Innanzi tutto il mito di Eracle, Iolao Padre, i Tespiadi, eponimi del popolo sardo degli Iolei-Iolaei, un mito funzionale agli interessi greci di VI secolo per sostenere la fondazione di colonie sulle coste di Ichnussa-Sandaliotis. Piero Meloni, avviando nel 1942 questo filone di studi, arrivava a sostenere che forse tracce del culto di Iolao sopravvivevano in Sardegna, perché il mito dell’eroe potrebbe ricordare l’arrivo di elementi greci che importarono il culto di Iolao da Tebe e dalla Sicilia, in epoca assai precedente alla prima grande colonizzazione occidentale dell’VIII-VII a.C. Successivamente il mito del Sardus Pater figlio di Maceride africano, il demiurgo benefattore, che però sostanzialmente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: viene collegato col Sid punico ed è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle origini della vicenda di Hampsicora. Il mito che appare ri-funzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale: per Pettazzoni egli avrebbe i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio[91]. In terzo luogo, infine, il mito dei nostoi troiani, dell’arrivo in Sardegna di Teucri, collocati sulla sponda destra del Tirso al confine con la Barbaria, staccatisi da Enea dopo il naufragio alle Arae Neptuniae e provenienti da Troia: un mito collegato con l’esigenza romana di inizio II a.C. di creare una parentela etnica tra Sardi e Romani: un obiettivo apparentemente legato alle figure di Ennio e Catone, per le vantate origini troiane di Hampsagoras, dunque la sua appartenenza al popolo degli Ilienses della Sardegna (namque, ortum Iliaca iactans ab origine nomen: fiero del nome che faceva derivare da Troia), affermata da Silio attraverso fonti molto più affidabili e concrete di quanto non si sia immaginato. In particolare l’origine troiana è sottolineata dal richiamo ai Teucri effettuata da Silio ai vv. 361-362.
mercoledì 14 ottobre 2015
Archeologia. Aristotele e la natura del tempo: la pratica del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna, di Attilio Mastino
Archeologia. Aristotele e la natura del tempo: la pratica del sonno
terapeutico davanti agli eroi della Sardegna
di Attilio Mastino
Geografia, storia, mito.
In contemporanea con la
presentazione all’Accademia dei Lincei dei risultati davvero sorprendenti della
campagna 2014 nel vasto spazio santuariale di Mont’e Prama (dal quale
provengono altri giganti in pietra), i tre volumi su Le sculture di
Mont’e Prama pubblicati in questi giorni da Gangemi hanno notevolmente
arricchito l’orizzonte interpretativo, aprendo nuove questioni e nuovi
interrogativi sull’heroon che cambia la storia della Sardegna e del
Mediterraneo[1]. Proprio in
occasione dell’incontro di Roma, Mario Torelli ci aveva ricondotto alla
geografia e ci aveva fatto notare come l’orizzonte geografico e culturale del
ritrovamento dei misteriosi “giganti” sia rappresentato dal Montiferru
incombente sul Sinis e dal ruolo che le risorse del territorio debbono aver
rappresentato nella fase tardo nuragica, nella prima età del ferro, in un
momento che precede immediatamente quella che Alessandro Usai chiama la crisi e
la degenerazione-dissoluzione (Primo Ferro) della civiltà nuragica[2]. Come è noto
fin qui si è supposto che il Montiferru prenda il nome da miniere di ferro
dell’area vasta Sinis-Montiferru, in particolare dalla possibile presenza sul
Rio Siris, sul versante sud occidentale del monte, di miniere di galena
argentifera e soprattutto di ferro[3], il cui
sfruttamento da parte delle officine metallurgiche tharrensi rimonterebbe
almeno ad epoca punica[4], ma che si
immaginava avviato già durante il Bronzo Finale, in collegamento alle
intraprese mediterranee dei prospectors levantini, Ciprioti e
Filistei[5]. Tali
miniere sarebbero state
sfruttate nel medioevo, quando però si sarebbe
verificato un processo di ri-determinazione paretimologica di un originario *Mons
ferri «Monte del ferro», che lo avrebbe ribattezzato Mons verri «monte
del verro (il maschio del maiale)»[6]. I geologi
oggi tendono però a negare la presenza di miniere di ferro e segnalano semmai
solo piccoli depositi di piombo tra is Arenas - Torre del Pozzo e Santa
Caterina nel rio Pishinappiu, cioè proprio sul basso corso del Siris, anche se
nella carta IGM quasi tutte le miniere sono indicate come miniere di ferro,
causando evidentemente qualche equivoco[7]. Se
veramente Mons ferri poté essere l'oronimo di origine romana
del Montiferru[8], è
plausibile che esso rientrasse pure nella denominazione generale greca di Mainomena
Ore in Tolomeo[9] o di Montes
Insani[10] del
massiccio montano sardo, che partendo proprio con il Montiferru sulla costa
centro occidentale, prosegue con il Marghine, il Goceano e giunge alla costa
tirrenica a sud di Olbia, dividendo l'isola nel Capo di Sopra e nel Capo di
Sotto[11]; area
particolarmente accidentata, tanto che Floro parla dell'immanitas dei Montes
Insani, sui quali si erano rifugiati i Sardi ribelli, sicuramente gli Ilienses, nel
corso delle campagne di Tiberio Sempronio Gracco (177-176 a.C.): Sardiniam
Gracchus arripuit. Sed nihil illi gentium feritas Insanorumque – nam sic
vocatur – immanitas montium profuere[12].
