«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
martedì 7 ottobre 2014
Epigrafia Etrusca, di Massimo Pittau
Epigrafia Etrusca
di Massimo Pittau
Sembra
del tutto evidente che l'epigrafia è una disciplina che ha come due manici: con
uno di questi essa si connette strettamente all'archeologia, con l'altro si connette
alla linguistica storica o glottologia.
La
connessione dell'epigrafia con l'archeologia trova il suo fondamento essenziale
nel fatto che – come mi ha insegnato la prima volta Giacomo Devoto
nell'Università di Firenze – il primo fattore che una iscrizione offre a un suo
interprete è il “supporto fisico” in cui essa risulta scritta. Nella generalità
dei casi avviene che sulle tombe e sulle lapidi sepolcrali le iscrizioni
abbiano un carattere funerario, con l'indicazione delle generalità dei defunti,
della loro età ed eventualmente del loro curriculum; sui gioieli avviene che
presentino il nome del donatore e/o quello del donatario ed eventualmente
qualche frase di omaggio; nei monumenti pubblici presentino il nome di
magistrati o di personaggi pubblici e/o il ricordo di importanti eventi
storici; negli oggetti di uso comune presentino il nome del proprietario, ecc.
Ne consegue che l'epigrafista, già dal supporto fisico in cui è tracciata
un'iscrizione, è in grado di intravedere a grandi linee che cosa essa
probabilmente indichi e dica.
Oltre a
ciò l'archeologia, in virtù dei contesti archeologici trovati e interpretati,
spesso riesce ad offrire all'epigrafista la datazione almeno generica di una
iscrizione rinvenuta e studiata. Ed avviene anche il fatto opposto: spesso sono
proprio le iscrizioni, ossia è l'epigrafia quella che dà all'archeologo la più
o meno esatta datazione di un monumento o di un reperto archeologico.
La
questione invece della connessione o dei rapporti dell'epigrafia con la
linguistica storica è di più facile evidenza: dopo aver letto o ricostruito più
o meno esattamente una iscrizione antica, l'epigrafista deve anche affrontare
il problema del suo significato generale e dopo quello del suo significato
specifico; deve cioè tentare di prospettare la sua “traduzione” effettiva.
È
evidente e logico che l'intervento preliminare dell'epigrafia costituisce una
condizione sine qua non per l'intervento successivo della linguistica: un
linguista non può affrontare il problema della traduzione effettiva di
un'antica iscrizione se non a patto che abbia fra le mani il testo, più o meno
esatto, quale è stato ricostruito e letto dall'epigrafista.
Ed anche
qui avviene pure il fatto opposto: l'intervento preliminare del linguista può
offrire un valido e anche indispensabile aiuto all'epigrafista perché legga
bene e ricostruisca esattamente il testo originario di una iscrizione.
* *
*
Di certo
per il motivo che la sua casa editrice non risulta molto conosciuta, mi era
sfuggita del tutto un'opera di epigrafia etrusca, pubblicata nel 2007. Quando
qualche mese fa di quest'anno 2014 ne ebbi finalmente sentore, non riuscii a
trovarla più in commercio, neppure in quello antiquario. Solamente da qualche
settimana ho avuto modo di averla in prestito da un mio collega di Università.
Si tratta dell'opera dell'archeologo Enrico Benelli, Iscrizioni Etrusche –
leggerle e capirle (SACI edizioni di Ancona, pgg. 302).
Dopo
averla letta con interesse e con attenzione, da linguista quale sono, ritengo
di poterne formulare questo giudizio generale: l'opera è rivolta quasi del
tutto nella sola direzione dell'archeologia (e infatti il Benelli è
fondamentalmente un archeologo), mentre - a mio giudizio - si dimostra
grandemente difettosa nell'altra direzione rivolta alla linguistica.
