stimolato dalla lettura del testo di Hadingam, più per interesse verso il megalitismo che verso l’archeoastronomia, andai a visitare i cosiddetti menhir di Torre Bastìa, nel territorio comunale di Borgio Verezzi (SV). Confesso, senza falsa modestia, che a prima vista mi resi conto del possibile allineamento di questa struttura sull’equinoziale. Così, tornato sul posto con bussola e altri strumenti, eseguii le misurazioni necessarie, trovando piena conferma della mia ipotesi.
Negli anni successivi, tornai due volte sul posto agli equinozi per fotografare il tramonto del Sole sull’allineamento tra la pietra eretta ed un palo (o una persona) posto ai piedi di quello coricato, dal lato corrispondente all'allineamento di poco meno i 270° (l’orizzonte visibile, infatti, è alto circa 60): ne risultarono due complete sequenze fotografiche che confermano visibilmente l'evento.
Assai meno fortunati furono i tentativi di fotografare, nella direzione opposta, l’alba equinoziale, perché entrambe le volte in cui dormii sul posto con la tenda, al mattino la spessa coltre di nubi occultò il Sole fino a tarda ora. I risultati di questo mio primo studio archeoastronomico sono stati pubblicati.
Dopo la fruttuosa esperienza con i menhir di Torre Bastia, estesi le ricerche agli altri "megaliti" segnalati e, successivamente, a quelli che, via via, con l'intensificarsi delle ricerche di superficie e la collaborazione tra alcuni ricercatori, venivano alla luce. Fu la volta della pietrafitta di Tríora (IM), del menhir di Cian da Munega (SV), del bellissimo dolmen di Verezzi (SV), vicinissimo a Torre Bastía; della pietra di Marcello Dalbuono, della pietra-altare sopra la grotta Strapatente e del circolo a tecnica megalìtìca di Camporotondo, tutti nel Finalese (SV); del complesso di Roccavignale in Val Bormida (SV) e del menhir di Tramonti (SP), oltreché di un certo numero di incisioni cruciformi, sempre nel Finalese, che si sono rivelate orientate verso i quattro punti cardinali, quasi fossero rudimentali rose dei venti.
martedì 13 agosto 2013
Archeoastronomia
Prime indagini archeoastronomiche in Liguria
di Mario Codebò
Abstract. The first results of some years lasted archaeoastronomical surveys, inquired into some Ligurian monuments selected on the grounds of their typological features, are expounded here.
1. INTRODUZIONE. (1)
Presento in questo lavoro i risultati fin qui ottenuti nelle indagini archeoastronomiche da me condotte in Liguria dal 1988 ad oggi privilegiando quei monumenti che, per la loro morfologia, appaiono inquadrabili nell'orizzonte culturale megalitico. In due soli casi sono state indagate strutture medioevali. Il presente studio deve in ogni caso intendersi come provvisorio: un primo punto di arrivo ma soprattutto un punto di partenza per future, approfondite indagini, da estendersi anche ad altri orizzonti cronologici. Come verrà via via segnalato, solo una parte delle misure può considerarsi definitiva, mentre un'altra parte resta in attesa di verifica. Nessuno dei dati, poi, è stato finora sottoposto a valutazione statistica, sicché nulla si può inferire circa l'intenzionalità o la casualità degli orientamenti riscontrati. A mio parere, però, un allineamento singolo ha lo stesso valore di un ritrovamento archeologico isolato di superficie. In definitiva, ho voluto eseguire una sorta di "saggio" per verificare la sussistenza o meno di presupposti giustificativi di future indagini di più vasto respiro, cosa del resto comunissima nella pratica archeologica. Vi è poi la questione delicata della presenza o meno del megalitismo nella nostra regione. Pur non potendo entrare nel dettaglio di tale importantissimo argomento, ritengo indispensabile riassumere per sommi capi la