martedì 30 giugno 2015
La civiltà nuragica, dai nuraghi a Mont’e Prama, di Alessandro Usai
La civiltà nuragica, dai nuraghi a Mont’e Prama
di Alessandro Usai
(Tratto da: La Pietra e gli Eroi:
Le sculture restaurate di Mont’e Prama – 2011)
Quando ai piedi della collina di
Mont’e Prama si componevano la necropoli e il complesso di sculture, e
nell’intera Sardegna templi e santuari si riempivano di bronzi e di ambre, i
nuraghi erano già vecchi. Nuraghi e “tombe dei giganti” da una parte, templi,
bronzetti e statue dall’altra sono certamente opera dello stesso popolo, inteso
come ceppo etnico radicato in Sardegna già da millenni che sviluppò nel tempo
una propria tradizione culturale; non sono però opera della stessa gente, bensì
di diverse generazioni portatrici di esigenze materiali, ideali e sociali
diverse, pur nella continuità della stessa tradizione culturale. Parlare oggi
della civiltà nuragica impone a tutti uno sforzo per liberarla dall’immagine
astratta di mitico eden isolano; costringe tutti ad accettare una
difficilissima sfida, riportare nel concreto dei tempi, dei luoghi e delle
azioni non solo i monumenti e i manufatti ma soprattutto quella umanità che fu
protagonista di una singolare esperienza storica, che segnò la Sardegna in modo
indelebile e tuttavia attraversò crisi e cambiamenti e infine si consumò e si
dissolse lasciando il posto ad altre esperienze. Riprendendo e adattando lo
schema elaborato da Giovanni Lilliu, possiamo suddividere la civiltà nuragica
in due grandi periodi e ciascuno di essi in due fasi, che si potrebbero
definire come le fasi della formazione, maturità, trasformazione e
degenerazione. È ovvio che si possa parlare di civiltà nuragica solo a partire
dal momento in cui compaiono i nuraghi. Le ultime ricerche hanno messo in
evidenza i sintomi di sviluppo che caratterizzano le società del periodo
immediatamente precedente (Bronzo Antico); tuttavia la comparsa dei ciclopici
nuraghi arcaici e delle
lunedì 29 giugno 2015
Archeologia. Pozzi Sacri, ipotesi ricostruttive; di Ercole Contu
Pozzi Sacri, ipotesi ricostruttive
di Ercole Contu
Fonte:
Bollettino della Associazione Storica Sassarese Anno VI - N. 6
Contu, Ercole (1999)
Pozzi sacri: ipotesi ricostruttive. Sacer, Vol. 6 (6), p. 125-148
Già dal 1974 mi ero posto il problema della ricostruzione
grafica, o restituzione che dir si voglia, dei pozzi sacri (o "templi a
pozzo") della Sardegna nuragica; ma solo nel 1980 avevo tradotto graficamente
la mia l'ipotesi in un disegno (fig.l,f) - che per gran parte qui riconfermo
nella sua relativa validità - concernente la struttura generale originaria di
questa categoria di monumenti. Tutto ciò riguardava anche le fonti sacre, che,
per essere l'acqua sorgiva più facilmente accessibile rispetto a quella che
viene da falda freatica, e perciò necessitando - quand'anche essa ci sia - di
una scala molto breve, risultano essere, per dir così, dei pozzi sacri in
miniatura. Nella mia ricostruzione grafica, sia passata sia presente, del pozzo
sacro di Santa Vittoria di Serri-NU (figg. 1,f; 2,b ) mi sono limitato agli
elementi principali dell'architettura, trascurando persino, volutamente, sia il
recinto o temenos ellittico che racchiude l'edificio - data la sua modesta
rilevanza architettonica e perché deve trattarsi di un'aggiunta successiva,
piuttosto recente - sia il problema della sistemazione originaria di altri
elementi non direttamente riferibili all'edificio: quali i betili-torre, o
modellini in
domenica 28 giugno 2015
Tomba di Giganti Madau. A Fonni una particolarità che scatena la curiosità.
Tomba di Giganti Madau. A Fonni una particolarità archeologica che scatena la curiosità.
di Pierluigi Montalbano
Qualche giorno fa, in
occasione del solstizio d’estate, ho accompagnato un gruppo di escursionisti in
una visita guidata nel territorio di Fonni. Mete obbligate sono state le Tombe
di Giganti Madau e il santuario fertilistico nuragico di Gremanu. Vorrei
soffermarmi sulle 4 sepolture monumentali, realizzate con una perfezione tale
da suscitare fra i partecipanti una serie di riflessioni, fra le quali la più
gettonate è stata: “Le pietre sono lavorate una ad una?”. Ebbene sì, un lavoro
certosino che certamente ha coinvolto i migliori specialisti dell’arte
scultorea isolana di
Archeologia. Scoperta una misteriosa civiltà nel deserto libico
Archeologia. Scoperta una misteriosa civiltà nel deserto libico
I ricercatori dell’Università di Leicester hanno scoperto nel deserto del Sahara i resti di antiche fortezze appartenute ad una civiltà perduta, vissuta in Libia qualche secolo prima di Cristo, i Garamanti.
I "castelli nella sabbia" si trovano a circa 1.000 km a sud da Tripoli, e si sono conservati in ottimo stato. "Siamo rimasti sorpresi nel vedere il livello di conservazione" spiega David Mattingly, leader della spedizione che già da qualche anno aveva intuito la presenza delle fortezze. "Nonostante le mura abbiano subito dei crolli principalmente a causa dell'erosione del vento, sono ancora alte 3-4 metri".
Inizialmente i siti erano stati interpretati come fortezze di età romana per via della loro struttura geometrica, ma la posizione e la presenza di cimiteri e campi coltivati ha fatto cambiare opinione agli archeologi.
Gli edifici sono un centinaio, spesso circondati da piccoli insediamenti. In una sola area di 4 km quadrati sono stati contati almeno 10 micro-villaggi, una densità straordinaria che ha fatto escludere l'ipotesi dei forti di costruzione romana e lasciato il campo a quella di un grande impero africano. "Queste fortezze si trovano oltre le frontiere dell'Impero Romano, e sono simboli di un regno africano molto potente".
"Ci siamo fatti l'idea che sia stata una civiltà sofisticata" continua Mattingly. "Possedevano la metallurgia, tessuti di alta qualità, un sistema di scrittura e altri indizi che dicono che siamo davanti ad una società statale organizzata".
La civiltà di cui stiamo parlando è quella dei Garamanti (Gargamantes), un popolo che viveva nel Sahara e che fondò un prospero regno a sud della Libia, dove oggi c'è solo deserto. Possedevano sistemi d'irrigazione sotterranei evoluti, e l'esistenza delle strutture da loro edificate è stata rivelata al mondo grazie all'analisi di fotografie aeree scattate verso la metà del secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale.
