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lunedì 21 giugno 2010

Phoenike - Fenici a Cala Sapone


Ricevo, e pubblico volentieri, questo articolo di Giorgio Pinna sulla frequentazione dei fenici nella baia di Cala Sapone.

Cala de Saboni

Considerando le caratteristiche degli ambienti frequentati dai Fenici non si può non riscontrarne la facies in altre località dell’Isola Sulcitana; ad esempio, Stainu de Cirdu e sa Salina nel comune di Calasetta. Entrambe fornite di laguna con peschiera, erano utilizzate per la coltivazione del sale e, fino a qualche decennio addietro, evidenziavano strutture portuali adatte all’ancoraggio di piccoli navigli.
Un caratteristico paesaggio di tipo fenicio è Cala de Saboni, riportato nella toponomastica fin dal XVIII secolo come Cala Sapone. La baia, localizzata ad Ovest dell’Isola Sulcitana, si insinua per circa 350 metri, terminando con un’ansa sabbiosa. Attualmente è delimitata da una lingua di asfalto che la separa dai ruderi imponenti di una vecchia tonnara, restaurata nel XVIII secolo ed in attività fino alla fine del XIX. Un fiumiciattolo a carattere torrentizio sfocia sul lato Nord della spiaggia; un cordone di scogli all’imbocco dell’insenatura la rende adatta ad un sicuro ancoraggio anche con venti di forte intensità provenienti dal quadrante Nord-Ovest. Proseguendo lungo la carreggiata litoranea verso Nord, dopo la prima rampa in salita, s’incontra sulla sinistra su portu de sa Sennora, un’ampia insenatura con pescaggio profondo. Alla sommità della collina è la località denominata Mercuri mannu che definisce l’area fino allaCala Longa; procedendo sempre in direzione Nord il luogo assume la denominazione di Mercureddu.
Si accede alla Cala de Saboni, provenienti da Sant’Antioco, attraverso una piana di tipo alluvionale, situata nell’area centro-meridionale dell’Isola Sulcitana, denominata Canai. Cananei è il nome con cui i Fenici identificavano se stessi, e Canaan la loro terra di origine, anche se, precedentemente alla loro affermazione, Canaan designava tutta l’area Siro-palestinese.

