domenica 31 agosto 2014
Considerazioni sulla Dea Madre
Considerazioni sulla Dea Madre
di Alberto Massazza
Immaginiamo che la nostra civiltà, fondata sulla centralità
della religione cristiana, collassi e per alcuni secoli venga sepolta
dall’oblio. L’archeologo del futuro che scavasse in un luogo di culto più o
meno importante, si troverebbe di fronte due figure dominanti: una donna
regale, serena, luminosa ed un uomo perlopiù raffigurato in situazioni penose,
crocifisso, flagellato, deposto in un sepolcro. Cosa dovrebbe pensare
quell’archeologo della civiltà che ha partorito una simile iconografia? Stando
alle conclusioni che si vorrebbero trarre su determinati periodi del nostro
passato, dovrebbe dedurre che quella civiltà scomparsa fosse rigorosamente
matriarcale e che ai maschi fossero riservati i lavori più umili e faticosi e
posizioni sociali di assoluta subalternità. Noi sappiamo benissimo che le cose
non stanno affatto così; ciò nonostante, abbiamo la tendenza ad arrivare a
frettolose conclusioni sulla base di ritrovamenti che, per quanto possano
essere numerosi, rappresentano pur sempre un campione infinitesimale della
cultura di appartenenza, specie se si tratta di reperti che affondano nel buio
di una preistoria datata migliaia (se non decine di migliaia) di anni fa.
E’ il caso delle
raffigurazioni della cosiddetta Dea Madre o Grande Madre, statue perlopiù di
piccole dimensioni ritrovate in diverse zone europee, asiatiche e africane e
ascrivibili a un lungo periodo della preistoria che va dal Paleolitico
Superiore all’Eneolitico, con caratteristiche successivamente riproposte e
diversificate in divinità femminili dei Pantheon delle civiltà monumentali e
classiche, fino alla figura della stessa Madonna. Alla grande archeologa
lituana Marija Gimbutas si deve il più imponente e dettagliato tentativo di
ricostruzione dell’evoluzione del culto legato a queste raffigurazioni;
ricostruzione evidentemente difficile e inevitabilmente aleatoria, vista
l’ampiezza dei periodi di tempo e dei territori che sono stati interessati da questo
culto. La Gimbutas, pur evitando di parlare di matriarcato, quanto piuttosto di
matrifocalità e di maternalismo (evidentemente intuendo, da donna
straordinariamente intelligente qual era, i pericoli di strumentalizzazione della
sua ricostruzione in funzione di un estremismo femminista revanscista nei
confronti del maschio), giunse comunque alla conclusione, a mio parere
arbitraria e manichea, di una continuità culturale dal Paleolitico Superiore a
tutto il Neolitico, fondata sulla centralità della Dea Madre; una civiltà
pacifica e egualitaria, in cui la figura femminile era il punto di riferimento
della comunità, destinata a durare fino alle invasioni dei bellicosi
Indoeuropei che instaurarono il patriarcato, la società divisa in caste e il
militarismo.
La rappresentazione della Dea
Madre, com’è noto, inizialmente steatopigia (dai glutei abbondanti), con forte
evidenziazione degli attributi sessuali e dell’essere fonte di vita e di
nutrimento, rimase legata a questo modello fino al Neolitico antico, assumendo
prerogative sempre più complesse, per subire successivamente una stilizzazione
astratta e geometrica, fino alla frantumazione in divinità specializzate dalle
quali deriverebbero numerose divinità femminili della storia antica e non solo.