Si
presti attenzione a questi fatti facilmente controllabili nell'opera: I) Il
Benelli prende in considerazione per la sua disanima solamente le iscrizioni
brevi e brevissime, mentre trascura quasi del tutto le iscrizioni lunghe appena
due o tre righe. II) Dei testi lunghi della lingua etrusca egli addirittura si
limita a ripetere le brevi notazioni generali che si trovano in tutti i
manuali. III) Egli in generale procede a dare la “interpretazione generica” di
ciascuna delle iscrizioni esaminate, mentre solamente di poche osa prospettare
una “traduzione” puntuale od effettiva. IV) In alcune traduzioni egli tralascia
di esaminare e di tradurre vocaboli da lui non compresi. V) Per alcune
iscrizioni egli cade in errori di carattere linguistico, qualcuno vistoso. Ecco
alcuni esempi di questi errori:
Nell'iscrizione
ET, AT 1.30 – 4s3i (su base di tufo) eca śuϑi Nevtnas Arnϑal neś «questa tomba
(è) del defunto Arunte *Neutinio» (TLE
198) non è necessario prevedere un originario neśl perché è intervenuta la
“declinazione di gruppo” (traduco gli antroponimi etruschi facendo riferimento
a quelli corrispondenti latini).
Sembrebbe
strano che il Benelli non abbia intravisto il significato del vocabolo che
ricorre in alcune tombe di Tarquinia e del suo territorio manim come uguale a
«monumento», corrispondendo chiaramente al lat. monumentum = monum-entum.
Ragion per cui manim arce significa esattamente «fece il monumento
(sepolcrale)». E inoltre che egli non abbia intravisto che il monosillabo ma,
che compare in numerosi cippi o lapidi o stele significa appunto «cippo o
lapide o stele funerari» e che probabilmente è l'abbreviazione, lessicale
oppure grafica, del già visto manim «monumento funerario». Però si comprende
bene che il Benelli paga il suo tributo all'ancora ricorrente ma del tutto
infondato pseudoconcetto, secondo cui «la lingua etrusca non è confrontabile
con nessun'altra».
In alcune iscrizioni in cui compare il numerale huϑ il Benelli
lo traduce «sei» anziché «quattro», ma è contraddetto sia dalla iscrizione ET,
Ta 7.81 – 3/2 (su parete di sepolcro che presenta l'immagine di quattro
Caronti) Xarun huϑs «(immagine)
del quarto Caronte» (LEGL 96, 136), sia dalla sua evidente corrispondenza col
lat. quattuor, sia infine dal nome dell'antica città dell'Attica Hyttēnía, già
interpretata come Tetrápolis «quattro città» oppure «città quadrata».
Inversamente il Benelli interpreta e traduce śa «quattro»
anziché «sei», che invece corrisponde chiaramente al lat. sex. È evidente che
con questa sua decisione il Benelli mira anche lui ad escludere la tesi del
carattere indoeuropeo pure della lingua etrusca; senonché gli archeologi e gli epigrafisti
non posseggono affatto gli strumenti necessari e la competenza specifica per
sostenere o contrastare l'appartenenza di una lingua ad una famiglia
linguistica oppure ad un'altra.
Nell'iscrizione di Annibale (ET, Ta 1.107) io interpreto
il verbo murce come connesso coi lat. mora
«indugio, ritardo», morari «attardarsi, indugiare, trattenersi, dimorare,
soggiornare» [finora di origine incerta (DELL,
DELI, DEI s. v. mora²) e pertanto probabilmente di origine
etrusca] e traduco murce Capue come «dimorò, soggiornò a Capua» (in ablativo di
luogo). (È noto che Capua, in origine probabilmente osca, era divenuta una
città etrusca fin dal secolo V a. C. e fu conquistata da Annibale nel 212-211
a. C.). Interpreto
invece il verbo tleχe come «fu tolto, fu levato» in quanto connesso con la
radice del verbo etrusco tul (Liber II 3,
15; III 22; IV 12, 13, 16; V 5, 9, 12; IX 4, 16, 18, 20; X 2; XI 19)
probabilmente «togli!, leva!, solleva!» (imperativo forte sing.) da confrontare
col lat. tolle (Trombetti, Olzscha): cisum pute tul «e tre volte solleva il
calice»; ei(m) tul var «e non togliere affatto». (ET, AV 0.28 – rec, su vaso)
tul «solleva (alla salute)!»; tule probabilmente «solleva!», «prendi!»,
imperativo debole sing., da confrontare ancora col lat. tolle. (ET, Ve 3.32 –
6: su ansa di vaso) mini tule «sollevami!» (= alla salute!).