I Garamanti erano un popolo di lingua berbera che iniziò a occupare la regione del Fezzan intorno al 1.000 a.C. Abbiamo testimonianza della loro esistenza da alcune fonti scritte greche e romane risalenti al V secolo d.C.: sappiamo che i Romani intrattenevano frequenti rapporti commerciali con questo popolo, ma anche che non venivano considerati del tutto civilizzati.
Crearono delle vere e proprie oasi verdi in pieno deserto in grado di ospitare fino a 6.000 persone in villaggi dal raggio di 5 km. La loro imponente opera di irrigazione creò terra discretamente fertile e abitabile dove oggi c'è solo sabbia e terra polverosa.
Questo fu possibile grazie ad un complesso sistema di tunnel lungo quasi 1.000 km in grado di convogliare l'acqua fossile del deserto verso i campi, e al lavoro degli schiavi che effettuavano la manutenzione dei condotti per l'irrigazione.
La recente scoperta delle fortezze e degli insediamenti dei Garamanti fornisce una nuova dimostrazione del livello di sofisticatezza del loro sistema di irrigazione. "Siamo in pieno Sahara, un ambiente arido, e solo l'abilità di un popolo di sfruttare l'acqua sotterranea può cambiare la situazione".
Perchè i Garamanti siano scomparsi è ancora un mistero. E' probabile che l'acqua fossile, una risorsa non rinnovabile, sia finita e abbia consentito al deserto di avanzare verso le aree fertili.
Fonte:http://terrarealtime.blogspot.com/
sabato 27 giugno 2015
La razza fonnese è stata ufficialmente riconosciuta all'EXPO di Milano.
La razza fonnese è stata ufficialmente riconosciuta all'EXPO di Milano.
Il pastore fonnese è stato riconosciuto dall’ENCI come
diciassettesima razza italiana di cane. L’investitura ufficiale è arrivata
durante il World dog show, la più importante manifestazione cinofila mondiale.
Una manifestazione programmata all’Expo di Milano con la partecipazione di
centinaia di cani provenienti da tutto il mondo, tra i quali venti esemplari di
fonnese che hanno sfilato incuriosendo cinofili e
genetisti. Alla fine del secolo scorso erano rimasti solo un centinaio di fonnesi,
ma in tempi recenti, per merito dell'associazione per la valorizzazione del
cane fonnese, la diffusione di questa razza è cresciuta tanto da arrivare a
oltre seicento esemplari. La loro storia è antichissima, e abbiamo varie
attestazioni come cane da guerra utilizzato dai Romani che ne apprezzarono le
doti sulle montagne del Gennargentu in occasione dei primi conflitti contro i
sardi di Ampsicora.
A Milano, i fonnesi hanno sfilato accompagnati
dal gruppo folk di Fonni Brathallos. Lo staff dell’Associazione Valorizzazione
del Cane Fonnese, è riuscito così a far ottenere a questa razza un
riconoscimento storico. Gian Battista Balloi, componente del gruppo, ha
raccontato quasi in lacrime la soddisfazione provata nel sentire pronunciare su
quel palco le parole “cane fonnese”, aggiungendo che il cane fonnese è
patrimonio di tutta l'Isola, oltre che un motivo di orgoglio per Fonni, e
quindi è un titolo che premia tutta la Sardegna.
Già nel 2013, il fonnese fu
classificato dal F.C.I. nel Gruppo 2, quello al quale appartengono i Pinscher
e gli Schnauzer, i molossi e i cani bovari Svizzeri, e i cani da montagna. Si
tratta di una razza autoctona diffusa da almeno due millenni in tutta la
Sardegna. E’ un cane di media mole,
struttura solida, muscolatura possente, ossatura ben proporzionata, con pelo
ruvido, di lunghezza e colore variabile, senza chiazze. Agilissimo, si muove
con eleganza e potenza allo stesso tempo. Il suo sguardo è cupo, intenso ed
inquietante, e accompagna visivamente la sua indole con tendenza a dominare.
E’ dunque un cane da difesa, ottimo guardiano contro i possibili predatori come volpi, uccelli o cani randagi, ma è ottimo anche come cane da caccia al cinghiale. Ciò contrasta con il carattere paziente che dimostra con gli animali di cui si prende cura. Apprezza essere trattato come un compagno di vita e di giochi sul quale si può sempre fare affidamento, rispettando la sua spiccata intelligenza e la sua dignità. E’ ubbidiente e affettuoso con il proprietario, riconoscendolo come unico padrone, e tende a concedere confidenza agli amici del nucleo familiare in cui vive. Spesso comunica la presenza di intrusi con un semplice tocco di zampa e con un tipico brontolio. Pare che fosse l’inseparabile compagno dei banditi sardi nella loro rischiosa vita alla macchia. Ha denti bianchi, ben sviluppati, regolarmente allineati, con canini in opposizione tra loro che si chiudono a tenaglia. Lo sguardo intenso e caratterizza un elemento di tipicità della razza. L'espressione è profonda, autorevole, con arcate sopraciliari sviluppate. Le orecchie triangolari misurano 7-8 cm, portate pendenti e, in attenzione, ben aderenti alle guance. Il collo è vigoroso e muscoloso, e si raccorda armoniosamente alle spalle e al garrese. Gli arti anteriori sono solidi, dritti, con piedi ovali, dita raccolte e cuscinetti plantari neri, duri e resistenti. Le unghie sono sempre nere e solide, con presenza di speroni. Le zampe posteriori, muscolose, forniscono l'immagine della potenza e della agilità. La coda è grossa alla radice, robusta, e va affusolandosi verso l'estremità, e non deve essere amputata.
E’ dunque un cane da difesa, ottimo guardiano contro i possibili predatori come volpi, uccelli o cani randagi, ma è ottimo anche come cane da caccia al cinghiale. Ciò contrasta con il carattere paziente che dimostra con gli animali di cui si prende cura. Apprezza essere trattato come un compagno di vita e di giochi sul quale si può sempre fare affidamento, rispettando la sua spiccata intelligenza e la sua dignità. E’ ubbidiente e affettuoso con il proprietario, riconoscendolo come unico padrone, e tende a concedere confidenza agli amici del nucleo familiare in cui vive. Spesso comunica la presenza di intrusi con un semplice tocco di zampa e con un tipico brontolio. Pare che fosse l’inseparabile compagno dei banditi sardi nella loro rischiosa vita alla macchia. Ha denti bianchi, ben sviluppati, regolarmente allineati, con canini in opposizione tra loro che si chiudono a tenaglia. Lo sguardo intenso e caratterizza un elemento di tipicità della razza. L'espressione è profonda, autorevole, con arcate sopraciliari sviluppate. Le orecchie triangolari misurano 7-8 cm, portate pendenti e, in attenzione, ben aderenti alle guance. Il collo è vigoroso e muscoloso, e si raccorda armoniosamente alle spalle e al garrese. Gli arti anteriori sono solidi, dritti, con piedi ovali, dita raccolte e cuscinetti plantari neri, duri e resistenti. Le unghie sono sempre nere e solide, con presenza di speroni. Le zampe posteriori, muscolose, forniscono l'immagine della potenza e della agilità. La coda è grossa alla radice, robusta, e va affusolandosi verso l'estremità, e non deve essere amputata.