Questo porto garantisce un rifugio sicuro al naviglio, con la peculiarità di ospitare un impianto per la pesca ed il trattamento del tonno, Tonnaria. Possiamo supporre che l’attività di pesca fosse orientata non solo al tonno ma a tutte le specie pelagiche, come ad esempio il pesce azzurro, il più adatto alla conservazione per salagione, con la caratteristica di muoversi in branchi che offrono la possibilità di effettuare abbondante pescato in un ristretto spazio. Il tonno, tipico migrante per riproduzione con cicli regolari e prevedibili, grazie alla sua mole, è capace di fornire un ottimo cibo, ricercato nell’antichità, con alcune sue parti particolarmente apprezzate che raggiungevano costi alti sul mercato: Hypogastrium, ventresca, surra.
Il metodo di pesca comportava un’organizzazione comunitaria con la partecipazione di molti pescatori. Possiamo supporre la procedura di pesca più conosciuta nell’antichità applicata a Cala de Saboni: la tratta, boliche (boligiu). Due reti costituivano le ali con al centro una borsa, mitgia; un’ala veniva ancorata allo scoglio alla bocca della Cala, la seconda ala trainata al largo dalle barche fino ad intercettare il branco di pesci. In seguito le stesse barche compivano un percorso ad arco raggiungendo lo scoglio controlaterale della bocca d’accesso alla Cala, accorciando al contempo la lunghezza delle due ali di reti. Si aveva così la possibilità di raccogliere immediatamente il pescato con la mattanza o destinarlo in area chiusa, quale appunto si presenta la Cala, e procedere serialmente ad ulteriori “calate” sfruttando appieno la potenzialità del branco in migrazione. L’ordine di procedere alla “calata” delle reti era conseguente all’avvistamento del branco dei pesci in avvicinamento da parte di un avvistatore, thynnoscopos, ubicato su una struttura elevata e prossima alla tonnara. Fungeva allo scopo la costruzione sita sul piccolo promontorio a Sud di Cala de Saboni e denominato su Casteddu becciu: una costruzione monotorre con antemurale di fattura nuragica utilizzata in periodo fenicio con le stesse probabili funzioni di avvistamento e di tempietto sacro. La conservazione del tonno e degli altri pesci pelagici era connessa, oltre che per le proprie caratteristiche fisiche e biochimiche, alla disponibilità del sale, che abbiamo visto coltivato in diverse località dell’Isola Sulcitana. L’industria conserviera utilizzava anche l’olio, grazie all’abbondanza di piante di olivo nella zona.
Plinio affermava che l’invenzione della pasta vitrea e del vetro si dovesse ai Fenici; notizia non vera, ma indizio della perizia tecnica attribuita ed effettivamente raggiunta da questo popolo che seppe diffondere il tutto il bacino del Mediterraneo questa tipologia di prodotto. In realtà la scoperta della materia vetrosa e della pasta vitrea avvenne in Mesopotamia verso la metà del III millennio a.C.; i primi recipienti realizzati in vetro sono stati prodotti nel corso del XVI-XV a.C. nell’area Hurrita-Mitannica. Tuttavia furono appunto i Fenici a raffinarne la tecnica ed esportarla ovunque.
A meno di mille metri, verso Sud, dalla baia di Cala de Saboni, in località is Praneddas, in un piccolo avvallamento di rocce vulcaniche degradante verso il mare, si trova un vasto deposito di materiale, nel quale si evidenzia un accumulo artificiale alto circa cinque metri, con forma conica, di sabbia silicea altamente depurata; all’altro lato dell’avvallamento vi è un muro di contenimento di altro materiale siliceo; poco distante si deducono alcune strutture in muratura di roccia appena sbozzata. Anche se presenti in misura ridotta, a causa del degrado e dell’asportazione dei materiali avvenuto nei secoli, questi resti ci inducono a pensare ad un centro per la lavorazione del vetro; infatti, la silice (biossido di silicio) è la più importante materia prima per la produzione del vetro. Per abbassare la temperatura di fusione, circa 1700 °C, si utilizzava la soda, ottenuta dalla cenere delle piante di ambiente marino e dalle alghe; la lisciva, sa lissìa, mischiata alla silice porta la fusione a circa 800 °C. Ma il vetro silico-sodico non è stabile; per avere un vetro
stabile si introduceva del carbonato di calcio, marmo o calcare, del quale è costituita l’Isola Sulcitana da su Forru a macchina a Coa de quaddu con la propaggine de su Monte s’Orxu. Tutti elementi che concorrono alla massima facilitazione per una produzione vetraria in loco. La competenza nella fattura del forno di fusione, a crogiolo, e le conoscenze tecniche di fonderia non mancavano ai Sardi, eredi di una grande tradizione mineraria e di trasformazione; il luogo è tra i più indicati per la costante ventilazione e conseguente tiraggio della fucina. La tecnica di esecuzione era quella detta “su nucleo friabile”: all’estremità di una canna metallica non forata si modella un nucleo di argilla con fibre vegetali, o sterco di cavallo, e lo si immerge più volte nel crogiolo di vetro fuso, che aderisce intorno al nucleo e viene ricoperto da diversi strati.
