martedì 10 novembre 2015
Da Atlantide ai Giganti di Monte Prama: i nodi al pettine nella ricostruzione di un dibattito
Da Atlantide ai Giganti di Monte Prama: i nodi al
pettine nella ricostruzione di un dibattito
Ricevo in redazione e pubblico, riservandomi un
commento più avanti nel tempo. Mi preme, tuttavia, segnalare che nessuna
traccia di tsunami devastanti ha colpito la Sardegna nel periodo in esame, ed è
pertanto da rigettare senza indugio questa possibilità. (Nota di Pierluigi Montalbano)
«Per noi è secondario
affermare che la Sardegna sia l’isola sacra di Esiodo, la Tartesso della Bibbia
o l’Atlantide di Platone. Queste ipotesi sono secondarie rispetto alla
grandiosità del lascito che è davanti ai nostri occhi e in gran parte ancora
sotto terra o ricoperto dalla macchia mediterranea. L’eccezionalità
dell’evidenza non ha necessità di forzare alcun processo di mitopoiesi: le
diecimila torri sono comunque una realtà […]» (Anonimo, Un sogno chiamato Nurnet, Condaghes,
Cagliari, 2014, p. 10).
Pur concordando con queste
affermazioni, appare indispensabile ricostruire alcuni snodi e passaggi di
accese polemiche che, evidentemente, non riguardano solo il mondo degli
archeologi. Chi scrive (Federico Francioni), privo com’è delle loro specifiche competenze,
ritiene però essenziale uno sforzo tendente alla ricostruzione storica di un
dibattito che richiederebbe anche conoscenze sul piano massmediologico,
indispensabili per analizzare l’impatto di determinate scoperte sulla società,
la cultura, le mentalità dominanti. L’esposizione mediatica della Sardegna –
dalle roventi polemiche sul libro di Sergio Frau (Le colonne d’Ercole.
Un’inchiesta. Nur Neon, Roma, 2002) sino alle più recenti notizie di
cronaca sugli scavi archeologici nella penisola del Sinis ed in particolare a
Monte Prama – mostrano sempre più che temi e problemi di carattere
storico-culturale ed archeologico vanno ben oltre l’area degli addetti ai
lavori, dotati di competenze scientifiche da cui, sia ben chiaro, non si può e
non si deve
assolutamente prescindere. Infatti le scoperte illustrate fin dal
1977 nella monografia di Giovanni Lilliu, Dal betilo aniconico alla
statuaria nuragica (edito da Gallizzi, Sassari) possono costituire un
banco di prova per le tesi di Frau. Oggi si tende, mi pare, a dimenticare o a
trascurare quest’opera di Lilliu; per alcuni versi abbiamo assistito ad una
sorta di rimozione, oppure a prese di distanza, se non a critiche aperte, da
parte di studiosi vecchi e giovani: una delle più valide eccezioni è però
costituita dalla cospicua produzione scientifica di Raimondo Zucca, archeologo
e docente nell’Università di Sassari, che anche di recente ha riconosciuto la
fondamentale rilevanza di quel testo di Lilliu (cfr. il saggio di Zucca, L’Heroon
di Monte Prama nelle pagine di Giovanni Lilliu, in “Quaderni bolotanesi”,
n. 40, 2014). Il successo della principale opera di Frau si può spiegare –
almeno parzialmente – con l’appoggio che l’autore, già curatore di 700 inserti,
poi inviato de “La Repubblica” su temi culturali, si è garantito non solo
grazie al ruolo ricoperto in un’autentica “corazzata”, ma anche per il rapporto
fra questo quotidiano e la catena di giornali locali dei quali fa parte “La
Nuova Sardegna”. Peraltro bisogna riconoscere che “La Nuova” qualche critica a
Frau l’ha pubblicata. Niente, è chiaro, in confronto agli spazi enormi che egli
è riuscito a ritagliarsi, dalla prima pagina a quelle interne, in questo come
in altri organi di stampa. Ma il notevole impatto dei suoi volumi sul
piano culturale e mediatico si può spiegare anche con l’aura di mistero che ha
sempre circondato i miti, compresi quelli inventati da un filosofo come Platone