Mario Torelli è arrivato a
ipotizzare che l’area monumentale dei Giganti, con i suoi originali contenuti
cultuali votivi e funerari, collocata proprio sulla strada che scendeva dal
Montiferru toccando prima Capo Mannu nel Sinis in direzione di Capo San Marco,
evitando gli stagni di Cabras, potesse esser collegata ad una frontiera
prossima dove i nuragici forse riscuotevano i dazi sui materiali proveniente
dall’area Cornuense. Tale ipotesi appare notevolmente rafforzata dopo la
pubblicazione dei sorprendenti risultati delle analisi petrografiche, che ora
dimostrano che le statue di Mont’e Prama sono state scolpite sulle pietre
calcaree prevenienti dal territorio meridionale del Comune di Cuglieri, tra
Santa Caterina di Pittinuri e Cornus[13].
Anche il recente articolo di Alessandro Usai ha dimostrato l’esistenza di una
specificità culturale del bacino geografico del Sinis con la sua via di
attraversamento che vede al centro Mont’e Prama, con caratteri propri, quasi
insulari rispetto al continente Sardegna, all’interno di quella notevole
varietà nelle modalità del popolamento, dell’insediamento e dell’organizzazione
territoriale e comunitaria: si potrebbero definire alcune categorie quali
fragilità, instabilità, dinamismo, competizione, capacità di adattamento e
reazione, creatività[14]. Tenteremo
allora di verificare la possibilità di ancorare a quest’area geografica la
notizia già nella Fisica di Aristotele (inizio della seconda
metà del IV a.C.) relativa alla pratica del sonno terapeutico che si svolgeva
in Sardegna presso gli eroi, para tois erosin, riprendendo
un’ipotesi da noi formulata oltre trent’anni fa[15],
anche grazie ai risultati della recentissima totale revisione delle fonti
effettuata da Ignazio Didu e Giuseppe Minunno[16]. Dobbiamo
premettere che diamo per scontato l’atteggiamento dei Greci che guardavano con
ammirazione alle costruzioni megalitiche della Sardegna e più in generale alla
civiltà nuragica, ma erano convinti che i barbari dell’isola non fossero stati
in grado da soli di sviluppare una cultura architettonica tanto evoluta senza
l’impulso degli eroi greci. Più in generale, la civiltà nuragica non poteva
essere autonoma, senza lo stimolo degli eroi fondatori del mito greco, primo
tra tutti Dedalo, chiamato dalla Sicilia da Iolao, al quale si tendeva ad
attribuire le tholoi nuragiche citate dallo Pseudo Aristotele[17].
Insomma, occorre sottolineare l’uso politico dei miti da parte dei Greci e dei
Romani, ora per distanziare la Sardegna in una dimensione di alterità barbara
(come avveniva con le bithiae di Solino), ora per creare
parentele funzionali all’espansione coloniale[18]. È un
pregiudizio che nega il fondamento stesso dell’originalità culturale della
nazione sarda e che dobbiamo assolutamente tener presente prima di procedere
oltre, anche per evitare di confondere osservazioni etnografiche sull’isola
(registrate in età storica e accuratamente descritte da Aristotele) con i miti,
le leggende e i culti importati dai Greci e forse dai Cartaginesi.
Il sonno terapeutico davanti agli eroi
Se la geografia ha un senso,
forse proprio all’area della Sardegna centro occidentale e alla componente
tardo-nuragica sembra riferirsi Aristotele nella Fisica quando,
secoli dopo, parlava di antiche tradizioni relative al rito dell'incubazione
che si svolgeva in passato in Sardegna davanti agli eroi, interrogandosi su
cosa sia il tempo, affermando l'inesistenza del tempo se non in rapporto al
movimento e alla effettiva percezione da parte del singolo individuo.
Nella traduzione di Luigi
Ruggiu: “Ma il tempo non è neppure senza mutamento. Quando infatti noi non
mutiamo nella nostra coscienza, oppure, pur essendo mutati, ci rimane nascosta,
a noi non sembra che il tempo sia passato. Allo stesso modo non sembra che il
tempo sia trascorso neppure per coloro che, in Sardegna, secondo la leggenda
[secondo quanto alcuni raccontano, tois muthologouménois] dormono
presso le tombe degli eroi [in realtà: presso gli eroi, parà tois
erosin]: essi infatti uniscono l’ora precedente con quello successivo,
facendo di entrambi un unico istante, rimuovendo cioè, a causa dell’assenza di
percezione [dia ten anasthesian], l’intervallo fra i due istanti. Così
come, dunque, se l’ora non fosse diverso ma sempre identico e uno, non vi
sarebbe tempo, del pari, se tale alterità ci rimane nascosta, non sembra che vi
sia del tempo nell’intervallo tra i due. Se dunque la convinzione che non
esiste tempo noi l’abbiamo quando non distinguiamo alcun mutamento, ma la
coscienza sembra rimanere immutata in uno stesso istante indivisibile; mentre,
quando percepiamo l’ora e lo determiniamo, allora diciamo che del tempo è
trascorso; è allora evidente che non esiste tempo senza movimento e
cambiamento. È chiaro pertanto che il tempo non è movimento, ma neppure è
possibile senza il movimento”[19]. E
Ruggiu precisa: “Il tempo lo si conosce quando si determina il movimento
mediante prima e poi (…). E prima e dopo che sono nello spazio, sono quindi
anche nel movimento e nel tempo”[20].
