di Piero Bartoloni
(Ringrazio la studiosa Cinzia Bruscagli per la collaborazione nella stesura di questo articolo).
I problemi riguardanti il tofet, toponimo di origine biblica assurto a nome generico per indicare un santuario peculiare della civiltà fenicia e punica, sembravano ormai sopiti o, meglio, abbastanza condivisi nell’ambito del mondo degli studi, anche se sussistono due linee di tendenza, l’una incline a respingere l’ipotesi del sacrificio umano dei bambini, l’altra ad accettarla. A far tornare il problema alla ribalta dell’ambiente scientifico hanno contribuito decisamente alcuni recenti contributi di Schwartz, Houghton, Macchiarelli e Bondioli, direttore delle Scienze di Antropologia del Museo Pigorini, dedicato alle analisi dei resti scheletrici degli infanti rinvenuti nel tofet di Cartagine. Nel testo dal titolo “Adoratori di Moloch”, gli autori hanno sostenuto l’assunto dell’inesistenza del sacrificio umano. Ciò ha provocato una immediata risposta di Maria Giulia Amadasi che, invece, ha caldeggiato l’esistenza del sacrificio cruento dei piccoli Fenici e Cartaginesi sostenendo che, mentre per il tofet di Cartagine si sono contati circa venti bambini incinerati all’anno, per Mozia invece ne sono stati calcolati non più di uno o due all’anno. A mio avviso, il numero proposto è fortemente approssimativo, poiché non tiene conto né della cronologia delle urne, ne dal fatto che sia l’area del tofet di Cartagine che di quello di
Mozia non sono state indagate nella loro totalità. Né, infine, si sono tenuti in considerazione gli interventi dei vari archeologi che si sono succeduti, i cui risultati non sono stati oggetto di pubblicazione esaustiva e i cui reperti non sono noti né ben individuabili e, dunque, non inseribili nella statistica. Per quanto riguarda le restanti aree sacre, ad esempio il tofet di Sulky, si è potuto constatare che la maggiore concentrazione di urne si è avuta tra il VI e il V secolo a.C., mentre un numero minore si è constatato nei tre secoli successivi. A ben vedere, questo calcolo risulta totalmente privo di significato, poiché gran parte delle urne appartenenti ai livelli superiori, appunto tra il IV e il II secolo a.C., purtroppo sono sparite nel corso dei secoli. Significativo a questo proposito è il toponimo ancora attuale dell’area del tofet di Sulky, denominato Sa Guardia de is Pingiadas (La vedetta delle pignatte), che lascia intuire come le urne più superficiali – ovviamente le più tarde – siano emerse fortuitamente nel corso del tempo e purtroppo siano state distrutte. Mentre posso condividere con la Collega che, per quanto riguarda il mondo fenicio e punico, si tratti di una civiltà con costumi e mentalità lontane dalla nostra, mi limito a ricordare che, in riferimento al tofet, nella Bibbia si citano praticamente solo “seppellimenti” e “passaggi” per il fuoco che necessariamente non significano uccisioni o sacrifici cruenti. Come è ovvio, se i sacrifici cruenti e di uccisioni si fosse realmente trattato, gli estensori della Bibbia non avrebbero preso l’occasione di porli in evidenza.
Nel 2008, veniva alla luce un nuovo lavoro di Paolo Xella, dal titolo: “Per un modello interpretativo del tofet: il tofet come necropoli infantile?”. Al di là del quesito, l’Autore ripropone il dilemma del sacrificio cruento degli infanti, caldeggiandone l’esistenza e proponendo varie argomentazioni che spaziano dal campo storico-religioso a quello archeologico e antropologico. La pubblicazione di una lettera su Archeo, inviata da chi scrive in questa sede, riproponeva il problema, sposando l’ipotesi del santuario dedicato al seppellimento degli infanti non uccisi ma defunti per cause naturali.
