giovedì 30 ottobre 2014
Un profondo conoscitore della lingua etrusca
“Un profondo conoscitore dei problemi della lingua Etrusca”
di
Massimo Pittau
In
un'opera dal titolo molto accattivante sul piano pubblicitario - però non
rispondente alla esatta realtà dei fatti - di Giulio M. Facchetti, L'enigma
svelato della lingua etrusca (Roma 2000), nel risvolto della sopraccoperta
l'Autore – che è laureato in giurisprudenza - si è presentato in questo modo
testuale: «Giulio M. Facchetti, studioso di diritto romano e di storia antica,
è attualmente dottorando di ricerca all'Università di Pavia e collabora presso
l'Università statale di Milano; cultore di linguistica storica e profondo
conoscitore dei problemi della lingua etrusca e delle scritture e lingue
dell'antica Creta, negli ultimi anni ha pubblicato, in sedi scientifiche, diversi
notevoli interventi sulla scrittura minoica Lineare A e, recentemente, il testo
specialistico Frammenti di diritto privato etrusco».
Ovviamente
in questi ultimi 15 anni egli ha fatto progressi nella sua carriera accademica,
diventando professore aggregato nell'Università dell'Insubria (Varese) ed
effettuando nuove acquisizioni nei suoi numerosi campi di interesse.
Ad
esaminare e discutere minutamente un'opera di 300 pagine, come questa del
Facchetti, sarebbe troppo lungo e dovrei scrivere una mia opera di almeno
uguale spessore. Perciò intendo limitarmi all'esame di una sua opera più
recente e assai più breve: Appunti di morfologia etrusca (Firenze 2002) con
l'intento di esaminare quale sia la sua competenza effettiva in una lingua dei
cui problemi egli si è presentato come “profondo conoscitore”.
A pagina
9, num. 1. Non è esatto affermare che uno dei morfemi del plurale etrusco sia
-ar, -er, -ur. Se si esamina con attenzione, si deve concludere che il vero
morfema è -r, il quale viene fatto precedere da una delle quattro vocali
etrusche: a, e, i, u. Esempi clenar «figli», aiser «dèi», tusurϑir
«coniugi», ϑansur «attori, celebranti» (non «cerimonieri»!).
Non è
vero che l'altro morfema del plurale etrusco sia -cva, -χva. In realtà questo è un “plurale articolato”, cioè composto col
pronome ca «questo» in posizione enclitica e col valore di articolo
determinativo, per cui culścva non significa semplicemente «porte», ma
significa «le porte»; avilχva non significa «anni», ma significa «gli anni».
Invece il vero morfema del plurale è -va, come dimostra chiaramente
l'appellativo citato subito dopo dallo stesso Facchetti, zusleva «offerte».
Non è affatto certo che
il plur. in -r indichi esseri animati: ecco alcuni esempi contrari: acazr
(acaz-r) «cose fatte, manufatti, oggetti»; cepar «cippi, cippi confinari»; [ceren cepar nac amce «curate (di
tenere) i cippi confinari come erano» (da confrontare col lat. cippus, finora
di origine ignota; dell, deli)];
cerur «(oggetti) fatti, manufatti, (vasi) fittili»; naper «napure, mappe»
(misura terriera al plur.) [da confrontare coi lat. mappa, nappa «salvietta,
tovagliolo, fazzoletto, drappo», lat. napurae «fiocchi per adornare i maiali da
sacrificare» (huth naper lescan «quattro napure o mappe in larghezza»)]; mamer
probabilmente «cessioni, donazioni», plur. di mama; śacnicleri cilϑl śpureri meϑlumeric enaś «ai
sacrifici di culto per le città e le federazioni nostre».
Pagina 10. Non è vero
che non si possano spiegare in altro modo le alternanze ci avil «tre anni», ci
clenar «tre figli», ci zusle «tre offerte», ci huśur «tre ragazzi». Si possono
spiegare facilmente dicendo che la “declinazione di gruppo” coi numerali non
era obbligatoria; e se ne capisce la ragione: il plurale era già indicato
chiaramente proprio dal numerale.
