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venerdì 6 febbraio 2015

La storia del miele

La storia del miele 
di Paolo Faccioli


Il miele ha una storia antichissima, infatti è documentata la presenza di piante che producono nettare e polline fin da 100 milioni di anni or sono. Le prime api compaiono da 40 milioni di anni fa, insieme ai primi esemplari di primati, ma le api sociali, cioè le api vere e proprie che funzionano come organismo collettivo, risalgono circa a 20 milioni di anni or sono. Le prime tracce che testimoniano l’uso del miele da parte dell’uomo sono databili a circa 10 mila anni fa, come evidenzia una pittura rupestre scoperta nei pressi di Valencia, in Spagna, che mostra un uomo che si arrampica sulla cima di un albero, o di una rupe. E’ circondato da api in volo, dotato di una cesta per riporre i favi sottratti alle api, e usa una nuvoletta di fumo per ammansirle. E’ la stessa tecnologia usata oggi dai cacciatori di miele in India, che si arrampicano con scale di corda su rupi alte anche 100 metri. La più antica testimonianza dell’allevamento vero e proprio delle api risale a una pittura egiziana del 2400 a.C., in cui a destra si nota l’operazione di prelievo dei favi dagli alveari con l’uso del fumo, e a sinistra l’operazione di sigillo delle giare. L’immagine appartiene a una serie rinvenuta nel Tempio del Sole, vicino al Cairo. Il miele nell’Antico Egitto era inizialmente un cibo di lusso, una prerogativa reale e divina; una maggiore generalizzazione del suo uso comincia nel II millennio a.C., come mostra il ritrovamento di vasi per il miele o favi in tombe private, e la menzione del miele come razione
di cibo in spedizioni commerciali, come bottino di guerra, pagamento di tributi, offerte templari e doni votivi. Il miele era conosciuto e apprezzato in tutti i popoli dell’area mediterranea e di quella egeo-anatolica: e in molti paesi di queste aree l’apicoltura era praticata almeno dal 1500 a.C.
Tra il III e il II secolo avanti Cristo si manifestò un vivo interesse per l’apicoltura, a cui dedicano attenzione i trattati di agricoltura dell’epoca. Aristotele, nel trattato De Generatione Animalium, offre la prima descrizione anatomica delle api e avanza un’ ipotesi sulla formazione del miele: “il miele è una sostanza che cade dall’aria, specialmente al sorgere delle stelle e quando si incurva l’arcobaleno, l’ape lo porta da tutti i fiori che sbocciano in un calice, essa assorbe i succhi di questi fiori con l’organo simile alla lingua”.