Appare certo che Aristotele
conoscesse attraverso racconti ambientati in Sardegna, forse nella fine
dell’età nuragica, una pratica incubatoria antichissima: ci sembra di poter
sostenere, emendando la traduzione di Luigi Ruggiu, che il collegamento con la
religione dei morti e con le tombe degli eroi non è direttamente affermato da
Aristotele. Eppure è senz’altro suggerito dai commentatori del filosofo
stagirita. La parafrasi del sofista Temistio di Paflagonia nel IV secolo d.C.
sembra ricalcare ad verbum il testo della Fisica,
tanto da riprendere il concetto di “mancanza di coscienza”, dià tèn
anaisthesìan. Questo è quanto raccontano accada a quelli che in
Sardegna si dice dormano presso gli eroi, quando si risvegliano: giacché
neppure questi hanno percezione del tempo che hanno consumato nel sonno, ma
collegano il precedente “adesso” al successivo “adesso”, e ne fanno un
tutt’unico eliminando il frammezzo a causa della mancanza di coscienza (dià
tèn anaisthesìan) [21]. Pare
abbastanza probabile che Aristotele e Temistio alludano a una condizione
psichica indotta dall’assunzione di droghe o di narcotici, visto che come
vedremo il sonno terapeutico si sviluppava per più giorni. Riprendendo
evidentemente fonti più antiche rispetto ad Aristotele, altri commentatori
aggiungono dei particolari preziosi: per Giovanni Filopono (VI secolo d.C.) è
chiaro che si trattava di un sonno terapeutico, per curare una malattia: si
raccontava che taluni, essendo malati, si accostassero agli eroi in Sardegna e
che guarissero e che accostatisi dormissero per cinque giorni di seguito;
quindi, svegliatisi, ritenessero che quello fosse il momento in cui si erano
posti accanto agli eroi[22].
Tertulliano riferendosi ad
Aristotele aveva notizia di un certo eroe della Sardegna che libera dalle
visioni quelli che giacciono a dormire nel suo tempio, dunque un eroe unico
capace di allontanare le apparizioni spaventevoli: Aristoteles heroem
quendam Sardiniae notat incubatores fani sui visionibus privantem [23].
Un evidente inquinamento: il mito riferito da
Simplicio
C’è chi ha ritenuto di
ridimensionare l’importanza della citazione aristotelica sul sonno terapeutico
che si praticava presso gli eroi[24], per
il fatto che a partire dall’età dei Severi alcuni commentatori finiscono per
inquinare la vicenda inserendo forzatamente elementi relativi al mito di Eracle
e dei suoi figli 50 figli, gli Iolei, identificati con gli Iolei o i Sardi
Pelliti dei Montes Insani[25]. Più
precisamente il filosofo bizantino Simplicio, seguendo Alessandro di Afrodisia
(III secolo d.C.), esegeta delle opere di Aristotele, commentava nel VI secolo
d.C. il passo della Fisica, spostandolo ad ambito greco: egli
collegava la notizia aristotelica al mito dei nove figli di Eracle rimasti in
Sardegna, i cui corpi restavano non soggetti a putrefazione e intatti ed apparivano
come dormienti, più precisamente offrivano la mostra (fantasìan) di
persone solo addormentate: ed erano questi eroi in Sardegna. Presso questi a
causa di sogni o di qualche altra necessità era naturale che taluni
simbolicamente dormissero sonni profondi[26]. È
significativo il successivo riferimento ad un episodio avvenuto ad Atene, dove
il sonno sarebbe stato provocato dall’eccesso di vino e dall’ubriachezza degli
officianti le Apaturie, le feste delle fratrie che segnavano il passaggio dalla
giovinezza all’efebia: essi avevano perso il senso della successione delle
feste, saltando la data della Cureotide, cioè il giorno della tosatura dei
bambini nati nell’ultimo anno e iscritti nel registro dei cittadini[27]:
Dicono infatti – riferisce Eudemo – che essendoci un pubblico sacrificio alcuni
banchettassero in una spelonca sotterranea, ed ebbri dormissero fino al giorno,
sia loro che i loro servi e che dormissero ancora il resto della notte e poi un
giorno ancor fino a notte; svegliatisi infatti come videro le stelle, un’altra
notte ancora sopraggiunta, se ne andarono a dormire. Giunto il giorno
successivo, come si destarono in relazione a come era stato percepito il tutto,
celebrarono la Cureotide in un giorno successivo alle altre feste[28]. L’elemento
più significativo della tradizione riportata da Simplicio per la Sardegna è il
fatto che gli eroi, immobili nella morte, sembravano essi stessi addormentati
(per Giuseppe Minunno, sleepers)[29], se i
loro corpi restavano non soggetti a putrefazione ed intatti ed apparivano come
dormienti, modello comunque del sonno simbolico per coloro che cercavano una
guarigione presso gli eroi. Per queste ragioni Didu acutamente ritiene che
siano confluite nella fonte di Simplicio (VI secolo d.C.) due distinti filoni,
uno dei quali, di tipo funerario, quello di Iolao (il giovane amico-compagno di
Herakles) e dei nove Tespiadi: mito che non è certo originariamente presente
nella Fisica di Aristotele. Il passaggio dalla concretezza
storica di Aristotele al mito sarebbe avvenuto già nell’età dei Severi, al
tempo del commentatore (perduto) Alessandro di Afrodisia e di Tertulliano (che
parla del tempio di un solo dio): sono esattamente anni in cui in Sardegna si
ricostruiva il tempio del Sardus Pater, in un’area che appare
originariamente sepolcrale, nella prima età del ferro.