Pagina 12. Iscrizione ET,
Cr 5.2 – 4: Laris Avle
Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic / saniśva ϑui
cesu | Clavtieϑurasi, che io traduco «Laris (e) Aulo figli
di Laris da vivi questo sepolcro avevano costruito; i genitori, e il padre e la
madre, (sono) qui deposti - Per la famiglia Claudia». Invece il Facchetti ha
tradotto la seconda parte in questo modo: «le paterne (e) le materne
<ossa> qui giacciono – nel (sepolcro) dei Claudii». Senonché apac atic,
non sono affatto aggettivi, tanto meno al plurale, ma sono sostantivi con la
copulativa enclitica -c e significano «e padre e madre» (in polisindeto).
D'altronde anche lui esprime dubbi che saniśva significhi <ossa>, mentre
significa di certo «genitori», essendo il plurale di sanś(-l)
«(del) genitore». Inoltre cesu è sicuramente un participio passato e non un
indicativo presente plurale. Clavtieϑurasi è un dativo sigmatico di comodo oppure
di appartenenza e nient'affatto un locativo.
Il
Facchetti cita di continuo l'etruscologo Luciano Agostiniani, che evidentemente
considera il suo "Maestro" e del quale accetta tutte le tesi ad occhi
chiusi, compresa la strana interpretazione e traduzione della formula mlaχ
mlakas «buono per cosa buona, «cosa buona per un buono» (I opera pg. 144; II
pg. 73). Su questa formula invece esiste ormai da tempo una consolidata comunis
opinio (ad esempio di A. Trombetti, C. Battisti, M. Runes, K. Olzscha, F.
Slotty, M. Pallottino), secondo cui essa in realtà è una "formula di
offerta". Il Pallottino negli «Studi Etruschi» (1931, 1996) ha scritto
ripetutamente e testualmente: «Il concetto di donazione ex voto (MLAX)
nell'ambito funerario è ormai acquisito con certezza». In effetti la formula
propriamente significa «sciogliendo un voto» e già il valente etruscologo A. J.
Pfiffig l'aveva confrontata con quelle lat. donum donans, votum vovens, votum
solvens (con l'accusativo dell'oggetto interno come nella formula etrusca). Da
parte mia quindici anni fa ero intervenuto con uno scritto per dimostrare che
questo significato si adatta alla perfezione in tutti i numerosi casi in cui
compare la formula, intera o a membri disgiunti, mentre il significato di
«buono per cosa buona» si adatta soltanto in pochi casi, invece non si adatta
per nulla in numerosi altri (M. Pittau, Tabula Cortonensis – Lamine di Pirgi e
altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, capo 8).
Anche il Facchetti ha
abboccato appieno alla “favola” di quello che sarebbe un caso morfologico nuovo
della lingua etrusca, chiamato dal suo inventore “pertinentivo”. Ma si tratta
di un caso morfologico per il quale costui ha presentato rarissimi e
incertissimi esempi, dispersi ampiamente nel tempo e nello spazio e soprattutto
non caratterizzati da morfemi chiari e distinti. Con la sua nuova trovata
l'inventore da una parte ha voluto attribuire al “pertinentivo” complementi
morfosintattici che si inquadravano alla perfezione già nell'ablativo,
dall'altra ha voluto eliminare del tutto il caso dativo. Questo invece esiste
realmente, caratterizzato dai morfemi -i come dativo asigmatico e -si come
dativo sigmatico: dativo asigmatico: Aritimi (Aritim-i) «a/per Artemide»,
śpureri (śpur-er-i) «alle/per le città»; dativo sigmatico Avilesi (Avile-si)
«a/da/per Aulo»; apasi (apa-si) «al/del padre» (in dativo di appartenenza); Atranesi
(Atrane-si) «(fabbricato) da Atrano» (in dativo di agente); asigmatico e
sigmatico: Aχlei Truiesi (Aχle-i Truie-si) «a/per Achille Troiano» (il
Facchetti invece ha tradotto «nell'Achille di Troia»!).
Ne è derivata tutta una
grande confusione, quella che risulta documentata anche dallo schema della
“declinazione etrusca” presentata dal Facchetti nelle pagine 11-12 e spiegata
nelle seguenti: non se ne capisce nulla!
Esempi: a pagina 13 il
Facchetti scrive di aver individuato per la prima volta la costruzione del
"doppio locativo", col possibile significato di "tra ... e
...". A pagina 15 egli scrive: «Il pertinentivo è, in realtà, un esempio
del carattere agglutinante dell'etrusco: si tratta, morfologicamente parlando,
del "locativo del genitivo"! Ma di grazia – chiedo io - cosa
significano mai "doppio locativo" e "locativo del
genitivo"? Queste due non sono altro che frasi prive di senso!
