venerdì 25 settembre 2015
Archeologia. Alimentazione, ambiente ed economia al tempo dei nuraghi
Alimentazione, ambiente ed economia al tempo dei nuraghi
di Mauro Perra
Sembrerebbero tre temi diversi fra loro, ma in realtà sono in connessione.
L’alimentazione riguarda ciò di cui si nutrivano in quel periodo. Gli archeologi stanno scoprendo gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove ricerche archeologiche, che si avvalgono di nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e, passando ad un’economia di produzione, deve adottare strutture economiche.
La produzione umana dei beni di sussistenza, così come avviene nei nostri tempi, si impatta sull’ambiente. Le attività dell’uomo lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cominciato a pensare al nuraghe non più come la “cattedrale nel deserto”, procedendo alla descrizione di ogni singola pietra e di ogni ceramica trovata dentro l’edificio, ma si è iniziato a fare una serie di studi che riguardano i tre temi dell’argomento:alimentazione, economia e ambiente.
Si è iniziato a cambiare il paradigma dell’archeologia e si è capito che gli archeologi non erano più quelli che, armati di piccozza, dovevano recuperare i manufatti, ma dovevano raccogliere anche più dati possibile, con nuove tecnologie. Ricordiamo che lo scavo è distruttivo, e una volta distrutto non lo si può recuperare. Bisogna quindi documentarlo nel migliore dei modi, con fotografie, disegni e analisi, altrimenti dopo non rimane più niente. Già dagli anni Settanta, in varie zone d’Europa, venivano applicate nuove tecniche che affiancavano il lavoro degli archeologi, perché si capì la connessione fra ambiente e strutture costruite.
Abbiamo una situazione nella quale l’uomo si alimenta, e per farlo deve produrre. Le sue attività hanno un impatto sull’ambiente circostante e lo trasformano.
L’alimentazione non è un puro fatto gastrico. È un elemento culturale complesso e importante, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa una sorta di status symbol. Fino a pochi decenni fa c’era il pranzo dei morti: i parenti preparavano il pranzo per tutti i convenuti alla cerimonia funebre e la notte lasciavano qualcosa da mangiare per i defunti.
Se ci spostiamo nell’antichità greca, con il mito dei
centauri vediamo che la popolazione civile coltivava grano, coltivava la vite, cuoceva i cibi e beveva il vino con moderazione. I centauri, ossia gli uomini-cavallo, erano dei mostri perché vivevano nei boschi, non producevano ciò che mangiavano, bevevano smodatamente vino e adottavano costumi sessuali che li distinguevano dalla società.
Negli anni Ottanta, sono stati fatti per la prima volta degli scavi nel sito di Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes, chiamato così perché composto da due strutture monotorre ben distinte, unite da un tratto murario. Intorno c’è il villaggio che pare più recente delle torri. Lo scavo è stato effettuato dall’americano Gary Webster che ha poi pubblicato alcuni libri e diversi articoli in inglese. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia setacciare la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri. Questi ultimi sono frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati.
I tecnici, denominati carpologi, analizzando questi resti riescono a determinare la specie vegetale. Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Da ciò si deduce che conoscevano la differenza fra i due tipi. In Sardegna il grano selvatico non c’era, pertanto il grano coltivato arrivò dal vicino oriente, dove era conosciuto già dall’VIII Millennio a.C. Nell’isola, già dal Neolitico, abbiamo la coltivazione dei cereali, ossia il farricello e il farro, e ambedue arrivano dal vicino oriente grazie agli scambi commerciali fra popolazioni. Se ne deduce che la Sardegna, nel VI Millennio a.C, non era isolata e una delle prove di frequentazione è proprio l’utilizzo di piante addomesticate. Il grano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica.
Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghe, e al centro troviamo una tomba di giganti maestosa. In questi nuraghe si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. I reperti sono stati affidati ad un laboratorio del Texas, lo stesso che effettuò le analisi sui pollini contenuti nella resina di terebinto all’interno delle anfore del relitto dell’Età del Bronzo ritrovato nelle coste della Turchia, ad Ulu Burun. Nello specifico, saranno certamente interessanti i risultati finali ottenuti dall’analisi, che saranno pubblicati il prossimo anno.
Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, ossia nella stratigrafia del XIV a.C., nel materiale bruciato intorno ad un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
Nel nuraghe Nolza di Meana Sardo, si è utilizzata la tecnica della flottazione, e negli strati del XII a.C. sono stati trovati semi in cattive condizioni, tali da non riuscire a determinare se si tratta di grano tenero o duro.
Nel villaggio attorno al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, sul fondo dei dolii fracassati visibili al museo, cronologicamente attestati nel X a.C., sono stati trovati resti di semini carbonizzati di cereali. Migliaia di semi di grano tenero, duro e orzo. Un solo semino di farro. Nel vano 12 c’erano frammenti di un materiale scambiato per carbone, ma in realtà, ad un esame più attento fatto da un carpologo del Crns francese, esperto di alimentazione nel Mediterraneo dal Neolitico fino al medioevo, si è scoperto che si trattava di pane. Si distinguono la crosta, la mollica e le bollicine del gas, piccole e regolari, della fermentazione dovuta alla cottura. Sembrerebbe pane azzimo, ossia non lievitato. Non sappiamo se il pane di Villanovaforru fosse di grano, d’orzo o di ghiande perché dall’esame al microscopio non si può rilevare.
I cereali sono derrate solide a lunga conservazione, e ciò significa che coltivando il grano e l’orzo l’uomo deve, oltre a produrli, conservarli perché la produzione deve durare tutto l’anno ed è necessario avere semi aggiuntivi da piantare per la successiva stagione produttiva. Ne consegue che occorrono dei luoghi e degli oggetti dove conservare questi materiali. All’epoca l’indice di produttività era 1:6, ossia si ottenevano 6 semi da ogni seme piantato. Questo è un dato statistico, non si può avere la certezza perché nessuno di noi è vissuto a quei tempi per poterlo dimostrare. Oggi la proporzione è enormemente cresciuta e da ogni seme piantato si ottengono centinaia di semi.