questione. Fino a pochissime decadi fa era opinione comune che la corrente megalitica si fosse arrestata al di là delle Alpi senza penetrare nella penisola. Unica eccezione ammessa era l'area pugliese, i cui dolmen, pietre fitte e specchie erano però attribuite a genti balcaniche migrate attraverso l'Adriatico. Da sempre, ovviamente, era noto che le isole del Mediterraneo avevano avuto un'evoluzione diversa. Le successive scoperte negli anni '50 da parte di S. M. Puglisi della così detta Civiltà Appenninica e negli anni '60 della necropoli eneolitica di Aosta, dimostrarono l'infondatezza di questa tesi (Bernardini 1977). In Liguria, solo nella seconda metà degli anni '80 sono stati identificati a N di Sanremo (IM) due tumuli sepolcrali circolari, uno dei quali, scavato dalla locale sezione dell'I.I.S.L., ha potuto essere attribuito alla fase finale dell'Età del Bronzo. Dimostrata così con metodi stratigrafici la penetrazione del megalitismo nella regione, presumibilmente dalla vicina Provenza, anche gli altri manufatti sparsi tra il confine francese e quello toscano e fino ad allora attribuiti, pur dubitativamente, alla civiltà contadina recente hanno assunto ben altro aspetto. Perciò la scarsità di reperti megalitici nella penisola a confronto con le regioni transalpine, specie settentrionali, deve trovare altra spiegazione. Questa potrebbe cercarsi nel maggiore avvicendamento di civiltà nel corso del tempo, fatto che da un lato ha trasformato più radicalmente l'aspetto del territorio, distruggendo molti monumenti, e dall'altro ha limitato quel conservatorismo culturale e di conseguenza materiale che si legge bene, invece, nelle più remote regioni d'Europa.
2. IL FINALESE (SV).
Quest'area, ricchissima di reperti archeologici praticamente ininterrotti dal Paleolitico Inferiore all'Età Contemporanea, ha fornito i risultati più interessanti: cinque strutture orientate ed alcuni petroglifi.
2.1. IL DOLMEN DI BORGIO VEREZZI. (2)
Lat. 44°10'23" N Long. 8°18'52" E Q.m. 302 s.l.m. (3)
Venne scoperto negli anni sessanta dal Gruppo Ricerche della Sezione Finalese dell'I.I.S.L. e pubblicato nel 1984 (Giuggiola 1984 pp. 67 69). Di esso e di altre strutture consimili della zona ho dato una dettagliata descrizione in un altro mio lavoro (Codebò c.s. 1°), perciò qui darò alcune note essenziali e gli ultimi aggiornamenti. Esso si trova sul penepiano di Borgio Verezzi, a poche centinaia di metri dal castellaro omonimo e dai supposti menhir di Torre Bastìa (cfr. infra); dalla Grotta dell'Antenna (Lamberti 1971 pp. 32 36), che ha restituito specifico materiale dell'Età del Rame, fra cui un'ascia; dalle altre grotte di Borgio Verezzi (Bernabò Brea 1947), fra cui la importantissima Grotta delle Arene Candide; da un petroglifo di recentissima scoperta raffigurante proprio l'ascia eneolitica. In sostanza, esso si trova in un'area ricca di rinvenimenti tipici dell'Eneolitico (III II millennio a.C.) cui sembra potersi tipologicamente attribuire. Al momento, però, risulta l'unico della zona ed il secondo del Finalese.
Ha forma esterna rettangolare, largo circa cm. 210, lungo cm. 190, alto cm. 110. La camera interna è lunga cm. 170, larga cm. 114 all'ingresso, circa cm. 120 a metà e cm. 90 al fondo, alta cm. 85. La sua forma interna è quella di un trapezio irregolare.
Il suolo è formato: nella metà anteriore, da pietre impilate una sull'altra per oltre cm. 50 di profondità; nella metà posteriore, di solo terriccio. All'epoca delle prime indagini (Giuggiola 1984) esso risultò del tutto sterile.
di Mario Codebò
Abstract. The first results of some years lasted archaeoastronomical surveys, inquired into some Ligurian monuments selected on the grounds of their typological features, are expounded here.