Le osservazioni etnografiche
sulla Sardegna nella Fisica aristotelica (con le varanti
rappresentate da Temistio di Paflagonia e Giovanni Filopono) sembrano provenire
da fonti ben più antiche del IV secolo a.C. e sono state citate dal filosofo
solo cursivamente e in modo incompleto. L’uso dell’espressione tois
muthologouménois è emblematica, nel senso che rimanda a vicende ben
conosciute da secoli. Proprio quest’espressione ha fatto erroneamente pensare a
un mito greco noto ad Aristotele, che invece intendeva descrivere una pratica
etnografica reale, ambientata presso gli eroi, raccontata da fonti precedenti.
Dunque rimane un aspetto di
fondo da chiarire, perché il punto di partenza non può essere solo Aristotele,
che ammette di citare autori precedenti, che raccontavano vicende lontane nel
tempo: insomma lo sforzo interpretativo dei commentatori del filosofo stagirita
può essersi spinto più indietro, attingendo a fonti distinte e più antiche,
utilizzate per chiarire a distanza di secoli il complesso ragionamento di
Aristotele. A mio avviso dobbiamo ammettere una conoscenza molto antica e
prolungata nel tempo dell’etnografia della Sardegna da parte dei Greci. E
questo potrebbe aver determinato l’introduzione di elementi mitici
originariamente non presenti nel ragionamento del filosofo. Come si vede, sia
Temistio di Paflagonia sia Giovanni Filopono aggiungono ad Aristotele
informazioni nuove (i cinque giorni di durata del rito che comportava una
“assenza della presenza”, la malattia dei fedeli, gli incubi notturni ecc.),
originariamente non contenute nella Fisica di Aristotele,
evidentemente presenti in una fonte più antica alla quale aveva attinto lo
stesso filosofo. Quanto alle droghe, non sembra fondato un collegamento con
l’erba che provocava il riso sardonico, che conosciamo per la pratica dell’uccisione
dei vecchi accompagnata da quelle che Pettazzoni riteneva risa inumane[30].
Potrebbe essere in qualche
modo connesso a quanto scrive Aristotele anche l’ironico giudizio di Cicerone
sul trascorrere del tempo in Sardegna, una terra che fa tornare la memoria e
ricordare le cose dimenticate. Noi sappiamo che, collocata nell’estremo
Occidente, l’isola appariva notevolmente idealizzata, soprattutto a causa della
leggendaria lontananza e collocata fuori dalla dimensione del tempo storico. In
una lettera del 17 gennaio del 56 a.C., ironizzava sull'otium del
fratello Quinto nel suo soggiorno a Olbia, in un’isola che appariva quasi
inserita in una sua dimensione crono-spaziale. Quinto aveva scritto qualche
settimana prima per avere informazioni sul progetto della nuova casa disegnato
dall'architetto Numisio e sulla riscossione dei crediti dovuti da Lentulo e
Sestio per saldare Pomponio Attico: la tranquillità di cui si può godere in
Sardegna, l’otium, il modo stesso del trascorrere del tempo che si
misurava in altro modo, era la migliore cura contro le amnesie, faceva
ricordare le cose dimenticate: sed habet profecto quiddam Sardinia
adpositum ad recordationem praeteritae memoriae[31].
Se veramente Cicerone teneva
sullo sfondo la notizia aristotelica, dandola per scontata, a maggior ragione
poteva citare argutamente l’episodio di un secolo prima, quando Tiberio
Sempronio Gracco si era improvvisamente ricordato solo dopo esser arrivato a
Karales di non aver seguito l’esatta procedura nello svolgimento dei comizi
elettorali per i nuovi consoli, subito revocati e non rieletti nelle elezioni
suppletive, autoaccusandosi di aver effettuato in modo irregolare l’auspicium,
l’esame del volo degli uccelli, per due volte dallo stesso auguraculum,
dallo stesso punto di osservazione, dopo esser entrato e uscito dal pomerio. Si
capisce la soddisfazione degli aruspici etruschi ma anche il commento caustico
di Cicerone.[32] Ma
ovviamente in età romana la riflessione sulla natura e la durata del tempo è
profondamente rinnovata[33].
Se Aristotele, come sostiene
Didu seguendo proprio le posizioni di Raffaele Pettazzoni, intendeva dare una
descrizione scientifica e realistica di una pratica iatro-mantica
effettivamente documentata in Sardegna, egli doveva descrivere un rito
animistico più antico, forse risalente alla fine dell’età nuragica, che si
celebrava presso le tombe di antenati eroi divinizzati, senza alcun contatto
con la vicenda della mitica colonizzazione dei Tespiadi; la confusione potrebbe
esser attribuita allora ad alcuni dei commentatori di Aristotele, caduti in un
vero e proprio equivoco, mischiando a osservazioni etnografiche reali il mito
greco dei Tespiadi.