Il processo di stilizzazione è ben rappresentato in Sardegna, dove in un
arco di tempo relativamente breve si è passati dalla cosiddetta Venere di
Macomer, di indubbia ascendenza paleolitica e di incerta attribuzione (tra la
fine del Paleolitico e l’inizio del Neolitico, dal 10000 al 5000 ca. a.C.),
alle diverse rappresentazioni della Dea ascrivibili alla Cultura di Bonu Ighinu
(V-IV millennio a.C.), dalle forme ancora abbondanti, ma con una raffinata cura
del dettaglio e un senso inedito dell’ordine (forse specchio di un’organizzazione
del sacro e della società ben strutturata), fino alla stilizzata Venere della
cultura di Ozieri, nella caratteristica forma a croce, con lineamenti e
attributi sessuali appena accennati; echi della Dea Madre si possono ritrovare
nella bronzistica nuragica, in particolare nella cosiddetta Madre dell’ucciso
di Urzulei e quelle di Serri, interpretate come madri imploranti per i loro
figli o come Dee Madri con figli divini.
A sostegno della tesi
matriarcale si è avanzata l’ipotesi che l’uomo, non avendo ancora messo in
relazione l’atto sessuale con la gravidanza e il parto, ritenesse la donna in
grado di generare autonomamente. Questa tesi sottovaluta le capacità intuitive
e analogiche dell’uomo preistorico che già da un buon milione di anni era
capace di manipolare il fuoco e di utilizzarlo per cacciare le prede e per
difendersi dai predatori. Si è anche sostenuto erroneamente, come chiarito
dalla stessa Gimbutas, che la Dea Madre sia stata la prima e per lungo tempo
unica divinità. In realtà, parallelamente alla Dea Madre (forse addirittura con
qualche anticipo, stando alle datazioni più aggiornate), si sviluppò un’altra
forma di religiosità legata alla rappresentazione parietale di scene di caccia,
attività prettamente maschile e principale fonte di sostentamento per gli
uomini del Paleolitico. In particolare, emerse una figura ibrida o comunque
simulante l’ibridazione tra uomo e animale, attraverso l’utilizzo di maschere,
pelli, corna ecc.; figura che suggerisce la pratica sciamanica. D’altronde, mi
pare poco credibile che in comunità dove la caccia aveva un ruolo ancora
preponderante, la figura femminile potesse rivestire un ruolo centrale.
Accanto alla caccia,
piuttosto, come attività sussidiaria, c’era la raccolta. Mettiamola così: più o
meno contemporaneamente, in zone fortunate per la caccia e/o per la raccolta,
si manifestano due atteggiamenti ascrivibili alla sfera del sacro. Il primo è
direttamente propiziatorio per l’attività umana, pratico, utilitaristico,
maschile; il secondo è legato ai grandi interrogativi della vita, più
concettuale e astratto, consolatorio, femminile. La crisi della caccia
successiva alla fine dell’ultima glaciazione fece aquistare sempre più
centralità alla Dea Madre, facilmente adattabile alle necessità spirituali dei
primi agricoltori. Forse in questo frangente, una volta raffinate le tecniche
agricole e dell’allevamento e messo a regime un ciclo produttivo in grado di
sostenere la pressione demografica, si poté realizzare quella società armoniosa
e prospera pensata da Marija Gimbutas (la mitica età dell’oro?), prima che
criticità legate alla produzione agricola o alla pressione demografica (la
stilzzazione e l’astrazione, in quanto trascendenti, potrebbero essere proprio
il segno di una crisi), o le brame di conquista di nomadi militarizzati, o
ancora i flussi oceanici indoeuropei, non la facessero crollare. Non un
matriarcato, probabilmente, ma comunità che riconoscevano e valorizzavano le
prerogative femminili.
O forse la mitica età dell’oro
fu quando i paleolitici trovarono i luoghi ideali per le loro attività di
caccia e di raccolta e, grazie all’aumento di tempo libero, poterono liberare
la loro capacità immaginativa e crearsi delle divinità da ingraziarsi e
ringraziare. Di sicuro, come rilevato da Jung, la figura della Dea Madre
rappresenta un archetipo che attraversa tutta la storia dell’umanità, con
caratteri che emergono in figure divine appartenenti alle più disparate culture
del mondo.
Fonte: http://albertomassazza.wordpress.com/
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento