I Tofet, i cimiteri fenici dedicati ai bambini
di Pierluigi Montalbano
(Testo tratto da "Fenici, antichi popoli del mare", in pubblicazione).
Questi antichi santuari a cielo aperto, dedicati ai neonati defunti, sono
diffusi nell’area mediterranea centrale. Sono assenti nel Vicino Oriente e nella zona
iberica, trovandosi solo nel Mediterraneo centrale: due a Tunisi (Cartagine e
Sousse), due in Sicilia (Mozia e Selinunte), uno a Malta e sei in Sardegna
(Karaly, Nora, Bitia, Tharros, Monte Sirai e Sulky). Sono circondati da un recinto sacro, all’interno del quale si
depongono i resti dei bimbi dentro urne in ceramica. In superficie, le
sepolture sono segnalate da stele in pietra. I tofet, generalmente, si trovano
in posizione periferica a nord degli abitati, e non vengono mai spostati,
infatti, qualora si dovessero fortificare le città, si aggirano modificando il
percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di feti, fanciulli, infanti,
agnelli, capretti e uccelli. Ogni tofet è dedicato a due divinità: Baal Ammon e
Tanìt. Il primo è una divinità che i greci identificano con Krono e i romani
con Saturno. Tanìt è la paredra femminile, attestata come manifestazione di
Baal, che lo affianca dal V a.C. per poi sostituirlo. E’ una divinità orientale
raramente testimoniata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante con
Astarte. Greci e romani la assimilavano a Era o Giunone.
Un termine che compare spesso nelle stele
dedicatorie dei tofet, e di altri santuari, è MLK, ossia offerta, dono, dedica.
Il tofet, infatti, era un luogo nel quale si deponevano le offerte, racchiuso
in un recinto in muratura, nel quale erano sistemati sul rogo e poi sepolti con
particolari riti, i bambini non nati, nati morti o deceduti prima
dell’introduzione nel mondo degli adulti. Nell’area del tofet, i genitori
svolgevano riti tesi a ottenere dagli dei una nuova nascita. I resti
dell’incinerazione finivano in un recipiente in terracotta e, se la grazia
andava a buon fine, ad esempio nasceva un bambino, i genitori erigevano nel
luogo sacro una stele in pietra, talvolta con un’iscrizione dedicatoria. Il
rito d’iniziazione per il passaggio nel mondo degli adulti equivaleva al nostro
battesimo, o alla circoncisione nel mondo ebraico e islamico. Questo rito era
il “passaggio per il fuoco” di biblica memoria, ancora oggi praticato in
Sardegna in occasione della notte di San Giovanni, quando si salta attraverso
un falò. Le fiamme erano la soglia attraverso cui i fanciulli dovevano passare,
vivi o morti.
Le stele, al contrario delle urne, in gran parte
perdute, si sono salvate perché nel corso dei secoli furono accantonate
all’interno delle aree sacre e utilizzate per la costruzione di muri divisori o
altari, contesti dai quali sono state recuperate in età moderna. Le più antiche
erano costituite da pietre oblunghe denominate betili, dalle parole fenicie bet
ed el, rispettivamente casa e dio, a indicare che ospitavano divinità. All’inizio
del V a.C. compare un tipo di stele somigliante a un piccolo tempio, con varie
componenti architettoniche. Le figure contenute all’interno cambiano:
prevalgono le raffigurazioni iconiche, ossia personaggi divinizzati, ma a Tharros
e Nora si registra la presenza di simboli aniconici come losanghe, betili o
idoli a forma di bottiglia. In seguito compaiono personaggi che stringono al
petto un disco solare e divinità che nella mano destra sorreggono il simbolo
egizio ankh (simbolo della vita), mentre nella mano sinistra impugnano una
stola, una fascia che scende giù dalla spalla.