Il mantello
è caprino, munito di folto e denso sottopelo lanoso, quasi raso al muso, dove
presenta ispide difese agli occhi e barba al mento. I colori ammessi sono il
nero, il cenere, nelle sue varie tonalità, e il miele. Nei maschi il pelo forma
una criniera al collo. L’andatura è agile e sciolta. Al trotto,
il posteriore imprime una notevole spinta e l'anteriore allunga moderatamente.
Al galoppo si muove con grande agilità, superando di slancio le asperità del
terreno in cui opera. Il fonnese è da sempre impiegato in attività legate alla
pastorizia, impiego nel quale, grazie al suo carattere
deciso, brilla ed eccelle, inoltre ha una spiccata tendenza al dominare,
cosa che si concilia perfettamente con la gestione di mandrie e greggi.
Va
sempre rispettata la sua dignità, non
richiede particolari cure né
di addestramento ed è ubbidiente in maniera quasi spontanea.
Immagine di: http://www.canefonnese.it/wp-content/uploads/cane-e1401195955555.jpg
venerdì 26 giugno 2015
Monte Prama. La sarabanda dei falsari archeologici
La sarabanda dei falsari archeologici
di Massimo Pittau
Nota di Pierluigi Montalbano, direttore del quotidiano:
"pur dissociandomi nettamente dalla idea del Pittau, ossia che il modellino di San Sperate sia un falso, ho deciso di pubblicare ugualmente l'articolo in quanto l'autore, Massimo Pittau, firmandolo, prende in sé tutte le responsabilità derivanti dalla sua pubblicazione".
Nota di Pierluigi Montalbano, direttore del quotidiano:
"pur dissociandomi nettamente dalla idea del Pittau, ossia che il modellino di San Sperate sia un falso, ho deciso di pubblicare ugualmente l'articolo in quanto l'autore, Massimo Pittau, firmandolo, prende in sé tutte le responsabilità derivanti dalla sua pubblicazione".
Ho letto con attenzione e con
vivissimo interesse l'intervista che è stata fatta al prof. Franco Laner, della
Facoltà di Architettura dell'Università di Venezia, sul suo giudizio relativo a
un falso che sarebbe stato effettuato con la testa di uno dei Guerrieri di
Monti Prama di Cabras, quella meglio conservata, quella meglio riuscita,
“perfetta”, che campeggia in tutte le pubblicazioni e le raffigurazioni degli
ormai famosi reperti. Con la solita chiarezza di linguaggio e sicurezza di
argomentazione il prof. Laner mi ha convinto appieno. E sono d'accordo con lui
nel ritenere che il falsario non sarebbe alla sua prima prova, ma avrebbe altri
precedenti. Invece io escluderei che in questo imbroglio siano coinvolti anche
tutti gli archeologi che hanno scavato e studiato quei reperti, archeologi che
invece risultano essere i primi imbrogliati. Ma la vera e grande imbrogliata e
danneggiata è la nostra povera Sardegna, la quale non si meriterebbe affatto la
odierna sarabanda di falsari, mossi da un molto discutibile amor di patria e
anche dal desiderio di suscitare e accrescere attenzione attorno alla propria
persona.
Ed ho letto con interesse
pure la risposta alle argomentazioni del Laner data in un'altra intervista
dallo scultore Pinuccio Sciola. Ma non mi ha convinto in nulla e per nulla:
egli nella questione ha solamente annaspato, dando l'impressione di un
individuo che si tuffi in mare senza saper nuotare; in altre parole,
dimostrando di parlare di cose che non conosce né ha mai approfondito. Infatti,
egli arriva a sostenere queste strabilianti tesi, senza darne una sola ombra di
dimostrazione:
1) Le statue di Monti Prama non sarebbero state fatte da Sardi;
2) sarebbero state fatte in Sardegna ma da un individuo venuto dall'Oriente;
3)
Le statue non avrebbero nulla a che fare con la cultura nuragica né coi
bronzetti;
4) Platone avrebbe parlato dell'esistenza fra la Sicilia e la
Tunisia di un'”isola turrita dove non si moriva mai”. Ma su questo preciso
argomento lo provoco io: lo Sciola citi l'opera e gli estremi esatti del passo
dell'opera nella quale Platone sosterrebbe queste finora del tutto sconosciute
notizie sulla Sardegna antica.
Lo scultore Sciola parli
invece di cose che conosce alla perfezione. Ci parli di un reperto che egli
sostenne di aver rinvenuto nelle campagne di San Sperate, un cippo-statua in
pietra arenaria a venature gialle e rosate, che rappresenterebbe un nuraghe
polilobato e che tuttora campeggia nel Museo Archeologico di Cagliari. In due
miei libri (in maniera particolare in “Lingua e civiltà di Sardegna”, Cagliari
2004, Edizioni della Torre) io ho dimostrato – mai smentito da alcuno - che si
tratta di un grosso, pacchiano e ridicolo falso, perché:
1) presenta intatti
tutti i suoi spigoli, non smussati per nulla dal logorio dei secoli, insomma
come se fosse appena uscito dalla bottega di uno scultore;
2) il nuraghe
raffigurato poggia su una base costituita da un porticato, secondo una modalità
non presentata da nessun nuraghe reale e secondo una modalità assolutamente
impossibile in termini di staticità per un grande edificio fatto di enormi
massi;
3) sotto il ballatoio delle quattro torrette la muraglia esterna dello
pseudo-modellino di nuraghe presenta una rientranza circolare, che anch'essa
avrebbe compromesso la staticità dell'edificio;
4) non presenta nessun accenno
dei finestroni che si trovano in tutti i nuraghi reali a più piani per dare
luce alla scala e alla seconda camera.
Di certo tra gli scultori
sardi la pratica del “falso” non è infrequente: una quarantina di anni fa un
mio amico sorprese, nella sua bottega, uno scultore che stava scolpendo una
falsa iscrizione che intendeva spacciare a me per farmi sfigurare di fronte agli
archeologi se avessi abboccato. Il tentativo di falso e di imbroglio non andò
in porto perché lo scultore comprese che il mio amico non avrebbe fatto a meno
di mettermi in guardia...
Povera Sardegna nostra! Quale
sorte hai avuto nel generare individui, a iniziare dai falsari delle carte di
Arborea, che hanno riempito le pagine della tua storia di numerosi e grossi
falsi credendo di darti lustro, mentre hanno finito col caricarti di ridicolo.
giovedì 25 giugno 2015
Doppio evento da Honebu: Salvatore Dedola e Arnold Lebeuf
L' Associazione Culturale Honebu è lieta di invitarvi a un doppio appuntamento con il salotto della cultura.
Venerdì 26 Giugno, alle ore 19, nella sala convegni di Via Fratelli Bandiera 100, a Cagliari / Pirri, interverrà Salvatore Dedola che illustrerà il tema: "Etimologia degli antichi monumenti archeologici".
Dal punto di vista linguistico-etimologico, dimostrerà e
spiegherà quali erano nell’antichità i veri nomi delle tipologie dei monumenti
sardi (oggi chiamati nuraghe, tomba di giganti, domus de janas, perda fitta,
pozzo sacro). A parte il nuraghe, l’unico ad avere un nome proprio, oggi le altre tipologie di
monumenti antichi sono senza nome, infatti, a cosa si riferisce la “tomba di
giganti”? come era chiamata? Quelle leziose ma “tenebrose” janas, chi erano
veramente? Sa perda fitta ha un nome banale: com’era chiamata propriamente? Il
pozzo sacro, aveva un nome suo proprio oppure no?
Va da sé che la soluzione di tali quesiti spalanca una porta che sinora l’Accademia aveva tenuto ermeticamente sbarrata. Non solo. Il chiarimento sul nome dei monumenti porta automaticamente a chiarire la funzione del monumento stesso, chiudendo finalmente un’enorme falla culturale attraverso cui gli accademici sinora hanno lasciato sfuggire e affievolire le migliori energie dedicate allo studio della nostra memoria storica.
Va da sé che la soluzione di tali quesiti spalanca una porta che sinora l’Accademia aveva tenuto ermeticamente sbarrata. Non solo. Il chiarimento sul nome dei monumenti porta automaticamente a chiarire la funzione del monumento stesso, chiudendo finalmente un’enorme falla culturale attraverso cui gli accademici sinora hanno lasciato sfuggire e affievolire le migliori energie dedicate allo studio della nostra memoria storica.
Lunedì 29 Giugno, sempre da Honebu alle ore 19, presentazione del libro di Arnold Lebeuf, “Il pozzo di Santa Cristina, osservatorio
lunare”.
L’autore
cercherà di dimostrare che il pozzo di Santa Cristina era utilizzato come osservatorio
astronomico a carattere lunare, uno strumento attraverso il quale i suoi
costruttori osservavano e registravano i moti della luna al fine di prevedere
le eclissi.
Fino ad oggi era noto che il rapporto base altezza della cupola del pozzo, è caratterizzato da una geometria architettonica che coincide con buona approssimazione con una geometria astronomica. In altre parole, la linea passante tra il punto nord della base della cupola e il foro apicale forma un angolo (rispetto alla verticale) coincidente con l’angolo che caratterizza punto in cui la luna attraversa il meridiano nel giorno del lunistizio maggiore settentrionale.
Lebeuf nella sua opera si è preso la briga di capire la precisione dell’orientamento astronomico in questione, concludendo che se il pozzo fosse stato costruito attorno al 1000 a.C. (cioè riferendosi ai dati astronomici che caratterizzano la luna in quell’epoca) la precisione dell’orientamento sarebbe pari a più o meno 3 primi (un ventesimo di grado).
Considerando che siamo in una fase (di un ciclo millenario) dove l’altezza della Luna al lunistizio maggiore settentrionale si abbassa di 2 primi ogni 300 anni, è facile dedurre che l’orientamento mostra che i costruttori furono capaci di una precisione assoluta, sbalorditiva se riferita a 3000 anni fa.
Fino ad oggi era noto che il rapporto base altezza della cupola del pozzo, è caratterizzato da una geometria architettonica che coincide con buona approssimazione con una geometria astronomica. In altre parole, la linea passante tra il punto nord della base della cupola e il foro apicale forma un angolo (rispetto alla verticale) coincidente con l’angolo che caratterizza punto in cui la luna attraversa il meridiano nel giorno del lunistizio maggiore settentrionale.
Lebeuf nella sua opera si è preso la briga di capire la precisione dell’orientamento astronomico in questione, concludendo che se il pozzo fosse stato costruito attorno al 1000 a.C. (cioè riferendosi ai dati astronomici che caratterizzano la luna in quell’epoca) la precisione dell’orientamento sarebbe pari a più o meno 3 primi (un ventesimo di grado).
Considerando che siamo in una fase (di un ciclo millenario) dove l’altezza della Luna al lunistizio maggiore settentrionale si abbassa di 2 primi ogni 300 anni, è facile dedurre che l’orientamento mostra che i costruttori furono capaci di una precisione assoluta, sbalorditiva se riferita a 3000 anni fa.
Alla serata dedicata al santuario di Santa Cristina parteciperà l'archeoastronomo Mauro Peppino Zedda che sarà relatore sul tema: "Orientamento astronomico dei templi a pozzo".
Entrambi gli appuntamenti sono ad ingresso libero.
mercoledì 24 giugno 2015
Nuragici e Shardana in Palestina?
Nuragici e Shardana in Palestina?
L’interesse per i Shardana cresce fra i
curiosi sardi della storia isolana più antica. E ora si parla di una presenza di Shardana di origine nuragica in una antica cittadella della Palestina»
In effetti di recente l’archeologo israeliano Adam Zertal, professore nell’Università di Haifa, che dirige una serie di scavi nelle rovine di El-Ahwat, ha pubblicato un libro in cui, utilizzando le risultanze dei suoi scavi e una serie di documenti di diversa provenienza, ricostruisce la storia di Sisara, un personaggio citato nella Bibbia, ucciso a tradimento da una donna, "la maschia" Giaele. L'interesse per noi sardi è costituito dal fatto che Sisara sarebbe stato il capo degli antichi Sherdana della zona e che El-Ahwat sarebbe sorta sulle rovine di una cittadella fortificata, le cui architetture hanno caratteri che la fanno somigliare a quella che sarebbe potuta essere una cittadella nuragica. Gli Sherdana — ha scritto Paolo Merlini sulla "Nuova Sardegna" — sarebbero «un popolo di navigatori e di guerrieri giunti dalla Sardegna. Erano stati nemici degli Egizi, che li rappresentavano con un elmetto su cui svettavano due corna. Ma poi, dopo che furono sconfitti e sottomessi, accettarono di diventarne servitori e di presidiare per loro conto località strategiche. Diventarono, in una parola, mercenari». Sarebbero stati loro, dunque, a importare nell’area palestinese elementi e modi di costruire propri dell'architettura nuragica.
