di Giuseppe Garbati
domenica 15 febbraio 2015
Archeologia. Antenati e “defunti illustri” in Sardegna nell’età punica.
Archeologia. Antenati e “defunti illustri” in Sardegna nell’età punica.
di Giuseppe Garbati
di Giuseppe Garbati
La ricostruzione delle
ideologie funerarie e dell’immaginario oltremondano nel mondo fenicio e punico
costituisce uno dei campi di studio più stimolanti. Una delle regioni in cui
l’apporto dell’archeologia si è dimostrato ricco di nuove suggestioni è senza
dubbio la Sardegna, sia in relazione ai contesti e ai corredi funerari
appartenenti alle fasi arcaiche della presenza fenicia, sia in riferimento alle
molteplici testimonianze inquadrabili nell’età punica. In merito a questa
seconda epoca, alcuni elementi interessanti sono stati restituiti di recente dai
rinvenimenti nella necropoli punica di Sulcis. Bernardini ha scoperto un ricco
sepolcro che consente di esprimere alcune considerazioni. La tomba numero 7
della necropoli punica di Sulcis, datata grazie al corredo ceramico entro la
seconda metà del V a.C., è composta da un’unica grande camera a pianta
trapezoidale, cui si accede da un ampio corridoio gradinato, provvista al
centro di un pilastro (fig. 1). L’interno della cella, lungo la parte superiore
delle pareti, presenta larghe fasce dipinte in rosso che inquadrano otto
nicchie costruite – due per ogni parete – e una falsa
porta; anche le facce laterali e posteriore del pilastro centrale sono
riquadrate da bande rosse. Il nodo della decorazione è costituito da un
altorilievo dipinto, ricavato sulla parete anteriore del pilastro (fig. 2).
L’immagine, di accentuata ispirazione egiziana, rappresenta una figura maschile
incedente, ritratta in posizione frontale e vestita di un corto gonnellino; il
braccio sinistro, portato al petto, reca al polso un laccio cui è legato un
piccolo contenitore, mentre il destro, disteso lungo il fianco, presenta il
pugno chiuso a tenere un rotolo. Su entrambe le braccia è riportata una serie
di tre bracciali, resi attraverso pittura rossa; la stessa pittura e del
pigmento nero sono ampiamente utilizzati per sottolineare altri particolari
dell’immagine, sia anatomici (le labbra, la barba, i baffi, la capigliatura, le
orecchie, i capezzoli), sia inerenti all’abbigliamento e agli accessori (il
copricapo, il gonnellino, il diadema, il rotolo, il recipiente). Come suggerito
da Bernardini, la tipologia
Note di iconografia e di
iconologia
Il particolare ambito di
appartenenza e l’iconografia del personaggio sulcitano pongono una serie di
questioni che coinvolgono la fisionomia delle ideologie funerarie fenicie e
puniche, e che si riallacciano alle relazioni tra la madrepatria e il mondo
coloniale. L’inquadramento storico-artistico cui la scultura si ispira va
rinviata verosimilmente ad ambiente levantino, fenicio e cipriota. Nonostante
non sia difficile riscontrare la profonda influenza da parte dell’arte e della
cultura egizie e sebbene esistano precisi paralleli nella documentazione
coloniale (alla Sardegna si aggiungono Malta e la Sicilia, con, rispettivamente,
un esemplare da Tas Silg e uno dallo Stagnone di Marsala), l’altorilievo
potrebbe trovare i precedenti diretti nella produzione orientale, fenicia e
cipriota, di sculture di tipologia analoga (sia a tutto tondo, sia a rilievo). In
Oriente una simile corrente artistica si articola cronologicamente in due fasi:
la prima si sviluppa nella madrepatria a partire dall’VIII a.C. e comporta la
diffusione di opere che imitano direttamente la statuaria egiziana (ne è
esempio il celebre torso di Tiro); l’altra, invece, che inizia intorno al 600
a.C., pur riproponendo anch’essa i modelli egizi, trova la sua sede primaria di
elaborazione nell’isola levantina, tanto da far pensare all’importazione da
