Fonte: https://www.academia.edu/13998938/_Ancore_di_pietra_fra_archeologia_ed_etnografia_di_Mario_Galasso_pubblicato_in_Archeologia_Postmedievale_4_a.2000_pp.265-282
sabato 28 novembre 2015
Ancore di pietra fra archeologia ed etnografia, di Mario Galasso
Ancore di pietra fra archeologia ed
etnografia
di Mario Galasso
Fonte: https://www.academia.edu/13998938/_Ancore_di_pietra_fra_archeologia_ed_etnografia_di_Mario_Galasso_pubblicato_in_Archeologia_Postmedievale_4_a.2000_pp.265-282
Fonte: https://www.academia.edu/13998938/_Ancore_di_pietra_fra_archeologia_ed_etnografia_di_Mario_Galasso_pubblicato_in_Archeologia_Postmedievale_4_a.2000_pp.265-282
Fra le varie tipologie di materiali che il
mare di continuo restituisce ad archeologi e no una in particolare ha sempre
affascinato per la vetustà e per quanto di intrinseco racchiude in sé: l’ancora
di pietra. Le tipologie della stessa sono ormai ben documentate dai noti lavori
di Papò, della Frost, di Kapitän e di altri, fra i quali Edoardo Riccardi che
ne fa oggetto di un interessante riepilogo
e da ultima Donatella Salvi in un recentissimo lavoro. Un po’
dappertutto si trovano citati rinvenimenti di attrezzi riconosciuti come ancore
litiche, raggruppabili per lo più in tre grandi tipologie:
-
pietre piatte con uno o più fori, nei quali si suppone siano stati infilati
spezzoni lignei e siano state fissate le corde di tenuta (calumi);
-
pietre più o meno informi, ma in genere oblunghe, al centro delle quali si nota
in genere un incavo toroidale per fissarvi la fune, utilizzate tout-court come
corpi morti (mazzere);
-
pietre a sezione rettangolare e di notevole lunghezza, spesso a forma di
mezzaluna allungata, con base piatta ed incavo al centro, non propriamente
ancore ma parti di esse, e cioè marre fissate al fuso in legno per appesantirlo
ed appoggiarlo orizzontalmente al fondo.
Tra il primo ed il secondo gruppo si colloca
un sottogruppo di incerta valutazione, costituito da
pietre informi utilizzate
come ancora o corpo morto (forse di emergenza) che presentano la possibilità di
essere trattenute da un cavo per la loro intrinseca conformazione (fori
passanti o restringimenti di sezione). In ogni caso, non presentano che minime
tracce di lavorazione per adattarle all’uso e difficilmente possono essere riconosciute come ancore, a
meno che non siano rinvenute in contesti archeologici subacquei omogenei.
Convenzionalmente si suppone che il primo
gruppo sia di origine molto antica, risalente probabilmente al neolitico ed
andato avanti almeno fino all’età del ferro; che il secondo sia invece
praticamente indatabile per il suo utilizzo continuato fino ad oggi come corpo
morto per piccoli natanti; che il terzo abbia preceduto le marre di piombo
romane (che costituiscono la sua naturale evoluzione) nelle ancore
convenzionalmente (e impropriamente) chiamate di tipo Ammiragliato.
Si vuole qui esaminare un particolare tipo
di ancora del primo gruppo: quella consistente in una pietra in cui lo spessore
è notevolmente inferiore ai valori di lunghezza e larghezza, tanto da poterla
definire (in genere) subrettangolare o subtrapezoidale o subtriangolare. Senza
entrare nel merito in ordine alla definizione del rapporto fra le tre misure
(onde poterla definire pietra piatta o con felice termine francese, dalle), si nota che questi manufatti
presentano uno, due, tre o più fori passanti, in genere uno singolo opposto a
due o più. Praticamente sempre, quando la forma è subtrapezoidale o
subtriangolare, il foro singolo è dalla parte apicale o più stretta. Accade
spesso che vengono ritrovate pietre presentanti un solo foro. Ovviamente in
questi casi è facile riconoscere la pietra come un manufatto; più difficile è dire che tipo di manufatto,
contrariamente a quanto se ne possa pensare.
Infatti, di tali pietre se ne trovano sia in
terra che in mare. Per la seconda ipotesi chiunque sarebbe indotto a parlare di
ancora, ma nel primo caso?
Le pietre con un solo foro
Ritrovamenti marini. Nella quasi totalità le pietre piatte con un unico
foro vengono trovate senza contesti archeologici che possano far azzardare
datazioni. In genere vengono recuperate in bassi fondali (massimo 15 metri),
con poche eccezioni in sud Italia. Se ne trovano di dimensioni relativamente
piccole, di peso generalmente fra i 5 ed i 70 kg (con le debite eccezioni anche
fino a due quintali), il che fa pensare ad un utilizzo prevalente per piccole
imbarcazioni. Sfortunatamente gli archeologi in genere sono dei pessimi
marinai, altrimenti da lungo tempo ci si sarebbe resi conto che non è possibile
pensare di tenere ferma sotto l’azione del vento e del mare un’imbarcazione sia
pure minuscola con un’ancora consistente in una pietra piatta che ara sul
fondo. Sempre sulla scia di questa constatazione, si fa presente che da sempre
è uso in mare di legare un peso (mazzera)
al calumo che collega l’ancora all’imbarcazione, in genere verso la metà della
sua lunghezza, al fine di far funzionare il peso come una molla e di tenere il
cavo più orizzontale e parallelo al fondo per aumentare la tenuta dell’ancora.
Perciò si azzarda qui l’ipotesi che almeno le pietre più piccole con un foro
che via via si ritrovano abbiano avuto (anche o solo) questo utilizzo, come
tuttora in uso fra i pescatori, e che sia veramente difficile datarle in
assenza di altri elementi. Si può presumere che le pietre più grandi e pesanti
possano essere state utilizzate come corpo morto in specchi d’acqua ritenuti in
genere tranquilli, utilizzando per la navigazione ancore più elaborate e cioè
munite di pali di legno passanti in più fori opposti a quello di aggancio del
calumo per una migliore tenuta sul fondale. Al giorno d’oggi si usa ancora lo
stesso sistema, utilizzando cemento armato colato in una forma e munito di
maniglione in ferro al posto di un foro passante.
Per finire, la tipologia di questi reperti
varia al variare delle dimensioni e del peso: i più piccoli hanno in genere
forma più regolare, mentre i più grandi sono spesso asimmetrici.