che, non dimentichiamolo, era anche scrittore e narratore di eccezionali
qualità. Nella sua ampia ed approfondita disamina dal titolo La
sindrome di Atlantide, apparsa nel Regno Unito nel 2001 (e pubblicata in
Italia da Newton Compton, Roma, 2003), Paul Jordan, archeologo e docente
nell’Università di Cambridge, ha reso conto in modo puntuale della sterminata
produzione di volumi su Atlantide (migliaia e migliaia di libri, saggi ed
articoli), di “scoperte” e proposte tendenti all’identificazione di essa con le
terre più diverse e disparate: dalla Groenlandia alla Svezia, dalle Spitzbergen
a Ceylon (per citarne solo alcune). A ciò si deve aggiungere che Frau, profondo
conoscitore dei mass-media e del mondo editoriale italiano, ha creato una sua
casa editrice, la Nur Neon. Non vorrei che queste osservazioni portassero ad
una sottovalutazione del contributo di Frau che ha avuto significativi
riconoscimenti anche sul piano internazionale. In ogni caso, prendiamo un
classico come Vance Packard, come gli studiosi dei “persuasori occulti” di
Madison Avenue, come i grandi massmediologi americani, da Stuart Ewen a Ben
Bagdikian, da Herbert Schiller a Harold Innis, per proseguire con Marshall Mc
Luhan, il suo discepolo Derrick De Kerkhove e arriviamo infine al nostro
Michelangelo Pira: bene, nell’esercitarsi sull’impatto del testo di Frau, tutti
questi autori si sarebbero divertiti, letteralmente, come pazzi. Giustamente
Giovanni Manca, amico di Frau, dunque non sospettabile certo di ostilità nei
confronti del giornalista e studioso, ha parlato di un “caso da manuale”, adatto
per studi sociologici, economici e su dinamiche di marketing. Da una rivisitazione
del mito platonico di Atlantide può scaturire non tanto una “verità storica” –
espressione che si dovrebbe risolutamente abbandonare – quanto elementi che
potrebbero servire, in primo luogo, alla ridefinizione del problema delle
Colonne d’Ercole. Tuttavia, come discende dalla citazione iniziale di Un
sogno chiamato Nurnet, i kolossoidi Monte Prama si
possono toccare materialmente, mentre l’identificazione della Sardegna con
Atlantide può diventare anche la base di un progetto di ricerca, come quello
delineato dal geologo Mario Tozzi, estimatore di Frau. Proprio quest’ultimo
sembra credere che la grande statuaria nuragica possa privarlo dell’attenzione
dei mass media – così decisiva (e non solo per lui) – e sembra fare di
tutto (ma posso sbagliarmi) per non menzionare mai e poi mai nei suoi libri i kolossoi ed
il fondamentale contribuito di Lilliu del 1977. Si badi bene: in un contesto
nel quale, quando si parla di Giganti, il riferimento di chiunque è a Monte
Prama, Frau, riferendosi solo ed esclusivamente ai nuraghi come Giganti, gigantesche
torri di pietra, sembra voglia evitare con cura l’accostamento della
parola alle statue del Sinis. Le posizioni di Frau sono abbastanza note, ma è
giusto esporle sinteticamente, con critiche e riserve che occorre formulare
pacatamente, evitando i toni che hanno contrapposto lo stesso autore
all’antropologo e scrittore Giulio Angioni, nonché all’archeologo Alfonso
Stiglitz. Com’è noto, secondo Frau – che passa attentamente in rassegna le
fonti antiche in un libro di ben 672 pagine – le Colonne d’Ercole vanno
collocate nel Canale di Sicilia, non nello Stretto di Gibilterra. Andando,
diciamo così, alla preistoria del mito, la Sardegna, collocata oltre questo
limite estremo, doveva essere l’Atlantide del testo platonico. Al riguardo si
può muovere una prima obiezione a Frau. L’identificazione della nostra isola
con l’ultimo lembo emerso di un continente inghiottito dal mare si deve
dapprima al sardista Egidio Pilia che formulò questa tesi nel primo dopoguerra.