L'archeologo sardo Giovanni Ugas, che insegna nell‘Università di Cagliari, e che ha scavato anche lui nelle rovine di El-Ahwat, interrogato dallo stesso Merlini se ci siano davvero, e quanto siano stringenti, le somiglianze fra le architetture cosiddette "nuragiche" di El-Ahwat e quelle sarde, ha risposto: «La questione è abbastanza complessa. Ritengo che ci siano delle analogie, ma è abbastanza comune, in quell’area orientale del Mediterraneo, trovare influenze in campo architettonico provenienti dal settore occidentale, e mi riferisco in particolar modo alla Sardegna e alla Corsica. E queste influenze sono venute in seguito ai movimenti dei 'Popoli del mare”, tra i quali troviamo appunto gli antichi Shardana. Quanto all'origine di questo popolo — continua Ugas, che sta per pubblicare un suo libro proprio su questo argomento — esistono diverse scuole di pensiero: io per quanto mi riguarda sostengo che proviene dalla Sardegna».
Il prof. Bartoloni, interrogato sullo stesso argomento, ricorda che in effetti la Palestina era un grande serbatoio di truppe mercenarie per i faraoni, i quali utilizzavano truppe locali per le loro guarnigioni dislocate nel territorio. La riprova è fornita dal ritrovamento nell’area della Palestina centro-meridionale di numerosi sarcofagi di terracotta che imitano quelli egiziani, ma che hanno caratteristiche peculiari, come ad esempio i copricapi piumati. Questi sarcofagi sono attribuiti a ufficiali Sherdana che avevano assunto usanze egiziane. Un frammento di questi sarcofagi è stato rinvenuto anche in Sardegna, a Neapolis, l’attuale Santa Maria di Nabui presso Guspini: lo stesso Bartoloni lo ha segnalato in un articolo intitolato Un sarcofago antropoide filisteo di Neapolis (Oristano-Sardegna) sulla "Rivista di Studi fenici", edita dal Cnr (volume XXV, I ), già nel 1997.
«Comunque - conclude il prof. Bartoloni non sappiamo assolutamente e non vi sono prove al riguardo che gli Sherden provengano dalla Sardegna, nè che dalla Palestina siano transitati sulla nostra isola. Non basta un circoletto di pietre per fare un nuraghe».
In effetti di recente l’archeologo israeliano Adam Zertal, professore nell’Università di Haifa, che dirige una serie di scavi nelle rovine di El-Ahwat, ha pubblicato un libro in cui, utilizzando le risultanze dei suoi scavi e una serie di documenti di diversa provenienza, ricostruisce la storia di Sisara, un personaggio citato nella Bibbia, ucciso a tradimento da una donna, "la maschia" Giaele. L'interesse per noi sardi è costituito dal fatto che Sisara sarebbe stato il capo degli antichi Sherdana della zona e che El-Ahwat sarebbe sorta sulle rovine di una cittadella fortificata, le cui architetture hanno caratteri che la fanno somigliare a quella che sarebbe potuta essere una cittadella nuragica. Gli Sherdana — ha scritto Paolo Merlini sulla "Nuova Sardegna" — sarebbero «un popolo di navigatori e di guerrieri giunti dalla Sardegna. Erano stati nemici degli Egizi, che li rappresentavano con un elmetto su cui svettavano due corna. Ma poi, dopo che furono sconfitti e sottomessi, accettarono di diventarne servitori e di presidiare per loro conto località strategiche. Diventarono, in una parola, mercenari». Sarebbero stati loro, dunque, a importare nell’area palestinese elementi e modi di costruire propri dell'architettura nuragica.
L'archeologo sardo Giovanni Ugas, che insegna nell‘Università di Cagliari, e che ha scavato anche lui nelle rovine di El-Ahwat, interrogato dallo stesso Merlini se ci siano davvero, e quanto siano stringenti, le somiglianze fra le architetture cosiddette "nuragiche" di El-Ahwat e quelle sarde, ha risposto: «La questione è abbastanza complessa. Ritengo che ci siano delle analogie, ma è abbastanza comune, in quell’area orientale del Mediterraneo, trovare influenze in campo architettonico provenienti dal settore occidentale, e mi riferisco in particolar modo alla Sardegna e alla Corsica. E queste influenze sono venute in seguito ai movimenti dei 'Popoli del mare”, tra i quali troviamo appunto gli antichi Shardana. Quanto all'origine di questo popolo — continua Ugas, che sta per pubblicare un suo libro proprio su questo argomento — esistono diverse scuole di pensiero: io per quanto mi riguarda sostengo che proviene dalla Sardegna».
Il prof. Bartoloni, interrogato sullo stesso argomento, ricorda che in effetti la Palestina era un grande serbatoio di truppe mercenarie per i faraoni, i quali utilizzavano truppe locali per le loro guarnigioni dislocate nel territorio. La riprova è fornita dal ritrovamento nell’area della Palestina centro-meridionale di numerosi sarcofagi di terracotta che imitano quelli egiziani, ma che hanno caratteristiche peculiari, come ad esempio i copricapi piumati. Questi sarcofagi sono attribuiti a ufficiali Sherdana che avevano assunto usanze egiziane. Un frammento di questi sarcofagi è stato rinvenuto anche in Sardegna, a Neapolis, l’attuale Santa Maria di Nabui presso Guspini: lo stesso Bartoloni lo ha segnalato in un articolo intitolato Un sarcofago antropoide filisteo di Neapolis (Oristano-Sardegna) sulla "Rivista di Studi fenici", edita dal Cnr (volume XXV, I ), già nel 1997.
«Comunque - conclude il prof. Bartoloni non sappiamo assolutamente e non vi sono prove al riguardo che gli Sherden provengano dalla Sardegna, nè che dalla Palestina siano transitati sulla nostra isola. Non basta un circoletto di pietre per fare un nuraghe».
martedì 23 giugno 2015
Conferenza a Cagliari, da Honebu, dell'archeologo Marco Piga sulla moneta "Sardus Pater".
Conferenza dell'esperto in numismatica antica Marco
Piga presso l'Associazione Culturale Honebù
di Mauro Atzei
Abbiamo chiesto
all'archeologo lumi sulla moneta conosciuta come “Sardus Pater”, famosa in
Sardegna per essere stata, presumibilmente, dedicata al Dio “Babbaj”.
