Archeologia. Il clima nella Sardegna preistorica e protostorica
di Luca Lai
LA PREISTORIA E LA PROTOSTORIA DELLA SARDEGNA
Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009
Volume I - Relazioni generali
ATTI DELLA XLIV RIUNIONE SCIENTIFICA I
Riassunto
Il clima nella Sardegna preistorica e protostorica: problemi
e nuove prospettive - Il clima preistorico e l’ambiente naturale della Sardegna
sono virtualmente sconosciuti, costituendo una sostanziale lacuna nel quadro
della ricostruzione climatica del Mediterraneo Occidentale. Ciò ha anche
ostacolato le indagini sull’interazione delle pratiche umane e ed i fattori
naturali nella comprensione dei complessi scambi nella cultura materiale dal
Neolitico sino all’Età di Ferro. Questo lavoro compendia i risultati di una
revisione degli studi paleoclimatici nel Mediterraneo Occidentale, con lo scopo
di identificare tendenze comuni che si può pensare ragionevolmente di applicare
anche alla Sardegna. Un complesso quadro di aridificazione di lungo periodo dal
IV al I millennio AC e diversi probabili episodi di aridità vengono proposti
come conclusioni provvisorie e come schema per verfiche più focalizzate, con
l’obiettivo di aprire nuove prospettive nell’interpretazione del percorso
storico delle società umane nell’isola. Una conferma preliminare viene da un
studio biochimico con contesti affidabili datati al radiocarbonio.
In un’ottica che a livello di comunità scientifica
internazionale è, o dovrebbe essere, sempre più interdisciplinare, anche
l’archeologia, pur nelle diverse branche specialistiche sotto diversi punti di
vista, dovrebbe avere come compito quello di descrivere, comprendere e
interpretare le vicende umane nella loro relazione tra cambiamento ambientale,
economico e culturale, e più specificamente anche identificare correlazioni che
possano o meno essere ritenute come connessioni causali tra questi fattori. Per
superare le suddivisioni settoriali, ancora troppo forti a causa dei
dipartimenti/ scompartimenti accademici, e le dicotomie polarizzanti tra
determinismo naturale e culturale, dobbiamo riconoscere che tutti i fenomeni
culturali e naturali sono intrecciati, e che anzi la maggior parte delle volte
la linea tra naturale e culturale è a sua volta culturalmente indotta.
L’importanza di entrambi i fattori, intesi pertanto euristicamente, può
variare, e varia in realtà, ma non può
che raramente essere espressa in modo
sensato attraverso affermazioni esclusive; piuttosto, sembra rappresentata più
opportunamente come un’area all’interno di un continuum tra estremi ideali
(fenomeni naturali vs. fenomeni culturali). In questo contributo, pertanto, si
intende fornire una sintesi delle informazioni disponibili sul clima in
Sardegna in età preistorica e protostorica, nel tentativo di offrire una
diversa prospettiva a integrazione delle ricostruzioni culturali
tradizionalmente generate dall’archeologia. In questo modo, nuove ipotesi sulle
traiettorie dei percorsi umani e sulle loro dinamiche possono essere formulate,
per informare e guidare le domande di ricerca del futuro. I dati qui riassunti
derivano da una analisi e sintesi dei dati su clima (e in minor misura
ambiente) principalmente dal IV alla prima metà del I millennio a.C., effettuate
in larga parte nel contesto di un progetto di ricerca volto ad esaminare le
intersezioni tra clima, economia e cultura nel IV e III millennio a.C. mediante
l’uso di isotopi stabili; parte dei risultati di tali analisi isotopiche hanno
poi a loro volta fornito una parziale indipendente conferma alla ricostruzione
congetturale. Riguardo la Sardegna, negli ultimi decenni vi sono stati
progressi notevoli nei campi della cultura materiale, ma è più lenta la riflessione
sui sistemi ideologici e l’organizzazione sociale. Mancano invece quasi del
tutto ricostruzioni del clima con dati specifici raccolti in località
dell’isola, cosicché una ricostruzione climatica che sia affidabile e sufficientemente
dettagliata nelle sue articolazioni è ancora assente. Un primo pionieristico
tentativo di ricostruire il contesto climatico e ambientale di sostrato alle
culture preistoriche sarde si deve a Serra, nell’ambito del progetto editoriale
NUR, pubblicato quasi un trentennio fa e rimasto una lodevole eccezione. In
esso si applicavano le conoscenze generali relative al clima olocenico europeo
alla realtà sarda, con particolare attenzione al nuragico. Mancavano, come
oggi, dati relativi a siti sardi utili alla ricostruzione archeologica, e
ovviamente le conoscenze acquisite con studi successivi in ambito Mediterraneo.
