martedì 9 ottobre 2012
I tofet, archeologia e antropologia a confronto.
Rappresentazioni e pratiche del sacro: il tofet (1° parte di 2)
di Piero Bartoloni
(Ringrazio la studiosa Cinzia Bruscagli per la collaborazione nella stesura di questo articolo).
I problemi riguardanti il tofet, toponimo di origine biblica assurto a nome generico per indicare un santuario peculiare della civiltà fenicia e punica, sembravano ormai sopiti o, meglio, abbastanza condivisi nell’ambito del mondo degli studi, anche se sussistono due linee di tendenza, l’una incline a respingere l’ipotesi del sacrificio umano dei bambini, l’altra ad accettarla. A far tornare il problema alla ribalta dell’ambiente scientifico hanno contribuito decisamente alcuni recenti contributi. Il primo, pubblicato nel febbraio del 2010, è stato senza dubbio quello a cura di Jeffrey Schwartz, Frank Houghton, Roberto Macchiarelli e Luca Bondioli, Antropologo direttore delle Scienze di Antropologia del Museo Pigorini, dedicato alle analisi dei resti scheletrici degli infanti rinvenuti nel tofet di Cartagine. A questo contributo, il cui titolo è sufficientemente implicito, ne è seguito uno, sempre a cura di Luca Bondioli, affiancato in questa occasione da Massimo Vidale. Nel testo dal titolo “Adoratori di Moloch”, edito a cura della Rivista Archeo nell’agosto del 2010, preceduto da un editoriale di Andreas M. Steiner, Direttore della Rivista, gli Autori hanno sostenuto l’assunto dell’inesistenza del sacrificio umano. Ciò ha provocato una immediata risposta di Maria Giulia Amadasi, già Professore di Epigrafia Semitica, che, invece, nella posta del numero successivo di Archeo ha caldeggiato l’esistenza del sacrificio cruento dei piccoli Fenici e Cartaginesi.
In particolare, per quanto riguarda i resti dei fanciulli rinvenuti nelle aree sacre, Maria Giulia Amadasi tra l’altro sostiene che, mentre per il tofet di Cartagine si sono contati circa venti bambini incinerati all’anno, per Mozia invece ne sono stati calcolati non più di uno o due all’anno. A mio avviso, il numero proposto è fortemente approssimativo, poiché non tiene conto né della cronologia delle urne, ne dal fatto che sia l’area del tofet di Cartagine che di quello di Mozia non sono state indagate nella loro totalità. Né, infine, si sono tenuti in considerazione gli interventi dei vari archeologi che si sono succeduti, i cui risultati non sono stati oggetto di pubblicazione esaustiva e i cui reperti non sono noti né ben individuabili e, dunque, non inseribili nella statistica. Per quanto riguarda le restanti aree sacre, ad esempio il tofet di Sulky, si è potuto constatare che la maggiore concentrazione di urne si è avuta tra il VI e il V secolo a.C., mentre un numero minore si è constatato nei tre secoli successivi. A ben vedere, questo calcolo risulta totalmente privo di significato, poiché gran parte delle urne appartenenti ai livelli superiori, appunto tra il IV e il II secolo a.C., purtroppo sono sparite nel corso dei secoli. Significativo a questo proposito è il toponimo ancora attuale dell’area del tofet di Sulky, denominato Sa Guardia de is Pingiadas (La vedetta delle pignatte), che lascia intuire come le urne più superficiali – ovviamente le più tarde – siano emerse fortuitamente nel corso del tempo e purtroppo siano state distrutte. Mentre posso condividere con la Collega che, per quanto riguarda il mondo fenicio e punico, si tratti di una civiltà con costumi e mentalità lontane dalla nostra, mi limito a ricordare che, in riferimento al tofet, nella Bibbia si citano praticamente solo “seppellimenti” e “passaggi” per il fuoco che necessariamente non significano uccisioni o sacrifici cruenti. Come è ovvio, se i sacrifici cruenti e di uccisioni si fosse realmente trattato, gli estensori della Bibbia non avrebbero preso l’occasione di porli in evidenza.
Ma, proseguendo con il dibattito più recente, nel frattempo, nell’ambito degli Atti del Convegno Internazionale in onore della stessa Maria Giulia Amadasi Guzzo, tenutosi a Roma il 24 e il 25 novembre del 2008, veniva alla luce un nuovo lavoro di Paolo Xella, dal titolo: “Per un modello interpretativo del tofet: il tofet come necropoli infantile?”. Al di là del quesito, l’Autore ripropone il dilemma del sacrificio cruento degli infanti, caldeggiandone l’esistenza e proponendo varie argomentazioni che spaziano dal campo storico-religioso a quello archeologico e antropologico. Nello scorso mese di novembre sempre nella rubrica della posta di Archeo, con un breve iato temporale, veniva pubblicata una lettera, inviata da chi scrive in questa sede, nella quale, prendendo spunto sia dal contributo di Luca Bondioli e di Massimo Vidale, che dalla successiva lettera di Maria Giulia Amadasi Guzzo, riproponeva il problema, sposando l’ipotesi del santuario dedicato al seppellimento degli infanti non uccisi ma defunti per cause naturali.