Ritrovamenti terrestri. Astraendo dai pochi ritrovamenti in contesti di
santuari marittimi ove le stesse hanno l’evidente riutilizzo come offerta
votiva (in ricordo del primario utilizzo come ancora, raramente con aggiunta di
segni incisi e/o decorazioni), tali pietre forate sono nella quasi totalità
adespote, senza riferimenti cronologici e culturali. Di difficile reperimento,
lo studioso distratto le riconosce solo in collezioni etnografiche in genere
private. Pomey stesso dichiara che la tabella tipologica è stata approntata in
massima parte sulla base dei donarii, ed evidentemente si possono datare le
ancore in base allo strato di deposizione (ove possibile) ma non la durata
delle forme nel tempo. Ma cosa ci farebbero in terra queste pietre? Quale
utilizzo secondario (ex voto o signacula
a parte) potrebbero aver avuto al di fuori di un contesto marittimo?
La
trebbiatura dall’antichità al secolo XX: un esempio regionale
Gli etnografi conoscono bene un particolare
attrezzo usato dai contadini per battere il grano sull’aia fino a non molti
anni fa consistente per l’appunto in una pietra piana con un foro ad una
estremità, che viene trascinata da uno o più bovini od equini a mezzo di una
fune o di una catena sui mannelli di grano gettati su uno spiazzo lastricato;
talvolta nel foro è infisso un paletto collegato ad un timone a cui è aggiogato
l’animale.
La pietra usata per questo scopo ha però una
sostanziale differenza con quella usata per ancorarsi: presenta sempre,
infatti, almeno una superficie più liscia, e frequentemente (ma su ciò
ritorneremo) su questa vi sono incise scanalature che servono a migliorarne il
rendimento. Le scanalature sono orizzontali come le righe di un testo o
diagonali, parallele fra loro, o formano dei disegni geometrici. Talvolta
compaiono lettere maiuscole indicanti il proprietario. Circa il materiale
usato, è costante l’utilizzo di calcare, granito e pietre dure in genere
(basalto nel sud Italia). Il calcare ed il granito risultano preferiti oltre
che per durezza e resistenza anche per grana e per lavorabilità, quindi
migliori come rendimento e durata.
Normalmente questi attrezzi litici vengono
ancora reperiti in vecchi insediamenti agricoli, spesso abbandonati in un
angolo dell’aia. Alcuni sono entrati nelle collezioni di musei di cultura
contadina e sono in esposizione un po’ dappertutto. La pietra da trebbia è
stata in genere utilizzata in Italia fino all’epoca della seconda guerra
mondiale in aree marginali, pedemontane, con forte discontinuità di livello,
con produzioni limitate di frumento ad uso familiare o di frazione, che non
giustificavano spese ed investimenti (trebbiatrici e mulini) (Tav. n. 3).
L’areale geografico ci viene descritto dallo Scheuermeier (SCHEUERMEIER P., 1943, pp. 129-130) come molto esteso, e
ne fa fede l’elenco di termini dialettali riportato, che copre praticamente
tutta l’Italia (vedi oltre, allegato 1 e Tav. n. 2).
Si può affermare che se in un contesto
agricolo appropriato si rinviene una pietra con le caratteristiche sopra
enunciate e che in particolare presenta una faccia liscia e piana la stessa può
essere o no una pietra da trebbiatura; ma se sulla faccia liscia e piana vi
sono incisioni e scanalature (che possono essere di vario genere) è molto
probabile che lo sia.
Circa la cronologia non esistono ipotesi,
perchè per quanto risulta allo scrivente non si conoscono a tutt’oggi pietre da
trebbiatura rinvenute in contesti di scavo, o per lo meno non sono state
riconosciute come tali. Non risultano studi in materia che escano dalla
semplice descrizione della forma e dell’areale di distribuzione. L’uso di
questo attrezzo sembrerebbe perdersi nella notte dei tempi, e si potrebbe
d’istinto pensare di farlo risalire ai primordi della coltivazione dei cereali
ed all’addomesticamento dei bovini ed equini. Appare infatti così primitivo (e
nel contempo efficace) questo sistema e nello stesso tempo indatabile.
Non è nelle finalità di questo piccolo
lavoro addentrarsi nel settore dell’etnografia se non per lo stretto
necessario. Occorreva quindi limitare al massimo il campo di indagine,
estendibile sicuramente almeno su tutto l’areale Mediterraneo; per questo è
stata focalizzata come exemplum la
Sardegna, che più a lungo di altre regioni italiane ha conservato usi e costumi
antichi di secoli. Per quanto in seguito si vedrà il riferimento era necessario.
In area sarda è documentata
archeologicamente la presenza di grano (triticum
monococcum e triticum dicoccum)
già nella fase cardiale del neolitico antico, ma non sappiamo come avvenisse la
coltivazione e la trebbiatura. In epoca posteriore (età del bronzo e del ferro)
è attestato il ritrovamento di triticum
vulgare e triticum dicoccum oltre
che di hordeum vulgare in contesti
nuragici. Non risultano documentati
rinvenimenti di pietre da trebbiatura o di attrezzi da riconoscere come tali
nel vasto campionario di materiali relativi al ciclo del pane (macine,
pestelli, falci, ecc.). Per questo
particolare oggetto occorre essere molto cauti in quanto, sempre per parlare
della Sardegna, per i ritrovamenti di chicchi carbonizzati di grano e orzo non
si dovrebbe escludere in via ipotetica un utilizzo di queste pietre da
trebbiatura almeno fin dall’età del bronzo. Uscendo dall’ambito sardo nell’ambito
della koinè mediterranea, numerose sono le raffigurazione egiziane di lavori
agricoli legati al ciclo del grano; tra le più antiche, in una tomba di Saqqara
(circa 2500 a. C.) è raffigurato un gruppo di 11 asini in fila , incitati da un
uomo con un bastone mentre trebbiano cereali non mietuti (ZENNER F. E., 1966,
p. 349, fig. 221). Ancora si segnala un dipinto nella tomba egiziana di Menna,
scriba intendente delle terre coltivate sotto Thutmosis IV (1425?-1408 a.C.)
durante la XVIII dinastia. La tomba, che si trova sul versante orientale delle
colline desertiche situate nella regione dell’attuale Sheick Abd el Qurna
presso l’antica Tebe è adornata da raffinate
raffigurazioni di lavori agricoli; nel settore che illustra la
trebbiatura del grano (Tav. n. 5) si vede un operaio con un ramoscello nella
mano destra nell’atto di incitare quattro buoi che calpestano davanti a lui il
grano non mietuto mentre un altro operaio con una forca di legno a tre rebbi
sposta le spighe atterrate. (MICHAILOWSKI K., 1990, fig. 422, p. 395). Non è
fatto uso di pietra da trebbiatura. Si può pensare che trebbiare il grano senza
preventiva mietitura sia un metodo più antico o contemporaneo ad altri. Sorge in ogni caso la domanda su quando entri
nell’uso (anche alternativo) l’attrezzo litico e se davvero risale ad epoca
remota. Pur tenendo presente le differenze culturali fra Egitto e Sardegna, la
tomba di Menna si colloca alla fine del XV secolo a.C. mentre nell’isola siamo
in pieno Bronzo medio, nella fase Sa
Turricula (fase II nuragica). Infine, in Palestina è attestato dalla Bibbia l’uso del bastone
per battere il frumento: Ruth “batte quel
che aveva spigolato” (Ruth, 2, 17, riportato in FORBES R. I., 1962).
