La scoperta di Monte d’Accoddi risale ai primi anni Cinquanta del secolo scorso e avvenne nell’ambito di un più ampio programma di interventi promossi dalla ancor giovane Regione Autonoma della Sardegna, mirati sia alla ripresa delle attività di ricerca interrotte a causa delle vicende belliche sia per favorire l’occupazione in quei giorni difficili del dopoguerra che nell’isola tardava a concludersi. Il progetto prevedeva l’apertura di alcuni importanti cantieri archeologici: due erano previsti nel meridione dell’isola e almeno uno nel nord. Per i primi la scelta era caduta sul complesso nuragico di Barumini, ora patrimonio dell’umanità nella lista dell’Unesco, e quindi sulla città punico-romana di Nora, mentre per il terzo sito archeologico l’intervento fu voluto dal “palazzo” e in particolare dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, un sardo che sarebbe divenuto poi presidente della Repubblica. Infatti, il professor Antonio Segni, insigne studioso di diritto ma anche appassionato di archeologia, si era persuaso che una misteriosa collinetta che sorgeva in un terreno adiacente a una sua proprietà, a una decina di chilometri da Sassari, altro non fosse che un tumulo etrusco o qualcosa di simile, e per questo ne aveva caldeggiato lo scavo e facilitato il finanziamento. Per realizzare questa impresa occorreva tuttavia un archeologo, cosa non semplice in quegli anni in quanto per la tutela di un territorio vastissimo la Sardegna poteva contare su un’unica Soprintendenza alle Antichità, con sede a Cagliari, e su due funzionari archeologi.
lunedì 19 ottobre 2015
Archeologia. Gli altari a terrazza del santuario di Monte d’Accoddi, di Alberto Moravetti
Archeologia. Gli altari a terrazza del santuario di Monte d’Accoddi
di Alberto Moravetti
Il complesso di età
prenuragica ospitava un santuario e un villaggio che non trova riscontri in
Europa e nell’intera area del Mediterraneo.
La scoperta di Monte d’Accoddi risale ai primi anni Cinquanta del secolo scorso e avvenne nell’ambito di un più ampio programma di interventi promossi dalla ancor giovane Regione Autonoma della Sardegna, mirati sia alla ripresa delle attività di ricerca interrotte a causa delle vicende belliche sia per favorire l’occupazione in quei giorni difficili del dopoguerra che nell’isola tardava a concludersi. Il progetto prevedeva l’apertura di alcuni importanti cantieri archeologici: due erano previsti nel meridione dell’isola e almeno uno nel nord. Per i primi la scelta era caduta sul complesso nuragico di Barumini, ora patrimonio dell’umanità nella lista dell’Unesco, e quindi sulla città punico-romana di Nora, mentre per il terzo sito archeologico l’intervento fu voluto dal “palazzo” e in particolare dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, un sardo che sarebbe divenuto poi presidente della Repubblica. Infatti, il professor Antonio Segni, insigne studioso di diritto ma anche appassionato di archeologia, si era persuaso che una misteriosa collinetta che sorgeva in un terreno adiacente a una sua proprietà, a una decina di chilometri da Sassari, altro non fosse che un tumulo etrusco o qualcosa di simile, e per questo ne aveva caldeggiato lo scavo e facilitato il finanziamento. Per realizzare questa impresa occorreva tuttavia un archeologo, cosa non semplice in quegli anni in quanto per la tutela di un territorio vastissimo la Sardegna poteva contare su un’unica Soprintendenza alle Antichità, con sede a Cagliari, e su due funzionari archeologi.