A parte numerosi studi di paesaggio basati sullo studio del territorio attuale,
e studi di sequenze polliniche senza alcun aggancio cronologico, non sono
tuttora disponibili studi d’analisi quantitative di dati primari sulle
condizioni climatiche o ambientali in siti specifici della Sardegna, almeno
nella sezione temporale dall’Olocene medio e recente. Ciò può essere dovuto
alla scarsità di strutture, fondi e competenze professionali necessarie per la
pratica delle discipline che si occupano di ricostruzione paleoclimatica e
paleoambientale a scopo archeologico. Fino a pochi anni fa, non esisteva un
laboratorio di palinologia nell’isola, e le collaborazioni che abbiano la
preistoria come ambito non hanno ancora prodotto risultati apprezzabili.
Pertanto, paragonare i siti studiati della Sardegna con quelli delle aree
adiacenti del Mediterraneo Occidentale, dalla penisola Italiana al Midi
francese, alle coste iberiche e al Nord Africa e Sicilia, evidenzia quale
profonda lacuna essa rappresenti nella documentazione paleoclimatica. Fatta
questa premessa, riporto qui un quadro d’insieme delle informazioni
paleoclimatiche note e delle fasi identificate, da intendersi come ipotesi di
lavoro aventi qualche fondamento. Esse sono ricavate dalla consonanza di
tendenze e fasi nell’intera area circostante la Sardegna, per le quali si possa
perciò presumere che abbiano interessato anche la Sardegna. Come accennato,
sono stati raccolti soltanto dati concernenti i millenni dal IV alla prima metà
del I a.C., il che esclude tutta la prima fase del Neolitico, iniziando dalla
transizione tra il neolitico medio Bonu Ighinu e quello Ozieri. Le questioni
più importanti che hanno guidato la rassegna sono state le seguenti: c’è stato
alcun cambiamento climatico e ambientale sensibile? Se sì, è possibile definire
cronologicamente, e in modo accurato e significativo, tali fasi? Ulteriori
questioni, non coperte qui per motivi di spazio, riguardano la quantificazione
di questi cambiamenti in termini di temperatura, piovosità, e stagionalità, e
il ruolo degli esseri umani nel contribuire alla trasformazione dell’ambiente.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché non sia un paleoclimatologo a fare tale
sintesi. Una risposta è che nessun paleoclimatologo ha avuto occasione,
interesse, risorse o tempo da impiegare in questa direzione. Il presente
contributo non intende sostituirsi agli specialisti del settore, ma piuttosto
aprire un fronte di ricerca all’interfaccia tra i due ambiti, da affrontare in
futuro in collaborazione interdisciplinare. Ini ne, tale studio ha preso forma
nel contesto di una ricerca che mirava ad aggiungere una pur parziale serie di
dati destinati ad essere confrontati con la ricostruzione congetturale, come è
poi stato fatto.