Nel 1946 essa fu ripresa e sviluppata in termini nuovi e diversi da Camillo
Bellieni, autore di articoli comparsi nel settimanale “Riscossa”, diretto da
Francesco Spanu Satta: non figurano nell’interessante antologia curata da
Manlio Brigaglia (2 voll. Edes, Cagliari, 1974). Occorre ribadire che l’impatto
del mito di Atlantide si esercita anche attraverso i mezzi di comunicazione di
massa ormai da decenni, come dimostra la produzione al riguardo: in questo
ambito è indispensabile ricordare almeno 5 film, soprattutto quello di Georg
Wilhelm Pabst (del 1932), un classico nell’intera storia del cinema. Su
Atlantide si esercitò anche la genialità di un narratore come sir Arthur Conan
Doyle (il creatore di Sherlock Holmes), capace di passare dalla metodologia
investigativa di matrice positivista, tipica del celebre amico di Watson,
all’irrazionalismo più spinto: lo scrittore inglese, che stupì al riguardo non
poche persone, credeva fermamente nelle pratiche spiritiche, cui partecipò
tante volte, organizzando inoltre in proposito un organismo internazionale;
sulla ricerca del continente sommerso scrisse The Maracot Deep (1927-28).
Si tenga presente che Bellieni
– ideologo, storico, organizzatore, fondatore e dirigente del Partito sardo
d’azione – era intellettuale colto, erudito e aggiornato (lo sapeva bene Piero
Gobetti che fu in corrispondenza con lui e che lo apprezzava), al corrente di
produzioni librarie e cinematografiche sul tema, che non a caso ha avuto un
certo rilievo nel mondo politico sardista: non sembra dunque corretto ignorare
il precedente costituito, nella ricerca su Atlantide, dagli scritti di Pilia e
Bellieni; non si trattava solo di aggiungere qualche titolo ad una sterminata e
pressoché indomabile bibliografia (si veda in proposito il già citato libro di
Jordan); più semplicemente, era giusto fare opera di riconoscimento,
attribuendo ad un autore quanto è riuscito effettivamente a scrivere. Per non
parlare di coloro che il polacco Jerzy Topolski, in un suo libro sulla
storiografia contemporanea, ha definito, con una punta di sufficienza,
“amatori” della ricerca: il riferimento può essere, in questo caso, a Paolo
Valente Poddighe: anche questo autore, come Bellieni, ha scritto sul rapporto
Sardegna-Atlantide ben prima di Frau. Ciò non significa escludere che
quest’ultimo si sia mosso su un terreno, in qualche misura, nuovo ed originale.
La civiltà nuragica, secondo Frau, sarebbe stata in parte distrutta da una
“onda pazza ed assassina”, un maremoto, uno tzunami che, per
fare solo un esempio, avrebbe seppellito sotto trenta metri di fango la reggia
di Su Nuraxi, a Barumini, scavata da Lilliu. Si sarebbero salvate
invece le costruzioni nuragiche poste su alture non raggiungibili dal
tremendo “schiaffo di Poseidone”. Il disastro avrebbe dato luogo ad un esodo
forzato di schiere di nuragici verso l’attuale Toscana: ciò, con buona
approssimazione, avrebbe dato origine alla civiltà etrusca. Altra obiezione, a
questo punto, riguarda il silenzio di Frau verso il debito che tutti gli
studiosi, sardi e non, hanno contratto con Massimo Pittau. Le sue indagini sono
rimaste dapprima abbastanza isolate e prive di echi, ma hanno avuto in seguito
una certa ricezione. Un durissimo attacco contro Frau è stato messo a punto in
un documento (apparso sul sito dell’Istituto Italiano di Storia e Protostoria)
che ha raccolto le firme di circa 250 tra archeologi, geologi, storici, filologi,
glottologi, antropologi ed altri professionisti di varie discipline, tutti
vicini alle Soprintendenze archeologiche. Chi scrive non appartiene al mondo accademico,
ma piuttosto ad un’intellettualità “diffusa”. L’atteggiamento più immediato
sarebbe quindi quello di una sana diffidenza verso “l’appello-pregone” (così lo
ha qualificato Frau) e di solidarietà con il giornalista de “La Repubblica”.