La scoperta di Monte d’Accoddi risale ai primi anni Cinquanta del secolo scorso e avvenne nell’ambito di un più ampio programma di interventi promossi dalla ancor giovane Regione Autonoma della Sardegna, mirati sia alla ripresa delle attività di ricerca interrotte a causa delle vicende belliche sia per favorire l’occupazione in quei giorni difficili del dopoguerra che nell’isola tardava a concludersi. Il progetto prevedeva l’apertura di alcuni importanti cantieri archeologici: due erano previsti nel meridione dell’isola e almeno uno nel nord. Per i primi la scelta era caduta sul complesso nuragico di Barumini, ora patrimonio dell’umanità nella lista dell’Unesco, e quindi sulla città punico-romana di Nora, mentre per il terzo sito archeologico l’intervento fu voluto dal “palazzo” e in particolare dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, un sardo che sarebbe divenuto poi presidente della Repubblica. Infatti, il professor Antonio Segni, insigne studioso di diritto ma anche appassionato di archeologia, si era persuaso che una misteriosa collinetta che sorgeva in un terreno adiacente a una sua proprietà, a una decina di chilometri da Sassari, altro non fosse che un tumulo etrusco o qualcosa di simile, e per questo ne aveva caldeggiato lo scavo e facilitato il finanziamento. Per realizzare questa impresa occorreva tuttavia un archeologo, cosa non semplice in quegli anni in quanto per la tutela di un territorio vastissimo la Sardegna poteva contare su un’unica Soprintendenza alle Antichità, con sede a Cagliari, e su due funzionari archeologi.
Fu pertanto necessario richiamare
dalla Soprintendenza
di Bologna, ove prestava servizio, un giovane archeologo sardo – Ercole Contu –
destinato a diventare soprintendente alle Antichità per le province di Sassari
e Nuoro e ora professore emerito di Antichità Sarde all’Università di Sassari.
Contu racconta di essere rientrato nell’isola malvolentieri: infatti era
convinto che il cosiddetto “tumulo” altro non fosse che la rovina di uno dei
tanti nuraghi, circa settemila, che caratterizzano il paesaggio isolano e che
sono numerosi nella Nurra, la regione storica ove sorgeva la collina di Monte
d’Accoddi. Posizione dominante Ma gli scavi rivelarono che tutti, archeologi e
no, si erano sbagliati. Infatti le indagini dimostrarono che la collina non
solo non nascondeva alcun nuraghe ma era stata prodotta dalle rovine di un
eccezionale e finora unico monumento preistorico, molto più antico dei primi
nuraghi. Purtroppo, per la sua posizione dominante in un territorio per lo più
pianeggiante, l’altura venne prescelta durante l’ultima guerra per impiantare
agli angoli delle batterie contraeree, raccordate da una trincea circolare:
interventi che hanno gravemente danneggiato gli strati superiori del monumento. L’esplorazione di Monte d’Accoddi è avvenuta in due periodi distinti, con un
intervallo di circa vent’anni; tuttavia l’indagine è ben lontana dal
considerarsi conclusa. Agli inizi, come si è detto, l’indagine era volta a
definire la natura e il significato di una modesta collinetta, chiaramente
artificiale, denominata Monte d’Accoddi che, unica e isolata, si elevava ancora
per circa 6-7 metri rispetto al piano di campagna su un’ampia piana calcarea. I
primi scavi, diretti dal Ercole Contu, ebbero inizio nel 1952 e proseguirono
sino al 1958. In questi anni vennero alla luce una costruzione
tronco-piramidale preceduta da una lunga rampa, un menhir, due tavole
d’offerta, un settore del villaggio e altri importanti elementi culturali
dispersi per largo tratto intorno al santuario. In questi stessi anni vennero
poi individuate le numerose e importanti necropoli a grotticelle artificiali –
ipogei che nella tradizione popolare sono noti come domus de janas (casa delle
fate) – che quasi a ventaglio si dispongono con i relativi villaggi intorno al
santuario preistorico a indicare un territorio fittamente abitato. Dopo circa
vent’anni, dal 1979 al 1989, i lavori furono ripresi ed estesi da Santo Tinè,
dell’Università di Genova, al quale si devono nuove significative scoperte che
hanno meglio chiarito la funzione della struttura riportata alla luce dagli
scavi precedenti, ribadendo con nuovi dati l’interpretazione di luogo di culto
già proposta da Contu. Inoltre, nel corso di questi ultimi interventi sono