Pertanto
la mia traduzione dell'intera iscrizione è questa: Felsnas La Lethes / svalce
avil CVI / murce Capue / tleχe Hanipaluscle
«La(ris) Felsinio (figlio) di Letio / visse anni 106 / soggiornò a Capua / (e
ne) fu cacciato dall’esercito di Annibale». A mio
giudizio va respinto il tentativo, che è stato effettuato e che il Benelli ha
approvato, di vedere nella iscrizione il riferimento a qualche episodio bellico
avvenuto nelle vicinanze di Capua: nulla di tutto questo traspare o
semplicemente trapela dall'iscrizione.
La nota iscrizione della gens Claudia, per la quale il
Benelli manifesta titubanze e commette errori, va tradotta esattamente in
questo modo: (ET, Cr 5.2 – 4:, su
pilastro) Laris Avle Larisal clenar / sval cn suϑi ceriχunce | apac atic / saniśva ϑui cesu |
Clavtieϑurasi
«Laris (e) Aulo figli di Laris da vivi questo sepolcro hanno costruito; i
genitori, e il padre e la madre, (sono) qui deposti; per la famiglia Claudia».
Presento
adesso e analizzo la traduzione e il commmento che il Benelli ha fatto della
iscrizione della famosa statua di bronzo dell'Arringatore. Ecco il testo esatto
dell'iscrizione (CIE 4196; TLE, 651; ET, Pe 3.3 - III-II sec. a. C., su 3 righe):
AULEŚI
METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
CEN
FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
«per conto di Aule Metelis figlio di Vel questo al dio Tece padre fu donato dalla tuϑina χisvlicś»
Riporto
adesso le parole di commento dell'”archeologo” traduttore: «Il soggetto grammaticale
della dedica (espressa al passivo) è il dimostrativo cen “questo”
(forma contratta di cehen) e intende ovviamente la statua; segue il
destinatario, regolarmente al genitivo: fler significa “dio, divinità”, mentre tece sanśl deve essere letto come un unico
lessema, composto dal teonimo Tece e dall’appellativo sanś, “padre” (che in ambito divino
si alterna al termine apa, esprimente anche il “padre” umano) con la desinenza
del genitivo applicata solo a quest’ultimo. Segue il verbo al passivo tenine
(con l’uscita -ne che esprime un modo finito del passivo, diverso dal perfetto,
indicato da -χe) e l’autore della dedica in ablativo. Tuϑina è un termine che
identifica molto probabilmente un qualche tipo di suddivisione territoriale,
forse di carattere amministrativo ecc.».
Ed io
commento ed obietto: 1) Perché nella sua traduzione il Benelli salta del tutto
il vocabolo vesial? 2) Che cosa in questa iscrizione lo spinge ed autorizza a
interpretare il dimostrativo cen (accusativo di ca «questo-a») come forma
contratta di cehen? (che invece è una forma enfatica di ca, avente il
significato di «questo qui», al nominativo (si veda l'iscrizione di San Manno
di Perugia). In epigrafia è cosa nota che una traduzione di un'iscrizione viene
infirmata e indebolita da qualunque intervento si effettui sul testo effettivo
conservato. 3) Fino ad ora gli etruscologi sono riusciti a individuare un solo
morfema come tipico di un verbo passivo (-χe; esempi ziχuχe «è stato disegnato
o scritto»; farϑnaχe «è stato generato») ed allora in base a che cosa il
Benelli interpreta tenine come un verbo passivo? 4) In etrusco flereś significa
sempre «offerta votiva, ex voto, vittima, statuetta votiva, statua»», mentre
non significa mai «dio, divinità», che invece si dice sempre ais/eis. 5) Nella
nostra iscrizione i vocaboli tece sanśl risultano chiaramente separati ed
allora che cosa spinge e autorizza il Benelli ad effettuare la loro
connessione, creando un nesso che non ha alcun altro riscontro nel materiale
lessicale etrusco conservato? 6) Egli erra vistosamente a interpretare tece