Cipro delle stesse statue ritrovate in Fenicia o forse degli artigiani che le
produssero in loco. Se però nel territorio insulare questa produzione non
scende oltre l’età persiana, in Fenicia tali sculture sono ben documentate
anche in fasi più recenti (IV-III a.C.), come mostrano alcuni esemplari da
Sarepta e da Umm el ‘Amed. Simili indicazioni potrebbero suggerire, pertanto,
che i modelli di derivazione dell’altorilievo di Sulcis non vadano cercati
direttamente in Egitto (che pure rimane l’ambiente originario di mutazione del
tipo), quanto nelle stesse aree levantine, dove la ricchezza e la lunga fase di
sviluppo di questa produzione ne fanno una delle forme più notevoli dell’arte
scultorea locale. Tra le regioni orientali maggiormente interessate dal
fenomeno, vanno annoverati il territorio di Sidone (sede di un governatorato
appartenente alla V satrapia) e, non a caso, l’isola di Cipro; quest’ultima,
come documentato da diverse classi di materiali, dovette ricoprire in tale
contesto una funzione primaria, in quanto componente e veicolo della cultura
fenicia nella diffusione da Oriente a Occidente. Ed è proprio per il tramite
delle aree levantine che le suggestioni egiziane dovettero raggiungere
l’ecumene coloniale, pur senza escludere l’esistenza di apporti diretti dalla
valle del Nilo. Che la tomba sulcitana possa rientrare pienamente in questa
temperie è poi suggerito dall’architettura del sepolcro: la porta d’ingresso
alla camera funeraria presenta lungo i margini un motivo a cornici multiple,
ben noto in numerosi esempi della produzione di stele. Passando ora all’esame
iconologico del rilievo, ricordiamo che già nella pubblicazione della tomba Bernardini
ha sottolineato giustamente come l’immagine può essere interpretata, per
esempio, quale rappresentazione di un genio o demone ctonio, incaricato di
proteggere i defunti e il loro ultimo sonno o periglioso viaggio dell’anima,
secondo modelli di lettura applicati peraltro anche alle maschere e alle
protomi rinvenute in contesti funerari. Bernardini, tuttavia, preferisce vedere
nella scultura l’allusione simbolica al defunto eroizzato; secondo l’autore,
tale identificazione sarebbe indicata, tra l’altro, dalla pittura rossa, che
lega a riti di preparazione del cadavere ben attestati nell’Africa punica e
punicizzata. Quest’ultima interpretazione è poi suffragata da almeno altri due
elementi. In primo luogo, all’interno della camera funeraria è stato trovato,
anche se estremamente danneggiato, il feretro ligneo che conteneva i resti del
defunto, decorato superiormente con una figura affine all’immagine sul
pilastro. In secondo luogo, i documenti archeologici riflettono l’originaria
destinazione del sepolcro a un’unica deposizione, quella attestata dai resti
del sarcofago, il che manifesta ulteriormente il prestigio del defunto. Non da
ultimo, è utile ricordare la presenza nella cella di resti di uccelli e di uova
deposti all’interno di una nicchia e sparsi sul pavimento, da intendere come
residui di rituali funerari connessi probabilmente a ideologie di rigenerazione
nell’aldilà. A questi dati si può aggiungere che la possibilità di un confronto
tra l’altorilievo, le maschere e le protomi di ambiente necropolare, che
potrebbe indicare nell’opera la rappresentazione di un demone, non può essere
utilizzata come diretto supporto alla lettura del monumento, considerato che nulla
di mostruoso o grottesco connoti la figura. Seguendo quanto già indicato da
Bernardini, sarà quindi preferibile leggere l’esemplare nei termini di una
concettualizzazione figurativa del defunto, rappresentato in una veste che lo
rende, dopo la morte, appartenente a una particolare categoria sovrumana legata
alla percezione fenicia dell’universo oltremondano.