Si può concordare con Didu su
gran parte del ragionamento ma dobbiamo ammettere che il numero di nove sia in
realtà un’inversione del racconto mitico nel quale è stabilito che dei
cinquanta Tespiadi, arrivati all'età virile solo quarantuno partissero per la
Sardegna, sulle navi costruite da Eracle; infatti, sette restarono a Tespie,
due si fermarono a Tebe (tre secondo lo Pseudo Apollodoro)[34]: e
proprio Tebe era celebre per ospitare il culto di Iolao defunto; alcuni poi
forse dalla Sardegna si ritirarono a Cuma[35].
Sulla questione è utile sia il capitolo di Laura Breglia Pulci Doria, pur con
qualche imprecisione, su Il culto di Iolao e l’incubazione[36] e
soprattutto il successivo recentissimo intervento di Giuseppe Minunno[37].
Se osserviamo un poco a distanza tutta la vicenda, registriamo
l’alternanza tra 9 e 10 per il numero dei figli di Eracle che non avrebbero
raggiunto la Sardegna e tra 41 e 40 il numero dei capostipiti del popolo sardo
degli Iolei, alcuni dei quali però si sarebbero trasferiti in Campania; da qui
l’incertezza sul numero degli eroi rimasti in Sardegna, che è stata ben messa
in evidenza da Ignazio Didu.
Sardi, Nasamoni, Getuli e Augilae africani
In ogni caso, chi si affidava
al sonno per Aristotele non erano i nove figli di Eracle addormentati (sleepers),
il cui collegamento al passo aristotelico è sicuramente erroneo, ma semmai
erano i frequentatori sardi del santuario, per i quali si può facilmente
immaginare contatti con le culture e le tradizioni funerarie nord-africane. Si
potrebbe allora pensare all’antica religiosità nuragica di lunga durata
confluita, secondo Pettazzoni[38], più
tardi anche nel culto salutifero di Merre, interpretato come Eshmun, Esculapio
e Asclepio a S. Nicolò Gerrei[39]. A
questo riguardo si possono fare riscontri con terrecotte figurate della prima
età romana dal tempio di Esculapio a Nora (Punta ‘e su coloru) che
rappresentano un devoto dormiente avvolto tra le spire di un serprente[40], un
elemento che apparentemente è comune con il Nord Africa punico, nell’ambito di
quei rapporti culturali con la riva sud del Mediterraneo che appartengono non
al mito ma alla realtà storica (pensiamo al serpente fittile da Cartagine
esposto al Museo del Bardo di Tunisi) [41]. Le
terrecotte figurate di Nora non possono essere collegate, come fa Salvatore
Settis, all’immagine dei figli di Laocoonte[42]:
Simonetta Angiolillo rivaluta l’interpretazione originaria di Gennaro Pesce[43], che
ritiene valida e ben suffragata dai confronti finora avanzati a livello
figurativo con la stele di Oropos e, a livello letterario, con il racconto
della guarigione di Pluto in Aristofane[44]. Pur
in periodo tardo-repubblicano, si tratterebbe di una iconografia originale, che
si rifà ad una tradizione e a un culto ben consolidati nel mondo greco e da
questo passati in area punica e italica; segnatamente a quest’area rinvierebbe
l’uso, largamente attestato nei santuari italici, di dedicare ex voto in
terracotta raffiguranti il devoto, oltre al linguaggio formale e ad alcuni
dettagli iconografici quali la resa dei capelli[45]. Didu
giustamente avvicina l’incubazione praticata in Sardegna a quella testimoniata
già nel V a.C. per i Nasamoni africani che secondo Erodoto seppellivano i loro
morti seduti[46], esattamente
come nelle sepolture a pozzetto semplice dell’area settentrionale di Mont’e
Prama, ad Antas e a Su Bardoni[47]: i
Nasamoni - scrive Erodoto - praticano la divinazione recandosi presso i
sepolcri degli antenati e addormentandosi su di essi dopo aver pregato: ognuno poi
utilizza come vaticinio la visione che ha avuto in sogno[48]. A
parte le suggestioni che il passo erodoteo propone per chi studia le relazioni
e gli scambi di popolazione tra Sardegna e Nord Africa nei primi decenni
dell’occupazione cartaginese dell’isola, sembra rilevante il riferimento ai
sepolcri degli antenati per la pratica dell’incubazione presso i Nasamoni, un
dato che forse potrebbe consentire di valorizzare ulteriormente la notizia
aristotelica, se non altro in termini di livelli cronologici, se Aristotele ha
potuto utilizzare fonti di almeno V secolo che conoscevano dall’interno la
Sardegna cartaginese[49]. Nel
recente articolo su Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama,
Ornella Fonzo ed Elsa Pacciani precisano che è ora possibile definire il tipo
di deposizione e di confermare che i defunti venivano seduti sul fondo dei
pozzetti con le ginocchia riportate verso il petto e le caviglie spesso
incrociate, le braccia più o meno flesse al gomito e le mani riportate davanti
al torace. Il cranio doveva inclinarsi verso il petto, per poi disarticolarsi e
ricadere nello spazio fra l’addome e le cosce[50]. E
Marco Minoja precisa che tale deposizione doveva avvenire dopo la cessazione
del rigor mortis, che corrisponde a qualche giorno dopo il decesso[51]. Molte
altre comparazioni sono evidentemente possibili: allo stesso modo gli Augilae vicini
ai Nasamoni per Pomponio Mela praticavano un rito che collegava la religione
dei morti con il sonno apportatore di visioni divinatrici: Augilae
manes tantum deos putant; per eos deierant, eos ut oracula
consulunt, precatique quae volunt, ubi tumulis incubuere, pro
responsis ferunt somnia[52]. Vd.
anche Plinio il vecchio: Augilae inferos tantum colunt[53].