come un nome di divinità, per il fatto che questa è chiamata in sicuri passi di
altre iscrizioni Tecum e Tecvm. E questa differenza non è cosa di poco conto,
dato che investe i rispettivi fonemi finali dei vocaboli. 7) Io ho già avuto
modo di scrivere che “Chi propone di tradurre tece sanśl «del (dio) Tecum
Padre» non si accorge di far entrare illegittimamente una notazione
"sacrale" in un'opera statuaria, che invece è evidentemente,
totalmente ed esclusivamente "profana", nella quale non c'è nessun
elemento, neppure minimo, che faccia riferimento al “sacro” o al “religioso”
(richiamo il riferimento già fatto a Giacomo Devoto). 8) Del vocabolo tuϑina il
Benelli dice solamente qualcosa di molto generico e soprattutto per nulla
motivato; del secondo χisvlicś non dice assolutamente nulla. 9) L'“archeologo”
Benelli non ha mai citato, neppure una sola volta, nessuno dei miei scritti
relativi alla lingua etrusca (13 libri e un centinaio di saggi), evidentemente
perché sapeva già, per “ispirazione divina”, che non vi avrebbe trovato nulla
di scientificamente valido. Ed invece, se avesse consultato almeno il mio libro
Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e
commentati (Sassari 2000; con qualche lieve correzione odierna), vi avrebbe
trovato la traduzione e commento seguenti dell'iscrizione dell'Arringatore, di
certo assai più consistente della sua, anche perché ne rispetta totalmente il
testo:
AULEŚI
METELIŚ VE VESIAL CLENŚI
ad Aulo
Metello figlio di Vel (e) di Vesia
CEN
FLEREŚ TECE SANŚL TENINE
pone
questa statua di Padre il (suo) servizio
TUΘINEŚ ΧISVLICŚ
di
patrocinio pubblico
E
commento brevemente questa mia traduzione: tece significato quasi certo «pone»,
indicativo presente 3ª pers. sing.; da confrontare con l'iscrizione (ET, Co 3.8
– rec, su statuina bronzea di bambino) flereś tec sanśl cver «poni (= accetta)
l'ex voto come dono del padre (del bambino)» (supplica alla divinità alla quale
era stata offerta la statuina) (TLE 624). tenine probabilmente significa «tenuta, esercizio, svolgimento, servizio»
(è il soggetto del verbo tece) [vedi tence, tenϑas(a), tenϑur, teniχunce, tenu]. tuϑineś «del patrocinio», genitivo di tuϑina (REE 55,128; ThLE² 399) «tutela, protezione, patrocinio», da
confrontare coi lat. tutela, tueri, che sono di origine incerta e pertanto
potrebbero derivare proprio dall’etrusco (DELL,
DELI, DICLE). χisvlicś (χisvli-cś)
probabilmente «(del)
comunitario, generale, pubblico», aggettivo in genitivo articolato, da derivare
da χiś «di ogni, di tutto».
Si nota
abbastanza facilmente che l’iscrizione ha uno stile ricercato e pure alquanto
ampolloso.
Molto
probabilmente il personaggio raffigurato nella statua aveva esercitato il suo patrocinio
a favore di una comunità cittadina – nella zona di Perugia o, più
probabilmente, del Trasimeno - e questa lo ha ricompensato con la grande statua
di bronzo. La statua, a grandezza naturale, rappresenta un uomo maturo, con i
capelli pettinati a ciocche, vestito di una corta toga e di una tunica bordata
da una stretta banda; porta dei calzari. Il suo rango è dimostrato dall'anello
che ha alla mano sinistra. Sul bordo della toga si trova l'iscrizione incisa su
tre righe; la grafia è ben curata. Il tipo di alfabeto adoperato è quello
presente in epoca tardo-etrusca, nell'area di Chiusi e Cortona. Sia la
denominazione sia l’abbigliamento rendono molto probabile che in realtà si
trattasse di un cittadino romano, che si era assunto il compito di fare da patrono,
nelle alte sfere di Roma, di una comunità cittadina etrusca, la quale lo aveva
ricompensato con la splendida statua di bronzo.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento