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sabato 27 ottobre 2012

Le navicelle bronzee nuragiche


Navicelle bronzee nuragiche 1° parte di 2
di Pierluigi Montalbano



Quasi mai lo studio delle navicelle è stato separato da quello più generale della produzione dei bronzi figurati sardi. Questo avviene sin dai tempi del Lamarmora che, nel 1840, li classificava come “oggetti votivi d'origine orientale con una colomba in cima all'albero, animale dedicato a Venere”. Poiché, secondo Tacito, Iside era adorata attraverso il simbolo della barchetta (per la sua forma lunata), il Lamarmora avanza l'ipotesi che le navicelle fossero dedicate ad Astarte, che riuniva in sé i caratteri di Iside e di Artemide. Nel 1884 il Crespi rifiuta l'opinione di coloro che vedono in questi bronzi delle lucerne. Questo perché “la funzione ne sarebbe impedita dalla forma, inadatta ad accogliere un eventuale lucignolo, e perché i fianchi delle navicelle sono talvolta traforati”. Tuttavia la poppa di molte navicelle disegna una sorta di beccuccio, simile a quel che si osserva su molte lucerne, e trafori sono sempre al disopra dell'orlo dello scafo, consentendo quindi il perfetto contenimento dell'eventuale liquido.
La protome, comune a tutte le navi antiche, rappresenta per il Crespi una "divinità tutelare, sotto la cui protezione si mettevano le navi. Altre volte la stessa è considerata un’insegna, per richiamare qualche caratteristica particolare o da cui prendeva il nome la nave. Così, ad esempio, la testa del daino può significare leggerezza e velocità”. La protome era destinata a urtare come rostro. Le barchette erano per il Crespi modelli di navi reali, e a suo avviso potevano essere appese, in qualità di ex voto, nell’ambiente domestico della casa per la scampata avventura o per il felice arrivo nella nuova terra.
Nel 1884 il Pais si sofferma sull'uso, comune tra le popolazioni antiche, di ornare la prora e la poppa delle navi con un'immagine animale: d’oca, di cigno, di leone, di cavallo. Mai però di toro, di daino, d'antilope, come invece accade sulla navicelle sarde. Riprendendo il discorso del Crespi, che voleva espresse nella protome le caratteristiche di agilità e di velocità dell'imbarcazione, il Pais si domanda quale significato possa in tal senso assumere la figura, predominante, del toro. Egli nota come nell'antichità il cavallo fosse poco conosciuto nell'isola, e come siano pochissimi i bronzi raffiguranti uomini a cavallo, in confronto a quelli che invece mostrano uomini sul dorso del toro. Così, d'altronde, è anche vero che le monete puniche battute a Cartagine hanno impresso il cavallo mentre i coni coevi in Sardegna mostrano il toro.
Il toro, dunque, sostituirebbe nella decorazione prodiera il cavallo, animale che caratterizza la protome della hippos fenicia. La protome ritenuta di antilope dimostrerebbe per il Pais e il Crespi che queste navicelle appartenevano a un popolo che aveva navigato fuori dalle coste di Sardegna. Poteva anche trattarsi di ex-voti dei soldati sardi che militavano presso potenze d’oltremare. Nel 1884 era già ampiamente nota la cosiddetta navicella proveniente dalla Tomba del Duce, che per prima offriva la possibilità di una attendibile datazione da parte di Lilliu, visto che il contesto etrusco di ritrovamento la situava con ragionevole certezza intorno alla seconda metà del VII a.C., suscitando nel contempo in campo nazionale l'attenzione di un gran numero di studiosi.
L'idea che le barchette nuragiche fossero un oggetto in qualche modo legato all'uso funerario e votivo, accreditato dai luoghi e dal contesto dei rinvenimenti (tombe o templi), nonché dall'immediato confronto con le navicelle dell'antichità orientale ed egizia, è condiviso anche dal Taramelli nel 1913. Lo Zervos considera non diversamente le navicelle come barche simbolico-funerarie ma nel 1954 riconosce nelle navicelle da Oliena e da Vetulonia, ambedue con scafo di tipo carenato, un possibile modello di vere imbarcazioni. In particolare distingue le barche con scafo ellittico-convesso, di uso votivo e funerario, da quelle con scafo a sezione trapezoidale, modelli di barche reali.
Nel 1962 Lilliu, rilevando sulla navicella proveniente da Aritzo, tracce certe di un restauro antico, ribalta per primo molte di queste convinzioni leggendo il rozzo rappezzo come un’incontrovertibile prova dell'uso non solo votivo, ma anche quotidiano, domestico di questi oggetti, nei quali riconosce delle lucerne. Egli distingue tra un tipo lungo esplicitamente paragonato alla hippos fenicia e un tipo corto simile alla gôlah. Sostenendo l'uso sia pratico, come lampada, che votivo funerario dell'oggetto, Lilliu vede nelle barchette sarde una prova dell'esistenza di una marineria nuragica di cabotaggio e d'alto mare.