Fonti, metodi e problemi
I ricercatori hanno a disposizione numerosi metodi per la
ricostruzione paleoambientale, i quali si abbinano alle diverse proxies
disponibili. Basandosi sulla scala cronologica che interessa il paletnologo o
l’archeologo preistorico, tuttavia, non tutte le proxies possiedono lo stesso
potenziale informativo. Infatti, in questa sede sono al centro dell’attenzione
gli ambiti di mesoscala e microscala, ovvero, più precisamente, le tendenze di
durata tra le diverse migliaia e le centinaia di anni. La situazione ideale
sarebbe ovviamente quella che consente di utilizzare informazioni a scale molto
più piccole, anche al livello di anno o di stagione, ma ciò contrasta con la
cronologia assoluta della Sardegna e della maggior parte della preistoria del
Mediterraneo Occidentale, dato che questa è la scala delle datazioni al
radiocarbonio -almeno senza l’uso della statistica bayesiana. Infatti, la
datazione di fasi archeologiche per mezzo di dendrocronologia pura (cioè i no
al singolo anno), possibile ad esempio su materiali sommersi nella zona Alpina
e in Europa continentale, è nel Mediterraneo veramente eccezionale. Pertanto,
in Sardegna, avere una sequenza di trasformazioni climatiche e/o ambientali a
una più alta risoluzione della sequenza culturale parallela sarebbe allo stato
attuale delle conoscenze, archeologicamente di limitata utilità. In generale,
tra le proxies a disposizione ve ne sono tra le più disparate, nei cui dettagli
non è opportuno scendere in questa sede; vanno dalle caratteristiche
geomorfologiche alla morfologia di sedimenti e suoli sulla terraferma e in
laghi, con particolare interesse per quelli in grotta, i più tradizionali
documenti storici, resti faunistici, macro- e microbotanici, e alla
dendrocronologia, lo studio dei coralli e delle carote di ghiaccio tra le altre.
I metodi vanno dalla semplice osservazione macroscopica alla misurazione di
magnetismo e isotopi. Ma non tutti tali metodi sono ugualmente utili per il
Mediterraneo: tra questi, ad esempio, le carote di ghiaccio sono studiabili in
zone polari e in alta montagna. Gli anelli degli alberi nel Mediterraneo
occidentale non si conservano quanto a latitudini nordiche a causa della
temperatura e alla maggiore variazione stagionale che diminuisce il potenziale
di conservazione; quelle a disposizione non sono state studiate a fondo. Le
fonti storiche scritte non sono chiaramente utili per fasi che risultano come
minimo un migliaio di anni più antiche della prima apparizione della scrittura
in Sardegna (iscrizioni fenicie nel IX secolo a.C.) o delle prime narrazioni mitiche
o storiche da parte di scrittori greci o latini (VI-II sec. a.C.). Una
discussione sistematica dei principi e dei modi per estrarre informazioni
paleoambientali da questi diversi materiali non è inclusa negli scopi di questo
contributo, e trova posto in interi manuali; perciò per questo aspetto invito
il lettore a consultare bibliografia specifica. Qui mi limiterò a discutere
brevemente le principali limitazioni dell’analisi dei pollini, poiché sono
risultate fondamentali nel contesto della ricostruzione della storia della
vegetazione nel Mediterraneo Occidentale. Ciò per la semplice ragione che la
palinologia fornisce ancora l’ampia maggioranza dei nostri dati. Una difficoltà
ben nota riguardo l’interpretazione di dati pollinici scaturisce dalla diversa natura
delle deposizione attraverso diversi agenti e a seconda delle specie: il
polline di alcune è trasportato per lunghe distanze, mentre quello di altre è
disperso principalmente da insetti o altri animali entro un breve raggio
intorno alla pianta madre; alcune piante sono auto-impollinanti, e il loro i
ore non si apre nemmeno. Alcuni ordini producono enormi quantità di polline,
mentre altri piccole quantità, cosicché la rappresentazione nei depositi
studiati, condizionata anche dalla diversa resistenza alla decomposizione e
altri effetti, risulta severamente distorta. Inoltre, soltanto alcune piante
possono essere identificate al livello del genere o specie, altre soltanto a
livello della famiglia. Queste sono le ragioni per cui gli assemblaggi antichi,
anziché interpretati di per sé, sono paragonati ad assemblaggi moderni.