A questi trattati attingeranno le successive opere in latino che, dal I dopo Cristo, parleranno delle api: Virgilio nelle Georgiche, Plinio nella Naturalis Historia, Columella nel De re rustica. Seneca, nel I d.C., ipotizzava che le api non si limitassero a raccoglierlo dai fiori, ma lo elaborassero: "Non si sa bene se le api ricavino dai fiori un succo che è addirittura miele, oppure trasformino in questa sostanza saporita le essenze raccolte, mescolandole insieme e servendosi di una qualità del loro alito”. Bisognerà arrivare al 1650 per avere una formulazione compiuta del processo di trasformazione del nettare in miele, da parte del microscopista danese Swammerdam. E solo nell’Ottocento la chimica organica ha fornito una spiegazione del fenomeno. Nell’antichità il miele, nell’alimentazione, era utilizzato come dolcificante, come condimento e come conservante. Il trattato De arte coquinaria di Apicio è la fonte più ricca di informazioni sull’uso del miele in cucina. Il gusto agrodolce era molto apprezzato, ma quella del trattato di Apicio era una cucina stravagante ed elitaria. Come dolcificante compare sulle tavole di tutti, a volte servito nel favo in cui era contenuto, ma era usato anche nel confezionamento di piatti di pesce e di legumi, di confetture di frutta e sciroppi, di focacce. Come conservante, era utilizzato con frutti come mele cotogne e pere. Insieme al latte, era un alimento per i bambini delle fasce sociali più alte. Dalla sua fermentazione veniva prodotto l’idromele, che continuò ad essere popolare nel Medioevo. Un’altra bevanda ricercata era il vino mielato, per il quale si utilizzavano i vini più pregiati e stagionati, come Falerno e Massico. L’uso del miele si estendeva alla cosmesi (oli aromatici e profumi) e alla medicina, come antisettico, cicatrizzante, purgativo, fino all’artigianato (immersioni per dare brillantezza al colore porpora dei tessuti o alle pietre preziose).
Al miele e all’ape, era attribuito un valore sacro e un’origine divina, come testimoniano diversi miti: quello di Zeus nutrito dal latte della capra Amaltea e di miele dalle figlie di Melisseo, di Dioniso allevato a miele da una ninfa e di Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, che insegnò agli uomini l’arte dell’apicoltura. Il miele era anche simbolo di rigenerazione dopo la morte, ed era usato fin dal V a.C. nei culti funerari ad Atene. Aristotele distingueva fra prima o seconda scelta a seconda che provenisse dalla colatura del favo o dalla spremitura, inoltre parlava di miele primaverile “più dolce e più bianco di quello autunnale”.  Sosteneva inoltre: “il miele rosso è meno buono e si corrompe come il vino nei recipienti, perciò occorre farlo seccare”. Il miele di timo era quello che godeva di maggiore popolarità: “Il miele della Sicilia” scriveva Varrone “ha la palma su tutti proprio perché là abbonda il buon timo”.  E Plinio: “Perché sia buono, deve essere profumato, di un sapore dolce-amaro, vischioso e trasparente”.  Anche il miele di erica viene identificato come tale: “è raccolto dopo le piogge autunnali, quando solo l’erica è in fiore nei boschi: per questo ha l’aspetto granuloso”. Il prezzo era paragonabile a quello degli oli e vini migliori, come si rileva dall’ “Editto dei prezzi” di Diocleziano del 301 dopo Cristo.
Se nell’ambito del Mediterraneo era diffusa un’apicoltura basata sull’uso di arnie orizzontali (di materie vegetali o di coccio), nel Nord Europa e in Russia  si sviluppò un’ ”apicoltura forestale” in diretta continuità con l’attività del “cacciatore di miele”: gli sciami, alloggiati in alberi d’alto fusto, venivano identificati e, praticando delle aperture per poter estrarre più comodamente il miele, venivano periodicamente ripuliti del miele, con l’aiuto di scale di corda. Ancor oggi questa tecnica primordiale è praticata in regioni della Russia, come il Bashkortostan. 
Il passo successivo fu quello di segare gli alberi per recuperare gli sciami o di utilizzare tronchi cavi per sfruttare le colonie d’api, con la possibilità di radunarle in postazioni apposite. Arnie in paglia di segale o altro materiale vegetale furono un possibile sviluppo dell’arnia a tronco, col vantaggio di una maggiore trasportabilità. La colonizzazione romana non comportò l’introduzione dell’arnia orizzontale di tipo mediterraneo, che conservò una più che millenaria tradizione “verticale”.

La tecnologia della produzione rimarrà sempre uguale a se stessa fino a metà dell’Ottocento, fino cioè alla scoperta dello “spazio-ape”, lo spazio fisso di 9 mm che le api lasciano per distanziare le loro costruzioni (e permette il passaggio di due api simultaneamente), che portò all’invenzione dell’arnia moderna a favi mobili, dove era possibile non solo studiare la vita delle api come dalle pagine di un libro aperto (mentre nell’arnia rustica favi e contenitore erano saldati in un tutto unico), ma anche ottimizzare la raccolta del miele senza ricorrere all’uccisione delle api, e intervenire sullo sviluppo delle famiglie d’api. Il complemento del telaio mobile fu lo smielatore, inventato nel 1856 dal maggiore Von Hruschka, dove si potevano inserire i telaini per estrarne il miele tramite centrifugazione.

Fonte: abeterosso@unaapi.it

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