1. INTRODUZIONE. (1)
Presento in questo lavoro i risultati fin qui ottenuti nelle indagini archeoastronomiche da me condotte in Liguria dal 1988 ad oggi privilegiando quei monumenti che, per la loro morfologia, appaiono inquadrabili nell'orizzonte culturale megalitico. In due soli casi sono state indagate strutture medioevali. Il presente studio deve in ogni caso intendersi come provvisorio: un primo punto di arrivo ma soprattutto un punto di partenza per future, approfondite indagini, da estendersi anche ad altri orizzonti cronologici. Come verrà via via segnalato, solo una parte delle misure può considerarsi definitiva, mentre un'altra parte resta in attesa di verifica. Nessuno dei dati, poi, è stato finora sottoposto a valutazione statistica, sicché nulla si può inferire circa l'intenzionalità o la casualità degli orientamenti riscontrati. A mio parere, però, un allineamento singolo ha lo stesso valore di un ritrovamento archeologico isolato di superficie. In definitiva, ho voluto eseguire una sorta di "saggio" per verificare la sussistenza o meno di presupposti giustificativi di future indagini di più vasto respiro, cosa del resto comunissima nella pratica archeologica. Vi è poi la questione delicata della presenza o meno del megalitismo nella nostra regione. Pur non potendo entrare nel dettaglio di tale importantissimo argomento, ritengo indispensabile riassumere per sommi capi la questione. Fino a pochissime decadi fa era opinione comune che la corrente megalitica si fosse arrestata al di là delle Alpi senza penetrare nella penisola. Unica eccezione ammessa era l'area pugliese, i cui dolmen, pietre fitte e specchie erano però attribuite a genti balcaniche migrate attraverso l'Adriatico. Da sempre, ovviamente, era noto che le isole del Mediterraneo avevano avuto un'evoluzione diversa. Le successive scoperte negli anni '50 da parte di S. M. Puglisi della così detta Civiltà Appenninica e negli anni '60 della necropoli eneolitica di Aosta, dimostrarono l'infondatezza di questa tesi (Bernardini 1977). In Liguria, solo nella seconda metà degli anni '80 sono stati identificati a N di Sanremo (IM) due tumuli sepolcrali circolari, uno dei quali, scavato dalla locale sezione dell'I.I.S.L., ha potuto essere attribuito alla fase finale dell'Età del Bronzo. Dimostrata così con metodi stratigrafici la penetrazione del megalitismo nella regione, presumibilmente dalla vicina Provenza, anche gli altri manufatti sparsi tra il confine francese e quello toscano e fino ad allora attribuiti, pur dubitativamente, alla civiltà contadina recente hanno assunto ben altro aspetto. Perciò la scarsità di reperti megalitici nella penisola a confronto con le regioni transalpine, specie settentrionali, deve trovare altra spiegazione. Questa potrebbe cercarsi nel maggiore avvicendamento di civiltà nel corso del tempo, fatto che da un lato ha trasformato più radicalmente l'aspetto del territorio, distruggendo molti monumenti, e dall'altro ha limitato quel conservatorismo culturale e di conseguenza materiale che si legge bene, invece, nelle più remote regioni d'Europa.
2. IL FINALESE (SV).
Quest'area, ricchissima di reperti archeologici praticamente ininterrotti dal Paleolitico Inferiore all'Età Contemporanea, ha fornito i risultati più interessanti: cinque strutture orientate ed alcuni petroglifi.
2.1. IL DOLMEN DI BORGIO VEREZZI. (2)
Lat. 44°10'23" N Long. 8°18'52" E Q.m. 302 s.l.m. (3)
Venne scoperto negli anni sessanta dal Gruppo Ricerche della Sezione Finalese dell'I.I.S.L. e pubblicato nel 1984 (Giuggiola 1984 pp. 67 69). Di esso e di altre strutture consimili della zona ho dato una dettagliata descrizione in un altro mio lavoro (Codebò c.s. 1°), perciò qui darò alcune note essenziali e gli ultimi aggiornamenti. Esso si trova sul penepiano di Borgio Verezzi, a poche centinaia di metri dal castellaro omonimo e dai supposti menhir di Torre Bastìa (cfr. infra); dalla Grotta dell'Antenna (Lamberti 1971 pp. 32 36), che ha restituito specifico materiale dell'Età del Rame, fra cui un'ascia; dalle altre grotte di Borgio Verezzi (Bernabò Brea 1947), fra cui la importantissima Grotta delle Arene Candide; da un petroglifo di recentissima scoperta raffigurante proprio l'ascia eneolitica. In sostanza, esso si trova in un'area ricca di rinvenimenti tipici dell'Eneolitico (III II millennio a.C.) cui sembra potersi tipologicamente attribuire. Al momento, però, risulta l'unico della zona ed il secondo del Finalese.