Tale ipotesi si appoggia su una serie di considerazioni tra le quali soprattutto quella sulle analisi effettuate su un campione di 348 deposizioni rinvenute nel tofet di Cartagine tra il 1976 e il 1979 da Larry Stager, all’epoca professore del Semitic Museum di Harvard, e dalla sua equipe. Queste analisi hanno evidenziato la presenza di almeno un 20% di feti, dunque di individui immaturi, nati morti, quindi con tutta evidenza non immolabili. Quale sorte abbiano potuto subire i restanti, la cui età variava in stragrande maggioranza trai dodici e i ventiquattro mesi, non è stato possibile stabilirlo. Tale pratica della deposizione degli immaturi è stata reperita nella maggior parte delle aree sacre indagate, fino a oggi dieci, così come in nessun caso sono rimasti indizi di un’azione violenta sui resti ossei degli infanti nati e deceduti dopo la nascita.
Come è noto, né nella madrepatria libanese né tanto meno all’estremo Occidente mediterraneo, cioè nella Penisola iberica e nell’Africa settentrionale, è stata trovata traccia di questi santuari. Negli anni passati la scoperta fortuita di alcune tombe di adulti, corredate da segnacoli in pietra, effettuata alla periferia di Tito, aveva fatto ritenere che si trattasse di un tofet, ma tale assunto non ha retto a una critica stringente effettuata sui materiali rinvenuti. Dei dieci reali tofet individuati nell’area del Mediterraneo centrale, più precisamente, due sono ubicati in Tunisia, cioè a Cartagine e a Sousse, due in Sicilia, a Mozia e a Selinunte, e sei in Sardegna, a Cagliari, a Nora, a Bithia, a Sant’Antioco, a Monte Sirai e a Tharros. Non sono da comprendere i santuari in questione alcune aree sacre, tra le quali ad esempio quella di Sabratha, di Althiburos, presso Le Kef, di Henchir el-Hami, presso Zama Regia, e di El-Hofra, presso Costantina, che in qualche caso sono classificati come dei tofet, mentre in realtà sono santuari nati in ambiente numidico e ben dopo la caduta di Cartagine. Questi santuari appartengono infatti alla complessa temperie culturale, indagata a partire da Marcel Banabou, che coinvolse l’Africa settentrionale dopo la breve stagione cartaginese. Di diversa opinione, con motivazioni fondate principalmente su assunti storico-religiosi, sono alcuni studiosi, che tuttavia non hanno tenuto conto degli aspetti archeologici e del processo evolutivo che ha coinvolto queste aree sacre. Infatti, questi luoghi ben poco conservano dell’assetto, delle strutture e del rituale che fu quello proprio dei caratteristici santuari di età fenicia e punica. E’ indiscutibile che questi luoghi siano delle necropoli infantili, che talvolta conservano aspetti o monumenti simili a quelli un tempo in uso nei tofet, ma si tratta dei risultati di una realtà che ormai ha perso i connotati originali. Del resto, gli stessi tofet, quando la loro vita è stata sufficientemente lunga, hanno mostrato delle varianti, prima tra tutti quella che implicava l’uso della stele, che è legato alla conquista dei territori occidentali effettuata da Cartagine a partire dalla metà del V secolo a.C.
Di alcuni dei tofet, come quelli di Sousse, di Cagliari e di Nora, sono giunti a noi solo i reperti, di altri sono state curate indagini a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Infine, di alcuni rimangono lembi superstiti, dunque pienamente indagabili: si tratta dei tofet di Cartagine, di Mozia, di Bithia e di Sant’Antioco. Rimane comunque, seppure esile, la speranza di nuove scoperte, anche se alcune legate solo a indagini di archivio, come per quanto riguarda il presunto tofet di Rabat, a Malta, sulla base di quanto recentemente comunicato da Anthony Bonanno, Professore dell’ University of Malta. E’ da segnalare che, purtroppo, non in tutti i casi le indagini nelle aree sacre in oggetto sono state compiute in modo impeccabile e con il supporto indispensabile delle analisi archeometriche, ma fortunatamente nei tofet superstiti sussistono ampi lembi nei quali potranno essere effettuate le indagini con maggiore successo.