Alcuni centri più recenti, scavati solo
parzialmente, sono ancora in attesa di pubblicazione esaustiva (fra questi,
importanti Sant’Imbenia e Sa Tanca ‘e sa Mura). Poco si conosce sulla
cerealicoltura del periodo cosiddetto punico, per perdurante assenza di dati
paleobotanici e relativa mancanza di
dati archeologici diretti: la presenza di coltivazione di cereali è provata
però da tutta una serie di indizi fra cui ad esempio le spighe di argento del
Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru (VII secolo a.C.). Non ultimo, si
ricordano le spighe che compaiono sulle emissioni monetali del 241-238 a.C. a
ricordare pace e produzione di grano.
Un rapido excursus sulle fonti classiche ci
informa che varie erano le metodiche utilizzate per la trebbiatura nel mondo
romano: Plinio parla dell’utilizzo di triboli, di cavalli o di pertiche. Il
tribolo ci viene descritto da Varrone come una tavola munita di denti di ferro
o di pietre aguzze che viene trainata sul grano da battere a mezzo di bovini
mentre i cavalli sono utilizzati generalmente legati in gruppo e costretti a
calpestare il grano girando in circolo intorno ad un palo al centro dell’aia.
Le semplici pertiche si evolveranno in seguito nel coreggiato o correggiato
consistente in due lunghi bastoni, legati fra loro ad una estremità, che il
contadino usa per percuotere le spighe. Columella nomina le tregge usate dai
Latini per questa operazione, senza meglio specificare. Circa a metà del V
secolo d.C. Rutilius Taurus Aemilianus (meglio conosciuto come Palladio)
possessore di una tenuta a Neapolis in Sardegna descrive vivacemente come
organizzare una villa rustica, indirizzandosi visibilmente a ricchi
imprenditori agricoli; la tecnica da lui descritta per la trebbiatura è il
calpestamento con bovini (o ungulis
pecorum, o propter armenta quae cum
teretur inducimus), come in VARRONE, De R.R. I, 52, 2, COLUMELLA L. G. M.,
DE R.R., 2, 10, PLINIO, N.H., 1499, 18, 298, benchè gli antichi avessero
conosciuto la battitura con le pertiche o con macchine speciali (tribulum e traha). Non viene fatto cenno a pietre da trebbia. Come si vede,
non vi sono attestazioni dell’utilizzo di pietre come quelle di cui si parla in
questo lavoro. Ciò a nostro avviso non vuol dire che non fossero conosciute ed
utilizzate, ma solo che non ve ne sono tracce documentali sia per i contesti
del latifundus di epoca imperiale e
tardo imperiale con alte produzioni di grano che per le medie e piccole
proprietà di tipo catoniano ai cui si
rivolge Plinio.
I contesti di scavo d’altronde non aiutano:
abbiamo una grande quantità di necropoli, pochi scavi urbani, pochissimi
contesti agricoli. Perciò è relativamente poco il materiale strumentale d’uso
finora indagato archeologicamente e totalmente nullo quello relativo
all’operazione della trebbiatura del frumento.
Allo stato della ricerca non sono state
finora reperite fonti anteriori al secolo XVIII che parlassero in specifico
dell'argomento. Alla fine del settecento Gemelli descrive la trebbiatura fatta
generalmente (in Italia) utilizzando più comunemente uno scanalato cilindro, o colonna di gran peso, rotolato da un cavallo
a grado dell’uomo, che sopra vi si asside; ancora, or la Sardegna adopra la cavalla precisamente senza trebbia, o treggia,
o rubatto, che quasi non conosce, e senza il correggiato, che ignora
generalmente.(…) Ma poi, e non usan
eglino in Sardegna certuni per difetto di danajo, e per pochezza di raccolto,
di trebbiare la loro piccola messe con qualche informe pietra, che trascinar
fanno da’ buoi per l’aia. Or questi certo sbucciano il frumento. Perfezionisi
dunque tal metodo nella forma, e rendasi universale, che senza dubbio
sbuccierassi il sardo frumento, quando anche fusse più, che infatti non è
resistente.
L’autore perciò afferma che i contadini
poveri e chi ha un misero raccolto usa qualche informe pietra trascinata da
buoi; il metodo gli sembra buono e suscettibile di perfezionamento. Manca
dell’Arca quasi contemporaneamente osserva lo stesso procedimento che è uno dei
tre al suo tempo in uso nell’isola. Saint-Severin nel 1821 invece non lo
attesta mentre il La Marmora parla dell’utilizzo di grosse pietre che si fanno
trainare da buoi in alternativa ad altre metodiche.
Nella prima metà del XX secolo Le Lannou
riporta l’uso di una grossa pietra piatta (anni 1931-1937) mentre Scheuermeier
nell’ambito di uno studio globale sull’Italia e la Svizzera reto-romanza
condotto fra il 1919 ed il 1935 (vedi all.1) rileva l’uso della pietra da
trebbiatura dappertutto in Sardegna tranne che agli estremi sud e nord. Wagner
parla di due tipi di trebbiatura: con una pesante pietra piatta o un rullo di
pietra o con molte cavalle legate in
fila.
Ai nostri giorni vari autori si sono
interessati del problema; il più conosciuto, l’Angioni, ne presenta anche una
ricostruzione grafica. Tra gli ultimi, ne parla Antonina Cinellu in un lavoro molto
specifico relativo alla località di Tresnuraghes (Nu), riportando sia una
tradizione orale evidentemente ancora viva nella zona indagata sia la
terminologia (triulare su drigu)
strettamente collegata al termine latino relativo allo strumento usato (tribulum, vedi note 13 e 14) ed al grano
(triticum).
L’analisi dei termini ancora in uso (vedi
note 23-24, e all.1) dimostra che il tribolo di Plinio e Varrone era ben
conosciuto in epoca romana in Sardegna, tanto da lasciare traccia (oltre che
ovviamente nella lingua italiana con il verbo trebbiare e tutti i suoi derivati) nelle lingue di tutta l’isola
(con le varie differenze locali). Solo nel Logudoro l’attrezzo trainato viene
chiamato pietra dell’aia (pèdra
‘ess’ardzòla) con esplicito riferimento alla pietra piatta di cui parliamo.
Resta da appurare se nell’antichità in Sardegna oltre al tribolo fosse in uso
l’altro strumento in quanto come si è visto la pietra da trebbia compare
documentalmente solo dal settecento in poi con successivi perfezionamenti.
