martedì 30 giugno 2015
La civiltà nuragica, dai nuraghi a Mont’e Prama, di Alessandro Usai
La civiltà nuragica, dai nuraghi a Mont’e Prama
di Alessandro Usai
(Tratto da: La Pietra e gli Eroi:
Le sculture restaurate di Mont’e Prama – 2011)
Quando ai piedi della collina di
Mont’e Prama si componevano la necropoli e il complesso di sculture, e
nell’intera Sardegna templi e santuari si riempivano di bronzi e di ambre, i
nuraghi erano già vecchi. Nuraghi e “tombe dei giganti” da una parte, templi,
bronzetti e statue dall’altra sono certamente opera dello stesso popolo, inteso
come ceppo etnico radicato in Sardegna già da millenni che sviluppò nel tempo
una propria tradizione culturale; non sono però opera della stessa gente, bensì
di diverse generazioni portatrici di esigenze materiali, ideali e sociali
diverse, pur nella continuità della stessa tradizione culturale. Parlare oggi
della civiltà nuragica impone a tutti uno sforzo per liberarla dall’immagine
astratta di mitico eden isolano; costringe tutti ad accettare una
difficilissima sfida, riportare nel concreto dei tempi, dei luoghi e delle
azioni non solo i monumenti e i manufatti ma soprattutto quella umanità che fu
protagonista di una singolare esperienza storica, che segnò la Sardegna in modo
indelebile e tuttavia attraversò crisi e cambiamenti e infine si consumò e si
dissolse lasciando il posto ad altre esperienze. Riprendendo e adattando lo
schema elaborato da Giovanni Lilliu, possiamo suddividere la civiltà nuragica
in due grandi periodi e ciascuno di essi in due fasi, che si potrebbero
definire come le fasi della formazione, maturità, trasformazione e
degenerazione. È ovvio che si possa parlare di civiltà nuragica solo a partire
dal momento in cui compaiono i nuraghi. Le ultime ricerche hanno messo in
evidenza i sintomi di sviluppo che caratterizzano le società del periodo
immediatamente precedente (Bronzo Antico); tuttavia la comparsa dei ciclopici
nuraghi arcaici e delle
prime maestose “tombe dei
giganti” appare un salto di qualità, ancora arduo da descrivere e spiegare,
rispetto all’altalenante svolgimento delle millenarie culture “prenuragiche”.
La costruzione dei nuraghi, delle “tombe dei giganti” e dei connessi
insediamenti segna un periodo di circa quattro secoli, approssimativamente dal
1600 al 1200 a.C. (Bronzo Medio e Bronzo Recente), che corrispondono appunto
alle fasi di formazione e maturità. I nuraghi arcaici, propri della fase
formativa, sono tozzi e bassi, inizialmente provvisti di corridoi e nicchie ma
non di camere; in seguito presentano camere ellittiche o rettangolari. Gli
insediamenti, sia adiacenti ai nuraghi arcaici che isolati, sono costituiti da
piccoli gruppi di edifici circolari singoli oppure da fosse scavate nel terreno
con sovrastrutture deperibili in legno e frasche. Nella stessa fase compaiono
anche le prime “tombe dei giganti”, sepolture megalitiche di tipo dolmenico
composte da un vano funerario allungato (galleria) e da un emiciclo frontale
cerimoniale (esedra); la loro denominazione tradizionale allude alla forma
della galleria che ricorda il cassone di un individuo gigantesco, mentre invece
era destinata alla deposizione di decine o centinaia di persone. La tholos, la
falsa cupola costituita da anelli di pietre via via più stretti dalla base alla
sommità, è la grande invenzione degli architetti nuragici della fase della
maturità, che diede al nuraghe classico la caratteristica forma di torre
troncoconica. Questa ingegnosa semplificazione consentì sia la costruzione in
serie di edifici a una sola torre, sia l’elaborazione di monumenti complessi
con più torri, quindi con diverse camere al piano terreno e su uno o due
livelli sovrapposti. Nello stesso tempo le diverse tribù organizzavano i propri
territori come “cantoni” policentrici, caratterizzati dalla moltiplicazione
degli insediamenti e delle sepolture. Così fu attuata una prodigiosa
colonizzazione di pianure, colline, altipiani e montagne; il processo di
popolamento si accompagnava al disboscamento e allo sviluppo di un efficiente
sistema economico integrato. Tra le varie migliaia di nuraghi esistenti in
Sardegna, quelli complessi richiamano l’attenzione non solo per l’arditezza e
la monumentalità quanto per l’espressione di una gerarchia strutturale,
funzionale e territoriale, in rapporto alle esigenze di controllo e gestione
delle risorse e della rete viaria. I grandi nuraghi suggeriscono anche
emulazione e competizione fra comunità vicine, in vario modo cooperanti e
concorrenti. Tuttavia non è chiaro in quale misura la gerarchia territoriale si
traducesse in stabili differenze di rango e potere all’interno delle società