Ha forma esterna rettangolare, largo circa cm. 210, lungo cm. 190, alto cm. 110. La camera interna è lunga cm. 170, larga cm. 114 all'ingresso, circa cm. 120 a metà e cm. 90 al fondo, alta cm. 85. La sua forma interna è quella di un trapezio irregolare.
Il suolo è formato: nella metà anteriore, da pietre impilate una sull'altra per oltre cm. 50 di profondità; nella metà posteriore, di solo terriccio. All'epoca delle prime indagini (Giuggiola 1984) esso risultò del tutto sterile.
lunedì 12 agosto 2013
Sardi, Shardana ed El Ahwat, di Giovanni Ugas
Sardi e Shardana: Le ragioni dell’identità e la questione di El Ahwat
di Giovanni Ugas
Recentemente, l'archeologo Giovanni Ugas ha parlato in Israele, in un convegno promosso dall’Università di Haifa, del ruolo degli Shardana del Vicino Oriente e della identificazione degli Shardana coi Sardi.
Finora sono decisamente limitate le ricerche sul terreno che hanno portato a individuare le tracce degli Shardana nel Vicino Oriente. Ricordo quelle di Moshè Dothan e di Jonathan Tubb. Non so se Adam Zertal avesse l’obiettivo di trovare a el Ahwat un insediamento degli Shardana, certo è che la sua indagine ha aperto una nuova strada investigativa sul campo che si innesta sull’antico percorso teorico avviato da De Rougée e da Chabas, quello dell’origine occidentale degli Shardana, troppo affrettatamente messo in disparte dall’archeologia e dalla storiografia dopo gli studi del Maspero. Con questo intervento, che procede lungo un analogo orientamento, intendo offrire il mio pensiero sulle problematiche dell’origine degli Shardana, sui loro possedimenti nel Vicino Oriente e sul significato di El Ahwat.
Presenze e stanziamenti degli Shardana nel Vicino Oriente
Nel Vicino Oriente al servizio dei re d’Egitto.
La storia degli Shardana nel Vicino Oriente inizia nel XV a.C. quando gli inviati delle Iww ḥiryw ib nw wɜḏ Wr, ossia delle “Isole nel cuore del Verde Grande” portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth,Tuthmosis III e Amenofi II nelle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira. Infatti, diverse ragioni sostengono che fossero Shardana questi isolani che insieme ai principi Cretesi di Kephtyu portavano i loro prodotti ai faraoni. Innanzitutto, il colorito rosso bruno della pelle e le caratteristiche fisionomiche, alcuni capi d’abbigliamento, le spade a robusta lama triangolare e forse già lo scudo tondo degli abitanti delle Isole nel cuore sono peculiari anche degli Shardana raffigurati nei rilievi di Ramesse II (Figura 1) e Ramesse III. Inoltre, tra le genti delle Isole nel cuore, gli Shardana sono i primi e i soli che per circa 150 anni, almeno da tempi di Amenofi IV (prima metà XIV a.C.) al regno di Meremptah (ultimo quarto XIII), risultano esplicitamente menzionati nei documenti egiziani. Peraltro, le tavolette di el Amarna e di Ugarit, sebbene risalenti al XIV a.C., contengono informazioni che fanno retrocedere già ai tempi di Tuthmosis III e Amenofi II la più antica presenza degli Shardana nelle guarnigioni delle cittadelle del Vicino Oriente.
Pertanto, quando salì al trono Ramesse II, gli Shardana non erano affatto ignoti agli Egizi. Già prima di Kadesh, il grande faraone li definì “guerrieri dal cuore risoluto, invincibili sul mare” e non a caso li considera un valido alleato contro gli Ittiti e gli altri popoli dell’Est e, fin dai primi anni del suo regno, gli Shardana formano il corpo di guardia e, non di meno, sono schierati nella fanteria a Dapur e a Kadesh, come si evince dalle immagini di queste battaglie e dal papiro Anastasi I. Mirando ad ampliare i domini egizi nelle province del Nord-Est, Ramesse II assolda anche Mashuesh e Kahek del Nord Africa, facendoli passare, come gli Shardana, da “prigionieri di guerra”, ma di fatto essi hanno lo status di soldati mercenari compensati con terre e altri benefici. In Egitto, oltre a essere stanziati in fortezze, gli Shardana risultano assegnatari di fertili campi soprattutto su una fascia di 80 km nel medio Egitto, lungo il corso del Nilo e del canale di Bahr Yusuf (Gardiner, Kemp). Altri mercenari continuarono a essere stanziati nel Vicino Oriente per il controllo delle guarnigioni provinciali.