Nel nuraghe Arrubiu di Orroli abbiamo due modalità di conservazione del grano: per la comunità e per la riserva familiare. La comunità conservava tutto in un silos, come si rileva dalla piccola torre con l’interno lastricato, alta 4.7 metri e scavata all’interno del nuraghe. All’interno di questo silos non c’erano ceramiche, ne ossa di animali, ne resti vegetali carbonizzati. C’è da considerare che il nuraghe è costruito in basalto, e questo materiale ha una reazione acida con le piogge e tende a non conservare i residui organici. Esiste un altro silos nella struttura, ma non è ancora stato scavato. È stato calcolato che la capienza era di 150 Q.li di grano, o orzo, di cui almeno 25 venivano conservati per la semina della stagione successiva. Il calcolo statistico rivela che il silos poteva alimentare per un anno circa 70/100 persone. Se anche l’altra torre fosse un silos, sarebbe dimostrabile che la popolazione di quella comunità era numerosa.
Nei nuraghe abbiamo testimonianza anche della presenza di legumi (favini e piselli), a dimostrazione che l’agricoltura era ben avviata e conosciuta nelle sue variabili. A Genna Maria sono stati trovati semini carbonizzati di lenticchie. Passando alle coltivazioni specializzate, possiamo analizzare l’ulivo. Sappiamo poco di questa pianta in Sardegna, ma siamo a conoscenza di ciò che accadeva nel resto del Mediterraneo. Così come per il grano, pensavamo che l’ulivo non nacque in Italia, Sardegna, nord-Africa o Spagna, ma arrivò dal vicino oriente. La biologia molecolare ha smentito categoricamente questa certezza. Le analisi del DNA dell’olivo hanno mostrato che l’olivo coltivato nel vicino oriente è diverso dall’ulivo selvatico mediterraneo. Da quest’ultimo, con l’addomesticazione, si arriva all’ulivo coltivato che conosciamo, pertanto oggi siamo certi che l’ulivo sardo non proviene dal vicino oriente. In uno strato del XV a.C. del Duos Nuraghes di Borore sono stati trovati alcuni semini carbonizzati di ulivo mediterraneo. Dall’analisi non si è stati in grado di dimostrare se si tratta della varietà selvatica o di quella addomesticata. Oggi non sappiamo dove siano conservati questi semini, ma se li ritrovassimo saremmo in grado, con le nuove tecniche di analisi morfologiche (ossia basate sulla forma), di risalire con dei calcoli matematici statistici precisi se si tratta di olivastri o di olivi coltivati. Tuttavia negli anni Ottanta in Corsica, l’isola nostra gemella, nello scavo di un sito del Neolitico medio (V Millennio a.C.), a Saint Florence nell’alta Corsica, hanno trovato le tracce dei tessuti vegetali dei fiscoli, ossia quegli elementi in tessuto vegetale che servono per ricavare l’olio dalla spremitura delle olive. I semini carbonizzati erano di olivastro, e non di olivo coltivato, ma stiamo parlando di 2500 anni prima dei nuraghe. Questo suggerisce che in Sardegna conoscevano pressappoco le stesse tecniche e ottenevano gli stessi risultati.
Sulla base di documenti che ci arrivano dall’analisi chimica delle argille dei vasi trovati in Sardegna, ad esempio quello miceneo di Orroli, dipinto e fatto al tornio, si è risaliti alla provenienza, e si è scoperto che la sua origine è in Argolide, nel nord del Peloponneso. Questo tipo di vaso, denominato alabastron, è un contenitore di unguenti a base di olio che circolava in tutto il Mediterraneo. Un altro vaso, un grosso dolio, ritrovato nel nuraghe Antigori di Sarroch, è identico a quelli utilizzati a Creta come contenitori di olio.
Un’altra coltivazione specializzata è quella della vite, e possiamo affermare che i sardi nuragici conoscevano anche questa pianta. In Sardegna sono state calcolate circa 250 specie di vite selvatica, e ancora oggi possiamo vederle arrampicarsi come liane sugli alberi del bosco “ripario”, quello vicino ai fiumi. La differenza fra la vite selvatica e quella domestica è che quella selvatica presenta piante maschili e femminili. Quella maschile deve andare ad impollinare e fecondare quella femminile. Solo il 3% delle specie selvatiche presenta sia i fiori maschili che quelli femminili, per cui si impollina da sola. L’uomo, come per il grano e altre piante, ha selezionato quel 3% e ha trasformato la vite selvatica in vite coltivata. Una considerazione da fare è che i siti di coltivazione dell’uva possono essere differenti da quelli di produzione del vino. L’uva può essere prodotta anche per la consumazione diretta.
Il vino più antico lo abbiamo nel vicino oriente, sui monti Zagros iraniani, dove hanno trovato dei piccoli dolii e, in base alle analisi chimiche effettuate, si è scoperto che contenevano vino. Un frammento includeva ancora, a distanza di 6000 anni, un residuo di deposito di colore giallastro. L’analisi ha mostrato tracce di resina di pistacchio e acido tartarico, il primo componente del vino. Il pistacchio è importante perché ha una reazione chimica, se inserito nel vino, che permette di uccidere l’aceto bacter, ossia quel batterio che provoca la trasformazione del vino in aceto.
In Sardegna abbiamo la testimonianza della coltivazione della vite sempre a Duos Nuraghes, dove sono stati rinvenuti semini carbonizzati di vinacciuoli negli strati del XIV a.C.