Più avanti egli scrive:
«Etr. Avile-s-i significa letteralmente "in (quello) di Avile",
"nell(àmbito) di Avile"; dunque una frase come mi mulu Avilesi
("io (sono) donato nell'(àmbito) di Avile" va disambiguata dal
contesto linguistico e materiale. Perché Avilesi può indicare, per esempio, sia
il donante che il donatario». Ma – obietto io – come è pensabile che gli Etruschi
parlassero in codesto modo del tutto ambiguo? Forse che essi non facevano altro
che esprimersi con frasi sibilline, cioè aventi più significati anche
contrastanti? In realtà quella che certamente era una ambiguità propriamente
linguistica, sul piano del contesto “fattuale” o linguistico-pragmatico era
invece del tutto chiara: si vedeva o si sapeva dai fatti se Avile era il
donatore oppure il donatario dell'oggetto donato.
Anche il Facchetti cade
nell'errore di enfatizzare troppo il fenomeno della agglutinazione esistente
nella lingua etrusca, dato che fenomeni di agglutinazione, anche se sporadici,
si constatano pure in molte altre lingue, ad esempio pure nell'italiano:
andiamocene! (and-iamo-ce-ne!); vàttene! (va-tte-ne!), diciamocelo!
(dic-iamo-ce-lo!), diteglielo! (di-te-glie-lo!); infischiandocene
(infischia-ndo-ce-ne); prendendocele (prende-ndo-ce-le).
In ogni modo Avilesi non
è affatto un esempio di agglutinazione, ma è solamente un prenome in dativo
sigmatico, Avile-si, da intendersi o come dativo di attribuzione «a/per Aulo»
oppure come dativo d'agente «da Aulo».
Dietro il fenomeno
enfatizzato dell'agglutinazione, esistente – in forma assai ridotta – pure
nella lingua etrusca, i suoi fanatici – compreso il Facchetti - procedono a
dividere e separare i lessemi come se fossero altrettanti salamini da
affettare, con risultati finali non solo privi di valore scientifico, ma
francamente umoristici. E sorvolo sul larghissimo uso che il Facchetti fa
dell'asterisco per indicare fatti linguistici ipotizzati ma non documentati:
così procedendo egli fonda le sue argomentazioni su ipotesi di ipotesi di
ipotesi...
Potrei continuare a
lungo, ma preferisco chiudere con una considerazione generale, che però non
rivolgo solamente al Facchetti: si deve evitare con grande cura di cadere
nell'errore di ritenere che il materiale documentario della lingua etrusca
conservatoci abbia il carattere e il pregio della piena e assoluta esattezza e
genuinità, errore madornale per cui si ritiene di poter procedere alla analisi totale
e minuta del corpus etrusco con tutta sicurezza, come se si trattasse delle
formule numeriche che risultano, ad esempio, nelle tavole della trigonometria o
dei logaritmi. E invece non è affatto così: il corpus linguistico etrusco
oscilla nell'ampio ambito di ben otto secoli, nell'ambito di uno spazio
immenso, che va da Pontecagnano a Capua, a Caere, Chiusi, Cortona, Bologna sino
a Spina, Adria e Feltre, da Piacenza a Genova, a Marsiglia, in Corsica, in
Sardegna e perfino a Cartagine. Inoltre è del tutto certo che esso è stato
scritto da numerosissimi scribi, alcuni certamente forniti di sufficiente
capacità di linguaggio e di cultura, altri invece dotati di scarse conoscenze
di lingua e di ortografia, tanto che non poche iscrizioni mostrano evidenti segni
di errori di lingua e di scrittura. Infine è un fatto, un fatto ovviamente
deprecato, che moltissime iscrizioni etrusche hanno subìto, per l'ingiuria del
tempo e degli eventi, numerosi e gravi danni che ne hanno pregiudicato
gravemente e per sempre la lettura, la traduzione e la semplice
interpretazione. Si deve infine evitare con cura di trarre conclusioni
morfologiche e semantiche dai numerosi vocaboli documentati una sola volta che
incontriamo nel corpus (gli hapax legómena), perché anche questi possono essere
il frutto di errori di scrittura e di lingua.