Nella mia qualità di archeologo militante sul terreno nel corso degli anni ho avuto modo di osservare e di partecipare alle indagini di buona parte di queste aree sacre. Mi riferisco soprattutto ai tofet di Mozia, in Sicilia, ove ho collaborato con Antonia Ciasca dal 1965 al 1979, e di Cartagine, in Tunisia, ove tra l’altro ho studiato e pubblicato le stele arcaiche. Inoltre, per quanto riguarda la Sardegna, ho lavorato nell’area sacra di Monte Sirai, collaborando con il collega Sandro Filippo Bondì, e, assieme a Ferruccio Barreca, all’epoca Soprintendente Archeologo della Sardegna meridionale, ho partecipato ai lavori nel tofet di Sulky, attuale Sant’Antioco. Inoltre, ho avuto la fortuna di poter osservare e documentare l’area del tofet di Tharros nel 1965, quando cioè erano appena iniziati i lavori diretti da Gennaro Pesce, il predecessore di Barreca e lo scavatore di Nora. Infine, ho potuto partecipare alla scoperta e lavorare nel santuario di Bithia, situato nell’isolotto di Su Cardolinu. A proposito del santuario di Bithia, desta qualche perplessità la descrizione fatta da Paolo Xella. Infatti l’Autore, per quanto riguarda sia la città che, in particolare, il santuario tofet e la necropoli, invita il lettore ad approfondire le relative notizie con una nota che rimanda alla piccola monografia dichiaratamente divulgativa a cura di Sabatino Moscati, edita per i tipi del Poligrafico dello Stato. Tuttavia, in questo lavoro di Sabatino Moscati, all’insediamento di Bithia vengono dedicate poche righe, che riguardano esclusivamente il tofet. In quest’ultimo contributo invece non vi è traccia delle notizie riguardanti la necropoli, attribuite al lavoro di Moscati e riportate dall’Autore in modo inesatto. In realtà tali informazioni compaiono piuttosto in un lavoro di poco successivo a quello di Sabatino Moscati. Un ulteriore apparente dilemma è costituito dalla ricostruzione del rito del tofet e della sequenza delle azioni. Paolo Xella ha sostenuto che l’azione della deposizione dell’urna contenente le ceneri dell’infante e quella della deposizione della stele fossero contemporanee. In contrasto con questa ipotesi sono i risultati delle indagini archeologiche effettuate nelle diverse aree sacre e la stessa documentazione contraddice palesemente questa ricostruzione. Infatti, tutti hanno affermato che il numero delle urne è decisamente molto superiore a quello delle stele e che al di sotto delle stele non vi è mai una sola urna, bensì due o più.