La parete viene poi decorata con filamenti vitrei di colori differenti, ottenuti miscelando degli ossidi minerali; al termine, a freddo, si estrae la canna e, con uno strumento, il nucleo. I monili (bracciali, collane e pendenti) venivano eseguiti a stampo semplice o doppio.
I Fenici sono altresì noti per aver diffuso la coltivazione della vite e la produzione del vino, primato rivendicato anche dai Greci. Ma le tracce della lavorazione del vino sono apparse in Sardegna in periodo precedente l’arrivo dei Fenici. Ne sono testimonianza i resti di vinaccioli recuperati in siti nuragici, in strati risalenti al 1300 a.C., in diverse località della Sardegna, particolarmente a Borre e Sardara. Questi vinaccioli di forma rotonda e selvaticoide sono riconoscibili nei vitigni autoctoni chiamati Muristellu e Appesorgia.
I Fenici potrebbero avere introdotto nuove varietà come ad esempio il Nuragus o la Vernaccia: «Secondo il linguista Wagner Garnacha (spagnolo), Garnaxa (catalano) Cranaxa, Granaxa, Granata (sardi)». O, anche, introdotto nuove forme di coltivazione, già conosciute in Egitto, come il pergolato: Triga o trigaxu, in alternativa a pregua dal latino pèrgula. Il termine che definiva il sistema di coltivazione era anche passato a identificare l’uva da pergolato, Triga rosa. Tra i Sulcitani è molto comune l’uso di elidere nelle parole la consonante G, infatti, il telaio per la tessitura è chiamato triaxu (trigaxu); nel Nord-Africa, nell’area un tempo identificata come Numidia, con popolazione indipendente ma strettamente legata a Cartagine, è ancora in uso il termine “Triga” per denominare il traliccio che sostiene la tenda dei Beduini. Recenti analisi di laboratorio hanno permesso di dimostrare che verisimilmente è il Cannonau il vitigno più antico di tutto il bacino mediterraneo. Nell’antichità, durante il nostro periodo di riferimento, il vino veniva fatto in vasche di pietra od orci – giare (girus) – di terracotta. Il trasporto del vino era complesso: riposto in anfore o nei più capienti dolia, durante il viaggio, a causa della fragilità dei contenitori, rischiava di andare perduto. Il trasporto per mare risultava più agevole: le anfore erano adagiate su un letto di sabbia e paglia, rivestite di resine e pece che influivano negativamente sulle caratteristiche gustative e olfattive del vino. Per ovviare, inoltre, alla acidificazione del vino e provvedere alla eliminazione dei composti secondari sgraditi, dopo la fase della svinatura e durante tutte le operazioni di travaso e confezionamento si utilizzavano tecniche chimiche e fisiche per stabilizzare il vino, come il carbone attivo e la bentonite. A poche centinaia di metri da Cala de Saboni si trova una cava di bentonite, in uso fino a qualche decennio addietro e, possiamo supporre, sfruttata anche in epoca fenicia. La bentonite è una terra argillosa di origine vulcanica che ha la caratteristica di rigonfiarsi in presenza d’acqua formando un gel e ha la proprietà, se immersa nel vino, di assorbire le particelle in sospensione e ripulirlo dalle impurità. La bentonite, oltre a stabilizzare il vino eliminando l’eccesso delle sostanze proteiche che producono le velature, utilizzata più volte tende a chiarificarlo facendogli assumere l’aspetto di acqua di fonte; pratica gia conosciuta dai Cananei della quale abbiamo riscontro nella prima metà del I d.C.
Mércuri è Mercurio identificato con l’Ermes dei Greci, del quale ha assunto tutti gli attributi e le leggende. Il nome deriva chiaramente Vago di collana fenicia in vetro da merx (mercanzia) e mercari (trafficare); era quindi una divinità che presiedeva ai commerci. Aveva il compito di condurre le anime dei defunti ed era invocato come il protettore dei viaggi. Normalmente era rappresentato ricoperto dalla clamide, recante nella
mano destra una borsa di denari e nella sinistra il caduceo; negli incroci tra diverse strade venivano collocati dei pilastri con scolpiti i suoi attributi. Nei mercati si erigevano le “erme” ed era ritenuto l’inventore delle bilance, dei pesi e delle misure. A Roma non divenne mai un dio importante dal punto di vista politico, tuttavia la sua popolarità crebbe in rapporto con l’espandersi dei commerci. La figura di Mercurio in realtà è scarsamente conosciuta ed il suo culto in Roma sarebbe stato introdotto agli inizi del V a.C. mediato probabilmente dagli Etruschi. L’associazione tra merce, mercanti, viaggi e commerci richiama prontamente i Fenici e la loro divinità più conosciuta, Melqart; e fu semplice per i Sardi romanizzati cogliere l’assonanza con Mercurio sostituendo come abitudine la consonante “l” con “r” (esempio: albu-arbu). Mércuri mannu è Melqart; d’altronde non è possibile denominare un dio minore per i romani con il titolo di “grande” (mannu, cioè magnum) che compete alla massima divinità fenicia del X a.C. Melqart è il “re della città”, cioè Tiro, divenuta durante il regno di Hiram un impero commerciale ed il principale fornitore del re Salomone.