Per tutte queste ragioni
negative, singole o collettive, le analisi minutissime e puntuali che troppi
cultori della lingua etrusca fanno nei loro scritti sono del tutto aleatorie e
spesso del tutto campate in aria. Questa mia considerazione generale non
costituisce affatto il suono della campana a morte per lo studio della lingua
etrusca, ma costituisce solamente un invito ad essere molto più prudenti nelle
nostre analisi, intepretazioni e traduzioni.
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Volevo far presente che quel libro (di grande successo editoriale, tenuto conto dell'argomento: ebbe due edizioni andando esaurito in pochi mesi) è, come si capisce, un testo divulgativo, il cui scopo primario è far capire che l'etrusco non è una specie di "lingua aliena", ma una lingua di frammentaria attestazione, senza evidenti connessioni "genealogiche", ma che si può studiare e chiarire poco alla volta con gli strumenti della scienza linguistica.
RispondiEliminaSecondo me, poi, quel libro è anche servito a tradurre dal “linguistichese” alcuni cruciali articoli di Agostiniani e Rix, fino ad allora ingiustamente non molto frequentati e forse poco accessibili per chi non era dotato di competenze di linguista.
Come ricordato, a 14 anni di distanza la mia carriera è un po' progredita: ho ottenuto un dottorato di ricerca in materie linguistiche, ho vinto un concorso da ricercatore universitario e attualmente sono professore associato del settore L-LIN/01 (Glottologia e Linguistica).
Molte delle "imputazioni" del prof. Pittau sono in realtà scoperte di gran spessore scientifico che ci hanno permesso notevolissimi e solidi avanzamenti nella conoscenza dell'etrusco, introducendo pienamente il piano della "tipologia linguistica" in questo campo di studi.
La questione è spesso un po' tecnica e non si può affrontare così, in termini generici. Solo persone dotate di conoscenze specialistiche possono esprimere opinioni sensate in merito.
Il fatto è, poi che queste scoperte, citate da Pittau, per lo più sono state effettuate da altre persone, non certo da me, che ho meriti di ben inferiore natura in questo campo.
Cordialmente
Giulio Facchetti
Massimo Pittau scrive:
RispondiEliminaAl Collega Facchetti,
io ricordo di averLe dato, quando circa 15 anni or sono tenni una lezione sulla “Tabula Cortonensis” nella Facoltà di Lettere di Pavia, il seguente consiglio: "Lasci perdere la sudditanza ad autorità fasulle che operano nel campo della lingua etrusca".
1) La questione del nuovo caso grammaticale della lingua etrusca chiamato "pertinentivo" è veramente una "favola", anzi è un "gioco delle tre carte". Il suo inventore aveva fatto sparire il dativo e lo aveva sostituito con l'ablativo; poi al posto di questo aveva inserito il “pertinentivo”. Tutto questo aveva fatto con una documentazione lessicale e morfologica irrisoria e anche incerta. Costui godeva di una fama del tutto immeritata: infatti per una ventina d'anni aveva "parlato" dappertutto della lingua etrusca, ma "dicendo" molto poco su di essa, anzi quasi nulla.
2) Dell'altra "favola" del significato della formula MLAX MLAKAS ho parlato abbastanza a lungo nel mio commento della nuova importante iscrizione pubblicata da Lei e da Massimo Poetto e commentata da Giovanni Colonna. Quasi certamente Lei conosce già il mio nuovo testo; in ogni modo l'ho mandato all'egregio dott. Pierluigi Montalbano chiedendogli il favore di pubblicarla in questo suo importante sito.
3) Lasci perdere l'altra “favola” della lingua etrusca del tutto priva di “connessioni genealogiche” con altre lingue; lasci quest'altra favola ai troppo numerosi archeologi che si interessano illegittimamanente – perché non ne hanno la competenza - della lingua etrusca. Circa 20 anni fa, nella mia opera «La Lingua Etrusca – Grammatica e Lessico» (1997, pgg. 93-94) avevo dimostrato che quasi tutti i numerali etruschi della prima decade corrispondono ad altrettanti indoeuropei: etr. thun lat. unum; etr. zal germanico twa «due»; etr. huth lat. quattuor; etr. sa lat sex; etr. semph lat. septem; etr. nurph lat. novem.