Ciò che le fonti scritte raramente riportano
è però un altro aspetto del rapporto del contadino con il cereale. Ci si
riferisce ai problemi relativi al controllo padronale della produzione del
frumento che sempre hanno investito i contadini non proprietari
dell’appezzamento coltivato, mentre per i piccoli possidenti il controllo
statale è quasi sempre stato soffocante. In passato era il dominus, il
signorotto locale a pretendere la sua parte di raccolto; in età contemporanea,
nella prima metà del XX secolo e in specie dal 1911 al 1945, i controlli
governativi sul grano prodotto hanno lasciato strettissimi margini di guadagno
ai contadini a causa dell’economia di guerra e del regime fascista (ammassi obbligatori, del
resto già in uso coi monti granatici dei due secoli precedenti). Fonti orali
sarde ricordano con nitidezza lo scrupoloso controllo effettuato dalle camice
nere sulla trebbiatura, sugli ammassi, sui mulini. Vengono citati molti episodi
di controlli minuziosi degli attrezzi di lavoro, delle macine familiari (per
vedere se erano sporche di farina, in qual caso era evidente l’esistenza di
frumento non denunciato). Infatti è documentata oralmente l’esistenza di
operazioni di trebbiatura di frodo, effettuate di notte, utilizzando i mezzi
rudimentali in possesso dei contadini, quali appunto la pietra da trebbia. Ed è
riferita anche la ricerca affannosa di questi oggetti da parte degli incaricati
del controllo (forze dell’ordine, squadristi, camice nere) per la confisca e
distruzione: testimonianze raccolte dallo scrivente parlano di pietre da
trebbia gettate nei pozzi ed in mare.
Sempre per la Sardegna ancora oggi è
possibile rintracciare alcuni di questi attrezzi ormai decontestualizzati: in
una raccolta privata se ne possono vedere addirittura cinque provenienti dal
centro sud dell’isola; mentre si stendono queste note un vecchio contadino
dell’oristanese (Cuglieri) ne propone due in vendita a prezzi esosi e fuori da
ogni realtà. In ogni caso le pietre da trebbiatura pare abbiano perso oggi la
loro motivazione d’essere ed abbiano acquisito una seconda valenza come
semplice testimone culturale di un tempo passato e di una pratica colturale
desueta.
Concludendo, nella remota antichità non vi sono
attestazioni archeologiche; in ambito mediterraneo (vicino Oriente) sono
documentate altre tecniche di trebbiatura; gli autori romani sopracitati non ne
parlano e indicano altre tipologie di lavoro; alla fine del XVIII secolo una
“pietra informe” compare nell’opera del Gemelli che vorrebbe perfezionare
questo modo di trebbiare. In seguito la pietra si specializza, diviene più
lavorata, sempre più regolare, fino a scomparire bruscamente dall’uso con
l’avvento della meccanizzazione. Il massimo dell’evoluzione viene colto nella
tavola tipologica dello Scheuermeier fra le due guerre mondiali.
Alla luce di quanto sopra esposto, con tutte
le cautele del caso, al momento sembrerebbe secondo le fonti finora
rintracciate che questo attrezzo non dovesse poi essere molto antico. Tuttavia occorre approfondire la
ricerca sulle fonti scritte ed iconografiche, e soprattutto archeologiche per
non lasciarsi ingannare da eventuali esempi fuorvianti.
Una
pietra da trebbia da Sanluri (CA)
Nel settembre 2000 lo scrivente è venuto in
possesso di una pietra da trebbia di sicura provenienza contadina sarda.
Il manufatto (Tav. n. 9 a, b, c, d, e) del peso di circa 28 kg è stato ottenuto da
un pezzo di calcare che è stato grossolanamente sagomato in forma trapezoidale
di spessore costante, e presenta le superfici tormentate da abrasioni, solchi,
incisioni puntinate e tracce evidenti di lavorazione a scalpello. I lati
formano angoli diversi con la base, e la sommità è ad arco di cerchio.
L’altezza totale è di cm 57, lo spessore cm 12-13. Poco al di sotto del centro
dell’arco di cerchio c’è un foro passante di diametro circa cm 4, arrotondato
alle due uscite, da cui parte una gola verso l’alto, più profonda nella faccia
che per convenzione chiameremo A. Su questa sono presenti una serie di profonde
incisioni, di cui una verticale dalla sommità alla base e quattro orizzontali,
parallele fra loro ed ortogonali a quella verticale (una sopra il foro, tre
sotto di questo). Nelle incisioni irregolarmente distanziati sono presenti
numerosi fori pericircolari profondi da 0,5 ad 1 cm. Sulla superficie della
faccia opposta B sono presenti numerosi fori impervi tutti ad andamento
diagonale nella stessa direzione e ottenuti come i precedenti per scalpellatura
con attrezzo a punta, al fine evidente di rendere ruvida la superficie. Sulla sommità della pietra è presente un foro
impervio di diametro cm 3-4, di profondità ignota perché riempito di cemento e
presentante i resti di un quadrello di ferro spezzato di lato cm 0,8. Presumibilmente
questo foro dall’orlo svasato e dalla superficie liscia afferisce ad un primo
metodo di collegamento e fissaggio, in relazione con dei fori lungo le due gole
(quattro disposti in quadrato sulla faccia A ed altri meno leggibili sulla
faccia B), nei quali forse erano alloggiati dei chiodi.
Sembra difficile al momento esprimere
interpretazioni sul sistema di fissaggio e traino dell’attrezzo; sulla base
della documentazione raccolta da Scheuermeier (Tav. n. 1, tipo a) nel foro è
inferito un paletto di legno collegato al traino con una fune a metà della sua
altezza, quindi dalla parte della pietra che non lavora; nella Tav. n. 7
(Loiano, Emilia) il sistema di fissaggio è costituito da un paletto passante
nel foro, collegato al traino con un corto asse dalla parte della faccia che
lavora; il collegamento fra timone e asse è snodato. Nell’esempio di Tav. n. 6
da Acquaformosa (Calabria) si vede il giogo ed il timone ma non il
collegamento, che si può supporre snodato come il precedente. Per la pietra di
Sanluri si può in origine supporre una sorta di timone o presa di legno
costituito da un paletto infilato dalla parte B fino alla superficie A e
saldamente fissato alla pietra con qualcosa (legno? fune?) inchiodato nella
gola A e infine bloccato (ma in che modo?) nel foro impervio che si trova nella
parte superiore dell’attrezzo. Non si può neanche escludere a priori la
semplice legatura (attraverso il foro) di una fune trainata da uno o due
animali di grossa taglia (equidi in genere in Sardegna, ma sono attestati anche
bovidi, vedi sopra) ed alloggiata nella gola ad impedirne il rapido
deterioramento.