Uno studioso francese scomparso il secolo scorso,
Pierre Cintas, riteneva che le maschere fossero un prodotto occidentale. Gli
scavi recenti hanno posto in evidenza una forte somiglianza fra le
raffigurazioni delle maschere e una creatura mitica mesopotamica, Kumbaba, che
compare nel poema sumero-accadico Gilgamesh. Il mostro è sconfitto dall’eroe,
con l’aiuto del compagno Enkidu e del dio mesopotamico del sole, Shamash. La
maschera più antica dell’area siro-palestinese, inquadrabile intorno al 1400
a.C., fu portata alla luce ad Hazor, nell’Alta Galilea. Più recente è quella
scoperta nel 1966 nella necropoli di Khan Khaldé, a Beirut. Altre maschere del
700 a.C. sono state trovate a Tiro in una necropoli (Akhziv). Le maschere,
dunque, sono un prodotto orientale che si diffuse in buona parte
dell’Occidente, ma con una differenza sostanziale: nel mondo accadico, Kumbaba
era legata al male, soggetta pertanto a scongiuri; nel mondo occidentale aveva,
invece, una funzione apotropaica e protettiva. Le indagini svolte nella
necropoli di Tharros dal 1850 al 1950 hanno subìto la dispersione dei
rinvenimenti, dunque è difficile datare i reperti affidandosi al contesto
stratigrafico. Alcune maschere rappresentano divinità minori, come quella
rinvenuta nella necropoli di Sulky: un mostro con barba nera e baffi in
rilievo. Una maschera scoperta a Tharros mostra una capigliatura folta, occhi,
barba e baffi incisi, mentre la bocca pare sorridere. Le dimensioni sono più
piccole del naturale, quindi non erano destinate a essere indossate. A volte si
presentano sotto forma di amuleti, miniaturizzate, databili dal 700 a.C. Lo
scopo era forse quello di spaventare i rephaim, ossia le ombre che disturbavano
la pace della nephesh, l’anima che rimaneva nel sepolcro.
Fra gli oggetti più importanti del mondo sacro
abbiamo lo scarabeo, simbolo dell’immortalità dell’anima nell’antico Egitto.
L’oggetto rappresenta il dorso di un coleottero, mentre la figura sul piano
d’appoggio è il sigillo che il proprietario utilizzava quando era in vita, una
sorta di firma impressa sui globetti di argilla noti come cretule. Queste
palline argillose, erano legate con un laccio ai documenti contabili e ai
contratti. Gli scarabei sardi antichi erano di pietra tenera, incisa e poi
cotta. Quelli più tardi erano in diaspro verde, proveniente anche dal Monte
Arci.
La religiosità aveva un duplice aspetto e gli
amuleti seguivano la stessa sorte: c’erano divinità principali e altre minori,
forse più disposte ad ascoltare le suppliche dei fedeli. Gli amuleti sono
piccoli oggetti in pasta vitrea o in avorio o osso.
Prima del tofet di Cartagine furono individuati quello di Nora nel
1889, sulla spiaggia orientale della città, e quello di Mozia, in Sicilia, ma interpretati come necropoli a incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite
analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini.
Diversi passi della Bibbia parlano di tofet e di figli offerti
agli dei con il passaggio dentro il fuoco. I ricercatori si convinsero che i tofet
vicini a Gerusalemme menzionati nelle sacre scritture, nel Deuteronomio e nel libro dei
Re, potevano avere la stessa matrice. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura
delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato a
un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di
grave pericolo per la popolazione. Si tratta, tuttavia, di un rituale non
accettato da Dio. Il libro dei Re cita un luogo chiamato tofet in un passo
ambientato nei pressi di Gerusalemme.
Le fonti riportano: “Lì farò il Tofet, nella valle di Ben Hinnom, e
nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e
ancora:
GEREMIA 19,5-6 “hanno costruito le alture di baal per
bruciare i loro figli con il fuoco, olocausti a baal, cosa che non avevo
ordinato né mi era venuta in mente. Perciò ecco: vengono giorni, oracolo del
signore, in cui non chiamerà più questo luogo tofet o valle Ben Hinnom bensì
valle del massacro”.
DEUTERONOMIO 12,31 “Non agirai così verso il signore tuo Dio
perché essi hanno fatto per i loro Dei quanto è in abominio e in odio al
signore: hanno bruciato nel fuoco perfino i loro figli e le loro figlie in onore dei loro Dei”.
LIBRO DEI RE 16,3 “imitò la condotta dei re di Israele e fece
persino bruciare suo figlio secondo le usanze abominevoli delle genti che il
signore aveva cacciato davanti ai figli d'Israele”.