state individuate fasi edilizie distinte e si è realizzato il restauro e una
parziale e controversa restituzione del monumento. Nell’affrontare lo scavo del
“tumulo”, la convinzione che si trattasse di un nuraghe o qualcosa di simile
aveva spinto Contu a ricercare l’ingresso alla torre oppure la camera a tholos
che caratterizza l’interno delle torri nuragiche. Solo dopo avere definito
l’intero profilo perimetrale del monumento, poté constatare che non vi erano
ingressi o vani, ma che il tumulo altro non era che una singolare e del tutto
sconosciuta struttura delimitata da un semplice muro a secco. Questo muro,
piuttosto rozzo nella fattura, aveva la funzione di foderare una sorta di
piattaforma tronco-piramidale a base trapezia, preceduta, nel lato sud, da una
lunga rampa d’accesso ascendente: cioè era qualcosa di simile a quello che in
ambito mesopotamico viene definito “altare a terrazza” o ziggurat. Alla ripresa
degli scavi Santo Tinè ipotizzò a sua volta che il tumulo potesse nascondere
una tomba megalitica o ipogeica destinata a ospitare la sepoltura di un
personaggio distinto, e per questo decise di affrontare lo scavo del riempimento
della terrazza fino a raggiungere la base della costruzione, a una profondità
di circa 8 metri. Va detto che anche Contu aveva tentato l’esplorazione del
cuore del monumento, ma si era dovuto arrestare a circa tre metri di profondità
per mancanza di mezzi tecnici adeguati e sicuri. L’indagine, condotta stavolta
con larghezza di risorse, non sortì i risultati sperati: l’altare non custodiva
alcuna tomba, ma l’intervento rivelò nuovi e interessanti elementi
architettonici e culturali. Intanto si mise in luce un particolare
tecnico-costruttivo assai sofisticato che aveva consentito di contenere quella
massa enorme di terra e di pietrame, delimitato in apparenza da un esile
paramento murario. Infatti era stato creato una sorta di reticolato a “cassoni”
formato da un solo filare di pietre: questa struttura ad alveare aveva
ammorsato in qualche modo il riempimento e impedito che vi fosse una spinta
verso l’esterno, evitando in tal modo lesioni irreparabili alle pareti di
contenimento del monumento. Ma soprattutto si scoprì che l’altare messo in luce da Ercole Contu era stato
preceduto da un altro edificio – del tutto simile nella forma ma di minori
dimensioni – e successivamente inglobato in quello che ora possiamo ammirare.
Inoltre, sul piano di svettamento di questo edificio più antico – Tempio A –
vennero alla luce i resti di una struttura rettangolare, punto di arrivo della rampa e
sacello del tempio. Pertanto, il monumento attualmente visibile (Tempio B)
include una ziggurat di minori dimensioni (Tempio A) o meglio ancora si può
dire che l’altare a terrazza più antico è stato rifasciato e ingrandito nelle
forme attuali.
L’altare a terrazza più recente presenta una base di 37,50 x 30,50 metri,
rispettivamente nel lato nord e in quello est, mentre la rampa ha una lunghezza
di 41,50 metri ed è larga da un minimo di 7 metri nella parte iniziale sino a
un massimo di 13,50 nel punto di raccordo con il lato meridionale della
terrazza: la lunghezza dell’insieme misura 75 metri. Le murature del monumento, che si conservano
ancora a sud-est per un’altezza di 5,4 metri, sono costituite da grossi blocchi
poliedrici di calcare, appena sbozzati e disposti con scarsa cura in filari
irregolari. Queste murature, fortemente inclinate per ragioni di statica, erano
costituite dalle sole pietre a vista e avevano, come si è detto, la funzione
principale di sostenere un ammasso stratificato di terra e pietrame. La rampa,
costruita con la stessa tecnica, fu aggiunta alla struttura tronco-piramidale
poco dopo il primo filare e per questo motivo aveva anche esercitato funzione
di piano inclinato per edificare il resto dell’edificio principale. La
costruzione occupa una superficie di 2.513 metri quadri, mentre il suo volume
risulta di 7.590 metri cubi. La ziggurat più antica (A),
scoperta da Santo Tinè all’interno della costruzione portata alla luce da
Ercole Contu, era a sua volta costituita da una piattaforma quadrangolare sulla
quale era stata costruita una struttura rettangolare, raggiungibile grazie a
una rampa ascendente. Il paramento murario di questa terrazza si distingueva per una particolare cura
e raffinatezza: infatti, le pareti erano state intonacate e dipinte di rosso.