E’ stata recentemente avanzata in forma dubitativa l’ipotesi che il tofet possa essere considerata una sia pur particolare necropoli infantile, ma se il tofet è certamente un luogo di sepoltura dei resti dei bambini, l’area è indissolubilmente legata al sacro e ai legami con il divino. Tali e tanti sono gli aspetti a questo riguardo, che i santuari tofet non possono essere considerati delle “semplici” necropoli. Ciò anche perché nelle necropoli, apparentemente destinate agli adulti, sono reperibili, ancorché in numero decisamente minoritario, anche le sepolture degli infanti. I dati più recenti ci sono pervenuti dalla necropoli fenicia e punica di Monte Sirai, presso Carbonia, che è quella che attualmente ha fornito i dati più completi. Infatti su 330 sepolture sono state individuate 44 deposizioni di bambini. L’unico feto individuato è stato rinvenuto ancora in situ nel ventre materno in una tomba dei primi anni del V secolo a.C.. Quindi, riassumendo, nella necropoli di Monte
Sirai, tra la fine del VII e la fine del V secolo a.C., su 330 tombe, le tombe con resti di bambini in fossa terragna o in sepoltura a enchytrismòs sono oltre 40, pari al 13%. Come è ovvio si tratta di dati assolutamente parziali, poiché riguardano solo una piccola parte dell’impianto funerario, ma la percentuale si avvicina a quelle delle altre necropoli. Per quanto riguarda il tofet della stessa località, esplorato nel 1963 da Ferruccio Barreca e da Giovanni Garbini e tra il 1979 e il 1983 da Sandro Filippo Bondì e da chi vi parla, sono stati accuratamente raccolti resti umani e animali contenuti nelle urne, ma, se si prescinde da un esame autoptico effettuato al momento della scoperta, non sono state ancora eseguite analisi di antropologia fisica. Pertanto, un’ ulteriore problema è costituito dalla contemporanea presenza, nello stesso arco temporale, di infanti deceduti in tenera età e ospitati sia nelle necropoli “tradizionali”, sia nei campi di urne denominati tofet. I motivi sono per il momento sconosciuti, ma la soluzione del quesito non si prospetta semplice.
Il fenomeno del tofet è stato indagato anche recentemente non solo per quanto riguarda l’antropologia fisica, ma anche per quanto concerne quella culturale da Ignazio Buttitta, professore dell’ Università di Palermo, che, dopo un excursus ricco di argomentazioni, esclude il sacrificio cruento e conclude che: “La pratica fenicia […] esaminata, osservata come elemento di un più vasto sistema culturale, si presenta […] sotto diversa luce che, se non ci consegna a pieno le certezze in cui si riconoscevano i loro esecutori, si approssima più persuasivamente al loro orizzonte religioso e alle sue connesse pratiche rituali”.
Né, infine, sono da sottacere le implicazioni politiche riguardanti il supposto sacrificio dei bambini, implicazioni che intersecano con quelle storiche e ne condizionano il giudizio. Ad esempio, il desiderio di affermare la storicità degli avvenimenti narrati dalla Bibbia, oppure, viceversa, la condanna aprioristica del mondo semitico, che costituì la base della propaganda nazista.
Naturalmente, sono consapevole che, fino a ora, quanto offerto dalle indagini archeologiche e dalle indagini archeometriche dei resti rinvenuti non è di per sé né determinante né risolutivo per il problema, ma nessuno potrà negare che non lo sono neppure i dati forniti dalle fonti epigrafiche né da quelle letterarie, bibliche o classiche che siano, sulle quali grava anche il problema dell’interpretazione dei termini utilizzati. Il problema per il momento rimane apparentemente insoluto e io sono pronto e non avrò difficoltà ad accettare, se me lo si dimostrerà in modo convincente, che i Fenici e i Cartaginesi immolassero alcuni dei loro bambini. Resta il fatto che bisognerà anche spiegare perché tra i resti dei fanciulli, che taluno sostiene siano stati immolati, vi siano anche dei feti.
Voglio concludere con le parole che Andreas M. Steiner, Direttore della Rivista Archeo, ha recentemente dedicato al problema: […] Vent’anni fa, il grande studioso dell’universo fenicio Sabatino Moscati […] aveva dedicato al problema del sacrificio dei fanciulli cartaginesi una ricerca che oggi torna attualissima […]. Perché lo fece? Per amor di verità? Naturale. Quale verità? Quella scientifica, naturale. Ma lo fece anche, crediamo, perché non amava la “menzogna al potere” […]. E’ quasi inutile che aggiunga che io mi associo pienamente e che faccio mie queste parole.
Atti dell’Incontro Internazionale di studi
ROMA, MUSEO NAZIONALE PREISTORICO ETNOGRAFICO “LUIGI PIGORINI”
20-21 MAGGIO 2011
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