Anche nel nuraghe Genna Maria a Villanovaforru sono stati ritrovati i vinacciuoli, ma databili al X a.C, e leggermente più piccoli di quelli precedenti. Quelli del Duos Nuraghes sono stati studiati da Corry Bakels, una ricercatrice olandese che non si occupa di produzioni viti-vinicole del Mediterraneo. Nel 2001, non essendo esperta in materia, le ha definite specie selvatiche, mentre ha definito specie coltivate quelli di Villanovaforru. Fra le due tipologie ci sono tre secoli di differenza e, dopo altre analisi, a cura di un esperto di produzioni alimentari del Mediterraneo, si è scoperto che le specie di Duos Nuraghes non sono selvatiche, ma in fase avanzata di domesticazione. Il XIV a.C. è un momento nel quale l’uomo sta intervenendo sul vitigno selvatico per ottenerne la specie coltivata.
Negli anni Novanta è stato scavato il nuraghe complesso Adoni di Villanovatulo, cronologicamente attestato al XIV a.C. Negli strati del XII a.C. del villaggio intorno al nuraghe, dentro una delle capanne hanno trovato degli acini di vite coltivata. Due anni fa, a Cabras, nella zona del ponte di Brabao, nel lavoro di costruzione di una rotonda stradale, hanno fatto uno scavo che ha portato alla luce un villaggio nuragico. Le capanne, del XIII a.C., erano infossate nel sottosuolo ed erano ricoperte da elementi vegetali. In tutta la zona, che stava attorno agli stagni di Cabras, ci sono dei pozzi. Lo scavo ha mostrato tantissimo materiale perché conteneva ancora acqua, ed essendo l’ambiente poverissimo di ossigeno, quei batteri che consumano i resti vegetali non sono sopravvissuti. Inoltre, sono stati recuperati pezzi di bastoni, strumenti di legno e migliaia di semini non carbonizzati, fra i quali era presente la vite coltivata. Insieme a questi c’erano semini di fico. Fino a qualche decennio fa, per aumentare la gradazione dello zuccherino del vino, si aggiungevano i fichi secchi nel mosto. Alla fine del processo di vinificazione si otteneva un grado alcolico più alto. Siamo dunque di fronte a genti esperte nella manipolazione delle piante. Il buono stato di conservazione dei semini ha consentito analisi dettagliate sulle specie, e si sono scoperte coltivazioni orticole e frutta. Abbiamo quindi un dato importante: i vitigni sardi precedono di almeno 3 secoli l’arrivo dei fenici in Sardegna.
In certi vasi della Sardegna si è iniziato a fare analisi simili a quelle del vaso iraniano di Zagros. In un vaso askos (una brocchetta) trovato nel nuraghe Bau Nuraxi di Triei, in uno strato datato al C14 al 1000 a.C., le analisi chimiche hanno mostrato notevoli tracce di acido tartarico, e da ciò deduciamo che conteneva vino. Per stabilire il tipo di vitigno bisogna fare alcune analisi specifiche. In età romana pare fosse importante il bovale, o muristellu. I semini di Genna Maria sono stati fatti analizzare e i primi risultati di comparazione con altri 250 vitigni, indicano il vino cannonau. I dati sono ancora incompleti e bisognerà attendere il verdetto finale.
L’uomo nuragico si alimenta quindi di cereali, legumi, coltivazioni specializzate e trasforma l’ambiente. Una equipe spagnola dell’Università Complutense di Madrid, ha effettuato delle indagini dei pollini dei diversi strati nel nuraghe Arrubiu di Orroli e in altri nuraghe del Pranu ‘e Muru fra Orroli e Nurri. Hanno prelevato dei campioni di terra e analizzato tutto al microscopio. Sappiamo che i pollini resistono per millenni, e osservandoli al microscopio, dalla forma e dal tipo, si può riconoscere la specie arborea alla quale appartengono.
Gli studiosi hanno fatto dei prelievi nel vespaio, nello strato del XIV a.C., quando si spianò il terreno per costruire il nuraghe (lo strato 15, mentre lo strato 16 è la roccia naturale). È lo stesso strato che ha restituito il vaso miceneo, e si è scoperto che l’80% dei pollini sono di specie arboree, ossia alberi e bosco. In particolare si trattava di querce caducifoglie (roverella) e perennifoglie (leccio), frassino, ontano, olmo e ginepro. Il 13 % erano pollini di specie erbacee, importanti perché stabiliscono l’impatto dell’uomo sull’ambiente e aiutano a stabilire il clima dell’epoca. In base ai risultati si rileva che era temperato, come accade anche in altre zone del Mediterraneo. Nello strato successivo, quello del XIII a.C., il bosco si riduce al 40 %, aumenta il cisto, sintomo di degrado del bosco, e aumentano le specie erbacee legate in particolare alle coltivazioni (nitrofite). Si tratta di specie parassite come la cicoria, il papavero, l’ortica e altre, che crescono intorno agli spazi creati dall’uomo. Ci sono anche microfossili pollinici, riconoscibili al microscopio come spore, ossia funghi. Aumenta notevolmente la presenza di funghi che nascono a seguito di situazioni di incendi, come il ketonium o la lignaria, Aumentano parecchio anche i funghi coprofiti, che nascono nel letame animale, e sono indicatori di terreno dedicato al pascolo. Assistiamo dunque ad un bosco che nel XIII a.C. diventa aperto e riporta tracce di incendio. Probabilmente i nuragici hanno incendiato il bosco ottenendo radure per poter coltivare cereali e allevare il bestiame.
Nel XII a.C., l’ultima fase della stratigrafia analizzata, il bosco si riduce al 20 %. La quercia scompare quasi totalmente. Si salva solo il bosco ripario, cioè quello che cresce vicino al fiume. Aumenta notevolmente la quantità di pollini di cereali e di funghi coprofiti legati alla presenza di letame animale. Inizia ad apparire il glomus fasciculatum, un fungo che cresce in situazioni di grave degrado dei suoli, quando sono erosi o troppo sfruttati. Questi dati sui pollini sono stati pubblicati in riviste scientifiche e in un libro del 2005 dell’Università Complutense di Madrid, pertanto sono affidabili e dobbiamo tenerne conto. Da questa analisi si può ipotizzare una situazione che vede l’uomo che trova il bosco, lo taglia e lo brucia per ottenere produzione cerealicola e allevamento, senza preoccuparsi più di tanto del degrado dell’ambiente.