Scomparso Ramesse II, l’intesa con gli Shardana e i popoli del Nord Africa va in frantumi e, anzi, tra gli ex alleati inizia un lungo conflitto durato 50 anni, dal 5° anno di Meremptah (circa il 1224) all’anno 11° di Ramesse III (circa 1170 a.C). La guerra, condotta dagli Shardana coalizzati con altri Popoli del Mare e i Nord Africani Mashuesh, Libi e altri, era finalizzata a raggiungere un obiettivo ambizioso: l’abbattimento dei più grandi imperi del Mediterraneo, a cominciare dall’Egitto e da Hatti; tale progetto non poteva essere concepito senza un esercito forte e numeroso, e senza un’adeguata strategia politica e militare. Nel disegno prefissato, i popoli del Nord Africa miravano a estendere i loro domini sino al delta occidentale del Nilo mentre gli Shardana e gli altri Popoli del Mare tendevano a impadronirsi delle terre a Est del grande fiume. L’obiettivo fu raggiunto al tempo di Ramesse III (Figura 2);
il re a mala pena riuscì a conservare le terre bagnate dal corso del Nilo. Nel tempio di Medinet Habu, Ramesse III sostiene che i Popoli del Mare travolsero l’impero ittita e “tutto l’orbe terrestre”, partendo dall’Amurru che divenne una fondamentale base d’appoggio per le loro campagne di guerra a sud e a Nord. Ovviamente, il re tace sulle sconfitte che portarono alla perdita delle sue terre provinciali nel Vicino Oriente e ritrae i re dei popoli nemici prigionieri tra cui il capo ribelle degli Shardana.
1.2. I domini degli Shardana nel Vicino Oriente
Non è semplice restituire la porzione di territorio assegnata agli Shardana nella ripartizione delle terre strappate a Ramesse III dai Popoli de Mare nel Vicino Oriente. È da credere, però che sulle scelte insediative dei singoli popoli, Pelaset, Sikali, Shardana, Wshesh e Dayniun, abbia pesato il ruolo di coordinamento, se non di leadership, assunto dagli Shardana per la precedente esperienza maturata in tre secoli di presenze nelle cittadelle egizie del Vicino Oriente, presumibilmente, oltre che a Ugarit e Biblo, anche a Tiro sulla costa e a Megiddo, Bet Shean e Hazor all’interno. È presumibile, in sostanza che gli Shardana si siano stabiliti in terre ben note e meglio confacenti alle loro strategie economiche e politiche. Ma dove precisamente?
L’Onomasticon di Amenope, della fine del XII a.C., informa che gli Shardana erano insediati in sequenza dopo i Pelaset e i Sikali (Tjekker) che, stando al racconto del sacerdote egizio Unamon, dimoravano nella regione di Dor. I testi egizi esaminati da Gardiner e da Yadin e le considerazioni di M. Dothan sui reperti del Miceneo IIIC di Akko inducono a pensare che gli Shardana si stanziarono non solo più a Nord, ma anche prima dei Filistei. Ciò premesso, il passo del Vecchio Testamento (Giudici 4,1-23) relativo alla sconfitta inflitta presso il rio Qishon dagli Israeliti di Barak e Deborah al generale Sisara, che aveva la sua sede in Haroshet ha Goiym ed era dunque a capo di stranieri (non Cananei), porta a ritenere che gli Shardana avessero conquistato, tra gli altri territori, la valle di Jezrael. Qui, si trovavano le città di Iokneam, Megiddo, Taanak e Ybleam che non furono occupate da Israele al tempo di Giosuè e dei Giudici (Giosuè 3-21; Giudici 1,27), così come Beth Shean. I confini dei domini degli Shardana dovevano raggiungere e attraversare la fascia pianeggiante immediatamente a est del Giordano, controllata a sud del lago Tiberiade da Beth Shean e verosimilmente da Sartan, l’odierna Tel Sa’id’iydia, nell’importante area metallurgica presso il guado di Adam (I Re 7,46, Giosuè 3,16), dove gli Shardana, secondo J. Tubb erano stanziati alle dipendenze degli Egizi, ma è da credere che poi si stabilissero in conto proprio.
di Giovanni Ugas
Recentemente, l'archeologo Giovanni Ugas ha parlato in Israele, in un convegno promosso dall’Università di Haifa, del ruolo degli Shardana del Vicino Oriente e della identificazione degli Shardana coi Sardi.