Circa la datazione dell’oggetto, è stato
riferito che lo stesso era utilizzato fino agli anni intorno alla metà del
secolo dal contadino Piras di Sanluri, e probabilmente dallo stesso fatto (così
come le vaschette per abbeveratoio) intorno al secondo quarto del XIX secolo.
Ovvio negare qualsiasi possibilità di fraintendimento della pietra con ancore
litiche per tutta la serie di notizie raccolte.
L’identificazione
Ritornando ai ritrovamenti marini, se una
pietra dalle caratteristiche sopra
riportate (solo in tal caso, è bene precisarlo) viene rinvenuta sott’acqua,
cosa si deve arguire? A meno che l’oggetto sia stato gettato di proposito in
mare come ricordato sopra, con tutta probabilità si tratta del riutilizzo di un
attrezzo da trebbiatura che, terminata la sua funzione per cessazione
dell’attività lavorativa del proprietario (morte, abbandono, ecc.), o più
probabilmente per utilizzo in tempi molto recenti di strumenti meno arcaici per
l’operazione di battitura del grano (uso di trebbiatrici e mietitrebbiatrici),
con l’avanzare della cosiddetta affluent
society ha totalmente perso la sua primitiva funzione e funzionalità
convertendosi in un comodo corpo morto per un gozzo o un gommone. Cosa di più
pratico e meno costoso di una pietra con un foro a cui legare una cima per
ancorare in uno specchio riparato il proprio mezzo di svago estivo?
Probabilmente l’ultimo utilizzatore è figlio o nipote di chi ha usato
l’attrezzo nella sua primitiva funzione.
Non è detto che le pietre da trebbiatura
così come le conosciamo si siano conservate inalterate nel tempo in quanto a
morfologia e segni particolari come illustrati nella tabella dello Scheuermeier
relativa alla situazione agli inizi del XX secolo, come non è detto che
soltanto per i tempi più recenti sia possibile proporre un riutilizzo nautico.
Sembra che si possa però tracciare una linea guida per il riconoscimento
dell’oggetto partendo anzitutto dall’esame delle superfici; nel caso di primitivo
uso agricolo uno o due piani contrapposti devono essere fortemente levigati
dall’uso per le specifiche modalità di impiego: continuo trascinamento sull’aia
coperta da grano. Nel caso di ancore litiche invece tutte le superfici sono
interessate ad urti ed abrasioni e pertanto, a meno di una spianatura e
lisciatura intenzionale su una o due facce, sono abbastanza facilmente
identificabili. L’ancora al contrario della pietra da trebbia deve rimanere più
ferma possibile, e possibilmente incastrarsi sul fondo sotto trazione
diagonale. Le superfici vengono così tormentate da colpi che provocano
distacchi di materiale, ma non lisciatura solo su una o due facce, semmai su
tutto l’attrezzo (per lunga immersione nella sabbia). Per non essere fraintesi,
qui non si propone assolutamente di identificare come pietre da trebbiatura
riutilizzate tutte le pietre piatte con un solo foro rinvenute sotto il mare;
si afferma semplicemente che alcune ancore litiche potrebbero essere in realtà
riutilizzi di strumenti agricoli.
A conoscenza di chi scrive in due casi
documentati ancore in pietra con un solo foro molto simili a pietre da
trebbiatura sono state trovate sotto il mare: a Punta Nuraghe (N.E. Sardegna)
ed alla Punta del Fenaio (Isola del Giglio, Grosseto). Ciò non toglie che vi
possano essere molti altri casi del genere, finora non conosciuti, ma che sono
passibili di revisione critica.
L’ancora
di Punta Nuraghe (Porto San Paolo, Sassari)
Nel Golfo di Congianus (nord est Sardegna)
proprio ai piedi di Punta Nuraghe in uno specchio di mare tranquillo e
protetto, pochi anni fa è stato recuperato un
blocco trapezoidale di granito locale del
peso di kg 74, munito di foro nella parte superiore e decorato su di una faccia
con nove righe parallele di punti incisi. La superficie lavorata è piana;
la faccia opposta sprovvista di segni e/o incisioni, piana anch’essa, è
smussata in basso; la sezione è leggermente crescente dall’alto verso la base;
l’oggetto, per la sua particolarità è stato oggetto di varie pubblicazioni (Tav.
n. 3). Cosa notevole, la superficie decorata è fortemente abrasa intorno al
foro, in alto a sinistra, al centro ed in basso a destra mentre il contorno
della stessa non lo è. Gli autori associano con relazione difficilmente casuale la pietra al nuraghe costruito
sulla penisoletta che chiude a sud il Golfo di Cugnana, a causa dell’estrema
vicinanza fra costruzione e punto del ritrovamento; anche il tipo di
decorazione rimanderebbe ad ambito nuragico (età del bronzo). Ma proprio per
questa sua caratteristica sorgono seri dubbi sulla sua primitiva funzione: se
si confronta con la tavola tipologica pubblicata da Scheuermeier (Tav. n. 1) si
evidenzia immediatamente una grande analogia col tipo c, salvo che questi
presenta dieci righe di incisioni a pettine, mentre nel caso di Punta Nuraghe
le linee sono nove. Dieci incisioni sono anche nel tipo d, che però non
presenta fori pervii. Chi scrive esprime forti riserve sull’interpretazione
“decorativa” data alle nove linee di incisioni: se l’oggetto è nato come ancora,
chi l’ha fatto sapeva che sarebbe stato soggetto ad urti, abrasioni e rotture
oltre al rischio di perdita. Le pochissime ancore litiche della stessa
tipologia a forma di triangolo isoscele o di trapezio allungato provviste di
decorazioni (ma mai di questo tipo) sono state ritrovate presso santuari
marittimi, e si può pensare che le stesse siano state fatte proprio per scopo
votivo. Altrimenti, vi è tutta una casistica di segni incisi che denotano
chiaramente la volontà di indicare il proprietario dell’ancora. Con grande
probabilità le incisioni hanno invece un motivo logico ed utilitaristico; non a
caso la consunzione e la levigatura si riscontrano proprio in corrispondenza
della parte “decorata”, proprio come si consuma uno strumento nella zona di lavoro.
Nell’isola vi è ampia diffusione di questo
attrezzo agricolo ad eccezione dell’estremo sud e nord. E proprio la Sardegna
ha avuto un rapidissimo cambiamento culturale nel corso degli ultimi 50 anni.