Una seconda prova, questa volta di fonte letteraria, andrebbe ricercata nel noto passo in cui Strabone scrive di atti di pirateria ripetutamente compiuti sulle coste della Toscana da montanari provenienti dalla Sardegna. Ciò non è condiviso dallo storico Meloni nel 1975, il quale, riportando integralmente il brano, nota che conseguentemente a tali incursioni fu deciso da Roma l'invio in Sardegna di governatori militari, e che pertanto i fatti narrati andrebbero datati non in epoca nuragica, bensì intorno all'anno 6 d.C., nel quadro di generale insicurezza che caratterizza l'isola sotto Augusto. In quell'epoca i sardi, avendo già assimilato dai Cartaginesi i segreti dell'arte nautica, e da Sesto Pompeo la tecnica dell'assalto piratesco, sarebbero stati perfettamente in grado di minacciare le coste tirreniche, ma occorre rilevare che si trattava di Sardi delle aree interne e ciò implica un legame comunque tra i sardi indigeni e il mare, continuato nel tempo e persistito sino all’età romana, quando ancora molti sardi erano imbarcati in diverse flotte come quella di Miseno.
La cronologia delle navicelle viene fatta sostanzialmente concordare con quella degli altri bronzi, con inizio nel IX a.C. Un altro studioso, il Gras, ritornerà sull'argomento nel 1985, riconoscendo come assimilabile al tipo sardo una navicella dipinta su un vaso proveniente da Skyros, databile al Miceneo III c. Non sarebbe così da escludere una retrodatazione delle sculture sarde al XII a.C. La tesi è accolta con favore dal Lilliu, che vede nella navicella di Skyros il segno della presenza d'una marineria sarda già nel XII a.C. e di mercanti nuragici che partecipano ai negozi mediterranei in tutte le direzioni.
Ma l'idea di una o più popolazioni nuragiche dedite all'arte della marineria e della carpenteria navale, che solcano il Mediterraneo tessendo fruttuosi commerci con altre genti rivierasche, per quanto stimolante e affascinante, necessita ancora di più attente disamine e verifiche. E poiché le fonti letterarie tacciono, ci pare che un contributo alla risoluzione di alcuni di questi interrogativi possa giungere da un esame delle attitudini e funzionalità nautiche delle imbarcazioni raffigurate nelle antiche sculture in bronzo, così da poter in qualche modo valutare se e in quale misura scafi di foggia simile a quelli presumibilmente riprodotti nei bronzi sardi fossero in grado di intraprendere viaggi e trasporti marittimi e, in caso affermativo, in quale ambito geografico. In particolare si cercherà di verificare la presenza, sulle navicelle sarde, di raffigurazioni di attrezzature e strumenti atti alla navigazione, come alberi, vele, timonerie, remi, scalmi, ponti, rostri, valutando dove possibile anche la congruità dei dimensionamenti.



Nell'immagine, la copertina del mio libro "SHRDN, Signori del mare e del metallo".




I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico. Il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano navigare solo nei fiumi e nell'immediata linea costiera. Il mio progetto è quello di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini, in grado, quindi, di produrre cultura. Ritengo offensivo, nei confronti dell’intelligenza di chi legge, proseguire lungo la strada tracciata in passato da quegli studiosi e invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Inserirò, quindi, prevalentemente immagini con pochi commenti, lasciando a voi le conclusioni.