Finora sono decisamente limitate le ricerche sul terreno che hanno portato a individuare le tracce degli Shardana nel Vicino Oriente. Ricordo quelle di Moshè Dothan e di Jonathan Tubb. Non so se Adam Zertal avesse l’obiettivo di trovare a el Ahwat un insediamento degli Shardana, certo è che la sua indagine ha aperto una nuova strada investigativa sul campo che si innesta sull’antico percorso teorico avviato da De Rougée e da Chabas, quello dell’origine occidentale degli Shardana, troppo affrettatamente messo in disparte dall’archeologia e dalla storiografia dopo gli studi del Maspero. Con questo intervento, che procede lungo un analogo orientamento, intendo offrire il mio pensiero sulle problematiche dell’origine degli Shardana, sui loro possedimenti nel Vicino Oriente e sul significato di El Ahwat.
Presenze e stanziamenti degli Shardana nel Vicino Oriente
Nel Vicino Oriente al servizio dei re d’Egitto.
La storia degli Shardana nel Vicino Oriente inizia nel XV a.C. quando gli inviati delle Iww ḥiryw ib nw wɜḏ Wr, ossia delle “Isole nel cuore del Verde Grande” portano i loro doni per i re egizi Ashepsuth,Tuthmosis III e Amenofi II nelle tombe tebane dei visir Senmut, Useramon e Rekhmira. Infatti, diverse ragioni sostengono che fossero Shardana questi isolani che insieme ai principi Cretesi di Kephtyu portavano i loro prodotti ai faraoni. Innanzitutto, il colorito rosso bruno della pelle e le caratteristiche fisionomiche, alcuni capi d’abbigliamento, le spade a robusta lama triangolare e forse già lo scudo tondo degli abitanti delle Isole nel cuore sono peculiari anche degli Shardana raffigurati nei rilievi di Ramesse II (Figura 1) e Ramesse III. Inoltre, tra le genti delle Isole nel cuore, gli Shardana sono i primi e i soli che per circa 150 anni, almeno da tempi di Amenofi IV (prima metà XIV a.C.) al regno di Meremptah (ultimo quarto XIII), risultano esplicitamente menzionati nei documenti egiziani. Peraltro, le tavolette di el Amarna e di Ugarit, sebbene risalenti al XIV a.C., contengono informazioni che fanno retrocedere già ai tempi di Tuthmosis III e Amenofi II la più antica presenza degli Shardana nelle guarnigioni delle cittadelle del Vicino Oriente.
Pertanto, quando salì al trono Ramesse II, gli Shardana non erano affatto ignoti agli Egizi. Già prima di Kadesh, il grande faraone li definì “guerrieri dal cuore risoluto, invincibili sul mare” e non a caso li considera un valido alleato contro gli Ittiti e gli altri popoli dell’Est e, fin dai primi anni del suo regno, gli Shardana formano il corpo di guardia e, non di meno, sono schierati nella fanteria a Dapur e a Kadesh, come si evince dalle immagini di queste battaglie e dal papiro Anastasi I. Mirando ad ampliare i domini egizi nelle province del Nord-Est, Ramesse II assolda anche Mashuesh e Kahek del Nord Africa, facendoli passare, come gli Shardana, da “prigionieri di guerra”, ma di fatto essi hanno lo status di soldati mercenari compensati con terre e altri benefici. In Egitto, oltre a essere stanziati in fortezze, gli Shardana risultano assegnatari di fertili campi soprattutto su una fascia di 80 km nel medio Egitto, lungo il corso del Nilo e del canale di Bahr Yusuf (Gardiner, Kemp). Altri mercenari continuarono a essere stanziati nel Vicino Oriente per il controllo delle guarnigioni provinciali.