Inoltre, passato il gradino di una ricostruzione quanto più possibile fedele
della comunità vegetale antica riflessa nell’assemblaggio pollinico, rimane un interrogativo
cui spesso è arduo rispondere con certezza: quali siano le cause della
variazione. Infatti, una comunità vegetale può trasformarsi per cause
climatiche, indipendenti dall’attività umana, oppure cambiare per diretto effetto
di pratiche quali incendi, disboscamento di vari tipi, coltivazione etc. Questi
effetti, e la loro interazione, dovrebbero idealmente essere distinti e
compresi per arrivare a una ricostruzione fedele dell’ecologia storica di un
territorio, del quale gli assemblaggi pollinici sono solo un campione
ridottissimo. Riguardo l’olocene mediterraneo nei millenni tra il IV e il I
a.C., il dibattito è vivace: da un lato vi è chi riconosce un ruolo primario
del clima, indipendentemente dall’attività umana, ritenuta non rilevante prima
dell’età storica. Dall’altro chi identifica l’impatto umano come fattore
principale sin dallo stabilirsi delle economie neolitiche. Da questa premessa
risulta chiaro che basare ricostruzioni generali su pochi siti e osservazioni è
molto rischioso. Questo vale a maggior ragione per la Sardegna, la cui storia
climatica in età pre e protostorica è stata studiata tramite osservazioni e
dati esterni all’isola. Si è pertanto tentato di identificare consonanze
climatiche su vaste aree Mediterranee con la cautela necessaria a mantenere
distinte certezze, probabilità alte o basse, possibilità e speculazioni (che
pure non sono prive di valore euristico).
Tendenze climatiche, episodi, e la loro natura.
Sono qui riportate le linee generali che la rassegna ha
evidenziato dalla fine del neolitico medio. La struttura portante di uno studio
palinologico cruciale, sviluppato con una metodologia sistematica e solida che
anche se non privo di debolezze, è stata ampiamente accettata e condivisa. Un
altro studio di sintesi incentrato sull’idrologia, nel condividere le fasi di
aridificazione identificate nell’area del Mediterraneo occidentale, le ha messe
in relazione con altre proxies. Da questi e numerosi altri studi, una tendenza
generale progressiva verso il disseccamento è chiara durante il periodo dal
4000-2000 a.C. circa. La cronologia delle diverse fasi, purtroppo, ha maglie
larghe e imprecise. Tuttavia, due punti sono ampiamente riconosciuti: vi fu una
ripartizione dell’Olocene in due fasi a livello regionale così come globale
(calda e/o umida in opposizione a fresca e/o secca); a dispetto della
cronologia che ha necessità di essere rai nata, sono state identificate delle
fasi aride distinte. Osservando tutta la gamma di proxies, si ha una forte
impressione di cambiamenti climatici significativi che non dipendono
dall’attività umana, e sono state connesse a cambiamenti nell’esposizione
solare dell’emisfero N, con slittamenti N-S delle fasce climatiche globali e
dei venti da W che portano pioggia al Mediterraneo. A parte il trend di
crescente aridità dalla fase caldo-umida del V mill. a.C. al I mill. a.C., il
più importante cambiamento climatico e ambientale avvenne durante il III
millennio a.C., che in Sardegna sta a cavallo tra età del rame e bronzo antico.
Altri importanti dati provengono dalla misurazione della suscettibilità
megnetica di sedimenti in grotte Mediterranee, che identificano fasi di aridificazione
parzialmente compatibili con quelle degli studi citati sopra e con numerose
altre sequenze nella penisola italiana, nel Midi francese, nella penisola
iberica, N Africa e isole del Mediterraneo centro-occidentale. Seguendo questa
struttura, la fase arida alla fine del V-inizi IV millennio a.C. trova
corrispondenza in Italia centro-settentrionale, e particolarmente nella fascia
meridionale del Mediterraneo: in Tunisia, nel Mar Ionio e nei pressi di
Gibilterra. La fase arida successiva sembra corrispondere con gli inizi
dell’accumulazione di sedimenti di polvere di origine eolica a Lampedusa dopo
la metà del IV millennio a.C., mentre simili periodi nelle latitudini
settentrionali sono caratterizzati da notevole instabilità, con livelli d’acqua