Per quanto riguarda l’allevamento e la caccia, ossia la produzione di carne, nel nuraghe Sa Fogaia di Siddi, uno dei 16 nuraghe presenti nella piccola giara, gli zooarcheologi hanno recuperato negli strati i resti di pasto. Le cognizioni di biologia animale di questi tecnici consentono di ottenere informazioni sulla specie, l’età di abbattimento, le tecniche di macellazione e il sesso. Il materiale osseo recuperato è limitato a causa della consunzione causata dalla reazione acida del basalto. Questi pochi resti mostrano l’allevamento delle tre specie principali del Mediterraneo: ovi-caprini, suini e bovini. Ma la produzione era orientata soprattutto verso gli agnelli da latte, per la carne. La macellazione in età giovane degli agnelli, permette alla madre di liberarsi dall’allattamento e produrre più latte per il consumo della comunità. Un dato da tener presente è che gli ovi-caprini, rispetto ai bovini e ai suini, sono profondamente impattanti sull’ambiente.
Nel protonuraghe Bruncu Madugui di Gesturi, del XV a.C., la produzione di bovini è molto importante, e abbiamo anche segni che mostrano l’attività della caccia. Ciò dimostra che la Giara, in quel periodo, era sufficientemente ricca di risorse, tanto da sopportare la presenza di questi grandi mammiferi. Il dato è confermato dal fatto che il cervo è presente in percentuale apprezzabile. Dove troviamo il cervo possiamo essere certi che il bosco è quasi intatto. Sono stati recuperati anche resti di prolagus sardus, un roditore oggi estinto, riccio, volpe e perfino resti di cane, forse utilizzato per la caccia.
A Pizzugunnu di Lunamatrona, cronologicamente attestato al XIV a.C., la situazione cambia, e le analisi sui resti delle ossa mostrano una prevalenza non dei bovini ma dei suini e, in misura minore, gli ovi-caprini. Influisce senz’altro il fatto che siamo in pianura e l’ambiente intorno a questo nuraghe era diverso rispetto a quello delle giare. Queste ultime si trovano oltre i 500 metri di altitudine. Si nota la completa assenza di ossa di cervo, evidentemente non c’erano boschi e questo ambiente non poteva sopportare la presenza di grossi erbivori.
I dati sulla macellazione dei suini hanno mostrato un risultato importante: l’età di abbattimento era entro i sei mesi, quindi i maialetti erano apprezzati anche allora.
In una capanna del nuraghe di Barumini, negli strati profondi del villaggio, quelli del XIII a.C., c’era un grande focolare in argilla, del diametro di un metro circa, coperto da un grosso strato di cenere, pavimentato con strati sovrapposti di argilla battuta e cotta, e sfoglie di sughero per impermeabilizzare. Nel pavimento c’erano 44 forellini che bucavano per qualche centimetro il pavimento dell’intero perimetro circolare del focolare. Probabilmente erano gli spiedi disposti in verticale per cuocere i porchetti.
Al nuraghe Arrubiu il numero degli ovi-caprini è decisamente superiore a quello dei bovini, ma bisogna tener presente che il valore economico della carne di pecora, rispetto alla carne di un bovino è molto inferiore, quindi la proporzione è giustificata. Lo scambio di un bovino richiedeva 2 maiali e mezzo o 5 pecore. La zooarcheologa che ha lavorato all’Arrubiu ha censito almeno 10 esemplari bovini. Se facciamo un confronto prendendo in considerazione i pollini esaminati a Orroli, notiamo subito che la presenza dei grossi mammiferi e della caccia è normale in una zona boscosa come quella dell’Arrubiu del XIV a.C., e i pollini delle specie arboree erano intorno al 80%. Il secolo seguente diminuiscono i bovini, a causa del rarefarsi della superficie boscosa, tagliata e bruciata dai nuragici, e aumentano considerevolmente i suini e gli ovi-caprini. Nel XII a.C. scompaiono le ossa di cervo, i bovini sono pochissimi e la caccia si orienta verso il prolagus, il riccio, la volpe e i volatili. L’ambiente era degradato e l’uomo si adattò all’ambiente del periodo inserendo gli ovi-caprini.
Arrivando al periodo X-IX a.C. possiamo esaminare la situazione del Genna Maria di Villanovaforru. Dopo due secoli riappaiono i bovini, come accade anche a Sant’Anastasia di Sardara e all’Arrubiu di Orroli. Il clima e l’ambiente migliorano. Abbiamo una fase di transizione fra la fase climatica sub boreale temperata, e la fase sub Atlantica, più fredda e piovosa, nella quale viviamo ancora oggi. La vegetazione spontanea cresce meglio ed è abbondante, i suoli si sono rigenerati, e questi dati sono verificabili in tutto il Mediterraneo fin dentro il medioevo. In epoca romana si distrusse tutto per creare i latifondi per la produzione cerealicola, ma nel medioevo questa produzione cessò e il bosco riprese gli spazi che gli erano stati tolti.
Nel cortile del nuraghe Arrubiu, nello strato del XII a.C. sono stati trovati un bacile, il pozzo, un focolare e un bancone con un sedile. In questo strato sono state trovate anche varie ceramiche, una brocchetta, un alare, ossia un sostegno per spiedo, e altri elementi che suggeriscono un utilizzo come luogo deputato ai banchetti, a base di carne arrosto. La zooarcheologa che ha indagato il sito ha trovato tracce di bruciatura, sui resti di pasto, ben 4 volte superiori rispetto alle fasi precedenti. Nel nuraghe Arrubiu gli archeologi hanno trovato anche resti di fauna ittica come mitili, cozze, ostriche e altri cibi. Purtroppo gli esami sono complessi perché la lisca del pesce non si conserva a causa dell’acidità del basalto.
