lunedì 4 maggio 2015
S’Accabadora, la sacerdotessa della vita e della morte.
S’Accabadora, la sacerdotessa della vita e della morte.
di Alberto Massazza
La figura dell’accabadora rappresenta uno degli aspetti più
oscuri e controversi dello sterminato patrimonio di tradizioni popolari della
Sardegna. Con tale termine, derivato con ogni probabilità dallo spagnolo acabar
(finire), si designa una donna perlopiù anziana (anche se sporadicamente si fa
riferimento a una figura maschile, s’accabadore), alla quale era riservato il
compito di intervenire sui moribondi senza speranza, per porre fine
al perdurare delle loro agonie. Una vera e propria eutanasia che rispondeva, da
una parte, alla compassione per le sofferenze patite dai moribondi; dall’altra,
ad un ordine di ragioni pratiche: nell’economia di sussistenza delle
comunità rurali, le cure ad ammalati senza possibilità di guarigione
sottraevano risorse e tempo ad altre questioni vitali, mettendo a repentaglio
il fragile equilibrio delle famiglie di appartenenza dei malati. A lungo
si è discusso sulla effettiva esistenza di
queste figure, ma la straordinaria
quantità di testimonianze più o meno illustri, di memorie popolari, di
riferimenti diretti in proverbi tradizionali, lascia pochi dubbi sulla
veridicità storica dell’accabadora, anche se risulta quanto mai arduo
ricostruirne un profilo esaustivo, data la necessaria segretezza dell’ufficio,
a causa dell’ostilità delle istituzioni civili e religiose.
La prima testimonianza ufficiale sull’esistenza
dell’accabadora si deve ad Alberto La Marmora il quale, nella prima
edizione del suo Voyage en Sardaigne del 1826, riferiva di questa pratica
diffusa nelle zone più conservatrici dell’isola fino alla prima metà del XVIII
secolo. A corroborare le parole del La Marmora, lo scrittore e viaggiatore
inglese William Henry Smyth affermò che l’abbandono della pratica era
stata dovuta all’opera missionaria del gesuita Giovanni Battista Vassallo,
svolta tra il 1725 e il 1775. Le testimonianze dei due scrittori diedero il la
a una polemica tra chi affermava la veridicità storica di tali pratiche e chi
le considerava leggende popolari, tanto che il La Marmora, sentitosi tirato in
causa, nella seconda edizione del suo Voyage del 1839, si diceva incapace di
decidere se prestar fede o meno alle testimonianze raccolte. Nel 1833 il
termine accabadoras fu inserito nel dizionario redatto da Goffredo Casalis. Il
religioso e uomo di cultura Vittorio Angius, sostenitore della veridicità
storica, mise la pratica dell’accabadura in relazione con il geronticidio
rituale che lo storico Timeo di Tauromenio (IV-III sec. a.C.) asseriva
praticato in Sardegna per mano dei figli, al compimento del settantesimo anno
d’età dei genitori maschi. Il geronticidio, a sua volta, inserito in un rituale
dedicato al Dio Kronos e praticato in uno stato di ebbrezza per affievolire la
tensione drammatica del rituale, venne messo in relazione con il Riso
Sardonico. Padre Bresciani, nel suo Dei costumi dell’isola di Sardegna (1850),
riportò un episodio narratogli da una donna che in gioventù, colpita da grave
malattia, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, alla vista dell’accabadora fu
presa da un tale orrore che il trauma la portò a una repentina e miracolosa
guarigione.