Tra Oriente e Occidente
Il transito dalla Fenicia e da
Cipro verso Occidente di prodotti ed esperienze artistiche, si accompagna alla
penetrazione negli insediamenti coloniali di nuove forme di culto che, in
Sardegna e a Cartagine, trovano la più compiuta affermazione proprio a partire
dall’età persiana; lo indica, per esempio, la presenza nelle colonie di
divinità precedentemente assenti, come Sid e Shadrafa. Rimanendo sul suolo
sardo, ci sembra utile soffermarci particolarmente sulla figura del dio Sid, la
cui morfologia potrebbe restituire alcuni spunti di riflessione. Il culto del
dio acquista una nuova centralità nell’isola a seguito della conquista
cartaginese, e specificamente nel corso del V secolo, momento cui va assegnata
l’edificazione del tempio di Antas (Fluminimaggiore – Sardegna interna
sud-occidentale). Identificato con il romano Sardus Pater (il Sardo che, secondo
alcuni brani classici, colonizza la Sardegna e ne diviene eroe eponimo), Sid si
mostra come una divinità dalle forti coloriture dinastiche, un eroe divino, antenato
progenitore e, in quanto tale, personaggio vincolato alla legittimazione
ideologica dell’avvenuta conquista punica della Sardegna. Egli, inoltre, è
legato nelle funzioni al dio nazionale dei Fenici, Melqart, tanto da essere
associato alla divinità tiria in una nota iscrizione di Cartagine. Peraltro,
Sid si presenta fortemente debitore, nella morfologia, di antiche tradizioni
orientali incentrate sulla venerazione di personaggi storici divinizzati dopo
la morte e si presenta affine ad altre note divinità fenicie, quali Eshmun,
Shadrafa e Milkashtart. Il suo
culto, inoltre, è permeato di aspetti religiosi appartenenti alla cultura di
sostrato, di nuovo focalizzati sulla diffusione e sulla venerazione di figure
dai tratti dinastici: il titolo B’BY, che accompagna il nome di Sid nelle
iscrizioni puniche di Antas – da intendere come termine di derivazione
paleosarda recante il significato di «padre» (in senso dinastico) –,
sottenderebbe un legame diretto del dio con una divinità regionale delle genti
indigene (lo stesso Sardo, eroe eponimo di Sardegna). Ora, fermo restando il
riconoscimento in Sid di caratteri propri della tradizione locale sarda, ci
sembra però che non sia necessario scomodare la figura di un primo dio nuragico
dei Sardi, del quale d’altra parte mancano testimonianze dirette. È
preferibile, piuttosto, cercare un momento di contatto tra le due culture, la
fenicia e quella di derivazione nuragica, proprio nel culto degli antenati, che
costituisce uno dei tratti più qualificanti della religiosità protostorica
dell’isola, come del resto indicato, solo per citare qualche esempio, dalle
celebri statue di Monti Prama o anche da alcune serie della bronzistica
figurata: in queste opere è spesso riportata l’immagine di illustri personaggi
raffigurati in ruoli significativi, arcieri, sacerdoti, guerrieri, per la
sopravvivenza dell’identità propria delle comunità elitarie indigene. Tematiche
eroiche, principesche e sacerdotali appaiono centrali all’interno dei gruppi
dominanti, i quali, con finalità di autocelebrazione, tendono a ritrarsi con i
simboli e gli apparati del culto e, soprattutto, con l’arredo delle proprie
armi. Nella figura di Sid B’BY sarebbero quindi confluiti alcuni tratti delle
memorie cultuali protostoriche, rinviabili alla venerazione di personaggi
illustri divinizzati dopo la morte, più che le qualità di una divinità
specifica già pienamente concettualizzata, nei suoi tratti regionali, in età
protostorica. Questa breve digressione sulla morfologia di Sid apre la possibilità
di comprendere se sia possibile istituire forme di relazione tra la diffusione
delle sculture funerarie del Sulcis, così legate alla venerazione dei defunti e
al loro processo di eroizzazione, e la coeva affermazione del culto di un dio
dalle forti coloriture dinastiche, strettamente vincolato alla sfera
oltremondana. Una simile domanda è giustificata anche dall’appartenenza
dell’altorilievo sulcitano e del culto di Sid a un medesimo sfondo storico e
culturale, tutto concentrato sulla maturazione delle nuove suggestioni che da