La numismatica è
la disciplina che studia scientificamente le monete e la loro storia, a partire
dal loro lontanissimo passato e in molti casi è utile agli studiosi per
ricostruire parti di storia che potrebbero presentarsi lacunose.
Marco Piga,
cagliaritano, laureato in Lettere Classiche con indirizzo archeologico
presso il Dipartimento di Archeologia Fenicio Punica della facoltà di Magistero
di Cagliari, oltre ad essere un collezionista tout court di qualsiasi
antichità lo appassioni particolarmente (dai giocattoli, ai libri, alle monete,
ecc...) è attualmente uno dei maggiori specialisti di numismatica in
Sardegna.
Abbiamo seguito
la sua conferenza sulla monetazione antica in Sardegna e siamo rimasti
affascinati da quel modo di raccontare, con grande precisione e al contempo con
estrema semplicità, un argomento complesso e specialistico come la storia della
monetazione in Sardegna sin dall'epoca Cartaginese fino all'annessione
dell'isola alle Provincie Romane.
Relativamente a
quest'ultimo periodo, l'Epoca Romana, gli abbiamo chiesto lumi sulla
moneta conosciuta come “Sardus Pater”, famosa in Sardegna per essere stata,
presumibilmente, dedicata ad un Dio mitologico dei Sardi, detto anche “Babbaj”.
“La moneta
comunemente definita “Sardus Pater”, per via della raffigurazione
dell’iconografia classica del dio eponimo della Sardegna, unitamente
alla legenda “SARD PATER”, presenti nel R/, è un’asse in bronzo della
Repubblica Romana e attribuito, nel Corpus Nummorum Romanorum, alla gens Atia.
La sua
catalogazione deriva dalla raffigurazione al D/ dell’effigie di Marco Azio
Balbo, nonno materno di Ottaviano Augusto; esso è identificato in modo
inequivocabile dalla legenda che ne esprime l’appellativo “M ATIVS BALBVS”,
seguito dalle lettere “PR” che ne qualificano il titolo politico.”
- Quindi,
in realtà, la moneta fu coniata in onore di Azio Balbo?
“Il Marco Azio Balbo che compare sul D/di questa moneta, infatti, fu governatore della Sardegna nel 60 a.C. col titolo di Propretore; egli è stato riconosciuto dagli studiosi con l’uomo che Cicerone definì vir in primis honestus, quindi, persona di grande rettitudine e di particolare dirittura morale. Il suo cursus honorum, ricostruito dagli storici in soli tre anni, ci informa che Azio Balbo fu Pretore in Roma nel 61, Propretore in Sardegna nel 60 e che, nel 59 a.C., come ci testimonia Svetonio, fece parte di una commissione di Vigintiviri che presiedettero alla realizzazione della Lex Julia Agraria, introdotta da Cesare nell’Ager Campanus.”
“Il Marco Azio Balbo che compare sul D/di questa moneta, infatti, fu governatore della Sardegna nel 60 a.C. col titolo di Propretore; egli è stato riconosciuto dagli studiosi con l’uomo che Cicerone definì vir in primis honestus, quindi, persona di grande rettitudine e di particolare dirittura morale. Il suo cursus honorum, ricostruito dagli storici in soli tre anni, ci informa che Azio Balbo fu Pretore in Roma nel 61, Propretore in Sardegna nel 60 e che, nel 59 a.C., come ci testimonia Svetonio, fece parte di una commissione di Vigintiviri che presiedettero alla realizzazione della Lex Julia Agraria, introdotta da Cesare nell’Ager Campanus.”
-Cosa si è
appurato in definitiva?
“I numismatici hanno stabilito che non è possibile far risalire la coniazione del Sardus Pater all’epoca del nostro magistrato, in quanto, il suo peso rientra nella riduzione ponderale dell’asse romano al sistema quartonciale di 6,79 gr., datato al 39 a.C. durante la guerra tra Cesare Ottaviano e Sesto Pompeo.
“I numismatici hanno stabilito che non è possibile far risalire la coniazione del Sardus Pater all’epoca del nostro magistrato, in quanto, il suo peso rientra nella riduzione ponderale dell’asse romano al sistema quartonciale di 6,79 gr., datato al 39 a.C. durante la guerra tra Cesare Ottaviano e Sesto Pompeo.
Il peso medio
del Sardus Pater, infatti, è stato calcolato in circa 6,65 gr. attraverso
l’analisi ponderale di centinaia di esemplari esaminati dagli studiosi nel
corso degli anni e conservati nelle principali raccolte pubbliche e private
nazionali ed estere. Se quest’asse fosse stato battuto nel 60 a.C. sarebbe
rientrato, come peso, nella riduzione dell’asse al sistema semionciale di gr.
13,62, come stabilito dalla legge Plautia-Papiria dell’89 a.C.
Non mancano, invero, anche esemplari dal peso ridottissimo (1,45 gr.) ed altri che raggiungono quasi i 10 gr. Questo testimonia, però, come la coniazione del Sardus Pater sia stata estremamente discontinua con esemplari di conio regolare con legende perfettamente incise che pesano tutti tra i 5 e i 7 gr., ed altri, soprattutto quelli sotto i 5 gr., che costituiscono il 60% del totale, che presentano più o meno evidenti anomalie di conio, da esemplari con legenda regolare al dritto e retrograda al rovescio o viceversa, oppure con ambedue le legende retrograde e le teste speculari rispetto al conio più regolare, fino a grossolani errori di grafia, per non parlare dei ritratti di Azio Balbo e del Sardus Pater spesso rozzamente abbozzati.
Non mancano, invero, anche esemplari dal peso ridottissimo (1,45 gr.) ed altri che raggiungono quasi i 10 gr. Questo testimonia, però, come la coniazione del Sardus Pater sia stata estremamente discontinua con esemplari di conio regolare con legende perfettamente incise che pesano tutti tra i 5 e i 7 gr., ed altri, soprattutto quelli sotto i 5 gr., che costituiscono il 60% del totale, che presentano più o meno evidenti anomalie di conio, da esemplari con legenda regolare al dritto e retrograda al rovescio o viceversa, oppure con ambedue le legende retrograde e le teste speculari rispetto al conio più regolare, fino a grossolani errori di grafia, per non parlare dei ritratti di Azio Balbo e del Sardus Pater spesso rozzamente abbozzati.
L’emissione del
Sardus Pater, pertanto, viene datata dai numismatici dopo il 39 a.C. e l’inizio
della sua coniazione, quindi, fatta risalire al periodo 38-27 a.C. durante il
governatorato della Sardegna da parte di Ottaviano che, diventato Augusto nel
27 a.C., lasciò l’Isola con le altre provincie al Senato Romano”.