Tuttavia, leggendo i 21 punti in cui il documento è articolato – e le risposte
dello stesso Frau – è difficile sottrarsi all’impressione che egli non sempre
sia riuscito a replicare in modo soddisfacente; anzi, sembra proprio che
talvolta si sottragga all’inderogabile necessità di decostruire in modo
puntuale ed efficace le argomentazioni altrui. In ogni caso queste virulente
polemiche non devono impedire una discussione seria e aperta delle posizioni
avanzate da Frau, alla luce, ripeto, delle scoperte che da un trentennio a questa
parte stanno letteralmente sconvolgendo radicati convincimenti sulla Sardegna
non solo nuragica. In estrema sintesi: quanto sta emergendo dalle viscere del
Sinis suona conferma o smentita delle tesi di Frau? Alle Colonne
d’Ercole ha fatto seguito Atlantikà. Sardegna Isola Mito,
volume diviso in due sezioni: Le Colonne d’Ercole. Una mostra, le prove e Le
Colonne d’Ercole. Un bilancio, i progetti (ugualmente edita da Nur
Neon). Un testo articolato che ha reso conto, fra l’altro, di un’importante
esposizione a Parigi, voluta e patrocinata dall’Unesco. La lettura di Colonne
d’Ercole è resa difficile da una struttura che il giornalista ha
costruito con intenti prettamente divulgativi e didascalici, ma che risulta abbastanza
complicata. Anche in queste pagine, nel ricco apparato iconografico e
fotografico, fra i tantissimi riferimenti a bronzetti, costumi sardi, dolci
tipici, la Sartiglia e tante altre manifestazioni isolane, spicca la
sintomatica e sintomale assenza non solo di un’immagine, ma del sia pur minimo
accenno alla grande statuaria nuragica: eppure essa segna una svolta, una
rottura paradigmatica, che riguarda tutta la preistoria e la storia fino ai
nostri giorni. La scienza – lo ha insegnato Galileo Galilei col suo cambio di
paradigma epistemologico – richiede di partire dall’osservazione del fenomeno
per elaborare ipotesi da sottoporre quindi ad esperimento e a verifica: verificare
nel senso di rendere, di fare vero un qualcosa che può essere
trasformato in tesi plausibile, pena l’abbandono dell’ipotesi prima adottata
per puntare decisamente su un’altra. Insomma: a Monte Prama, nell’heroon-santuario è
possibile riscontrare qualche traccia di uno tsunami? Si tratta di
quella sorta di mostro marino che, intorno al 1100 a.C., sarebbe stato capace
di sollevare sulla nostra sventurata isola onde alte 500 metri, secondo una
delle tesi di Frau. Evidentemente la risposta al quesito è legata anche agli
estremi cronologici entro i quali si può ragionevolmente pensare di racchiudere
tutta la straordinaria parabola dell’esperienza nuragica che ha prodotto, fra
l’altro, i Giganti del Sinis. Occorre dire, in ogni caso, che le statue vennero
fatte in pezzi dalle schiere dei vincitori, grazie forse al contributo di sardi
teracos. Si può leggere in proposito quanto ha scritto Zucca il quale istituisce
una stretta correlazione fra la fine di Monte Prama e Tharros la quale fu
dapprima insediamento indigeno; in seguito “i gruppi gentilizi egemoni
paleosardi (con i loro clientes)” furono assorbiti in un nuovo
assetto urbano, riplasmato poi in forme monumentali secondo la
programmazione propria della civiltà cartaginese. Un «”popolo in armi” di
Tharros, composto da opliti con la spada e l’arco e da soldati con la lancia e
con i puntali da lancio, poté essere quello sardo-fenicio in conflitto con l’esercito
di quel principato sardo che aveva eretto, lungo l’unica via di collegamento
tra il porto e le fertili piane del Campidano settentrionale e le miniere del
Montiferru, i kolossoi di Monte Prama» (Monte Prama e il
Sinis, nel volume di A. Bedini, C. Tronchetti, R. Zucca, G. Ugas, Giganti
di pietra. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo, Fabula,
Cagliari, 2012, p. 51). Dunque Tharros si sarebbe ribellata alle esose
riscossioni imposte dai sardi nuragici sulle merci che giungevano nel porto. Al
riguardo si è aperto nel mondo accademico ed archeologico un conflitto, più o
meno esplicitato dai diretti interessati. Infatti nello stesso volume
Alessandro Bedini e Carlo Tronchetti hanno formulato tesi che negano non solo
queste distruzioni, ma anche l’esistenza di una civiltà nuragica originale,
pienamente autonoma, da loro considerata, invece, come una specie di vaso
riempito dalle tecniche e dalle culture esterne: provenienti, di volta in
volta, dall’Etruria, da Cipro, dall’Anatolia e dalla Mesopotamia. In
ultima analisi il nodo più controverso riguarda il ruolo svolto in Sardegna da
quello che è stato chiamato l’Orientalizzante. La sua influenza sul
contesto sardo – cui Bedini e Tronchetti attribuiscono solo una certa capacità
di retroazione e di rielaborazione – non viene tuttavia negata da Ugas e Zucca.