Già Pettazzoni indicava il carattere spiccatamente ordalico e quindi
magico del giuramento prestato dagli Augilae sui defunti (se
intendiamo per eos (manes) dei erant non dei erant,
che pure appare lectio facilior) e richiamava il tema
dell’incubazione e della profezia presso i Nasamoni[54].
Secondo Ignazio Didu
l’accostamento sarebbe abbastanza problematico, perché se per il Pettazzoni,
era spiegabile in una comune sfera di pensiero religioso primitivo, in realtà
le finalità appaiono divergenti: da un lato (vedasi Tertulliano) si trattava di
liberarsi dalle visioni, dall’altro di una ricerca di “sogni rivelatori”,
comunque con una finalità profetica e mantica[55].
Che le due cose si debbano saldare, in realtà ce lo ricorda Cicerone
nel Cato Maior de senectute interpretando Senofonte, quando
osserva che nulla è tanto simile alla morte quanto il sonno; e gli animi di
coloro che dormono mostrano massimamente la loro natura divina: infatti
quando sono rilassati e liberi riescono a prevedere molte cose future; dal
che si comprende come essi diventeranno, quando saranno sciolti del tutto dai
legami dei corpi: iam vero videtis nihil esse morti tam simile quam
somnum. Atque dormientium animi maxime declarant divinitatem suam; multa enim,
cum remissi et liberi sunt, futura prospiciunt. Ex quo intelligitur quales
futuri sint, cum se plane corporis vinculis relaxaverint. Ed è per
questo che Ciro il Grande in punto di morte avrebbe chiesto di essere venerato
come un dio, sic me colitote, inquit, ut deum[56]. La
caratterizzazione dei Sardi Pelliti è avvicinata a quella dei Getuli Africani
da Varrone, per il quale si trattava di tribù (nationes) di pastori
vestiti di pelli di capra[57]. I
Getuli per Sallustio non conoscevano ancora nel II a.C. neppure il nome dei
Romani: un genus hominum ferum incultumque et eo tempore ignarum
nominis Romani.[58] E
Consentio, citando alcune espressioni straniere entrate abitualmente nel
lessico latino, avvicina la mastruca, il vestimentum
Sardorum portato dai Pelliti, ai magalia, cioè
alle Afrorum casae[59]. Sappiamo
che Silio conosceva la migrazione delle popolazioni libiche, sintetizzate nel
mito di Sardus, figlio di Eracle libico-Maceride
(rappresentato con un copricapo di penne analogo a quello dei Nasamoni
Africani)[60],
nell’ambito di quella che Pettazzoni chiamava la connessione etnica
sardo-africana[61], una
vicenda che Ignazio Didu ritiene derivi da fonti pre-sallustiane come
testimonia Pausania, che pure non ignora il fatto che gli Iliei della Sardegna
assomigliano ai Libi nell’aspetto fisico e nell’armatura e in tutto il regime
di vita[62].
Più in generale, appare davvero fertile il tema del rapporto dei
Sardolibici isolani con la Numidia, la loro terra d’origine almeno a partire da
Ellanico di Mitilene e dal V a.C.
Le tombe dei giganti
Per la Sardegna si è pensato
in passato che la pratica incubatoria di tipo magico e animistico descritta da
Aristotele e dai suoi commentatori potesse svolgersi sul bancone dell’esedra
delle tombe dei giganti[63].
L’ipotesi è ancora valida, anche se la denominazione dei monumenti funerari
dell’età nuragica risulta moderna e compare già con La Marmora nei primi
decenni dell’Ottocento[64]. Del
resto le tombe dei giganti sono sepolture collettive, anche se la presenza di
una sorta di altare nella testata del corridoio ha fatto pensare ad alcuni
superficiali interpreti a una sorta di cuscino sul quale il gigante sepolto (o
addormentato ?) poggiava il capo. In realtà, se stiamo alla lettera del passo
della Fisica, Aristotele non parla di tombe ma di eroi,
evidentemente statue ai cui piedi doveva svolgersi il rito terapeutico: ci
rendiamo conto che la suggestione di pensare al santuario di Mont’e Prama può
apparire una forzatura, ma è fortissima. Meno valore ha la notizia di
Tertulliano, che pure parla di un tempio (un fanum) di un eroe e
non di una tomba, per cui andrebbe esclusa per il sonno terapeutico l’esedra di
una tomba dei giganti di età nuragica, che appunto ha carattere collettivo. Non
possiamo però trarne la conclusione che effettivamente l’incubazione veniva
praticata all’interno di un tempio, in un ambiente chiuso. Oggi gli scavi di
Mont’e Prama aprono un’altra prospettiva, che si rivela davvero promettente.
Per rendere esplicito il problema, c’è da valutare l’ipotesi che i Greci che
hanno dato alla Sardegna il nome di Ichnussa o Sandaliotis (che
presuppone una visione “a volo d’uccello”, magari con gli occhi mitici di
Dedalo o di Talos) abbiano potuto osservare la sfilata di arcieri, pugilatori,
guerrieri con scudo rotondo tardo-nuragici di Mont’e Prama presso un santuario
e ormai oggetto di culto[65].