Tale ipotesi si appoggia su una serie di considerazioni tra le quali soprattutto quella sulle analisi effettuate su un campione di 348 deposizioni rinvenute nel tofet di Cartagine tra il 1976 e il 1979 da Larry Stager, all’epoca professore del Semitic Museum di Harvard, e dalla sua equipe. Queste analisi hanno evidenziato la presenza di almeno un 20% di feti, dunque di individui immaturi, nati morti, quindi con tutta evidenza non immolabili. Quale sorte abbiano potuto subire i restanti, la cui età variava in stragrande maggioranza trai dodici e i ventiquattro mesi, non è stato possibile stabilirlo. Tale pratica della deposizione degli immaturi è stata reperita nella maggior parte delle aree sacre indagate, fino a oggi dieci, così come in nessun caso sono rimasti indizi di un’azione violenta sui resti ossei degl’ infanti nati e deceduti dopo la nascita.
Come è noto, né nella madrepatria libanese né tanto meno all’estremo Occidente mediterraneo, cioè nella Penisola iberica e nell’Africa settentrionale, è stata trovata traccia di questi santuari. Negli anni passati la scoperta fortuita di alcune tombe di adulti, corredate da segnacoli in pietra, effettuata alla periferia di Tito, aveva fatto ritenere che si trattasse di un tofet, ma tale assunto non ha retto a una critica stringente effettuata sui materiali rinvenuti. Dei dieci reali tofet individuati nell’area del Mediterraneo centrale, più precisamente, due sono ubicati in Tunisia, cioè a Cartagine e a Sousse, due in Sicilia, a Mozia e a Selinunte, e sei in Sardegna, a Cagliari, a Nora, a Bithia, a Sant’Antioco, a Monte Sirai e a Tharros. Non sono da comprendere i santuari in questione alcune aree sacre, tra le quali ad esempio quella di Sabratha, di Althiburos, presso Le Kef, di Henchir el-Hami, presso Zama Regia, e di El-Hofra, presso Costantina, che in qualche caso sono classificati come dei tofet, mentre in realtà sono santuari nati in ambiente numidico e ben dopo la caduta di Cartagine. Questi santuari appartengono infatti alla complessa temperie culturale, indagata a partire da Marcel Banabou, che coinvolse l’Africa settentrionale dopo la breve stagione cartaginese. Di diversa opinione, con motivazioni fondate principalmente su assunti storico-religiosi, sono alcuni studiosi, che tuttavia non hanno tenuto conto degli aspetti archeologici e del processo evolutivo che ha coinvolto queste aree sacre. Infatti, questi luoghi ben poco conservano dell’assetto, delle strutture e del rituale che fu quello proprio dei caratteristici santuari di età fenicia e punica. E’ indiscutibile che questi luoghi siano delle necropoli infantili, che talvolta conservano aspetti o monumenti simili a quelli un tempo in uso nei tofet, ma si tratta dei risultati di una realtà che ormai ha perso i connotati originali. Del resto, gli stessi tofet, quando la loro vita è stata sufficientemente lunga, hanno mostrato delle varianti, prima tra tutti quella che implicava l’uso della stele, che è legato alla conquista dei territori occidentali effettuata da Cartagine a partire dalla metà del V secolo a.C.
Atti dell’Incontro Internazionale di studi
ROMA, MUSEO NAZIONALE PREISTORICO ETNOGRAFICO “LUIGI PIGORINI”
20-21 MAGGIO 2011
...domani la 2° e ultima parte.
Nelle immagini:
Ricostruzione di un tofet (da Wikipedia) e il tofet di Cartagine
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Gentile curatore, Le sarei grato se nel riportare il testo di un intervento presentato negli atti di un convegno curato dal sottoscritto, volesse essere così gentile da citare almeno per esteso e in modo corretto la fonte editoriale da cui ha tratto il testo, non tanto per questioni di copyright (poiché crediamo nella condivisione gratuita della cultura) quanto piuttosto per rispetto nei riguardi di chi ha contribuito alla realizzazione di quel convegno o chi, come il Prof. Bartoloni, ha partecipato. Le segnalo inoltre che nel corso della discussione la tematica dell'articolo è stata ulteriormente e problematicamente sviluppata.
RispondiEliminaValentino Nizzo
Ha ragione, ma l'ho ricevuto così. Se mi fornisce i dati li inserirò immediatamente.
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