Nel III Millennio a.C. la metallurgia fu una scoperta tecnologica caratterizzante, tanto da dare il nome a diverse fasi culturali della preistoria e della protostoria: Età del Rame o Calcolitico, Età del Bronzo e del Ferro.
Della metallurgia interessano diversi aspetti: la ricerca dei minerali, i processi di fusione, il commercio delle materie prime e dei manufatti. A seguito della scoperta dei metalli nacquero nuove professioni come quella del fabbro itinerante.
La civiltà nuragica si sviluppò tra l’Età del Bronzo e il I Ferro, e ancora oggi ci sorprendiamo nell’ammirare tanto i resti delle più elaborate costruzioni fortificate, i nuraghi, quanto i manufatti che gli artigiani, in particolare i fonditori seppero creare, a cominciare dalle armi e dalle sculture.
La Sardegna fu tra le protagoniste nei tempi della prima metallurgia, grazie soprattutto alle miniere di rame. Questo minerale, dopo l’ossidiana, ha interessato i commerci in tutto il Mediterraneo. Un’altra isola diede impulso ai commerci dell’epoca, Cipro, che insieme a Creta e, nell’Occidente alla Sardegna, costituiva l’asse portante dei commerci navali nel Mediterraneo.
Tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo cercavano di scambiare i propri prodotti con le materie prime ricavate dalle miniere, dato che alcuni minerali erano di difficile reperibilità come, ad esempio, lo stagno. Per ottenere un bronzo di qualità si aggiungeva al rame una percentuale di stagno del 10% circa. Giacimenti interessanti si trovavano in Cornovaglia, Bretagna e Spagna, lontani dalle miniere di rame.
Una delle vie commerciali di tale minerale, la cosiddetta “via dello stagno”, transitava attraverso lo stretto di Gibilterra. Una valida alternativa era offerta via terra partendo dalla Liguria, attraverso i territori di Francia e Spagna. Lungo queste vie sorsero approdi e centri di scambio che incrementarono la ricchezza delle popolazioni produttrici di tali risorse.
Il mare era sostanzialmente un’autostrada commerciale e la Sardegna non poteva essere estranea e tagliata fuori nel II Millennio a.C. quando ospitò oltre 8.000 nuraghi distribuiti a controllare ogni palmo del territorio. I nuraghi sono legati indissolubilmente alla disponibilità di notevoli risorse economiche e alla circolazione di considerevoli quantità di metallo, come peraltro confermano i frequenti ritrovamenti di lingotti in rame. Ma finché furono costruiti i nuraghi tra il XVI e il X a.C, le rappresentazioni di divinità divinità in epifania antropomorfa o zoomorfa sono essenzialmente aniconiche (betili e disegni schematici della testa taurina).