oscillanti nei laghi del Massiccio del Giura e l’inizio dell’accumulo di ghiaia
nelle Alpi meridionali, e tre episodi di tempesta datati tramite
dendrocronologia al Lago di Costanza. Analoga instabilità è stata documentata
in Italia del centro-Nord tramite isotopi dell’ossigeno, un picco piovoso si
registra a Cubelles (Catalogna) dopo la metà del IV millennio. Tale instabilità
è anche stata documentata su scala globale, manifestandosi principalmente come
condizioni aride, e spesso fresche. Un buon accordo nella cronologia unisce la
lunga fase secca identificata tra 3000 e 1900 a.C. circa nella maggioranza
delle aree esaminate: si registrano eventi aridi attorno al 3000 a.C., a San
Rafael (Spagna), al Lago di Pergusa, Sicilia, e a Tigalmamine, Marocco. Questa
fase è stata documentata in Italia centrale da sequenze polliniche, dati
sedimentari e isotopi dell’ossigeno; in Francia meridionale e nelle Alpi dagli
studi idrologici; in N Africa, da dati sulla sedimentazione. Questo periodo
sembra avere visto una migrazione a N del fronte polare. Dai dati pollinici
dell’Italia centrale e dalla costa occidentale del Mediterraneo, pare che
questa lunga fase secca possa articolarsi in due periodi separati da condizioni
relativamente più miti; il primo -attorno al 2900-2700 a.C.- coincide con
l’improvviso ‘collasso’ climatico individuato in Tunisia. Il secondo periodo -
intorno al 2300-2100 a.C., a parte i dati palinologici, è documentato anche dai
livelli dei laghi alpini, e coincide con una fase calda individuata
nell’Adriatico meridionale tramite gli alkenoni, con depositi eolici a
Lampedusa, e una consistente massa di osservazioni nel Mediterraneo orientale e
oltre. Questa fase coincide in Sardegna e altrove con una forte cesura
nell’organizzazione insediativa del territorio, con la fine delle comunità
stanziate in villaggi. Dopo un miglioramento della piovosità nei secoli a
cavallo del 2000 a.C., è stato riscontrato un periodo abbastanza caldo e secco
che si prolunga i no agli ultimi secoli del II millennio, che in Sardegna
accompagnerebbe il graduale sviluppo che dalle fasi Bonnanaro e sa Turricula
porta al Nuragico. La prima metà del I millennio a.C. appare, conformemente a
dati relativi all’Europa temperata che identificano la fase Subatlantica, più
fresca, e forse più piovosa. In Marocco e nelle Alpi, tuttavia, una breve fase
arida è documentata intorno ai primi secoli del millennio. Anche se la natura
dei cambiamenti non è chiara, sembra, da diverse fonti, che un periodo di
instabilità sia iniziato tra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C.,
età che in Sardegna coincide con il passaggio tra il bronzo finale e il primo
ferro. Tale instabilità potrebbe anche avere preso la forma di una fase di
aridità e imprevedibilità meteorologica di un ordine temporale da meno di uno a
pochi secoli, attorno ai secoli X-VIII a.C. Prospettive e Osservazioni
conclusive Diversi aspetti sono ancora da definire, per i quali si rimanda agli
studi specifici. Uno è quello dell’esatta distinzione in tali cambiamenti del
ruolo giocato dalla temperatura e dalla piovosità, che influiscono in modo
complesso su comunità vegetali e su vari parametri, quali gli isotopi
dell’ossigeno. Il secondo è proprio quello delle ipotesi relative ai cambiamenti
nella composizione delle diverse comunità vegetali stesse, che possono essere
fatte soltanto in analogia a quanto documentato nel resto del Mediterraneo
occidentale e soprattutto in Corsica. Questa sintesi della rassegna svolta sui
dati paleoclimatici con una prospettiva archeologica costituisce ovviamente uno
spunto per ulteriori studi. Le fasi andranno verificate con studi specifici,
alcuni dei quali sono in corso. Uno studio biochimico di tessuti ossei umani
che ha coperto soprattutto il III millennio a.C. ha fornito rapporti isotopici
dell’ossigeno che costituiscono una sostanziale conferma alla ricostruzione
sopra delineata, confortando la validità dell’idea metodologica di fondo, pur
non ortodossa, utilizzata per mettere insieme una massa di dati di natura e
scala diverse, e raccolti con altre finalità. Tale studio ha avuto come scopo