Ripeto che non si può qui entrare in discussioni tecniche: ma Pittau dovrebbe dire chi potrebbe oggi (oltre a lui) avere il coraggio di proporre una "traduzione" di etr. arc. arathia come "ad Aranthia" (si tratta ovviamente di un genitivo arcaico, come dimostrato oltre ogni dubbio: arath-ia "di Arath").
RispondiEliminaInoltre egli cita pretese "communis opinio" con nomi di autori completamente superati su quei punti, senza considerare minimamente o confutare le nuove acquisizioni in campo dottrinale.
Ad esempio per il caso "pertinentivo", e il suo carattere bimorfematico, sono state individuate importanti prove oggettive che dimostrano un confine di morfema -s-i: ma di questi fatti si ignora tutto.
Ricordo bene l'incontro di Pavia, in cui anch'io fui invitato a intervenire da Carruba sul testo della Tabula Cortonensis. Ricordo bene, per citare un esempio, come Pittau per spiegare la seconda e la terza parola del documento (PETRUIS SCEVES) avesse proposto (come anche stampato sul suo libro) di riconoscervi un genitivo ("di Petru Sceva"), secondo la solita approssimazione antiquata (diffusa fino ai primi anni Ottanta, e anche oltre) che confondeva genitivo e ablativo. Ricordo che perciò egli sosteneva la necessità di riconoscere un errore dello scriba in PETRUIS, da cui si dovrebbe espungere la I.
Ricordo anche la figura imbarazzante che gli procurai notando semplicemente che questa sequenza è invece un'ulteriore prova lampante della necessità di distinguere il genitivo in -S dall'ablativo in -IS: proprio la seconda E di SCEVES, risultato di una monottongazione (< SCEVA+IS) confermava la morfologia d'accordo dell'ablativo PETRUIS SCEVES "da Petru Sceva". Certo Pittau non poteva proporre di espungere la I anche in SCEVES, data la monottongazione -A-IS > -ES (inoltre il participio CENU, che segue dappresso regge forme di ablativo anche sul Cippus Perusinus; inoltre più sotto nel testo della Tabula c'è proprio la forma del genitivo SCEVAS "di Sceva", con -A- e non -E-; inoltre in punti diversi della stessa Tabula ci sono altri sintagmi concordati con i morfi di ablativo, ecc.).
Il totale isolamento e la totale irrilevanza di Pittau nell'ambito della linguistica etruscologica non dipende certo da me, ma è il risultato naturale dell'applicazione di procedure che ignorano completamente i più recenti sviluppi del dibattito scientifico.
Cordiali saluti
Giulio Facchetti
fornita da Pittau nel suo scritto sulla nuova iscrizione pubblicata da me e oetto
Scusate, per un refuso, nel precedente messaggioi non ho specificato che la "traduzione" di Pittau per etr. arc. arathia come "ad Aranthia" si trova nel suo commento alla nuova iscrizione pubblicata da me e Poetto.
RispondiEliminaCirca la questione dell'isolamento il mio parere è che una "parentela" non risulta evidente. A parte i fatti più o meno antichi di interferenza lessicale (cfr. lautn- "famiglia"): i dati noti della morfologia possono interpretarsi come contenenti alcuni elementi passibili di confronto con l'indeuropeo e altri elementi che potrebbero indirizzare in altre direzioni.
La serie dei numerali non è pacificamente assimilabile alle protoforme indeuropee, come dice Pittau: Dov'è la prova dei passaggi ie. *tw- > etr. z-; ie. Kw- > etr. h- ecc.? E poi sha è "quattro" (non "sei") e huth è "sei" (non quattro).
I filoindeuropeisti d'un tempo insistevano anche perché etr. thu "uno", fosse tradotto "due" per la sua rassomiglianza formale con ie.*dwo "due", ma poi si sono rassegnati. E poi semph- è sette? E se anche fosse i confronti poi non sarebbero possibili solo con la famiglia indeuropea (cfr. le forme semitiche per "sette" o anche per "sei", se etr. sha fosse "sei"; e inoltre etr. sar "dieci" troverebbe confronto solo con le forme semitiche e non in indeuropeo ecc.). Non parlo poi di altri gruppi linguistici.
Infine, poi, anche la sequenza dei numerali non è estranea ai fenomeni di interferenza es. cinese-giapponese)
Cordiali saluti
Giulio Facchetti