Intorno al X a.C. dopo 600 anni si assiste a un epocale cambio strutturale nella società sarda. Dopo il crollo delle parti sommitali dei nuraghi, forse per la onerosa manutenzione, e la nascita di nuove generazioni che ponevano i commerci alla base della loro economia, sorgono i governi aristocratici degli anziani. I nuraghi non sono più costruiti e quelli più importanti sono trasformati in luoghi di culto.
Le espressioni figurative cambiano profondamente. Inizia una fase che mi piace chiamare "miniaturizzazione", nella quale compaiono piccole rappresentazioni a tutto tondo antropomorfe e zoomorfe, soprattutto in bronzo, ma anche a grandezza naturale in pietra e terracotta. Colpisce la realizzazione di piccoli nuraghi pieni in pietra, posti su basamenti e posizionati al centro di grandi capanne con sedile periferico interno. La nuova classe dirigente consacra lo status di leaders della comunità attraverso le piccole sculture bronzee che rappresentavano dei ed eroi da cui essi forse discendono e ricevono il potere.
Erano realizzate con il metodo della cera persa, a dimostrazione che i nuragici padroneggiavano la metallurgia già da tempo. Queste opere d’arte mostrano guerrieri, sacerdoti e capi, ma anche animali e oggetti a tutto tondo.
Fra questa produzione, spiccano per bellezza le incantevoli navicelle bronzee. Sul significato di questi manufatti ancora oggi non c’è un’interpretazione univoca da parte degli archeologi. Si è pensato alla funzione votiva, a quella pratica di lucerna o di prezioso oggetto di scambio fra i capi delle società aristocratiche anche al di fuori dell’isola.
Va detto che una funzione non esclude affatto le altre, ma certo il fatto che tali navicelle fossero di bronzo, e non in semplice terracotta, dimostra la loro pertinenza a famiglie o a gruppi che volevano ostentare il proprio status aristocratico e la non comune disponibilità economica.
Attraverso questi preziosi bronzi, l’aristocrazia fa emergere anche la conoscenza del mare e delle tecniche di navigazione, e soprattutto la tessitura di rapporti con altre regioni (Etruria, Magna Grecia) e popoli (Etruschi e Greci) che si affacciavano nel Mediterraneo.
Negli scafi sono raffigurati numerosi animali e altri simboli che marcano il dominio sui prodotti della terra oltre che il legame con le antiche forze della natura che essi rappresentano.
Le navicelle sono certamente riproduzioni di barche dell’epoca e possono essere classificate in base alla forma dello scafo; questo può essere cuoriforme, ellittico come le capienti navi da trasporto o a sezione trapezoidale come le veloci navi da guerra dell’epoca.
Tutte le riproduzioni in bronzo, come le navi nella realtà, mostrano una protome prodiera di un animale che simboleggia l’epifania della divinità che protegge la barca e l’equipaggio. A differenza delle caratteristiche rappresentazioni delle altre navi di età fenicia, che propongono la testa equina, in Sardegna primeggia la testa del bue che, sul piano simbolico, rappresenta l’animale più importante fin dal Neolitico finale, quando fu raffigurato nelle domus de janas.
Gli altri animali più frequentemente rappresentati sono il cervo, il muflone, l’ariete, il caprone. Nella corrispondente produzione in terracotta scoperta nel tempio-nuraghe di Su Mulinu a Villanovafranca dal prof. Ugas, compaiono anche esemplari di navicelle con protome ornitomorfa.
I singoli elementi costruttivi fanno emergere la dimestichezza dei sardi nuragici con il mare: alberi, modanature laterali, coffe di avvistamento, battagliole, barre di rinforzo e scalmi. La presenza di anelli per la sospensione e di alette alla base (stabilizzatori nelle navi reali, ma semplici peducci nelle sculture, pratici per poggiare gli oggetti su un piano), dimostrano l’utilizzo secondario della navicella quale lucerna.
Più incerta è l’interpretazione delle colombelle che si possono ammirare sopra gli alberi. Per alcuni studiosi si tratterebbe della rappresentazione di veri animali imbarcati per individuare la rotta da seguire, vista la loro capacità di dirigersi verso terra se vengono liberati. Altri archeologi ipotizzano la funzione simbolica: quella della Dea femminile della fertilità, protettrice della navigazione.
Le navi dell’epoca possono classificarsi da guerra o da carico. La forma stretta e lunga delle prime serve ad ospitare il maggior numero di rematori possibile e a raggiungere una grande velocità nel caso di attacco; la sagoma larga e corta delle imbarcazioni da carico è idonea per aumentare la capienza.
Le navicelle sono diffuse in tutto il territorio dell’isola. Oggi se ne contano circa 150, oltre gli esemplari rinvenuti in Toscana, nel Lazio e a Crotone, nel tempio di Hera Lacinia.
La cronologia è ancora al vaglio degli studiosi; secondo alcuni (Lo Schiavo) le barchette sarde risalirebbero XI a.C. Personalmente, d'accordo con Lilliu, ritengo, sulla base delle stratigrafie e dei contesti, che non siano anteriori al IX a.C.
La produzione durò almeno fino al VI a.C. e ancora oggi questi preziosi oggetti sono copiati per la loro originalità e bellezza. Diversi esemplari fanno parte di collezioni svizzere, tedesche e statunitensi e ciò dimostra indirettamente la straordinaria rilevanza anche estetica di queste opere, che talora appaiono come veri e propri capolavori.