nuragiche. Un fattore di sviluppo che agisce in alcune zone più che in altre è
il contatto con le civiltà micenea, minoica e cipriota, che procurava oggetti
di lusso e prestigio e contribuiva a sviluppare la gerarchia sociale. Tuttavia
le nascenti differenze di rango non si estendevano alle usanze funerarie;
infatti nelle “tombe dei giganti” di tipo evoluto, spesso più piccole che in
passato e costruite con blocchi perfettamente squadrati, il culto degli
antenati continuava ad esprimersi in forme collettive ed egualitarie basate
sulla consanguineità. Da sempre, studiosi e curiosi si interrogano sulla
funzione dei nuraghi; tuttavia spesso la domanda è mal posta, in quanto non
appare appropriato all’organizzazione delle società che li costruirono
chiedersi se i nuraghi fossero regge o fortezze o torri di avvistamento o
templi o tombe, per non dire di ipotesi più stravaganti. In particolare la
funzione militare dei nuraghi poteva essere accettata finchè si riteneva che la
loro costruzione fosse continuata fino alle guerre coi fenici e i punici e
persino coi romani; ma da tempo si è accertato che la costruzione dei nuraghi
cessò molto prima dell’inizio delle colonizzazioni storiche della Sardegna. La documentazione
archeologica suggerisce che le società che costruirono i nuraghi fossero,
soprattutto all’inizio, di tipo tribale, compatte e geniali ma con mediocri
differenze di rango e soprattutto con scarsa specializzazione funzionale.
Pertanto è probabile che i nuraghi siano stati costruiti per svolgere tutte le
funzioni materiali e simboliche che erano necessarie alla vita delle comunità
nuragiche, nell’ambito di un’economia prevalentemente rurale e di una società
che cominciava a differenziarsi. Così, pur non essendo semplicemente case, i
nuraghi furono utilizzati per attività domestiche, come dimostrano innumerevoli
reperti; pur non essendo fortezze, furono anche edifici fortificati, nel senso
di “resi forti” e attrezzati per la protezione di persone e cose; soprattutto
furono strumenti di controllo capillare del territorio e di gestione delle
risorse, e furono segni evidenti di potenza e ricchezza delle comunità che li
possedevano. Solo in momenti successivi essi poterono essere utilizzati come
templi, e solo in epoca romana e medievale furono talvolta impiegati come
tombe. L’insostenibilità economica e sociale di questo sistema di proliferazione
è la causa più probabile del profondo cambiamento che investì la Sardegna
nuragica nelle fasi di trasformazione e degenerazione (Bronzo Finale e prima
età del ferro: circa 1200-700 a.C.). Non si costruiscono più nuraghi; anzi
molti vengono danneggiati e abbandonati oppure ristrutturati e riutilizzati con
diverse funzioni più specializzate che in passato, soprattutto per
l’immagazzinamento di derrate alimentari e altri beni. Invece gli insediamenti continuano a
svilupparsi e a moltiplicarsi, senza segni di aggregazione protourbana; tra le
robuste strutture in pietra risaltano abitazioni complesse, sale per riunioni e
muraglie di recinzione. Pertanto lo scadimento dei nuraghi non indica un
collasso socio-economico ma accompagna una profonda trasformazione della
società, in cui i punti di forza coesistono coi fattori di debolezza.
Le novità più evidenti sono nel campo
rituale. Accanto ad alcuni nuraghi convertiti in templi sono significativi i
santuari, complessi organizzati con specifiche funzioni cultuali che si
sviluppano intorno ad uno o più edifici templari. Tra questi, i più noti sono i
“pozzi sacri” o “templi a pozzo”, caratterizzati dalla scala e dalla camera
sotterranea a falsa cupola che accoglie l’acqua sorgiva. Le fonti sono simili
ma prive di scala e camera ipogeica. Infine vi sono templi rettangolari (“a
megaron”) o circolari, privi di un esplicito riferimento all’acqua. Nei
santuari si accumulavano metalli ricavati dall’attività mineraria e dagli
scambi, soprattutto con l’isola di Cipro; si offrivano manufatti pregiati in
bronzo e ambra; si sviluppavano botteghe artigianali che adattavano la tecnologia
e lo stile ciprioti ed elaboravano un originale linguaggio artistico. Sembra
evidente che il culto fosse diventato uno degli aspetti principali della
riorganizzazione economico-sociale in atto; in particolare sembra che nel corpo
compatto delle comunità tribali si fosse insinuata una marcata differenziazione
tra strati dominanti e strati subordinati, e che le élites emergenti cercassero
di legittimare il proprio potere assumendo il controllo delle pratiche di
culto. I cambiamenti appaiono anche nella sfera funeraria. Non si costruiscono
nuove “tombe dei giganti”, ma quelle esistenti vengono ancora utilizzate.