Le mmagini del nuraghe Bighinzones di Borore e del nuraghe Orosai di Birori, sono tratte da viaggioinsardegna.it
L'immagine del Nuraghe Arrubiu è tratta da rete.comuni-italiani.it
di Mauro Perra
Sembrerebbero tre temi diversi fra loro, ma in realtà sono in connessione.
L’alimentazione riguarda ciò di cui si nutrivano in quel periodo. Gli archeologi stanno scoprendo gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove ricerche archeologiche, che si avvalgono di nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e, passando ad un’economia di produzione, deve adottare strutture economiche.
La produzione umana dei beni di sussistenza, così come avviene nei nostri tempi, si impatta sull’ambiente. Le attività dell’uomo lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante e, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è cominciato a pensare al nuraghe non più come la “cattedrale nel deserto”, procedendo alla descrizione di ogni singola pietra e di ogni ceramica trovata dentro l’edificio, ma si è iniziato a fare una serie di studi che riguardano i tre temi dell’argomento:alimentazione, economia e ambiente.
Si è iniziato a cambiare il paradigma dell’archeologia e si è capito che gli archeologi non erano più quelli che, armati di piccozza, dovevano recuperare i manufatti, ma dovevano raccogliere anche più dati possibile, con nuove tecnologie. Ricordiamo che lo scavo è distruttivo, e una volta distrutto non lo si può recuperare. Bisogna quindi documentarlo nel migliore dei modi, con fotografie, disegni e analisi, altrimenti dopo non rimane più niente. Già dagli anni Settanta, in varie zone d’Europa, venivano applicate nuove tecniche che affiancavano il lavoro degli archeologi, perché si capì la connessione fra ambiente e strutture costruite.
Abbiamo una situazione nella quale l’uomo si alimenta, e per farlo deve produrre. Le sue attività hanno un impatto sull’ambiente circostante e lo trasformano.
L’alimentazione non è un puro fatto gastrico. È un elemento culturale complesso e importante, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa una sorta di status symbol. Fino a pochi decenni fa c’era il pranzo dei morti: i parenti preparavano il pranzo per tutti i convenuti alla cerimonia funebre e la notte lasciavano qualcosa da mangiare per i defunti.
Se ci spostiamo nell’antichità greca, con il mito dei
centauri vediamo che la popolazione civile coltivava grano, coltivava la vite, cuoceva i cibi e beveva il vino con moderazione. I centauri, ossia gli uomini-cavallo, erano dei mostri perché vivevano nei boschi, non producevano ciò che mangiavano, bevevano smodatamente vino e adottavano costumi sessuali che li distinguevano dalla società.
Negli anni Ottanta, sono stati fatti per la prima volta degli scavi nel sito di Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes, chiamato così perché composto da due strutture monotorre ben distinte, unite da un tratto murario. Intorno c’è il villaggio che pare più recente delle torri. Lo scavo è stato effettuato dall’americano Gary Webster che ha poi pubblicato alcuni libri e diversi articoli in inglese. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia setacciare la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri. Questi ultimi sono frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati.
I tecnici, denominati carpologi, analizzando questi resti riescono a determinare la specie vegetale. Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Da ciò si deduce che conoscevano la differenza fra i due tipi. In Sardegna il grano selvatico non c’era, pertanto il grano coltivato arrivò dal vicino oriente, dove era conosciuto già dall’VIII Millennio a.C. Nell’isola, già dal Neolitico, abbiamo la coltivazione dei cereali, ossia il farricello e il farro, e ambedue arrivano dal vicino oriente grazie agli scambi commerciali fra popolazioni. Se ne deduce che la Sardegna, nel VI Millennio a.C, non era isolata e una delle prove di frequentazione è proprio l’utilizzo di piante addomesticate. Il grano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica.
Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghe, e al centro troviamo una tomba di giganti maestosa. In questi nuraghe si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. I reperti sono stati affidati ad un laboratorio del Texas, lo stesso che effettuò le analisi sui pollini contenuti nella resina di terebinto all’interno delle anfore del relitto dell’Età del Bronzo ritrovato nelle coste della Turchia, ad Ulu Burun. Nello specifico, saranno certamente interessanti i risultati finali ottenuti dall’analisi, che saranno pubblicati il prossimo anno.
Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, ossia nella stratigrafia del XIV a.C., nel materiale bruciato intorno ad un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
Nel nuraghe Nolza di Meana Sardo, si è utilizzata la tecnica della flottazione, e negli strati del XII a.C. sono stati trovati semi in cattive condizioni, tali da non riuscire a determinare se si tratta di grano tenero o duro.
Nel villaggio attorno al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, sul fondo dei dolii fracassati visibili al museo, cronologicamente attestati nel X a.C., sono stati trovati resti di semini carbonizzati di cereali. Migliaia di semi di grano tenero, duro e orzo. Un solo semino di farro. Nel vano 12 c’erano frammenti di un materiale scambiato per carbone, ma in realtà, ad un esame più attento fatto da un carpologo del Crns francese, esperto di alimentazione nel Mediterraneo dal Neolitico fino al medioevo, si è scoperto che si trattava di pane. Si distinguono la crosta, la mollica e le bollicine del gas, piccole e regolari, della fermentazione dovuta alla cottura. Sembrerebbe pane azzimo, ossia non lievitato. Non sappiamo se il pane di Villanovaforru fosse di grano, d’orzo o di ghiande perché dall’esame al microscopio non si può rilevare.
I cereali sono derrate solide a lunga conservazione, e ciò significa che coltivando il grano e l’orzo l’uomo deve, oltre a produrli, conservarli perché la produzione deve durare tutto l’anno ed è necessario avere semi aggiuntivi da piantare per la successiva stagione produttiva. Ne consegue che occorrono dei luoghi e degli oggetti dove conservare questi materiali. All’epoca l’indice di produttività era 1:6, ossia si ottenevano 6 semi da ogni seme piantato. Questo è un dato statistico, non si può avere la certezza perché nessuno di noi è vissuto a quei tempi per poterlo dimostrare. Oggi la proporzione è enormemente cresciuta e da ogni seme piantato si ottengono centinaia di semi.