Oriente raggiungono l’Occidente durante l’età persiana e che sembrano trovare
in Sardegna terreno fertile per la loro stessa affermazione. Per cercare
possibili elementi di confronto e di comprensione è necessario volgersi
nuovamente verso Oriente dove la documentazione levantina mostra una
particolare attenzione cultuale verso membri insigni della società (Re, eroi) cittadina
dopo la morte. Forme simili di culto vantano una lunga storia nella
Siria-Palestina, tanto da essere testimoniate nei testi letterari almeno della
tarda età del Bronzo. Ci riferiamo, nella fattispecie, alle figure dei Rapiuma
ugaritici (e dei Refaim biblici): i defunti illustri (sovrani, guerrieri,
personaggi storici rilevanti), assurti, dopo il decesso, a un rango speciale
tra le ombre dei morti; spesso in rapporto con la dinastia regale, essi
ricoprono notevoli capacità di intervento benefico nei confronti dell’uomo. Il
fondamento mitico del culto dedicato a questi personaggi è conservato nella
vicenda del dio Baal; come si evince dalle tavolette ugaritiche, costretto ad
affrontare in un terribile scontro il dio Mot, la morte, egli diviene il
protagonista di una vicenda di scomparsa negli inferi e di ritorno alla vita,
attraverso la quale ottiene il rango di Baal-Rpu, «Baal il
salvatore/guaritore», capo dei Rapiuma. Sul piano cultuale «la catabasi di Baal
agli inferi apre la strada al riconoscimento del semplice morto che diviene
naturalmente antenato. Membro, cioè, di una comunità ritenuta attiva e operante
a favore dei vivi, presente nelle memorie e nel culto». In questo senso il mito
di Baal, nell’episodio della lotta contro Mot, della sconfitta e della
conseguente riaffermazione del dio, si fa fondamento di una soluzione alla
morte, che trova spazio e materia nelle pratiche cultuali dirette alla
devozione di personaggi storici divinizzati. Pertanto, a Ugarit, entrare a far
parte dei Refaim è in concreto un mezzo per conservare anche dopo la morte una
funzione precisa ed essenziale, che appare una reale e vincente alternativa
culturale tanto ad una larvata forma di esistenza nell’aldilà, quanto a
soluzioni snaturalizzanti come la vita eterna. Oggi sappiamo quanto le
concezioni relative a Baal e ai gruppi di Rapiuma/Refaim abbiano influenzato la
storia religiosa e la sistemazione dei pantheon cittadini negli insediamenti
fenici, tanto da portare le morfologie di alcune delle principali divinità,
poliadi e non, a essere direttamente debitrici del mito e del culto del grande
dio ugaritico. Ne troviamo il più chiaro esempio in Melqart, concepito come la
«ipostatizzazione mitico-rituale della figura del sovrano, proiettato nella
sfera delle divinità; o, se si vuole, rovesciando completamente l’ottica, del
coinvolgimento del Bacal cittadino nel novero dei dinasti, facendone appunto il
primo re, il capostipite, l’esemplare». Se quindi appare piuttosto evidente la
conservazione, in alcune divinità fenicie, di elementi appartenenti alle
tradizioni ugaritiche, facenti perno sul culto dei Refaim (come accennato,
oltre a Melqart, rientrano nello stesso contesto anche Eshmun, Shadrafa,
Milkashtart e lo stesso Sid), dobbiamo però ammettere che proprio la presenza
di quella stessa categoria di avi divinizzati, che potrebbe rappresentare una
chiave di lettura dell’altorilievo sulcitano, si mostra alquanto flebile nella
documentazione fenicia. I dati epigrafici più antichi in merito, infatti,
tacciono del tutto, laddove il nome Refaim ricompare in età persiana e,
specificamente, nelle iscrizioni funerarie dei re sidonii Eshmunazar e Tabnit;
tuttavia, l’architettura dei testi – si tratta di maledizioni rivolte contro
gli eventuali profanatori delle tombe reali – appare riservare al termine un
significato che include tutti i comuni defunti piuttosto che una sola categoria
di antenati. Sembrerebbe cioè che nel tempo l’antico culto, cristallizzatosi
nella morfologia di particolari divinità, quali Melqart, abbia trovato in
queste una sorta di «soluzione fenicia», lasciando meno spazio alla prestigiosa
alternativa, umana e culturale, alla morte che gli stessi Refaim rappresentano
nel passato ugaritico.