Nei decenni successivi, della questione si occuparono
studiosi e letterati, sia sardi che forestieri, e nel 1906 un sacerdote fu
testimone oculare di un caso particolare: una vecchia inquietante si avvicinò
alla madre di un bimbo moribondo, offrendosi come accabadora, ma la madre
rifiutò, dicendosi desiderosa che il figlio si guadagnasse il paradiso con le
sofferenze dell’agonia. Alcune fonti parlano di un caso di accabadura a Luras
nel 1929, con l’accabadora che era anche la levatrice del paese, e di un altro
ad Orgosolo addirittura nel 1952. Non si trattava semplicemente di un compito
tecnico, ma rientrava in un complesso rituale magico di cui l’atto vero e
proprio dell’accabadura era l’estrema ratio. Nella credenza popolare, l’agonia
lunga e travagliata era la punizione per dei peccati commessi dall’alto valore
materiale e simbolico, per la sussistenza della società agropastorale. Tra
questi, l’aver imbrogliato sui confini dei campi, in modo da appropriarsi di
terreni d’altri, o l’aver buttato o bruciato un giogo (juvale, giuale) per
i buoi, azione che non andava fatta neanche quando l’arnese era divenuto
inservibile, dato il suo carattere simbolico. Al moribondo veniva messo il
giogo sotto la testa, nella convinzione che ciò ne affrettasse il decesso. La
camera doveva essere spogliata di tutto ciò che aveva il compito di proteggere
l’ammalato (amuleti, oggetti sacri) e di tutto ciò che egli aveva di più caro
(affetti familiari, oggetti di valore materiale e sentimentale), in modo che la
magia del rito non venisse contrastata da tutto ciò che poteva tenere il
moribondo legato alla vita. L’associazione del giogo con l’agonia è stata
riscontrata anche in altre zone mediterranee (Abruzzo, Romagna, Francia
meridionale), probabile segno di una ritualità simile all’accabadura diffusa
fuori dalla Sardegna. Originariamente, dovette essere usato un semplice giogo
da lavoro nei campi, sostituito da un tipo appositamente cerimoniale, fino alla
miniaturizzazione simbolica; quest’ultima era ottenuta dagli uomini intagliando
un rametto di ulivo o di olivastro, durante la messa della Domenica
delle Palme.
Secondo le testimonianze raccolte, dal Voyage di La Marmora
fino alle moderne ricerche etno-antropologiche, l’atto vero e proprio
dell’accabadura veniva messo in opera attraverso il soffocamento o più
comunemente colpendo in un punto specifico il capo del moribondo. A tale scopo,
si usava il giogo stesso o uno strumento appositamente costruito, detto Su
Mazzolu, un sorta di martello in legno di olivastro di cui è noto un unico
esemplare, conservato nel Museo Etnografico di Luras. L’accabadora
non riceveva compensi diretti per il suo servizio e una volta portato a termine
il suo compito, si defilava per evitare di incrociarsi e intrattenersi con i familiari
del defunto. Vista la delicatezza del suo ufficio, l’accabadora spesso
veniva chiamata da un paese vicino, in modo da evitare i coinvolgimenti dovuti
all’appartenenza alla stessa comunità della famiglia del morto. La sua figura
evocava timore e mistero: naturale che, almeno in tempi relativamente recenti,
una volta indebolitasi la sua autorevolezza all’interno della comunità,
l’accabadora sia divenuta oggetto di superstizione, spesso allargata a tutta la
sua famiglia. L’origine della sua funzione era con ogni probabilità
sacerdotale: lo conferma il fatto che, all’interno della comunità, le venivano
riconosciuti saperi e poteri, sia pratici che trascendentali. Decisamente più
complicato fare ipotesi sull’origine storica della figura dell’accabadora,
anche se tutto lascia pensare a una pratica arcaica che ha resistito anche alla
cristianizzazione, almeno nelle zone interne e fino al Concilio di Trento.
Abolita ufficialmente nel XVIII secolo, è continuata in modo clandestino fino
al novecento, combattuta dalla chiesa e dallo stato in maniera non
molto convinta, preferendo tollerare i sempre più sporadici episodi come
residui di barbarie, piuttosto che come un pericoloso fenomeno sociale.
Fonte: https://albertomassazza.wordpress.com
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ACCABÁRE log. 'finire, terminare' (es. un lavoro); anche nel senso di ‘far morire un malato terminale o un ferito gravissimo’ nel senso di ‘completare l’esito’ della malattia o delle tribolazioni; log. figur. ‘completare’ la distruzione economica di un miserabile; camp. accabbàdda 'finiscila!, smettila!', accabbu 'fine, termine'.
RispondiEliminaWagner crede siano parole derivate dallo sp. acabar 'id.', acabo 'termine'. Invece i termini spagnolo e sardo sono mediterranei, con base etimologica comune nell'akk. aqqabu 'rimanente' < forme aramaiche. Ma va tenuto presente che la base arcaica di questi concetti si ha nel sumerico a-kab 'portar via con la forza' (in cui a 'forza', kab 'portar via').