Le pareti del sacello, ove si ipotizza venisse officiato il culto, erano
anch’esse intonacate e affrescate con colore rosso ocra, da qui la
denominazione di tempio rosso, così come il pavimento. Della struttura rimane
il muro perimetrale, alto ora circa 70 cm. L’ingresso al vano era segnato ai
lati da due buche di palo riferibili a un piccolo portico: altre buche per
contenere i portanti del tetto a doppio spiovente erano forse presenti nel
piano pavimentale dello stesso sacello. A differenza del resto degli scavi,
totalmente a cielo aperto, questa cella è ora protetta da una struttura
metallica. La superficie occupata da questo primo monumento è di 1.491 metri
quadri, mentre il volume complessivo è stato stimato in 4.133 metri cubi. La
differenza fra i volumi dei due edifici, di 3.457 metri cubi, costituisce la
dimensione di cubatura necessaria per rifasciare il primo altare andato
distrutto. Restano delle perplessità sulla forma originaria dell’altare a
terrazza più recente. Infatti, il restauro di Tinè è stato realizzato ritenendo
che ci fossero elementi sufficienti per credere che la costruzione fosse a
gradoni, mentre Contu ritiene, invece, che le pareti esterne avessero solo due
inclinazioni diverse e due diverse murature: pietre più grosse e meno inclinate
nella parte inferiore, pietrame molto più piccolo e profilo più inclinato nei
filari superiori. L’interesse del sito di Monte d’Accoddi, già eccezionale per la singolarità del
monumento sopra descritto, non si esaurisce con l’edificio a ziggurat, ma è
accresciuto dal villaggio-santuario e dai copiosi ritrovamenti di cultura
materiale. In prossimità della rampa, a est e a circa 5 m di distanza dalla
stessa, è visibile un lastrone trapezoidale in calcare che poggia su tre
supporti piuttosto irregolari. I bordi presentano sette fori passanti, simili a
buche di biliardo, forse creati per legarvi degli animali per sacrifici. Al di
sotto della lastra vi è un inghiottitoio naturale d’incerto significato, forse
legato a culti del mondo sotterraneo. Questa lastra, disseminata di coppelle e
interpretata come tavola per offerte, è ritenuta contemporanea all’altare a
terrazza più recente. Una seconda tavola per offerte in trachite (ignimbrite
presente in affioramenti distanti almeno 6 km dal santuario), di minori
dimensioni e più semplice nella sua forma irregolare fu trovata sullo stesso
lato, quasi a ridosso della rampa. Un menhir in calcare micritico, differente
dai litotipi affioranti sul posto, giaceva rovesciato sul lato opposto della
rampa: si tratta di lunga pietra calcarea squadrata. Sia la lastra di trachite
che il menhir sembrano appartenere a un momento antecedente rispetto al
lastrone calcareo, e sono la conferma che il luogo era considerato sacro forse
ancor prima della costruzione del primo altare. Vicino al grande lastrone, ma