Scomparso Ramesse II, l’intesa con gli Shardana e i popoli del Nord Africa va in frantumi e, anzi, tra gli ex alleati inizia un lungo conflitto durato 50 anni, dal 5° anno di Meremptah (circa il 1224) all’anno 11° di Ramesse III (circa 1170 a.C). La guerra, condotta dagli Shardana coalizzati con altri Popoli del Mare e i Nord Africani Mashuesh, Libi e altri, era finalizzata a raggiungere un obiettivo ambizioso: l’abbattimento dei più grandi imperi del Mediterraneo, a cominciare dall’Egitto e da Hatti; tale progetto non poteva essere concepito senza un esercito forte e numeroso, e senza un’adeguata strategia politica e militare. Nel disegno prefissato, i popoli del Nord Africa miravano a estendere i loro domini sino al delta occidentale del Nilo mentre gli Shardana e gli altri Popoli del Mare tendevano a impadronirsi delle terre a Est del grande fiume. L’obiettivo fu raggiunto al tempo di Ramesse III (Figura 2);
il re a mala pena riuscì a conservare le terre bagnate dal corso del Nilo. Nel tempio di Medinet Habu, Ramesse III sostiene che i Popoli del Mare travolsero l’impero ittita e “tutto l’orbe terrestre”, partendo dall’Amurru che divenne una fondamentale base d’appoggio per le loro campagne di guerra a sud e a Nord. Ovviamente, il re tace sulle sconfitte che portarono alla perdita delle sue terre provinciali nel Vicino Oriente e ritrae i re dei popoli nemici prigionieri tra cui il capo ribelle degli Shardana.
1.2. I domini degli Shardana nel Vicino Oriente
Non è semplice restituire la porzione di territorio assegnata agli Shardana nella ripartizione delle terre strappate a Ramesse III dai Popoli de Mare nel Vicino Oriente. È da credere, però che sulle scelte insediative dei singoli popoli, Pelaset, Sikali, Shardana, Wshesh e Dayniun, abbia pesato il ruolo di coordinamento, se non di leadership, assunto dagli Shardana per la precedente esperienza maturata in tre secoli di presenze nelle cittadelle egizie del Vicino Oriente, presumibilmente, oltre che a Ugarit e Biblo, anche a Tiro sulla costa e a Megiddo, Bet Shean e Hazor all’interno. È presumibile, in sostanza che gli Shardana si siano stabiliti in terre ben note e meglio confacenti alle loro strategie economiche e politiche. Ma dove precisamente?
L’Onomasticon di Amenope, della fine del XII a.C., informa che gli Shardana erano insediati in sequenza dopo i Pelaset e i Sikali (Tjekker) che, stando al racconto del sacerdote egizio Unamon, dimoravano nella regione di Dor. I testi egizi esaminati da Gardiner e da Yadin e le considerazioni di M. Dothan sui reperti del Miceneo IIIC di Akko inducono a pensare che gli Shardana si stanziarono non solo più a Nord, ma anche prima dei Filistei. Ciò premesso, il passo del Vecchio Testamento (Giudici 4,1-23) relativo alla sconfitta inflitta presso il rio Qishon dagli Israeliti di Barak e Deborah al generale Sisara, che aveva la sua sede in Haroshet ha Goiym ed era dunque a capo di stranieri (non Cananei), porta a ritenere che gli Shardana avessero conquistato, tra gli altri territori, la valle di Jezrael. Qui, si trovavano le città di Iokneam, Megiddo, Taanak e Ybleam che non furono occupate da Israele al tempo di Giosuè e dei Giudici (Giosuè 3-21; Giudici 1,27), così come Beth Shean. I confini dei domini degli Shardana dovevano raggiungere e attraversare la fascia pianeggiante immediatamente a est del Giordano, controllata a sud del lago Tiberiade da Beth Shean e verosimilmente da Sartan, l’odierna Tel Sa’id’iydia, nell’importante area metallurgica presso il guado di Adam (I Re 7,46, Giosuè 3,16), dove gli Shardana, secondo J. Tubb erano stanziati alle dipendenze degli Egizi, ma è da credere che poi si stabilissero in conto proprio.
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