Sid pater e defunti “illustri”
Ora è il caso di soffermarci
sul principio fondante, il mito riattualizzato nel rito, del culto di
personaggi celebri e operanti a favore dei vivi dopo la morte (originari di
ambiente siro-palestinese), vale a dire la ricordata relazione tra la vicenda di
Baal e l’istituzione del culto dei Rapiuma. Spostando quello stesso fondamento
verso la Sardegna, è lecito tornare a chiedersi se l’affermazione dalla piena
età punica di Sid, dio pater, vicino nei tratti proprio alle figure dei
Rapiuma, abbia avuto una qualche relazione con la coeva diffusione di
particolari forme di culto funerario, espresse da raffigurazioni tanto
personalizzate quali gli altorilievi del Sulcis: questi, infatti, sono forse il
sintomo più tangibile della celebrazione eroica di personaggi di prestigio, non
così presente, almeno a livello figurativo, nelle fasi precedenti. Il culto di
Sid, eroe divino, e quello dei defunti eroizzati si mostrano come parti
costituenti di uno stesso sistema, in buona misura analogo a quanto l’antica
documentazione levantina ci propone: le ideologie promosse in Sardegna dal V
secolo nel culto di una divinità dinastica – garante dell’affermazione politica
ed ideologica di Cartagine nell’isola –, potrebbero aver costituito una sorta
di principio fondante, da cui avrebbero attinto alcune modalità di guardare
alla morte. Seguendo quest’ottica, la possibilità di disporre di tradizioni
cultuali e mitiche stratificate nel tempo avrebbe consentito l’istituzione di
particolari forme del culto funerario, soprattutto se pensiamo alla fase
storica in oggetto: il cambiamento della situazione sociale di Sardegna, ad
avvenuta conquista punica (il che dovette essere fonte di squilibri), nonché la
ripresa dei rapporti con la Fenicia, potrebbero aver rappresentato i due poli
entro i quali si sarebbe mossa la ricerca di elementi tradizionali (levantini),
anche applicabili alla nuova dimensione culturale dell’isola. Del resto,
sebbene manchino a tutt’oggi fonti letterarie di ambito fenicio in merito,
potremmo rintracciare l’eco di simili dinamiche in numerosi racconti classici
facenti perno sulle figure di eroi protagonisti, anche nella morte, della
storia più antica della Sardegna. Viene spontaneo pensare, per esempio, a
Iolao, da alcuni identificato con Sid, il quale trova nell’isola, secondo
Solino, il luogo della sua sepoltura: è ancora Solino che ricorda lo
svolgimento di un culto presso il sepolcro dell’eroe greco (I, 61). L’esistenza
di figure divine intimamente legate al mondo dei morti e il loro rapporto con
culti di eroizzazione di particolari categorie di defunti si mostra come un
aspetto essenziale della religione fenicia che si rifletteva anche nel mondo coloniale.
Su questa linea, il teatro culturale al quale ci sembra appartengano le
sculture sulcitane potrebbe essere quello di una riproposizione, anche sul
piano figurativo, di un antico modello religioso vicino-orientale, fondato sul
rapporto divinità morente/culto dei morti; esso potrebbe aver trovato una nuova
consistenza nella Sardegna di V secolo, anche in conseguenza della riapertura
delle relazioni con la Fenicia e con il mondo cipriota. Rimangono
significative, del resto, le profonde connotazioni egittizzanti della tomba n.
7 di Sulcis, che certo arricchiscono il panorama delineato, pur non essendo
necessariamente interpretabili come fonte primaria delle ideologie veicolate
dai vari elementi – l’altorilievo in primis – del sepolcro stesso. Peraltro, le
rinnovate suggestioni avrebbero interagito, da un lato, con la memoria cultuale
delle genti insulari, consentendo la confluenza nella morfologia di un dio
fenicio, Sid B’BY, di tradizioni appartenenti al retaggio locale; dall’altro,
avrebbero condotto ad esiti punici le tombe sulcitane; pur mutate le condizioni
sociali, politiche e culturali nel passaggio ad Occidente, il modello levantino
avrebbe consentito a membri eminenti della società di assumere, dopo la morte,
un rango speciale nell’aldilà, secondo una veste che tanto deve alle tradizioni
siro-palestinesi. Rimane da rimarcare il fatto che tali processi sembrino
concentrarsi preferibilmente nella regione sulcitana, tra Sulcis stessa, Monte
Sirai e Antas, disegnando il profilo di un territorio aperto alla ricezioni di
stimoli, nonché alla loro rielaborazione da parte delle nuove e delle antiche
culture trovatesi in contatto.
Fonte: www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html
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Anche hnsm è sulcis......Mi sono chiesto molte volte come mai nonostante ci sia un tempio dedicato a baalshamin (l'altro è a Palmira)non è mai stato fatto nulla per individuarlo?PerchÈ si è permesso di distruggere un patrimonio archeologico che poteva riservare grosse sorprese ? Eppure bernardini,bartoloni,zucca di danno da fare in altri luoghi per il patrimonio punico fenicio.......
RispondiEliminaAttendiamo fiduciosi i nuovi specialisti. Sono ormai terminate due epoche (Lilliu e allievi) e finalmente c'è spazio per qualche giovanotto di belle speranze. E' importante avere scardinato il teorema "sardi-isolani-isolati"...ora sarà più facile osare.
RispondiEliminaBeh,in questo caso non c'era niente da osare(era tutto scritto),ma da scavare.... Forse non era il posto da valutare.Grazie
RispondiElimina