del tutto fuori posto perché proveniente da oltre il muro orientale di
recinzione della zona archeologica, si trova una pietra sferoidale, in arenaria
grigiastra, rifinita accuratamente e con la superficie punteggiata di piccole
coppelle. È verosimile che abbia avuto valenza sacra, forse con lo stesso
significato dell’omphalòs di Delfi ritenuto l’ombelico del mondo; non è
tuttavia da escludere, come qualcuno ha prospettato, l’ipotesi di una
simbologia astrale. Un’altra pietra sferoide in quarzite, di minori dimensioni,
rinvenuta nella stessa zona da cui proviene il cosiddetto omphalòs, è stata
sistemata accanto allo stesso. Fra gli elementi di sicura valenza cultuale, a
parte numerosi idoletti femminili, frammentari, di tipo cicladico, forse
indicativi di un culto della Dea-Madre, sono da segnalare almeno due stele: la
prima, in pietra calcarea e frammentaria, presenta un disegno con losanga e
spirali e fu recuperata entro la grande rampa; la seconda, in granito e di
forma rettangolare, è decorata in entrambe le facce e presenta una figura
femminile filiforme stilizzata in rilievo: fu trovata nei pressi della parete
settentrionale della terrazza più antica. Da ricordare, infine, una pietra di
forma piatta ellittica, segnata da tredici scanalature parallele di incerto
significato e attraversate da almeno altre due perpendicolari: proviene
dall’angolo sud-est della seconda terrazza e forse, a parere del Contu, era in
relazione con una sepoltura di cui si dirà più avanti. Sia negli scavi Contu
che in quelli successivi si rinvennero fondi di capanna e materiali riferibili
a un momento, detto facies di S. Ciriaco – Neolitico Recente iniziale,
3500-3300 a.C. – che ha preceduto la costruzione del monumento e forse anche
quella dell’area sacra con il menhir. Si è stimato che l’area abitativa si
estendesse per circa 22.000 metri quadri, ma in realtà la parte indagata è
ancora molto modesta per poter trarre conclusioni sulla densità dei nuclei
abitativi che si sono succeduti nel tempo. Per la fase relativa alla cultura di
Ozieri, ad esempio, Tinè ha ipotizzato un villaggio di 150 capanne, abitate
ciascuna da 5 unità, secondo una stima convenzionalmente applicata agli ambiti
neolitici. In realtà sono ancora estremamente scarsi i resti delle strutture
che hanno preceduto la costruzione dell’altare più antico, mentre si conservano
con sufficiente nitidezza i profili murari di alcune capanne costruite intorno
all’altare e alla rampa, riconducibili a una fase tarda dell’abitato. Questi resti murari sono ridotti a un solo filare di pietre, rozze e di media
grandezza, che doveva costituire la base della capanna. Si è ipotizzato
l’utilizzo di mattoni crudi o di canne o frasche con intonaco di fango, e si
sono trovate varie impronte su argilla bruciata. Anche i tetti, a uno o due
spioventi, dovevano avere un telaio realizzato con legni e copertura straminea.