Inizialmente, per Tiro, Melqart rappresenta la divinità cittadina per eccellenza con la specifica funzione di fondatore e signore della città; in seguito al ruolo giocato da Tiro nell’espansione coloniale commerciale dei Fenici, si afferma ancor più come “preposto alle fondazioni”. La presenza fenicia in Oriente e Occidente è caratterizzata dalla fondazione di templi dedicati a Melqart, il più conosciuto dei quali è quello eretto a Cádice (Gadir/’gdr), la cui fama nel mondo antico si diffuse grazie alla funzione oracolare che vi si svolgeva oltre ad essere una vera e propria succursale del tempio di Tiro.
In stretta associazione con Melqart era Astarté (‛ŠTRT), divinità preposta a sovrintendere l’eros ed i matrimoni, rappresentata nuda e frontalmente, vero simbolo di fertilità; i Cananei vi vedevano una madre celeste e terrena ma anche una divinità marina, protettrice ed intermediaria; a Biblo era chiamata Baalat con l’epiteto ‘DT (Signora). Seguendo il filo rosso delle divinità di Tiro, a completare la triade ci imbattiamo in Baal Safon o Sapon (B‛L SPN), testimoniato precedentemente nella religione siriana di Ugarit. Baal era considerato un dio molteplice; ogni popolo cananeo aveva il suo Baal, differente da quello dei propri vicini. La montagna era la sede preferita per la teofania di molte divinità venendo essa stessa divinizzata; il monte Safon o Sapon era considerata la montagna sacra per eccellenza di Canaan, mentre nella Bibbia, con il nome di Şāpon, si indicherà una delle montagne sacre di Yahweh. Il tempio di Baal Safon era il luogo dove si firmavano i trattati più importanti seguiti dai riti di sacrificio, del quale beneficiavano sia la divinità sia la comunità, con la consumazione rituale della vittima animale, soprattutto montoni. La divinità si dimostrava capace di combattere contro il Mare tempestoso ed allo stesso tempo di suscitare venti impetuosi contro il naviglio di chi avesse violato gli accordi, quindi, veniva invocato come difensore dei patti. La montagna, alta 1770 metri, fa parte della catena montuosa del Ğebel el-Aqra‛, a nord di Ugarit.
In Occidente riscontriamo altre località, di probabile fondazione fenicia, che conservano nel toponimo Safon/Sapon. Un esempio è la città ligure di Savona che troviamo citata per la prima volta da Tito Livio (Savo oppidum) come alleata dei Cartaginesi durante la seconda guerra punica. Il massiccio montuoso che domina Savona (Montenotte) potrebbe derivare il proprio nome da mon Tanit. Ricordiamo ancora l’esistenza del fiume Saône, nei pressi di Lione in Francia, e una Cala Saona a Formentera nelle Baleari; anche la città di Balsa in Lusitania potrebbe derivare il suo nome da Baal Safon.
Nei pressi della succitata cava di bentonite si rinvengono i ruderi del nuraghe Giùanni Èfis. Se decliniamo al femminile questo toponimo otteniamo Gianna Efisia, ovvero Janna o Diana Efesia. La Diana Efesia dei Romani corrispondeva alla Artemide dei Greci che, a sua volta, riprendeva il carattere di una divinità in connessione al mondo della natura e della caccia: Artemis sorella del dio hittita Apulunas. Ad Artemide in Efeso fu dedicato nel VII a.C. un santuario considerato una delle sette meraviglie del mondo antico; in età ellenistica venne raffigurata avvolta in un abito aderente dalle lunghe maniche, con un copricapo a forma di torre o di tempio; il petto era adornato da una collana di ghiande e da molteplici file di mammelle o, secondo altre interpretazioni, di scroti di tori sacrificati. Ma originariamente Artemis veniva rappresentata come dea cacciatrice con l’arco o come dea dell’Ade con una torcia, come sintesi di forme orientali, egizie, sumeriche, hittite, lidie. I Fenici in Lidia avevano dei partners commerciali privilegiati; anche questi nell’antichità erano famosi per la produzione della porpora: la corporazione dei tintori e dei venditori di lana era reputata molto influente ancora nel I d.C. e citata negli Atti degli Apostoli. A Sardi, capitale della Lidia, fu inventata la moneta nel senso moderno del termine con titolo, peso e valore stabiliti dallo Stato; l’elettro (lega di oro e argento) e l’oro puro erano reperiti in natura con notevole frequenza; Creso, il più importante e ultimo governatore lidio, utilizzò oltre dieci tonnellate d’oro per la costruzione e la decorazione del tempio di Artemide. L’associazione commerciale tra Fenici e Lidi, con l’oro, gli unguenti ed i profumi portò a diffondere il culto delle divinità lidie Artemis e Baki, che sarà poi identificata col greco Dioniso. Tutti questi toponimi riguardanti la zona di Cala de Saboni per motivi linguistici possono indirizzare alla presenza di un insediamento di tipo fenicio; ma, come nelle migliori indagini, non si può esprimere un giudizio solo sulla base di indizi, anche se molto pregnanti da un punto di vista storico, perciò invitiamo gli archeologi al ritrovamento della “smoking gun”.

Immagini di Cala Sapone a cura dell'autore Giorgio Pinna

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