Il contesto sociale ed il modus vivendi
sono talvolta lontani anni luce da quelli visti da Le Lannou negli anni delle
sue peregrinazioni sarde. Tuttavia ancora oggi
si può constatare l’esistenza di una strana commistione fra nuovo ed
antico, fra arcaismo e novità: accanto a modelli comportamentali “capitalistici”
convivono nelle campagne modi di vita, attrezzi e anche oggetti arcaici. Non
pare quindi fuori luogo supporre (in alternativa a quanto già scritto al
riguardo) il riutilizzo di una pedra
es’arzola, ed a questo punto sarebbe stata utile una analisi al microscopio
per esaminare le tracce di lavoro e di usura su tutte le superfici
confrontandole con quelle riscontrabili su pietre da trebbiatura certe.
Pertanto l’oggetto di Punta Nuraghe alla
luce di quanto sopra detto potrebbe essere in ipotesi identificato:
come
una pietra da trebbiatura di fattura recente (XIX-XX secolo) riutilizzata come
ancora nel XX secolo; la datazione recente sarebbe desunta dall’estrema
somiglianza col tipo Scheuermeier c. La lisciatura e consunzione della
superficie incisa, al contrario delle altre, spinge in tal senso.
come
una pietra da trebbiatura di epoca remota (età del bronzo?) riutilizzata in
epoca indeterminabile come ancora; tale ipotesi contrasterebbe vivacemente con
quanto esposto in merito ai problemi cronologici: si ammetterebbero modalità
esecutive della trebbiatura differenti da quelle indicate da fonti più tarde
(romane) ma non è detto assolutamente che non se ne trovi documentazione in
futuro col prosieguo della ricerca.. Per lo stato delle superfici valgono le
considerazioni di cui al punto a).
qualora
le analisi delle tracce di usura non fossero esaurienti, come un’ancora litica
primitiva (ipotesi di tutti quanti l’hanno finora pubblicata), difficilmente
ben databile per mancanza di contesto subacqueo non essendo probante la mera
vicinanza di un nuraghe. La datazione è stata formulata dagli autori per
analogia con altri ritrovamenti (a parte quelli ciprioti di cui alla nota 44)
in genere adespoti e con la cosiddetta decorazione a pettine, che però nella prima
pubblicazione è indicata a “punti
incisi”.
Tuttavia proprio la “decorazione” trova
puntuali confronti con la pietra di Sanluri per l’identica tipologia dei punti
incisi in fila sul fondo dei solchi scalpellati.
Per tutto
quanto sopra detto e sciogliendo le riserve sopra espresse è molto
probabile che l’oggetto sia da ritenere (in totale disaccordo con quanto
sostenuto dagli autori che finora se ne sono occupati) una pietra da
trebbiatura che, terminata la sua primitiva funzione, è stata riutilizzata come
corpo morto in tempi recentissimi (XIX-XX secolo?) non come ancora da tonneggio
ma da posta (corpo morto): non a caso è stata trovata in uno specchio di mare
tranquillo e riparato, a bassa profondità (m 2,50) con acque cristalline e
calme dove è veramente difficile supporre l’abbandono o la perdita di un’ancora
decorata. La prima ipotesi formulata (pietra da trebbiatura recente) sembra
l’unica attendibile non essendo scientificamente ammissibile che il
ritrovamento presso un nuraghe sia di per sé probatorio dell’anzianità del
manufatto dato che la Sardegna è piena di contesti enei e moderni conviventi
nello stesso areale.
L’ancora
di Punta del Fenaio (Isola del Giglio, Grosseto)
Ad ovest di Punta del Fenaio, nella parte
nord dell’Isola del Giglio (Grosseto), alla fine degli anni ‘70 fu recuperata su un fondale roccioso di circa m
30 una pietra forata di granodiorite a grana abbastanza grossa, di forma
quadrangolare, con una leggera gola fra il lato superiore ed il foro, del peso
di circa kg 70 (Tav. n. 4 a, b, c). Su di una faccia piana si notano
distintamente una serie di incisioni parallele fatte in diagonale e coprenti in
origine tutta la superficie. Al centro del lato sinistro e sul lato destro in
basso della stessa faccia la pietra
sembra aver avuto dei distacchi (forse per urti) che la hanno smussata. La
faccia opposta è convessa in modo accentuato e non presenta lavorazioni a
incisione. La superficie della gola nella parte superiore della pietra mostra
segni di usura d’uso. Non vi sono dubbi dell’utilizzo come ancora della pietra,
mentre se si confronta la stessa con la tabella dello Scheuermeier si trova una
impressionante analogia col tipo b. In effetti anziani testimoni oculari ancora
viventi negli anni ottanta nell’Isola del Giglio hanno confermato l’utilizzo di
simili pietre per le operazioni di trebbiatura. L’economia isolana molto
ristretta non permetteva spazi grandi da dedicare a graminacee ma nella Valle
della Botte esistono le rovine di un mulino ad acqua di costruzione
rinascimentale, che ha funzionato fino agli inizi del XIX secolo utilizzando
l’acqua raccolta in un bacino artificiale e convogliata su un ritrecine con una
condotta in spezzoni di tubi di granito locale.
Nel mare dell’Isola del Giglio è stata rinvenuta
negli anni settanta - ottanta una notevole quantità di ancore e marre litiche,
in parte già pubblicate dallo scrivente; la tipologia delle stesse copre quasi
tutto l’arco della tabella della Frost, ed alcune sono databili con una certa
sicurezza in associazione a contesti archeologici mentre per molte altre sono
come sempre stati applicati criteri
cronologici comparativi che indicano attestazioni fra epoca pre e
protostorica e arcaismo. Nessuna di tali ancore è anche lontanamente
comparabile nella forma a questa in esame.
Pertanto si è indotti a supporre per il manufatto
finora inedito una datazione fra il secolo XIX e gli inizi del secolo XX ed un
primitivo utilizzo come pietra da trebbiatura; un utilizzo secondario come
ancora al termine della sua originale funzione, presumibilmente nel corso del
XX secolo dato che fino ai suoi inizi l’oggetto manteneva un motivo d’essere
nel corredo del proprietario contadino.
Conclusioni
Queste brevi note sono frutto di riflessioni
su problemi che emergono specialmente nel settore dell’archeologia
postmedievale; molto spesso il campo d’indagine spazia a 360 gradi coinvolgendo
discipline diverse, per cui è veramente difficile districarsi. Ognuno di noi ha
una formazione specifica per cui è indotto a vedere negli oggetti gli archetipi
che gli sono familiari, e spesso siamo indotti a dare spiegazioni di comodo a
dei reperti solo perché non conosciamo o abbiamo dimenticato la funzione di
alcuni strumenti del passato; di quanti “oggetti di culto” sono piene le vetrine
dei musei?