Il pavimento di queste capanne di Monte d’Accoddi era fatto con brecciame fino
di calcare. Nella Capanna dd, posta tra le due tavole di offerta, era ancora
conservato il focolare rettangolare in argilla con bordo in rilievo. Situata
vicino all’angolo nord-est dell’altare si trova la Capanna p-s indubbiamente
quella più interessante e più ricca di reperti: è detta anche Capanna dello
Stregone per il fatto che entro una brocca capovolta sono state rinvenute una
punta di corno bovino e alcune conchiglie marine bivalve. Si tratta di una
struttura pluricellulare, di forma trapezoidale e con l’interno suddiviso in
cinque ambienti di varia forma: il tetto doveva avere un unico spiovente, dato
che un muro perimetrale risulta più robusto degli altri. Questa capanna,
abbandonata in seguito a un incendio, conservava ancora in situ tutto il suo
antico deposito, costituito soprattutto da reperti fittili: un centinaio circa
fra vasi grandi e piccoli – persino un tripode ancora in piedi sul focolare –
un idoletto femminile, un peso da telaio decorato da dischi pendenti, numerose
macine litiche e altre cose ancora. In tutta l’area intorno al grande altare, a
indicare l’intensa frequentazione del santuario, sono stati rinvenuti mucchi di
conchiglie, forse resti di pasti sacri, accanto a ceneri e carboni; ma erano
abbondanti anche i resti di pasto di altro tipo, comprendenti più o meno gli
stessi mammiferi attuali, domestici e selvatici, lumache, ricci di mare, cozze,
orate e persino grandi bocconi conici di mare o Charonia, usati anche come
strumento per suono a fiato, cioè come bùccina. Si è recuperato, inoltre, un
numero insolito di punte di freccia e lame in selce e ossidiana, e di accette
in pietra levigata. All’interno di un vaso si trovarono otto pesi reniformi
riferibili a un primitivo telaio verticale. Strettamente legati alla sfera del
sacro sono altri materiali rinvenuti vicino all’altare, come statuette in
pietra femminili, di tipo cicladico, e forse anche il frammento di un ciotolone
emisferico con incisa una scena di danza. Intorno all’altare, per largo tratto,
ad accrescere la straordinaria importanza del complesso cultuale, sono presenti
tracce copiose di vita che documentano i numerosi nuclei abitativi che
gravitavano sul santuario. A un centinaio di metri dal lato orientale dell’altare
a terrazza, oltre un muro recente che segna il confine della zona degli scavi,
non lontano dal luogo di provenienza dell’omphalos, sono stati rinvenuti due
menhir rovesciati sul terreno. Uno è di arenaria, mentre l’altro è di calcare:
di colore bruno-rossastro il primo e bianco il secondo, forse a voler
distinguere rispettivamente l’uomo e la donna, corrispondenti forse a principi
divini o antenati «eroizzati» oppure ancora alla forza generativa della natura
espressa dal fallo. Nella stessa zona da cui proviene l’omphalòs fu trovato
anche un bacilefrantoio, sporco di ocra rossa, in trachite. I due altari a terrazza scoperti a Monte d’Accoddi, sia quello più antico sia
quello più tardo che lo ha inglobato, presentano entrambi una struttura del
tutto sconosciuta nel panorama del megalitismo occidentale. Ci troviamo di
fronte a un imponente edificio cultuale intorno al quale si estendeva un vasto
villaggio: un santuario al quale i fedeli dovevano accorrere, data la sua
rilevanza, da un territorio molto vasto e da lontano, forse da tutta la
Sardegna come ipotizzato da qualcuno. Si è già detto dell’unicità
architettonica di questo monumento che non trova finora riscontri sia in Europa
sia nell’intero bacino del Mediterraneo, e per questo i soli confronti possibili
portano verso il Vicino Oriente. Si tratta, è bene precisarlo, di raffronti del tutto generici che non sono
indicativi di contatti diretti di cui, almeno finora, mancano le prove. Le
piramidi a gradoni – tipo quella notissima di Sakkara – porterebbero all’Egitto,
anche se l’edificio sardo sembra ricordare le mastabe, anch’esse delle piramidi
tronche. Ma le mastabe sono tombe e non presentano alcuna rampa esterna a piano
inclinato per raggiungere la spianata superiore, e la salita doveva rivestire
un forte significato simbolico quale ascesa verso la divinità. Più suggestivo, invece, il richiamo con il tipo più elementare di torri sacre,