In ogni caso bisogna fare in modo che il conflitto su questo terreno della
ricerca prenda sempre più corpo. Nel mondo scientifico negare o minimizzare
contraddizioni può impedire il dispiegarsi pieno di una nuova stagione di
studi. Il grande rilievo, che soprattutto i mass-media hanno assicurato
all’identificazione della Sardegna con il continente sommerso evocato da
Platone, sembrava spingere in secondo piano la grande statuaria nuragica,
qualcosa che si può comunque toccare con mano, oltre la diversità delle
interpretazioni. Ma le indagini condotte presso Cabras, dopo un parziale
oscuramento dovuto all’enfatizzazione mediatica dei testi di Frau, sono tornate
prepotentemente alla ribalta: il georadar utilizzato dal
professor Gaetano Ranieri, unico nel mondo accademico-scientifico italiano, ha
già condotto a scoperte decisive ed altre ne promette. Di recente “La Nuova” ha
dato spazio alle indagini di Tozzi che sembrerebbero suonare come conferma
dello “schiaffo di Poseidone”, la marea di fango, insomma, lo tzunami che
avrebbe investito una gran parte del tessuto dei nuraghi. Sembrava che Frau ed
Atlantide potessero riconquistare la prima pagina dei quotidiani sardi, ma è
stato solo un momento. All’indomani, si può dire, i kolossoi hanno
invaso di nuovo, prepotentemente, la scena. Anche tale aspetto della dialettica
Atlantide-Monte Prama richiederebbe un adeguato approfondimento nella
dimensione della ricerca massmediologica. Sul versante psicoanalitico e
dell’inconscio di massa sarebbe essenziale approfondire le cause ed i motivi
dello straordinario successo incontrato dalla riproposizione di Atlantide nel
suo legame con la Sardegna. Non basta ricordare l’aura di “mistero” del racconto
platonico, sempre così attrattiva, che conduce l’immaginario verso il sogno e
la speranza, o esaminare un’operazione che ancora una volta, per mezzo del
mito, vorrebbe restituire dignità ad una terra che si considera negletta o
espropriata di qualcosa. Ormai sappiamo bene che la società isolana, ben lungi
dal paludarsi con il mantello dell’orgoglio, risulta piuttosto afflitta da
complessi di inferiorità, da sensi di colpa e vergogna, da un problema di
autostima, soprattutto per le pesanti responsabilità di ceti dirigenti
subalterni, asserviti, corrotti mentalmente e culturalmente (quando non
lo sono sul piano economico-finanziario). Di qui la necessità di fare ricorso a
quello che si può definire un “romanzo di sostituzione” per ovviare al disagio,
alle frustrazioni derivanti da una visione del passato, cui non si riesce
a dare il debito valore. Il singolo che ha un passato indicibile, non
raccontabile, chi soffre per la mancanza dei genitori o perché costoro, per
fare solo un esempio, sono dei criminali, può tendere a superare la sofferenza
con narrazioni più o meno fantasiose per approdare all’autoaccettazione. La Carta
de Logu di Eleonora è un grande monumento storico-giuridico, ma la
sottovalutazione del passato, l’incapacità, la non volontà di riconoscere
quanto questo popolo, anzi, questa nazione ha effettivamente prodotto (non c’è