Nel nuraghe Arrubiu di Orroli abbiamo due modalità di conservazione del grano: per la comunità e per la riserva familiare. La comunità conservava tutto in un silos, come si rileva dalla piccola torre con l’interno lastricato, alta 4.7 metri e scavata all’interno del nuraghe. All’interno di questo silos non c’erano ceramiche, ne ossa di animali, ne resti vegetali carbonizzati. C’è da considerare che il nuraghe è costruito in basalto, e questo materiale ha una reazione acida con le piogge e tende a non conservare i residui organici. Esiste un altro silos nella struttura, ma non è ancora stato scavato. È stato calcolato che la capienza era di 150 Q.li di grano, o orzo, di cui almeno 25 venivano conservati per la semina della stagione successiva. Il calcolo statistico rivela che il silos poteva alimentare per un anno circa 70/100 persone. Se anche l’altra torre fosse un silos, sarebbe dimostrabile che la popolazione di quella comunità era numerosa.
Nei nuraghe abbiamo testimonianza anche della presenza di legumi (favini e piselli), a dimostrazione che l’agricoltura era ben avviata e conosciuta nelle sue variabili. A Genna Maria sono stati trovati semini carbonizzati di lenticchie. Passando alle coltivazioni specializzate, possiamo analizzare l’ulivo. Sappiamo poco di questa pianta in Sardegna, ma siamo a conoscenza di ciò che accadeva nel resto del Mediterraneo. Così come per il grano, pensavamo che l’ulivo non nacque in Italia, Sardegna, nord-Africa o Spagna, ma arrivò dal vicino oriente. La biologia molecolare ha smentito categoricamente questa certezza. Le analisi del DNA dell’olivo hanno mostrato che l’olivo coltivato nel vicino oriente è diverso dall’ulivo selvatico mediterraneo. Da quest’ultimo, con l’addomesticazione, si arriva all’ulivo coltivato che conosciamo, pertanto oggi siamo certi che l’ulivo sardo non proviene dal vicino oriente. In uno strato del XV a.C. del Duos Nuraghes di Borore sono stati trovati alcuni semini carbonizzati di ulivo mediterraneo. Dall’analisi non si è stati in grado di dimostrare se si tratta della varietà selvatica o di quella addomesticata. Oggi non sappiamo dove siano conservati questi semini, ma se li ritrovassimo saremmo in grado, con le nuove tecniche di analisi morfologiche (ossia basate sulla forma), di risalire con dei calcoli matematici statistici precisi se si tratta di olivastri o di olivi coltivati. Tuttavia negli anni Ottanta in Corsica, l’isola nostra gemella, nello scavo di un sito del Neolitico medio (V Millennio a.C.), a Saint Florence nell’alta Corsica, hanno trovato le tracce dei tessuti vegetali dei fiscoli, ossia quegli elementi in tessuto vegetale che servono per ricavare l’olio dalla spremitura delle olive. I semini carbonizzati erano di olivastro, e non di olivo coltivato, ma stiamo parlando di 2500 anni prima dei nuraghe. Questo suggerisce che in Sardegna conoscevano pressappoco le stesse tecniche e ottenevano gli stessi risultati.
Sulla base di documenti che ci arrivano dall’analisi chimica delle argille dei vasi trovati in Sardegna, ad esempio quello miceneo di Orroli, dipinto e fatto al tornio, si è risaliti alla provenienza, e si è scoperto che la sua origine è in Argolide, nel nord del Peloponneso. Questo tipo di vaso, denominato alabastron, è un contenitore di unguenti a base di olio che circolava in tutto il Mediterraneo. Un altro vaso, un grosso dolio, ritrovato nel nuraghe Antigori di Sarroch, è identico a quelli utilizzati a Creta come contenitori di olio.
Un’altra coltivazione specializzata è quella della vite, e possiamo affermare che i sardi nuragici conoscevano anche questa pianta. In Sardegna sono state calcolate circa 250 specie di vite selvatica, e ancora oggi possiamo vederle arrampicarsi come liane sugli alberi del bosco “ripario”, quello vicino ai fiumi. La differenza fra la vite selvatica e quella domestica è che quella selvatica presenta piante maschili e femminili. Quella maschile deve andare ad impollinare e fecondare quella femminile. Solo il 3% delle specie selvatiche presenta sia i fiori maschili che quelli femminili, per cui si impollina da sola. L’uomo, come per il grano e altre piante, ha selezionato quel 3% e ha trasformato la vite selvatica in vite coltivata. Una considerazione da fare è che i siti di coltivazione dell’uva possono essere differenti da quelli di produzione del vino. L’uva può essere prodotta anche per la consumazione diretta.
Il vino più antico lo abbiamo nel vicino oriente, sui monti Zagros iraniani, dove hanno trovato dei piccoli dolii e, in base alle analisi chimiche effettuate, si è scoperto che contenevano vino. Un frammento includeva ancora, a distanza di 6000 anni, un residuo di deposito di colore giallastro. L’analisi ha mostrato tracce di resina di pistacchio e acido tartarico, il primo componente del vino. Il pistacchio è importante perché ha una reazione chimica, se inserito nel vino, che permette di uccidere l’aceto bacter, ossia quel batterio che provoca la trasformazione del vino in aceto.
In Sardegna abbiamo la testimonianza della coltivazione della vite sempre a Duos Nuraghes, dove sono stati rinvenuti semini carbonizzati di vinacciuoli negli strati del XIV a.C.
Anche nel nuraghe Genna Maria a Villanovaforru sono stati ritrovati i vinacciuoli, ma databili al X a.C, e leggermente più piccoli di quelli precedenti. Quelli del Duos Nuraghes sono stati studiati da Corry Bakels, una ricercatrice olandese che non si occupa di produzioni viti-vinicole del Mediterraneo. Nel 2001, non essendo esperta in materia, le ha definite specie selvatiche, mentre ha definito specie coltivate quelli di Villanovaforru. Fra le due tipologie ci sono tre secoli di differenza e, dopo altre analisi, a cura di un esperto di produzioni alimentari del Mediterraneo, si è scoperto che le specie di Duos Nuraghes non sono selvatiche, ma in fase avanzata di domesticazione. Il XIV a.C. è un momento nel quale l’uomo sta intervenendo sul vitigno selvatico per ottenerne la specie coltivata.
Negli anni Novanta è stato scavato il nuraghe complesso Adoni di Villanovatulo, cronologicamente attestato al XIV a.C. Negli strati del XII a.C. del villaggio intorno al nuraghe, dentro una delle capanne hanno trovato degli acini di vite coltivata. Due anni fa, a Cabras, nella zona del ponte di Brabao, nel lavoro di costruzione di una rotonda stradale, hanno fatto uno scavo che ha portato alla luce un villaggio nuragico. Le capanne, del XIII a.C., erano infossate nel sottosuolo ed erano ricoperte da elementi vegetali. In tutta la zona, che stava attorno agli stagni di Cabras, ci sono dei pozzi. Lo scavo ha mostrato tantissimo materiale perché conteneva ancora acqua, ed essendo l’ambiente poverissimo di ossigeno, quei batteri che consumano i resti vegetali non sono sopravvissuti. Inoltre, sono stati recuperati pezzi di bastoni, strumenti di legno e migliaia di semini non carbonizzati, fra i quali era presente la vite coltivata. Insieme a questi c’erano semini di fico. Fino a qualche decennio fa, per aumentare la gradazione dello zuccherino del vino, si aggiungevano i fichi secchi nel mosto. Alla fine del processo di vinificazione si otteneva un grado alcolico più alto. Siamo dunque di fronte a genti esperte nella manipolazione delle piante. Il buono stato di conservazione dei semini ha consentito analisi dettagliate sulle specie, e si sono scoperte coltivazioni orticole e frutta. Abbiamo quindi un dato importante: i vitigni sardi precedono di almeno 3 secoli l’arrivo dei fenici in Sardegna.
In certi vasi della Sardegna si è iniziato a fare analisi simili a quelle del vaso iraniano di Zagros. In un vaso askos (una brocchetta) trovato nel nuraghe Bau Nuraxi di Triei, in uno strato datato al C14 al 1000 a.C., le analisi chimiche hanno mostrato notevoli tracce di acido tartarico, e da ciò deduciamo che conteneva vino. Per stabilire il tipo di vitigno bisogna fare alcune analisi specifiche. In età romana pare fosse importante il bovale, o muristellu. I semini di Genna Maria sono stati fatti analizzare e i primi risultati di comparazione con altri 250 vitigni, indicano il vino cannonau. I dati sono ancora incompleti e bisognerà attendere il verdetto finale.
L’uomo nuragico si alimenta quindi di cereali, legumi, coltivazioni specializzate e trasforma l’ambiente. Una equipe spagnola dell’Università Complutense di Madrid, ha effettuato delle indagini dei pollini dei diversi strati nel nuraghe Arrubiu di Orroli e in altri nuraghe del Pranu ‘e Muru fra Orroli e Nurri. Hanno prelevato dei campioni di terra e analizzato tutto al microscopio. Sappiamo che i pollini resistono per millenni, e osservandoli al microscopio, dalla forma e dal tipo, si può riconoscere la specie arborea alla quale appartengono.
Gli studiosi hanno fatto dei prelievi nel vespaio, nello strato del XIV a.C., quando si spianò il terreno per costruire il nuraghe (lo strato 15, mentre lo strato 16 è la roccia naturale). È lo stesso strato che ha restituito il vaso miceneo, e si è scoperto che l’80% dei pollini sono di specie arboree, ossia alberi e bosco. In particolare si trattava di querce caducifoglie (roverella) e perennifoglie (leccio), frassino, ontano, olmo e ginepro. Il 13 % erano pollini di specie erbacee, importanti perché stabiliscono l’impatto dell’uomo sull’ambiente e aiutano a stabilire il clima dell’epoca. In base ai risultati si rileva che era temperato, come accade anche in altre zone del Mediterraneo. Nello strato successivo, quello del XIII a.C., il bosco si riduce al 40 %, aumenta il cisto, sintomo di degrado del bosco, e aumentano le specie erbacee legate in particolare alle coltivazioni (nitrofite). Si tratta di specie parassite come la cicoria, il papavero, l’ortica e altre, che crescono intorno agli spazi creati dall’uomo. Ci sono anche microfossili pollinici, riconoscibili al microscopio come spore, ossia funghi. Aumenta notevolmente la presenza di funghi che nascono a seguito di situazioni di incendi, come il ketonium o la lignaria, Aumentano parecchio anche i funghi coprofiti, che nascono nel letame animale, e sono indicatori di terreno dedicato al pascolo. Assistiamo dunque ad un bosco che nel XIII a.C. diventa aperto e riporta tracce di incendio. Probabilmente i nuragici hanno incendiato il bosco ottenendo radure per poter coltivare cereali e allevare il bestiame.
Nel XII a.C., l’ultima fase della stratigrafia analizzata, il bosco si riduce al 20 %. La quercia scompare quasi totalmente. Si salva solo il bosco ripario, cioè quello che cresce vicino al fiume. Aumenta notevolmente la quantità di pollini di cereali e di funghi coprofiti legati alla presenza di letame animale. Inizia ad apparire il glomus fasciculatum, un fungo che cresce in situazioni di grave degrado dei suoli, quando sono erosi o troppo sfruttati. Questi dati sui pollini sono stati pubblicati in riviste scientifiche e in un libro del 2005 dell’Università Complutense di Madrid, pertanto sono affidabili e dobbiamo tenerne conto. Da questa analisi si può ipotizzare una situazione che vede l’uomo che trova il bosco, lo taglia e lo brucia per ottenere produzione cerealicola e allevamento, senza preoccuparsi più di tanto del degrado dell’ambiente.
Per quanto riguarda l’allevamento e la caccia, ossia la produzione di carne, nel nuraghe Sa Fogaia di Siddi, uno dei 16 nuraghe presenti nella piccola giara, gli zooarcheologi hanno recuperato negli strati i resti di pasto. Le cognizioni di biologia animale di questi tecnici consentono di ottenere informazioni sulla specie, l’età di abbattimento, le tecniche di macellazione e il sesso. Il materiale osseo recuperato è limitato a causa della consunzione causata dalla reazione acida del basalto. Questi pochi resti mostrano l’allevamento delle tre specie principali del Mediterraneo: ovi-caprini, suini e bovini. Ma la produzione era orientata soprattutto verso gli agnelli da latte, per la carne. La macellazione in età giovane degli agnelli, permette alla madre di liberarsi dall’allattamento e produrre più latte per il consumo della comunità. Un dato da tener presente è che gli ovi-caprini, rispetto ai bovini e ai suini, sono profondamente impattanti sull’ambiente.
Nel protonuraghe Bruncu Madugui di Gesturi, del XV a.C., la produzione di bovini è molto importante, e abbiamo anche segni che mostrano l’attività della caccia. Ciò dimostra che la Giara, in quel periodo, era sufficientemente ricca di risorse, tanto da sopportare la presenza di questi grandi mammiferi. Il dato è confermato dal fatto che il cervo è presente in percentuale apprezzabile. Dove troviamo il cervo possiamo essere certi che il bosco è quasi intatto. Sono stati recuperati anche resti di prolagus sardus, un roditore oggi estinto, riccio, volpe e perfino resti di cane, forse utilizzato per la caccia.
A Pizzugunnu di Lunamatrona, cronologicamente attestato al XIV a.C., la situazione cambia, e le analisi sui resti delle ossa mostrano una prevalenza non dei bovini ma dei suini e, in misura minore, gli ovi-caprini. Influisce senz’altro il fatto che siamo in pianura e l’ambiente intorno a questo nuraghe era diverso rispetto a quello delle giare. Queste ultime si trovano oltre i 500 metri di altitudine. Si nota la completa assenza di ossa di cervo, evidentemente non c’erano boschi e questo ambiente non poteva sopportare la presenza di grossi erbivori.
I dati sulla macellazione dei suini hanno mostrato un risultato importante: l’età di abbattimento era entro i sei mesi, quindi i maialetti erano apprezzati anche allora.
In una capanna del nuraghe di Barumini, negli strati profondi del villaggio, quelli del XIII a.C., c’era un grande focolare in argilla, del diametro di un metro circa, coperto da un grosso strato di cenere, pavimentato con strati sovrapposti di argilla battuta e cotta, e sfoglie di sughero per impermeabilizzare. Nel pavimento c’erano 44 forellini che bucavano per qualche centimetro il pavimento dell’intero perimetro circolare del focolare. Probabilmente erano gli spiedi disposti in verticale per cuocere i porchetti.
Al nuraghe Arrubiu il numero degli ovi-caprini è decisamente superiore a quello dei bovini, ma bisogna tener presente che il valore economico della carne di pecora, rispetto alla carne di un bovino è molto inferiore, quindi la proporzione è giustificata. Lo scambio di un bovino richiedeva 2 maiali e mezzo o 5 pecore. La zooarcheologa che ha lavorato all’Arrubiu ha censito almeno 10 esemplari bovini. Se facciamo un confronto prendendo in considerazione i pollini esaminati a Orroli, notiamo subito che la presenza dei grossi mammiferi e della caccia è normale in una zona boscosa come quella dell’Arrubiu del XIV a.C., e i pollini delle specie arboree erano intorno al 80%. Il secolo seguente diminuiscono i bovini, a causa del rarefarsi della superficie boscosa, tagliata e bruciata dai nuragici, e aumentano considerevolmente i suini e gli ovi-caprini. Nel XII a.C. scompaiono le ossa di cervo, i bovini sono pochissimi e la caccia si orienta verso il prolagus, il riccio, la volpe e i volatili. L’ambiente era degradato e l’uomo si adattò all’ambiente del periodo inserendo gli ovi-caprini.
Arrivando al periodo X-IX a.C. possiamo esaminare la situazione del Genna Maria di Villanovaforru. Dopo due secoli riappaiono i bovini, come accade anche a Sant’Anastasia di Sardara e all’Arrubiu di Orroli. Il clima e l’ambiente migliorano. Abbiamo una fase di transizione fra la fase climatica sub boreale temperata, e la fase sub Atlantica, più fredda e piovosa, nella quale viviamo ancora oggi. La vegetazione spontanea cresce meglio ed è abbondante, i suoli si sono rigenerati, e questi dati sono verificabili in tutto il Mediterraneo fin dentro il medioevo. In epoca romana si distrusse tutto per creare i latifondi per la produzione cerealicola, ma nel medioevo questa produzione cessò e il bosco riprese gli spazi che gli erano stati tolti.
Nel cortile del nuraghe Arrubiu, nello strato del XII a.C. sono stati trovati un bacile, il pozzo, un focolare e un bancone con un sedile. In questo strato sono state trovate anche varie ceramiche, una brocchetta, un alare, ossia un sostegno per spiedo, e altri elementi che suggeriscono un utilizzo come luogo deputato ai banchetti, a base di carne arrosto. La zooarcheologa che ha indagato il sito ha trovato tracce di bruciatura, sui resti di pasto, ben 4 volte superiori rispetto alle fasi precedenti. Nel nuraghe Arrubiu gli archeologi hanno trovato anche resti di fauna ittica come mitili, cozze, ostriche e altri cibi. Purtroppo gli esami sono complessi perché la lisca del pesce non si conserva a causa dell’acidità del basalto.
Le mmagini del nuraghe Bighinzones di Borore e del nuraghe Orosai di Birori, sono tratte da viaggioinsardegna.it
L'immagine del Nuraghe Arrubiu è tratta da rete.comuni-italiani.it
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