Per l’archeologia postmedievale la
commistione con l’etnografia è spesso rilevante perché si indagano materiali
abbastanza vicini al mondo moderno, solo un passo prima della
industrializzazione e della meccanizzazione. Perciò è utile e necessario avere
una solida cultura di base in merito alla cultura materiale del mondo
pre-protoindustriale, al mondo contadino ed urbano. Nell’indagine archeologica
occorre affrontare lo studio di tutte le classi di materiali e in special modo
di quelle non ancora studiate e guardate con sufficienza dagli archeologi
“tradizionali” perché troppo recenti o umili, e indegne di attenzione. Chi
studia ad esempio le scatole di latta per conservazione degli alimenti
sott’olio? O i tappi delle bottiglie? Non ridiamoci sopra, le vetrine dei musei
archeologici di Montreal e di Ottawa (Canada), tanto per fare un esempio,
contengono per l’appunto queste cose provenienti da insediamenti
sette-ottocenteschi di cui questi manufatti arrugginiti sono i muti testimoni.
Bibliografia di massima sulle
ancore di pietra
AVILIA 1987 – Avilia F., Campania. Golfo di Napoli – Rinvenimento di materiali litici.
Segnalazioni e note, in Archeologia
subacquea 3, Suppl. BdA nn.
37-38, a. 1986, pp. 211-212.
BERNARDINI D’ORIANO SPANU 1997 – Bernardini P, D’Oriano R., Spanu
P.G., (a cura di), Phoinikes b Shrdn I
fenici in Sardegna nuove acquisizioni, catalogo della mostra, Oristano
luglio-settembre 1997, Oristano 1997.
CICILIOT 1996 – Ciciliot F., (a cura di), Navalia archeologia e storia, Savona
1996.
D’ORIANO RICCARDI 1993 – D’Oriano R., Riccardi E., Olbia (Sassari) – Porto San Paolo (Sassari)
– San Teodoro (Nuoro). Prospezioni subacquee, in Bollettino di Archeologia 19-21, Roma 1993, pp. 197-199 e p. 229.
D’ORIANO 1997 – D’Oriano R., Le ancore litiche della Sardegna, Schede 1-9, in BERNARDINI D’ORIANO SPANU 1997,
pp.227-228.
FROST 1963a –
Frost H., Under the Mediterranean,
London 1963.
FROST 1963b –
Frost H., From the rope to chain: on the
development of the anchor in the Mediterranean, in Mariner’s Mirror, 49, 1963, pp. 1-20.
FROST 1970 – Frost H., Bronze
age stone anchors from the Eastern Mediterranean: dating and identification,
in Mariner’s Mirror, 56, 1970, pp.
377-394.
FROST 1993 –
Frost H., Stone Anchors: The
reassessement reassessed, in
Mariner’s Mirror, n. 79, fasc. 4, a. 1993.
GALASSO 1997 - Galasso M., Rinvenimenti archeologici subacquei in Sardegna sud-occidentale e
nord-occidentale, in Atti del
Convegno Nazionale di Archeologia Subacquea, (Anzio 30-31/5 e 1/6/1996),
Bari 1997, pp. 121-134.
GALASSO 1998 - Galasso M., Unterwasserfunde in West-Sardinien, in Skyllis, Zeitschrift für Unterwasserarchäologie, n.1, a.1998,
fasc.1. Deutsche Gesellshaft zur Förderung der Unterwasserarchäologie e.V.
(DEGUWA), trad. Martin H.G., Erlangen 1998, pp. 18-31.
GALASSO 2000 – Galasso M., “Strane” pietre forate, in L’archeologo
subacqueo VI, 2 (17), Maggio-Agosto 2000, pp. 7-8.
GALASSO in c.d.s. a– Galasso M., Il corallo in Sardegna nella cartografia storica e nell’indagine
d’archivio: primi risultati, in Atti del Convegno Il corallo, una risorsa sarda in una prospettiva mediterranea, Alghero,
4/7/1998, in c.d.s..
GALASSO in c.d.s. b– Galasso M., La pesca del corallo in Sardegna nell’antichità attraverso l’indagine
cartografica, archeologica ed i rilevamenti in mare, in Atti del XIV
Convegno internazionale di studi L’Africa
Romana, Sassari 8-10/12/2000, in c.d.s.
GIANFROTTA POMEY 1981 – Gianfrotta P.A., Pomey P., Archeologia subacquea, storia, tecniche,
scoperte e relitti, Verona 1981.
KAPITÄN 1984 –
Kapitän G., Ancient Anchors – Tecnology
and Classification, in IJNA, n.
13, fasc. 1, a. 1984.
KARAGEORGHIS
1998 – Karageorghis V., Cypriote
Archaeology today, Achievements and Perspectives, Glasgow 1998.
LO SCHIAVO 1995a – Lo Schiavo F., Ancore di pietra dalla Sardegna: una
riflessione metodologica e problematica, in A.A.V.V., I Fenici: ieri, oggi e domani, Atti del convegno, Roma 1995,
pp.409-421.
LO SCHIAVO
1995b – Lo Schiavo F.,
Cyprus and Sardinia in the Mediterrannean Trades Routes toward the West, in
Cyprus and the Sea, Proceedings of the
Symposium (Nicosia 25-26 Sept. 1993), V. Karageorghis-D. Michaelides (ed), Nicosia 1995,
pp.45-60.
LO SCHIAVO 1997 – Lo Schiavo F., Le ancore di pietra, in BERNARDINI
D’ORIANO
SPANU 1997, pp.37-39.
TRAINITO 1999 – Trainito E., L’ambiente marino della Sardegna, Vol. 1, Nuoro 1999.
MC CASLIN
1980 – Mc Caslin D., Stone
anchors in Antiquity: Coastal Settlements and Maritime Trade-Routes in the
Eastern Mediterranean ca. 1600-1050 B.C., Goteborg 1980.
NIBBI 1993 –
Nibbi A., Stone anchors: The evidence
reassessed, in The Mariner’s Mirror,
n. 79, fasc. 1, a. 1993.
PAPÒ 1968 – Papò F., L’Archeologia Subacquea, in Sub,
Enciclopedia del Subacqueo, Vol. II, Firenze 1968, pp. 481-512.
POMEY 1997 – Pomey P. (a cura di), La Navigation dans l’Antiquité, Aix-en-Provence 1992.
RICCARDI 1996 – Riccardi E., Ancore, in CICILIOT 1996,
pp. 9-30.
SALVI SANNA 2000 – Salvi D., Sanna I., L’acqua e il tempo, Cagliari 2000.
Bibliografia sulle pietre da trebbiatura e
problemi connessi
A.A.V.V. 1982 – A.A.V.V., Cultura contadina in Toscana, Voll. I-II, Firenze 1982.
ANGIONI 1982 – Angioni G., Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Cagliari 1982.
BULFERETTI 1966 – Bulferetti L. (a cura di), Rifiorimento
della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura. Libri tre di
Francesco Gemelli, Cagliari 1966.