assolutamente bisogno di ricorrere al mito o alle mitizzazioni) condusse
nell’Ottocento all’operazione dei falsari che confezionarono le Carte, le
pergamene ed i codici cartacei cosiddetti d’Arborea. Meccanismi sedimentatisi
nei secoli in cui la Sardegna è stata un “laboratorio di storia coloniale” (la
definizione è dello storico franco-americano John Day), una dimensione postcoloniale
in cui si avvertono le conseguenze, le devastazioni ambientali, economiche e
storico-culturali di questo tipo di dipendenza: tutto ciò ha pesantemente
condizionato la nostra società, le ha impedito di pervenire ad un’adeguata
auto-valorizzazione, di cogliere e comprendere quanto è riuscita effettivamente
a produrre, senza bisogno di ricorrere al mito, di cui, è opportuno ripeterlo,
non abbiamo alcun bisogno; soprattutto se pensiamo ai chierici sempre pronti a
lanciare l’accusa di “mitizzare” contro una comunità che invece, in un passato
anche prossimo, tendeva quasi sempre all’autodenigrazione.
Le torri di Atlantide.
Identità e suggestioni storiche in Sardegna (comparso
per i tipi del Maestrale, Nuoro, 2012, con prefazione di Marcello Madau), opera
di Fabrizio Frongia, ha preso di mira le tesi di Frau; allo stesso tempo, ha
tributato un omaggio, assai prudente a Lilliu, lodato come maestro, di cui però
non viene mai ricordato l’impegno, sviluppatosi dagli anni settanta, volto ad
illustrare la statuaria nuragica (nel libro di Frongia la classica opera Dal
betilo aniconico non è mai citata). Ancora una volta, non si tratta di
citazioni erudite o di bibliografie più o meno lunghe: Frongia è attrezzato e
dimostra di padroneggiare la materia. Ma dalle sue pagine, come da quelle
di altri giovani studiosi, emerge infine una presa di distanza da Lilliu, più o
meno velatamente accusato di “mitizzare” il passato: rilievo formulato anche da
diversi intellettuali isolani, sempre impegnati a minimizzare, se non a nascondere
quanto la civiltà della Sardegna è riuscita effettivamente a produrre. Al libro
di Frongia infine si può contrapporre quanto ha scritto Alberto Contu,
curatore attento e critico di pagine in cui peraltro viene riconosciuta la
grandezza dell’accademico dei Lincei, la forza di un lascito sempre valido ed
attuale. Certo, neanche la più fervida immaginazione dell’accademico dei Lincei
avrebbe potuto ipotizzare l’esistenza di un giacimento di tale portata nella
penisola del Sinis. Diventa allora decisivo un confronto che riguarda
archeologi, storici, scienziati, intellettuali ed ognuno di noi, come cittadini
dotati di una coscienza civile, se non nazionale, in su sentidu sardu
de sa paràula. Occorre andare oltre il secolare spirito di terachia e
la tendenza a cuare, a nascondere certe scoperte per approdare alla
disamina non reticente di una società, quella nuragica, complessa, dove vigeva
una determinata divisione del lavoro, che ha consentito la realizzazione del
grandioso progetto di Monti Prama: sì, perché si deve parlare – in sintonia,
del resto, con quanto aveva scritto Lilliu – anche e soprattutto di
progettualità, non solo di “costante resistenziale”.
Conclusioni.