Appaiono alcune tombe con galleria seminterrata e senza esedra frontale, che
spesso rivelano un abbellimento delle strutture, una riduzione del numero di
inumati e la presenza dei corredi personali. È molto probabile che la
trasformazione descritta si sia manifestata inizialmente come una vera e
propria crisi e abbia comportato un grave disorientamento sociale. È anche
probabile che questa situazione sia stata superata grazie al ruolo di guida
assunto dai gruppi sociali emergenti. Il processo di trasformazione si
intensifica fino a degenerare nella prima età del ferro. Molti santuari toccano
il culmine del loro sviluppo tra il IX e l’VIII sec. a.C., quindi decadono e
scompaiono rapidamente nel VII. Nei santuari si continua a tesaurizzare metalli
e beni di valore di produzione locale e di importazione, tra i quali risaltano
i bronzetti votivi. La produzione dei bronzetti nuragici, iniziata già nella
fase precedente, si avvalse del progresso tecnologico della metallurgia
cipriota, grazie all’adozione della fusione a cera persa; ma le piccole opere
d’arte restano inconfondibili per l’impostazione, l’iconografia generale e la
resa dei volti, degli strumenti, delle vesti e delle armi. Esse restituiscono
l’immagine consapevole di una società articolata, riproducono gli animali, le
cose, i valori e i simboli, celebrano miti eroici espressi in imprese di caccia
e di guerra, di colonizzazione agricola e di navigazione. Tra i manufatti in
bronzo e pietra emergono le riproduzioni stilizzate e idealizzate di nuraghi
semplici e complessi, emblemi di solida identità tanto più esaltati quanto più
si avvertono i segni del dissesto e della disgregazione. Fino alla metà dell’VIII
sec. a.C. la vitalità della tradizione culturale nuragica è confermata dai
rapporti stretti e diretti con gli Etruschi di età villanoviana della penisola
italiana, e dai rapporti indiretti, probabilmente mediati dai Fenici, con le
comunità urbane che pullulano sulle coste della Sicilia, dell’Africa
settentrionale e della Spagna meridionale. Nel corso della prima età del ferro,
il tracollo economico e demografico è testimoniato dal progressivo abbandono
degli insediamenti, tanto che intere regioni sembrano spopolate dal VII al V-IV
sec. a.C. Solo nella Sardegna meridionale si conoscono insediamenti che
sopravvivono, anche se il ceppo etnico-culturale di origine nuragica si ibrida
con gruppi di origine levantina e ne assorbe costumi, stili e tecnologie.
Mentre gli organismi cantonali policentrici dell’entroterra rurale si
impoveriscono e si sgretolano, i centri costieri di fondazione fenicia
acquistano autonomia economica e politica e attraggono gruppi di origine locale
che si integrano con gli stranieri conservando solo alcuni richiami simbolici
alla loro tradizione culturale in via di dissolvimento. Il processo di
differenziazione delle sepolture, che nel Bronzo Finale aveva cominciato ad
incrinare il solidarismo comunitario, si spinge ancora più avanti con la
formazione di gruppi di tombe individuali con corredo, come quello di Antas di
Fluminimaggiore e soprattutto come la necropoli di Mont’e Prama di Cabras, dove
però paradossalmente i corredi individuali scompaiono del tutto o quasi. Nello
stesso tempo, senza escludere l’inserimento di nuove inumazioni in tombe più
antiche, sembra quasi che la grande maggioranza dei defunti fosse semplicemente
eliminata, forse dopo totale combustione. La progressiva scomparsa dei santuari
organizzati segna il disfacimento della gerarchia sociale e territoriale. Così
come l’avvio della civiltà nuragica non può non essere legato alla comparsa dei
nuraghi, allo stesso modo sembra che la sua conclusione debba coincidere con
l’esaurimento dell’attività dei santuari, in cui si era espressa la
consapevolezza della sua forza materiale e compattezza culturale. Per
interpretare il tramonto della civiltà nuragica non dovremo riproporre una
schematica contrapposizione di blocchi etnico-culturali; piuttosto dovremo
ammettere che i Fenici, portatori di grandi innovazioni in campo economico e
sociale, abbiano approfittato delle opportunità offerte dalla degenerazione del
mondo nuragico, che era iniziata fin dai tempi del suo massimo fulgore. Il suo
percorso si concluse allora rapidamente con l’assimilazione e la perdita
dell’identità culturale. La quinta fase nuragica ipotizzata da Lilliu, quella
della sopravvivenza e resistenza, è in effetti solo un mito senza riscontro
nella documentazione archeologica.
Fonte: http://www.sardegnadigitallibrary.it/documenti/17_27_20140521121030.pdf
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