CHERCHI PABA 1974 – Cherchi Paba F., Evoluzione storica dell’attività industriale
agricola caccia e pesca in Sardegna, I, Cagliari 1974.
COLUMELLA DE R.R. – Columella L.G.M., L’Arte dell’Agricoltura (De Re Rustica),
traduzione a cura di Calzecchi Onesti R., Torino 1977.
CONTU 1998 – Contu E., La Sardegna preistorica e nuragica, vol. 2. La Sardegna dei Nuraghi, Sassari 1998.
DELLA MARMORA 1826 – Della Marmora A.F., Vojage en Sardaigne, Paris 1826.
DELLA MARMORA 1995 – Della Marmora A. F., Viaggio
in Sardegna, Volume primo Geografia Fisica e Umana, traduzione e
presentazione a cura di Brigaglia M., Nuoro 1995.
FADDA 1991 – Fadda M. A., Nurdole. Un tempio nuragico in Barbagia. Punto di incontro nel
Mediterraneo, in RstFen, n.19,
a.1991, pp. 107-119.
FOIS 1990 – Fois B., Attrezzi da lavoro e macchine semplici nelle campagne sarde fra antico
e altomedioevo, in A.A.V.V., L’Africa
Romana, 8. Atti dell’VIII Convegno di studio, Sassari 1990, pp. 713-718.
FORBES 1962 – Forbes R.I., Alimenti e bevande, in SINGER
et alii 1962,Vol. II, pp.106-149
GALASSO 2000 – Galasso M., “Strane” pietre forate, in L’archeologo
subacqueo VI, 2 (17), Maggio-Agosto 2000, pp. 7-8.
GEMELLI 1776 – Gemelli F., Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua
agricoltura. Libri tre di Francesco
Gemelli, in Torino presso Gianmichele Briolo 1776.
GUERRINI 1982 – Guerrini S., Il frumento, in A.A.V.V.
1982, pp. 53-82.
LE LANNOU 1941 – Le Lannou M., Pâtres et paysans de la Sardaigne, Tours 1941.
LE LANNOU 1992 – Le Lannou M., Pastori e contadini di Sardegna, traduzione e presentazione di
Brigaglia M., Cagliari 1992.
LILLIU 1988 – Lilliu G., La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei nuraghi, terza ed.
riveduta e ampliata, Torino 1988.
MANCA DELL’ARCA 1780 – Manca dell’Arca A., Agricoltura di Sardegna, Napoli 1780.
MANFREDI 1993 – Manfredi L.I., La coltura dei cereali in età punica in sardegna e Nord-Africa,
in QUADERNI
CA-OR, n.10, a.1993, pp. 191-218.
MICHAILOWSKI
1968 – Michailowski K., L’Art de l’Ancienne Egypte, Parigi 1968.
MICHAILOWSKI 1990 – Michailowski K., L’Arte dell’antico Egitto, Cernusco sul Naviglio
1990.
PALLADIUS
1976 – Palladius, Traité
d’Agriculture, Tome premier (livres I et II, texte établi, traduit et commenté
par René Martin, Paris 1976.
PLINIO 1499 – Plinius (Caiu) Secundus, Naturae Historiarum o Historia Naturalis,
impressi Venetiis p. Ioanne Almisium de Varisio Mediolanensm ano a Natali
Cristiao M CCCC LXXXXIX die XVIII Maii, in Biblioteca Comunale di Alghero
(SS), Fondo Antico, Inc. 2.
PLINIO 1589 – Historia
Naturale di G. Plinio Secondo Tradotta per M. Lodouicho Domenichi, in Venetia,
Appresso Gio. Battista Uscio, 1589. In Biblioteca Comunale di Alghero (SS),
Fondo Antico, 1-26.
QUADERNI CA-OR – Soprintendenza Archeologica per le
provincie di Cagliari e Oristano, Quaderni, annuale.
SAINT-SEVERIN
1827 – Saint-Severin C., Souvenirs d’un séjour en Sardaigne pendant les années 1821 et 1822, ou
notice sur cette ile, Lyon 1827.
SCHEUERMEIER 1943 – Scheuermeier P., Bauernwerk
in Italien der italienischen und raetoromanischen Schweiz, Vol. I, Zurich
1943.
SCHEUERMEIER 1983 – Scheuermeier P., Il lavoro dei contadini, Vol. I, Milano
1983.
SINGER et alii 1962 – Singer C., Holmyard E.F., Hall
A.R., Williams T.I. (a cura di), Storia
della Tecnologia, Vol. II, La civiltà
mediterranea e il medioevo (circa 700 a.C. – 1500 d.C.), Torino 1962.
SINGER et alii 1966 - Singer C., Holmyard E.F., Hall A.R., Williams T.I. (a cura di), Storia della Tecnologia, Vol. I, Dai tempi primitivi alla caduta degli
antichi imperi (fino al 500 a. C. circa), 2 edizione, Torino 1966.
SOLE 1967 – Sole C., La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Cagliari
1967.
TRAGLIA 1979 - Traglia A. (a cura di), Opere di Marco Terenzio Varrone, Torino
1979.
VARRONE DE R.R. – Varrone, De Re Rustica, Lib.I, par.52, in TRAGLIA 1979, pp. 688-689.
WAGNER 1921 –
Wagner M. L., Das Landliche Leben
Sardiniens im Spiegel der Sprache.
Kulturhistorische-sprachliche
Untersuchungen,
Heidelberg 1921.
WAGNER 1996 – Wagner M.L., La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, traduzione ed
introduzione a cura di Paulis G., Nuoro 1996.
WHITE 1967 –
White K., Agricultural implements of the
Roman World, Cambridge 1967, pp. 152-155.
ZENNER 1966 – Zenner F. E., L’addomesticamento degli animali, in SINGER et alii 1966, Vol.
I, pp. 332-357.
Fonte:
In Archeologia Postmedievale, 4, a.2000, pp.265-282
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Caro Pierluigi,
RispondiEliminati ringrazio per la pubblicazione di questo mio ormai vecchio ma sempre attuale lavoro ma devo stigmatizzare il fatto che l'hai pubblicato monco di note, tavole e bibliografia, il che rende molto mutilo il testo e ovviamente la comprensione dello stesso.
Qui di seguito c'è il link all'intero lavoro in modo che chi volesse consultarlo se ne possa giovare meglio.
https://www.academia.edu/13998938/_Ancore_di_pietra_fra_archeologia_ed_etnografia_di_Mario_Galasso_pubblicato_in_Archeologia_Postmedievale_4_a.2000_pp.265-282
Nel riportare l'articolo, per questioni di impaginazione, le note sono state tagliate. Sono, tuttavia, riuscito a inserire la bibliografia. Per le Tavole e le note, ho inserito il link con accesso diretto. Grazie Mario.
RispondiElimina