Se si legge attentamente e con
spirito filologico il decisivo saggio di Lilliu che reca questo titolo, si
evince che la “resistenzialità” comincia a palesarsi non, si badi bene, durante ma dopo la
fine della stessa civiltà nuragica. Essa dunque non si limitava a “resistere”,
ma era invece in grado di pensarsi, di costruirsi, di progettarsi, addirittura
di proiettarsi nel mondo mediterraneo; aveva stabilito un certo tipo di
interscambio con la natura; ad una base, ad una determinata struttura
socioeconomica si abbinavano fattori sovrastrutturali di tipo
politico-culturale (aristocratico), militare e religioso. Nessuna popolazione
infatti può vivere di sola religione, come vogliono farci credere coloro che
rimproverano a Lilliu un’indebita enfatizzazione – in chiave “militarista” –
dei nuragici, con abbinata trascuratezza della dimensione religiosa. Lilliu era
“militarista” a tal punto che senza il suo fondamentale apporto non si potrebbe
ricostruire il ruolo, tutt’altro che secondario, della donna nuragica: lo hanno
dimostrato gli studi di Elisabetta Alba, segnalati, fra l’altro, da Tronchetti.
Si deve sempre a Lilliu la posizione, da lui esplicitata già nell’immediato
secondo dopoguerra, di una civiltà giunta alle soglie all’urbanesimo: ciò è
stato di recente confermato dallo stesso Zucca e dal già ricordato Ugas,
dell’Università di Cagliari. Tutto questo potrebbe ricevere una significativa
conferma dagli scavi in corso. Ribadiamo: accusato di “mitizzare” anche da
coloro che, più o meno formalmente, gli rendono infine omaggio, Lilliu potrebbe
risultare profeta – almeno in parte smentito! – se si dimostrerà, ancor più
marcatamente, che sotto terra, nel Sinis, si trova un giacimento dalle
dimensioni fino a pochi anni fa, per tutti noi, impensabili, il quale, in
parte, attende di tornare alla luce.
Insomma occorre “tornare” a
Lilliu, ripartire dalla sua opera per andare avanti, per proiettarsi verso il
futuro, per condurre a compimento una vera e propria rivoluzione storiografica
col fine di cambiare l’immagine, la percezione e la coscienza della Sardegna.
Le sconvolgenti scoperte di Monte Prama, infatti, non riguardano solo gli
archeologi, ma tutti gli storici, gli studiosi e, infine, ognuno di noi. I nodi
fin qui esposti richiedono evidentemente di essere ripresi ed approfonditi in
successivi articoli.
Fonte: http://www.fondazionesardinia.eu
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Tornare a Lilliu? alle sue farneticazioni sui sardi che odiavano il mare ed alla sua costante resistenziale inventata per caso o per furbizia come lui stesso dichiarò?
RispondiEliminaSperiamo di no, gli allievi devono sempre seppellire i maestri, andando avanti nella ricerca della verità.
Lilliu ha vissuto da politico (in quanto sardista convinto) usufruendo delle prebende politiche a iosa, ed ha avuto la fortuna di essere solo a dividersi la Sardegna con Ercole Contu; al contrario di chi è stato costretto a fare la guerra o ad espatriare Lilliu ha avuto la sfacciata fortuna di sfruttare un campo totalmente vuoto di contendenti per fare carriera accademica e come funzionario statale.
Inoltre ci sono documentazioni e foto sulla sua condiscendenza verso le tesi strampalate di Frau!
E ricordo che nel 2014 fui uno dei primi fra i 250 circa a firmare il noto J'accuse da parte dei partecipanti al convegno dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria a Firenze; in quella occasione però devo dire che un caro amico mio che ha lavorato in Sardegna lo difese a spada tratta in una chiaccherata con me, presente Fulvia Lo Schiavo mentre rientravamo al convegno dopopranzo, e poi andò a Parigi a parlare nel noto convegno di Frau.
Circa Bellieni, sarebbe davvero il caso di ridimensionare la sua figura come studioso: i suoi scritti non sono all'altezza della sua fama postuma, e lui fu sopratutto un politico, o un politicante maneggione della DC come ho sentito anche commentare. Di certo non è da mettere in bibliografia scientifica per quanto attiene a quello di cui si parla in questo testo.
Spero che i commenti successivi riguardino il merito dell'articolo. Cosa ha scritto Lilliu nel lontano 77 che si dice ancora attuale? La costante resistenziale e' quella di parlare delle opinioni, e dei cc di che le esprime, al posto dei fatti
EliminaDonato Pulacchini, mero cercatore del quel po' di verità separata da ideologie e carriere
Volevo scrivere "dei cv di chi le esprime"
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