provviste di rampe e gradoni della Mesopotamia: le ziqqurat. La più famosa,
oltre quella di Ur, è meglio nota dalla Bibbia come torre di Babele, cioè torre
di Babilonia. Sono ziqqurat piuttosto complesse, come anche quelle analoghe di
Assur e Korsabad, appartenenti al III millennio, mentre quella di Aqar Quf è
addirittura del secondo. Ma il raffronto che pare più significativo, almeno per la maggiore semplicità,
è quello con la ziqqurat di Anu, a Uruk, costruita in tempi non troppo lontani
dall’altare di Monte d’Accoddi. La ziggurat di Monte d’Accoddi
ricorda inoltre – ma soltanto come puro richiamo letterario – l’altare che
Javeh impone di costruire a Mosé: doveva essere di pietre rozze o terra e
accessibile a mezzo di una rampa senza gradini, e questo affinché, per la corta
tunica, non si generasse scandalo. E siamo intorno al 2200 a.C. Forse, come
avveniva nelle ziggurat mesopotamiche, anche la piramide tronca di Monte
d’Accoddi era destinata alle feste sacre legate al ciclo agrario, alla feracità
dei campi, ai riti propiziatori della fertilità per uomini e animali e altro
ancora. Fin dai primi interventi era apparso chiaro che Monte d’Accoddi era un
monumento anteriore all’età dei nuraghi, non solo per la sua inedita
architettura ma per i materiali che si andavano ritrovando, riferibili ai tempi
delle culture di Ozieri, di Filigosa, di Abealzu, Monte Claro e Campaniforme,
fra il Neolitico Recente e l’Età del Rame. A ribadire l’alta antichità del
complesso archeologico si dispone di numerose datazioni radiometriche, fra le
quali risultano di particolare interesse cinque datazioni non calibrate dal
Laboratorio di Utrech. In conclusione, sulla base dei dati finora disponibili
si possono determinare in qualche misura le fasi costruttive della “ziggurat” e
i diversi momenti di frequentazione di Monte d’Accoddi. L’area ove ora sorge la
“ziggurat” e il villaggio-santuario è stata per la prima volta occupata ai
tempi della cultura di San Ciriaco (3500-3200 a.C.) agli inizi del Neolitico
Recente, come documentano ceramiche e i resti di capanne circolari
seminterrate. Su questo primo impianto si sovrappose un nuovo nucleo abitativo
riferibile alla cultura di Ozieri (3200-2900 a.C.), provvisto di un’area di
culto segnata da un menhir, dalla lastra con fori passanti. Successivamente,
nella fase finale della stessa cultura di Ozieri – ma per altri nella successiva
cultura eneolitica di Filigosa – l’area del menhir venne parzialmente occupata
dalla costruzione del primo altare a terrazza, munito di rampa e spianata con
sacello intonacato e dipinto di rosso. I dati di scavo hanno rivelato che la
prima piramide con il sacello venne distrutta da un incendio, dopo il quale fu
ricoperta da terra e pietrame ben assestato con un sistema di cassoni radiali,
e quindi venne eretto un nuovo sacello, rialzato di vari metri, mentre anche la
piramide e la rampa venivano ricostruite e ampliate. La seconda piramide –
costruita ai tempi di Filigosa ma per altri durante la cultura di Abealzu (2700
a.C.) – rimase in uso nell’Eneolitico, come attestano i materiali delle culture
di Filigosa, Abealzu,Monte Claro e Campaniforme rinvenuti nelle capanne che
sorgono ai piedi della piramide, ma già ai tempi della cultura di Bonnanaro,
nel I Bronzo (1800-1600 a.C.), il santuario doveva essere in abbandono anche se
non mancano tracce di frequentazioni più recenti come quelle molto rare nuragiche,
fenicio-puniche, di età romana e medioevale. A testimoniare che già durante il
Bronzo Antico il santuario aveva perduto la sua funzione di luogo di culto, va
segnalata la sepoltura di un fanciullo di sei anni, rinvenuta all’interno del
riempimento dell’angolo sud-est della “ziggurat”. Si tratta di un seppellimento
di tipo secondario, costituito dal solo cranio – brachicefalo e affetto da
appiattimento congenito della volta cranica (platicefalia) – coperto, quasi
come un elmo, da un vaso a tripode di terracotta e con accanto una ciotola.
Le ceramiche di corredo attestano che si tratta di una tomba della cultura di
Bonnanaro (1800-1600 a.C.), quando il grande altare era già da tempo
abbandonato e in rovina, luogo di frequentazioni sporadiche e occasionali.
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