Nell’immagine:
Repubblica
Romana. Asse detto “Sardus Pater” (AE, 7,80 g., 27mm.), zecca di Sardegna,
(38-27a.C.); foto tratta dalla casa d’aste Nomisma, asta 46 del 27/10/2012,
lotto 159.
Fonte: http://www.comunecagliarinews.it/
lunedì 22 giugno 2015
Chi erano e in quale periodo della storia del Mediterraneo e dell’antico Egitto, appaiono gli Shardana?
Chi erano e in quale periodo della storia del Mediterraneo e dell’antico Egitto, appaiono gli Shardana?
di Luisanna Usai e Piero Bartoloni
Ma chi erano, dunque, questi cosiddetti Shardana? Erano veramente provenienti dalla Sardegna e al servizio dei faraoni, come ritengono alcuni, oppure, come ritengono altri, dopo una sosta in Egitto, giunsero nell’isola per dare vita a una nuova civiltà? Oppure, in realtà, non hanno alcun rapporto con la Sardegna e tutto ciò che sappiamo è il frutto di pure coincidenze?
Nell’ambito dei cosiddetti "Popoli del Mare" abbiamo visto menzionati più volte come protagonisti gli S˘erden, vocalizzati come Sherdana, Si potrà ritenere che la citazione di questo popolo, nella forma che appare, sia errata, mentre invece la versione corretta è proprio quella di S˘erdana e non di S˘ardana, come comunemente si crede. Sembra che la più antica menzione degli S˘erden sia contenuta nei testi conservati negli archivi della città mesopotamica di Mari, rasa al suolo da Hammurabi di Babilonia attorno al 1750 a. C. Ma le citazioni più frequenti provengono dall’antico Egitto. Per riassumere, gli S˘erden sono segnalati durante i regni dei faraoni Amenophis IV (1367-1350 a.C.), Ramses II (1290-1224 a.C.), Merenptah (1224-1214 a.C), Ramses III (1182-1151 a.C.) e Ramses V (1145-1141 a.C).
Come abbiamo notato, la menzione più antica è dei tempi di Amenophis IV, faraone della XVIII dinastia, nella quale gli S˘erden sono citati come truppe mercenarie. Successivamente, durante il regno di Ramses II, faraone della XIX dinastia, gli S˘erden sono citati sempre come "mercenari” cioè come truppe al servizio del faraone o come avversari del suo esercito. Infatti, il resoconto che Ramses II ci ha tramandato sulla battaglia di Qadesh, narra che soldati S˘erden parteciparono al fatto d'arme inquadrati sia nell'esercito egiziano che in quello hittita. Una ulteriore menzione riguarda gli avvenimenti del III anno del regno dello stesso faraone (1277 a. C.): qui gli S˘erden sono ricordati come pirati giunti «dal mare aperto con le loro navi da guerra che nessuno era stato in grado di fronteggiare». Sotto Merenptah, figlio di Ramses II, durante il cui regno ebbe inizio la cosiddetta «invasione dei Popoli del mare», gli S˘erden sono citati come soldati nemici.
Ramses III, faraone della XX dinastia, menziona gli S˘erden sia come soldati nemici che come "mercenari" al servizio del faraone. Tuttavia, alla fine del suo regno, magnificando la pace finalmente raggiunta, dice: «Ai tempi miei feci rimanere oziosi soldati e carri da guerra e gli S˘erden e i K,ehek, potevano dormire tutta la notte nei loro villaggi senza timore». Infine, sotto il governo di Ramses V, gli S˘erden vengono menzionati come proprietari terrieri o affittuari coltivatori di cereali e quindi, come tali, sottoposti a tributo e tenuti a prestare servizio militare.
Per parte mia, più che per un gruppo etnico ben preciso, proveniente dal subcontinente europeo o addirittura dalla Sardegna, propenderei per un corpo di mercenari, distinguibili in una specialità militare, al servizio dei signori e dei regnanti dell'area vicino-orientale tra 1400 e 1000 a.C. Ciò soprattutto in relazione all’onomastica dei componenti del gruppo, che è totalmente in linea con quella delle regioni nelle quali queste unità militari prestarono servizio. Dunque in Mesopotamia gli S˘erden avevano nomi per lo più mesopotamici, in Siria nomi propri siriani e in Egitto nomi propri egiziani, escludendo in tal modo una loro provenienza da una sola regione.
Ma chi erano, dunque, questi cosiddetti Shardana? Erano veramente provenienti dalla Sardegna e al servizio dei faraoni, come ritengono alcuni, oppure, come ritengono altri, dopo una sosta in Egitto, giunsero nell’isola per dare vita a una nuova civiltà? Oppure, in realtà, non hanno alcun rapporto con la Sardegna e tutto ciò che sappiamo è il frutto di pure coincidenze?
Nell’ambito dei cosiddetti "Popoli del Mare" abbiamo visto menzionati più volte come protagonisti gli S˘erden, vocalizzati come Sherdana, Si potrà ritenere che la citazione di questo popolo, nella forma che appare, sia errata, mentre invece la versione corretta è proprio quella di S˘erdana e non di S˘ardana, come comunemente si crede. Sembra che la più antica menzione degli S˘erden sia contenuta nei testi conservati negli archivi della città mesopotamica di Mari, rasa al suolo da Hammurabi di Babilonia attorno al 1750 a. C. Ma le citazioni più frequenti provengono dall’antico Egitto. Per riassumere, gli S˘erden sono segnalati durante i regni dei faraoni Amenophis IV (1367-1350 a.C.), Ramses II (1290-1224 a.C.), Merenptah (1224-1214 a.C), Ramses III (1182-1151 a.C.) e Ramses V (1145-1141 a.C).
Come abbiamo notato, la menzione più antica è dei tempi di Amenophis IV, faraone della XVIII dinastia, nella quale gli S˘erden sono citati come truppe mercenarie. Successivamente, durante il regno di Ramses II, faraone della XIX dinastia, gli S˘erden sono citati sempre come "mercenari” cioè come truppe al servizio del faraone o come avversari del suo esercito. Infatti, il resoconto che Ramses II ci ha tramandato sulla battaglia di Qadesh, narra che soldati S˘erden parteciparono al fatto d'arme inquadrati sia nell'esercito egiziano che in quello hittita. Una ulteriore menzione riguarda gli avvenimenti del III anno del regno dello stesso faraone (1277 a. C.): qui gli S˘erden sono ricordati come pirati giunti «dal mare aperto con le loro navi da guerra che nessuno era stato in grado di fronteggiare». Sotto Merenptah, figlio di Ramses II, durante il cui regno ebbe inizio la cosiddetta «invasione dei Popoli del mare», gli S˘erden sono citati come soldati nemici.