LIBRO DEI RE 23,10 “egli profanò il tofet che si trova nella
valle di Ben-Hinnom affinché nessuno bruciasse il proprio figlio o la propria figlia
in onore di Moloch”.
Il Tofet, quindi, è un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non
voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco.
Nel momento in cui gli archeologi hanno trovato a Cartagine le urne con le
ceneri di centinaia di bambini, hanno pensato al santuario orientale citato nella
Bibbia.
Si conoscono altre fonti che raccontano di sacrifici.
Filone di Biblo, nella sua storia
fenicia, dice che “c'era l'usanza presso gli antichi, in caso di
pericolo, che i capi della città o della popolazione portassero a sacrificio i
più cari dei loro figli, sgozzandoli in cerimonie misteriose come riscatto per
i demoni vendicatori”.
Gaudesio riporta che “i
fenici e i cartaginesi, quando desiderano che accada loro qualcosa di importante,
fanno voto sulla testa di uno dei loro figli, e se il desiderio si avvera il
figlio sarà sacrificato. Presso di loro c'è una statua bronzea del dio con le
mani rivolte in alto distese sopra un braciere di bronzo nel quale mettere i
bambini”.
Plutarco racconta che “i
cartaginesi con piena coscienza sacrificavano i loro figli a Kronos e chi non
aveva figli li comprava dai poveri. La madre non poteva lamentarsi perché il
bambino sarebbe stato sacrificato lo stesso e nemmeno avrebbe ricevuto i soldi”.
Tertulliano afferma che “i bambini
venivano immolati a Saturno in Africa fino al proconsolato di Tiberio che fece
appendere vivi gli stessi sacerdoti, e ancora oggi tale rito continua in segreto”.
Nel 1981 Sabatino Moscati propose un’ipotesi diversa, oggi condivisa: “i
bambini morti alla nascita o, comunque, entro i primi anni, attraverso il fuoco
venivano purificati e offerti alla divinità per agevolare nuove nascite”.
Moscati si basa su alcune considerazioni: fra i resti incinerati ci sono molti feti
e questi non potevano essere sacrificati. Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e
non potevano essere sepolti con loro. In qualche caso si sacrificava alle
divinità qualche piccolo animale.
Un'altra considerazione riguarda le
fonti classiche. Gli autori più importanti non hanno mai parlato di riti
sacrificali che coinvolgono bambini, nonostante sarebbe stato utile contro i
cartaginesi. Tuttavia occorre capire perché alcuni venivano bruciati e sotterrati nei tofet, e altri, invece, sepolti nelle necropoli degli adulti. Secondo Moscati c’era un rituale di
passaggio, una sorta di iniziazione ma alcuni bambini morivano prima di questo
“passaggio” nel mondo degli adulti e finivano nel tofet. Alcuni studiosi
ipotizzano che i tofet da Cartagine si propagano in altre aree influenzate
culturalmente dai cartaginesi, quindi già dall'VIII a.C. questa città diffondeva
la propria cultura in altri luoghi pur non controllandoli o amministrandoli
direttamente.
Il tofet di Cartagine oggi non è
quello originario e presenta volte romane. I tofet più antichi sono a cielo
aperto, privi di edifici, se non per brevi periodi e per certe situazioni (come
cappelle e piccoli templi).
Le iscrizioni dei tofet riportano formule rituali ripetitive:
denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione
del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia
dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta. Il
rituale si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE
(tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO
DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la
richiesta, la preghiera, ha concesso la grazia.
I monumenti votivi si dividono convenzionalmente in cippi e stele
funerarie. Il primo è una pietra appena sbozzata, generalmente aniconica, dove
prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta la divinità. È posto
come segnacolo per individuare la fossa, infisso nel terreno o incastrato sopra
un basamento in pietra. Queste basi sono costituite da un plinto tronco
piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia.
Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non
conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari,
sacri e abitativi, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più
antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono (stele trono e cippi trono),
a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla
seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al
centro. In qualche caso un idolo a forma di bottiglia sostituisce il betilo. Il
trono può essere affiancato da due bruciaprofumi.
Nelle immagini: i tofet di Mozia e Cartagine