quello di studiare il cambiamento tra diversi fattori naturali e culturali,
osservando la correlazione tra trasformazioni nella cultura materiale, nell’economia
e nelle coordinate climatiche. A questo scopo, è stata effettuata una sintesi
di taglio antropologico dei vari ambiti già studiati, ovvero la cultura
materiale, gli aspetti rituali, funerari e sociali, quelli economici e
soprattutto alimentari, e quelli appunto climatici. Ini ne, sono stati
analizzati campioni ossei umani di gruppi scelti con cura per la potenzialità
informativa, dai quali si sono tratti dati quantitativi riguardo dieta, clima,
residenza, laddove possibile differenziando sessi e gruppi d’età. Le conoscenze
acquisite, che non riguardano direttamente l’argomento di questo contributo,
pur se con ampio spazio per verifiche future, hanno consentito di formulare una
sintesi storica (e ipoteticamente di ecologia storica) delle dinamiche di
trasformazione della preistoria sarda che appare molto più articolata di quelle
finora avanzate. Per garantire l’attendibilità di tali ricostruzioni, la
datazione assoluta di tutte le serie scheletriche è stata verificata
radiometricamente laddove dubbia, e alcuni siti chiave con stratigrafie
complesse di particolare rilevanza sono stati studiati più a fondo. Questo ha
portato in alcuni casi a dover accantonare alcuni gruppi, ma ha allo stesso
tempo rappresentato un notevole raffinamento della cronologia dal neolitico
recente al bronzo antico. Vista la loro rilevanza, queste datazioni, che
saranno riportate, commentate e analizzate in dettaglio in pubblicazioni di
prossima uscita, sono anticipate in questa occasione in forma breve in Tab. I.
A titolo di esempio sulle prospettive aperte dallo studio,
si possono citare alcuni aspetti: la riduzione della durata supposta per la
cultura Ozieri classica a forse pochi secoli, di contro a una durata
ultramillenaria per la sequenza Post-Ozieri - ovvero dal Sub-Ozieri a varie
fasi Filigosa-Abealzu come ipoteticamente definite da Melis; l’apparente
corrispondenza della nascita e fine della cultura di Monte Claro con due fasi
di aridità, e il netto aumento nel consumo di prodotti animali documentato a
Scaba ’e Arriu rispetto alla fase precedente; la probabile identificazione di
fenomeni di transumanza nel gruppo campaniforme di Padru Jossu, in
corrispondenza della fase arida; la mancata conferma della caratterizzazione
pastorale della cultura Bonnanaro da alcuni ipotizzata; a ciò si aggiunge, al
di fuori di questo studio, la possibile coincidenza delle trasformazioni
sociali e cultuali nuragiche con la fase climaticamente instabile del bronzo finale.
A partire da queste considerazioni, prende forza l’auspicio
che l’archeologia sarda, come altri casi a livello globale, possa
avvantaggiarsi di una riflessione più olistica che includa elementi climatici e
ambientali nelle ricostruzioni storiche relative ai millenni precedenti la diffusione
della scrittura. Troppo spesso la mancanza di dati empirici ha condotto a
ricostruzioni delle economie preistoriche nelle diverse fasi come uniformi e
basate su paradigmi legati a concetti di sussistenza; sempre di più appare
chiaro, invece, che la sussistenza è una categoria euristica da utilizzare in
connessione con i fattori culturali e simbolici, che le società preistoriche
hanno attraversato profondi cambiamenti, talvolta repentini, e che gli
strumenti tecnologici per indagarne le relazioni causali necessitano di
continuo aggiornamento e progettualità interdisciplinare. Senza cadere in
semplicistici determinismi né culturali né ambientali, l’archeologia sarda può
e deve riservare spazio e risorse maggiori all’ecologia storica, per la
opportunità scientifica ma anche per gli insegnamenti che essa può fornire
sull’interazione tra gruppi umani e ambiente in tempi di rapide trasformazioni
quale l’era in cui viviamo. Questo reinserirebbe l’archeologia nel gruppo delle
scienze applicate, in un senso finora severamente trascurato, a detrimento
della nostra società e dell’archeologia stessa.
Fonte: www.academia.edu
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