Ramses III, faraone della XX dinastia, menziona gli S˘erden sia come soldati nemici che come "mercenari" al servizio del faraone. Tuttavia, alla fine del suo regno, magnificando la pace finalmente raggiunta, dice: «Ai tempi miei feci rimanere oziosi soldati e carri da guerra e gli S˘erden e i K,ehek, potevano dormire tutta la notte nei loro villaggi senza timore». Infine, sotto il governo di Ramses V, gli S˘erden vengono menzionati come proprietari terrieri o affittuari coltivatori di cereali e quindi, come tali, sottoposti a tributo e tenuti a prestare servizio militare.
Per parte mia, più che per un gruppo etnico ben preciso, proveniente dal subcontinente europeo o addirittura dalla Sardegna, propenderei per un corpo di mercenari, distinguibili in una specialità militare, al servizio dei signori e dei regnanti dell'area vicino-orientale tra 1400 e 1000 a.C. Ciò soprattutto in relazione all’onomastica dei componenti del gruppo, che è totalmente in linea con quella delle regioni nelle quali queste unità militari prestarono servizio. Dunque in Mesopotamia gli S˘erden avevano nomi per lo più mesopotamici, in Siria nomi propri siriani e in Egitto nomi propri egiziani, escludendo in tal modo una loro provenienza da una sola regione.
domenica 21 giugno 2015
Il Liber Ritualis della Mummia di Zagabria
Il Liber Ritualis della Mummia di Zagabria
di Massimo Pittau
tradotto e commentato
PREMESSA
Il cosiddetto Liber della Mummia di Zagabria è il testo più lungo che possediamo della lingua etrusca. Esso è chiamato in questo modo perché risulta custodito nel «Museo Archeologico» di Zagabria. È detto Liber linteus «libro di lino» perché è costituito da una fascia di lino lunga circa 13 metri e larga circa 40 centimetri.
Fino al presente non si conosceva per nulla il modo e il motivo per i quali questa fascia fosse finita in Egitto; si era parlato in termini molto generici di un probabile “piccolo stanziamento” di individui di nazionalità etrusca nell'Egitto dei Tolomei, ma in realtà non si era fornita alcuna prova di ciò. A giudizio dello scrivente esiste con grande probabilità una ragione precisa della presenza del Liber in Egitto. Si deve premettere che gli aruspici etruschi godevano di larga fama a Roma, fino ad un'epoca molto avanzata. Si tramanda che ancora nel 408, durante l'assedio di Roma, aruspici pronunciarono maledizioni in lingua etrusca per lanciare fulmini sui Visigoti di Alarico. Essi erano consultati anche dai comandati degli eserciti romani prima di prendere le loro decisioni importanti. Ebbene, a giudizio dello scrivente il Liber molto probabilmente arrivò in Egitto con qualche aruspice che seguiva un esercito romano, ad iniziare da quando si insediò in Egitto Marco Antonio nell'anno 52 a. C.
Deceduto l'aruspice e finita dunque la sua attività di divinazione, la fascia di lino non fu più compresa nella sua natura e destinazione, per cui fu tagliata a strisce e adoperata, in maniera impropria, per fasciare una mummia.
Col passare dei secoli la mummia fu acquistata in Egitto nel 1848 da un collezionista croato e in seguito, nel 1867, fu acquisita dal Museo di Zagabria. Qui a un certo punto fu deciso di svolgere le bende della mummia e si constatò che esse contenevano un lungo testo, scritto in inchiostro nero su 12 colonne di circa 35 righe, con una impaginatura di linee in inchiostro rosso. Nel 1892 l’egittologo Jakob Krall, con una sua accurata pubblicazione, dichiarò e dimostrò che il testo era scritto in alfabeto e lingua etruschi, col normale andamento sinistrorso.
Nelle circa 200 righe conservate del Liber risultano scritti quasi 1.200 vocaboli, i quali però, tolte le numerose ripetizioni, si riducono a essere poco più di 500. Probabilmente il Liber costituisce la trascrizione, effettuata nel I secolo a. C., di un testo originario del V secolo, di area etrusca centro-settentrionale.
Com’era ovvio, il Liber attirò subito l’attenzione di
di Massimo Pittau
tradotto e commentato
PREMESSA
Il cosiddetto Liber della Mummia di Zagabria è il testo più lungo che possediamo della lingua etrusca. Esso è chiamato in questo modo perché risulta custodito nel «Museo Archeologico» di Zagabria. È detto Liber linteus «libro di lino» perché è costituito da una fascia di lino lunga circa 13 metri e larga circa 40 centimetri.
Fino al presente non si conosceva per nulla il modo e il motivo per i quali questa fascia fosse finita in Egitto; si era parlato in termini molto generici di un probabile “piccolo stanziamento” di individui di nazionalità etrusca nell'Egitto dei Tolomei, ma in realtà non si era fornita alcuna prova di ciò. A giudizio dello scrivente esiste con grande probabilità una ragione precisa della presenza del Liber in Egitto. Si deve premettere che gli aruspici etruschi godevano di larga fama a Roma, fino ad un'epoca molto avanzata. Si tramanda che ancora nel 408, durante l'assedio di Roma, aruspici pronunciarono maledizioni in lingua etrusca per lanciare fulmini sui Visigoti di Alarico. Essi erano consultati anche dai comandati degli eserciti romani prima di prendere le loro decisioni importanti. Ebbene, a giudizio dello scrivente il Liber molto probabilmente arrivò in Egitto con qualche aruspice che seguiva un esercito romano, ad iniziare da quando si insediò in Egitto Marco Antonio nell'anno 52 a. C.
Deceduto l'aruspice e finita dunque la sua attività di divinazione, la fascia di lino non fu più compresa nella sua natura e destinazione, per cui fu tagliata a strisce e adoperata, in maniera impropria, per fasciare una mummia.
Col passare dei secoli la mummia fu acquistata in Egitto nel 1848 da un collezionista croato e in seguito, nel 1867, fu acquisita dal Museo di Zagabria. Qui a un certo punto fu deciso di svolgere le bende della mummia e si constatò che esse contenevano un lungo testo, scritto in inchiostro nero su 12 colonne di circa 35 righe, con una impaginatura di linee in inchiostro rosso. Nel 1892 l’egittologo Jakob Krall, con una sua accurata pubblicazione, dichiarò e dimostrò che il testo era scritto in alfabeto e lingua etruschi, col normale andamento sinistrorso.
Nelle circa 200 righe conservate del Liber risultano scritti quasi 1.200 vocaboli, i quali però, tolte le numerose ripetizioni, si riducono a essere poco più di 500. Probabilmente il Liber costituisce la trascrizione, effettuata nel I secolo a. C., di un testo originario del V secolo, di area etrusca centro-settentrionale.
Com’era ovvio, il Liber attirò subito l’attenzione di
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