Aspetti formali delle navicelle

Le analisi chimiche e metallografiche dei manufatti di epoca nuragica hanno messo in evidenza la disomogeneità di rapporto tra i componenti della lega, con l'individuazione di esemplari particolarmente ricchi di rame, e di altri con elevate percentuali di piombo e ferro, come riporta nel 2005 la studiosa Depalmas a pag. 168 del suo lavoro sulle navicelle nuragiche. Le percentuali di stagno si mantengono stabilmente su valori canonici tra l' 8 e il 10%.
Un problema che interessa strettamente i tentativi di determinazione dei giacimenti metalliferi è la pratica della rifusione. La creazione di un oggetto metallico può, infatti, essere il risultato della fusione di più elementi metallici di diversa origine e provenienza, uniti allo scopo di riciclare il metallo mediante una nuova fusione, pratica questa molto diffusa e attestata dai numerosi ritrovamenti, effettuati soprattutto in ripostigli ed officine, di materiali frammentari accumulati per il riutilizzo.
Chiameremo scafo l’insieme delle strutture che costituiscono il corpo di un galleggiante. Lo scafo si distingue in “opera viva” e “opera morta”, a seconda che ci si riferisca rispettivamente alla sua parte immersa ovvero a quella emersa. Lo scafo può essere chiuso da uno o più ponti, il più esterno dei quali è detto ponte di coperta. Su questo trovano posto varie attrezzature: alberi, scalmi, sartiame, bitte, cabine, boccaporti…
Lo scafo può assumere svariate forme stabilite dalle leggi dell'idrodinamica e dalle diverse esigenze di navigazione o di carico. Scafi di foggia circolare erano in uso presso le antiche civiltà fluviali della Mesopotamia. Scafi allungati sono comuni a tutte le marinerie antiche, da quella egizia fino all'etrusca e alla fenicia. Le tecniche di costruzione di uno scafo variano secondo i materiali utilizzati: si va dai fasci di papiro legati tra loro, a zattere di tavole sovrapposte fino alle strutture con chiglia, coste e bagli.


Quest'ultima è la più perfezionata perché consente la realizzazione di scafi di grandi dimensioni con ottime caratteristiche di resistenza e leggerezza. I cosiddetti Fenici furono favoriti dalla disponibilità di legname d'alto fusto, indispensabile per costruzioni navali di questo tipo. Occorre comunque rilevare che le prime imbarcazioni fenicie furono coeve delle ultime nuragiche. La struttura a chiglia e coste è costituita da un elemento longitudinale sul quale si impostano le coste, disposta in senso trasversale. Lo scheletro così ottenuto, irrobustito giungendo le mura con centine e ponti, è rivestito dal fasciame, costituito da sottili tavole di legno affiancate e talvolta sostituite da pelli, stuoie o altri materiali, resi poi impermeabili aspergendoli con pece o bitume con l'operazione che è detta di calafataggio. Le navicelle nuragiche mostrano generalmente uno scafo aperto, privo di ponte di coperta, e il fondo a volte piatto. Lo scafo aperto è sinonimo di navi non superiori a 8 metri di lunghezza perché la mancanza di elementi trasversali di rinforzo comprometterebbe, in strutture di maggiori dimensioni, le necessarie doti di resistenza alle sollecitazioni laterali, longitudinali e torsionali. Barche più grandi dovrebbero mostrare, anche nel modello, efficaci strutture trasversali di rinforzo delle quali solo un esempio è offerto sulle oltre 150 navicelle sarde. La maggior parte delle barche mostra uno scafo ellittico-convesso con il fondo appiattito. La presenza contemporanea di forme convesse e fondo piatto pone alcuni problemi interpretativi: una barca a fondo piatto non può essere costruita con la tecnica a chiglia e coste, che dà normalmente origine a una sezione maestra convessa con linea di chiglia fortemente pronunciata; d'altra parte uno scafo cavo, ellissoidale e tondeggiante, non può ottenersi con altre tecniche se non con quella appena esclusa. Da ciò scaturiscono due ipotesi:
a) lo scafo delle navicelle, convesso nelle barche reali di cui esse sono il modello, è stato volutamente appiattito al fine di posare meglio in piano l'oggetto, per usarlo come lucerna;
b) lo scafo delle navicelle riproduce imbarcazioni osservate in fase di navigazione, quando la chiglia (opera viva) è sommersa e la parte emersa (opera morta) è la sola che appaia chiara alla vista.








Tutte le navicelle sono tratte dal libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Citazioni e bibliografia si trovano direttamente nel libro.


Nell'ordine, dall'alto verso il basso:


Navicella di Costa Nighedda (Oliena)




Navicella n° 76 rinvenuta in Ogliastra (Lilliu n° 278)




Navicella n° 62 da Posada (Lilliu n° 279)




Navicella n° 17 da Mores (Lilliu n° 290)




Navicella n° 110 del tempio di Hera Lacinia (Capo Colonna) a Crotone

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