Statue lavorare nel calcare di Cornus e collocate presso le tombe di un gruppo
di inumati prevalentemente giovani o adolescenti[66]: la
categoria quasi esclusivamente rappresentata è dunque quella dei maschi giovani
(…) caratterizzata da robustezza, tono muscolare, abitudine allo sforzo,
concentrazione dell’attività in azioni selezionate a carico delle braccia e
delle gambe, tutte caratteristiche che rivelano una gioventù vigorosa e
verosimilmente atta all’uso delle armi[67]. Né
va sottovalutato il tema della profezia praticata presso i Nasamoni, che
sembrerebbe sottesa in Sardegna dal recente ritrovamento (2014) tra i giganti
della statua sul modello del bronzetto rinvenuto a Vulci in Etruria (Mandrione
di Cavalupo), che Lilliu interpretava come un sacerdote tardo nuragico ma che
oggi viene inteso come un tipo originale di pugilatore. Proprio a questo
proposito, Didu e Minunno pongono indirettamente un’obiezione che vorrei
esplicitare: se Simplicio parla di un sonno che misteriosamente avvolgeva anche
i nove (o quarantun) Tespiadi, come si può ammettere che le statue di Mont’e
Prama possano rappresentare gli eroi dormienti o simili a dormienti oltre la
morte, dal momento che le statue li mostrano in realtà pienamente combattivi,
addirittura nell’atto di addestrarsi in un ginnasio, all’esterno magari di
un heroon coperto? L’obiezione ha un suo fondamento reale, ma
allora dovremmo ammettere che Aristotele parlava proprio dei Tespiadi, il che è
assolutamente impossibile, visto che viceversa il tema è quello del rapporto
tra natura e cultura, tra mito e realtà di una pratica etnografica magari
fraintesa a distanza di secoli. Conclusivamente ci piace citare le parole di C.
Kerényi il quale nel 1950 commentava come si determina l’incontro con una più
alta forma d’esistenza, l’esistenza al di fuori del tempo, al di sopra della
vita e della morte[68].
Forse i nove eroi sardi incarnavano questa specie di esistenza, in statue o in
configurazioni naturali interpretate come eroi morti o anche indipendentemente
da ogni raffigurazione, anche se Didu sostiene che non può essere
aprioristicamente escluso che l’ambito di M. Prama abbia conosciuto rituali
riconducibili all’incubazione, vista la sacralità dell’insieme, nel più
generale contesto di una ideologia funeraria diffusa; ma si tratterebbe di una
ipotesi aggiuntiva e non convincente.
Gli Iolei-Iolaeis-Iolenses greci
A spiegare comunque il
travisamento dell’informazione aristotelica può forse aver contribuito la
collocazione geografica dello spazio santuariale di Mont’e Prama, posto sulla
strada che arrivava nel Sinis da Gourulis nea, Cuglieri, nuova in
relazione alla Gourulis palaià, Padria: la loro storia apparentemente si
intreccia con la vicenda mitica dei 50 figli di Eracle raccontata in età
cesariana da Diodoro Siculo, arrivati in Sardegna interpretando un oracolo di
Apollo di Delfi. Essi, secondo Pausania il Periegeta (che scriveva nell’età
degli Antonini), avrebbero fondato in Sardegna Olbìa; gli Ateniesi,
guidati da Iolao padre assieme ai Tespiadi, contemporaneamente avrebbero
fondato Ogrùle o Agraulé-Agrulé, che gli
studiosi tradizionalmente avvicinano alla Gourulis palaià del
geografo alessandrino Tolomeo (forse a Padria nel Meilogu, dove è documentato
un santuario di Eracle) e alla Gourulis nea del Montiferru[69]. A
questo mito sarebbero collegate le città sarde, di impossibile localizzazione,
di Erakleia eThespeia di Stefano Bizantino.
Non sappiamo quanto fosse
radicata una tale localizzazione. Eppure, breve distanza dalle due Gouroulis si
collocano, sui Montes Insani del Montiferru o del Marghine, i Sardi
Pelliti ricordati da Tito Livio come alleati di Hampsicora[70],
identificati con gli Ilienses, che i Romani invece immaginavano
originari di Ilio, compagni di Enea dopo la fuga da Troia in fiamme. Proprio
nelle vicinanze di Cornus Tolomeo colloca i Kornénsioi oi Aichilénsioi;
la tradizione manoscritta è incerta (anche Aigichlàinoi,
Aigichlainénsioi), ma il testo può essere forse interpretato con
riferimento ai Cornensi coperti di pelli di capra, se il secondo componente
dell’etnico non allude a Gurulis, nel senso di Gurulensioi, ma
contiene la radice della parola aix, aigós “capra”: andrebbe
dunque inteso con riferimento ad una tribù locale interna rispetto a Cornus,
caratterizzata per il fatto che i suoi componenti erano vestiti di pelli di
capra. Insomma, Tolomeo quando collocò sulla carta le città e i popoli della
Sardegna conosceva profondamente il mito e pensò necessario valorizzare il
legame che univa Kornos e i Kornensioi ai
vicini Sardi Pelliti, che indossavano la caratteristica mastruca. Occorre
forse rivalutare il peso della presenza di tradizioni greche sulla Sardegna in
età arcaica, come testimoniano i nesonimi delle isole circumsarde e la
denominazione di Ichnussa o Sandaliotis attribuita
dalla marineria massaliota o siracusana a Sardò,la Sardinia dei
Romani[71].
Certo non può escludersi che alcuni toponimi (ad es. Herakleus nesos, Kallodes
nesos, Molibodes Nesos, Leberides nesoi) siano solo la versione
greca di nomi latini, ma questo non è possibile ad esempio per il tolemaico Korakòdes
limén, oggi Su Pallosu, il porto frequentato dai cormorani, a Sud di
Cornus. L’interesse di Siracusa per le coste sarde, forse documentato dalla
presenza dei Siculensioi nella Sardegna sud-orientale,
potrebbe addirittura precedere la fondazione di Olbia alla metà del IV a.C. da
parte dei Cartaginesi, il che pone il problema della presenza del toponimo
greco, del connesso culto di Ercole cacciatore del leone nemeo, del mito dei
Tespiadi (in particolare dei gemelli Hippeus e Antileone figli della tespiade
Prokris) e del recente ritrovamento di materiale arcaico ad Olbia e nella
pianura retrostante[72].
Fu Iolao e non Aristeo, come
pure risultava da una tradizione nota a Sallustio e a Pausania[73], a
far venire Dedalo dalla Sicilia: l’artista cretese costruì numerose e grandi
opere, che da lui si chiamarono dedalee, ancora conservate al tempo di Diodoro:
questi erga pollà kai megàla mèchri tòn nun kairòn diamènonta,
strutture grandi e numerose, opere restate fino al nostro tempo, edificate da
Dedalo in Sardegna. Anche l’anonimo autore del De mirabilibus
auscultationibus, uno scritto pseudo-aristotelico forse dell’età di
Adriano, ricorda come Iolao e i Tespiadi fecero edificare costruzioni
realizzate secondo «l’arcaico modo dei Greci» e tra esse edifici a volta di straordinarie
proporzioni. Giovanni Ugas ha da molti anni incentrato la sua attenzione sul
rapporto fra la cronologia mitica di Dedalo e la costruzione dei nuraghi.
Scrive Ugas nell’Alba dei Nuraghi che le tradizioni letterarie
antiche concernenti la costruzione dei nuraghi e delle altre coeve opere
dell’architettura protosarda ad opera di artisti riconducibili ad ambito egeo
minoico e miceneo affidano a Dedalo un valore simbolico, riportandoci al tempo
dei protonuraghi, implicitamente riconoscendo la perizia degli architetti
protosardi nell’edificare le tholoi e le connessioni
dell’architettura sarda con quella egea, con una datazione pienamente coerente
con le ricerche archeologiche attuali[74]. Silio
Italico conosce i Tespiadi e Iolao, un mito centrale non solo in Diodoro Siculo
ma anche in Pausania e nelle loro fonti, che appaiono più antiche di quanto fin
qui non si sia immaginato e riferisce infine il mito di Aristeo, figlio del dio
della luce (Apollo) e della ninfa Cirene. Noi sappiamo che la vicenda di
Aristeo va collegata all’arcaica età dei Lapiti e dei Centauri: egli sarebbe
stato il primo eroe greco a raggiungere la Sardegna, introducendo la coltura
degli alberi da frutto, la raccolta del miele e l’allevamento delle api, il
vino, l’olio, in una terra che ancora non conosceva le città. La rotta da lui
seguita per raggiungere l’isola dalla Grecia sarebbe quella dei Micenei,
attraverso le Cicladi, Creta e la Cirenaica infine la Sicilia: Cyrenen
mostrasse ferunt nova litora matrem (v. 369), partendo ancora una
volta dal Nord Africa. Pausania avrebbe rimesso le cose a posto, denunciando
l’incongruenza cronologica, almeno a livello di cronologia mitica, della sua
fonte, che è diversa da quella impiegata da Diodoro Siculo e che è sicuramente
pre-sallustiana.
La tomba di Iolao padre in Sardegna
Ci sono nelle fonti numerosi
riscontri che incatenano l’antica vicenda mitica greca degli Iolei ad epoca
ellenistica, comunque ben prima della seconda guerra punica, quando Annibale
giura l’alleanza con Filippo V di Macedonia anche in nome del dio Iolao: come è
noto Polibio nel VII libro delle Storie racconta che, subito
dopo la battaglia di Canne, Annibale rinnovò il giuramento contro i Romani che
il padre Amilcare gli aveva fatto fare bambino, a nove anni, nel tempio di
Saturno a Cartagine. Gli dei chiamati a testimoniare sono per parte macedone
Zeus, Era, Apollo; per parte cartaginese il Genio di Cartagine (il Daímon
Karchedoníon, sicuramente la dea Tanit), il mitico progenitore
Melkart-Eracle e Iolao, l’eroe che secondo il mito greco aveva colonizzato la
Sardegna assieme ai 50 figli che Eracle aveva avuto dalle 50 figlie del re
Tespio: da questo dio, assimilato a Sid ed al Sardus Pater, deus patrius
capace di sostituire all’idea di tribù l’idea di nazione, avrebbe preso il nome
il popolo barbaricino degli Iolei-Iolaei da un lato e Ilienses-Ili dall’altro,
che invece Pausania, interpretando una tradizione romana già in Sallustio,
distingue nettamente. Da Iolao deriverebbe il nome delle regioni Iolee
attribuito ad alcune aree della Sardegna nell’età imperiale romana, mentre
Iolao è fatto oggetto di venerazione da parte degli abitanti, ancora ai tempi
di Pausania[75].
Il ricordo di Iolao nel
giuramento di Annibale richiama la saga greca dei Tespiadi, che il mito voleva
sicuramente sepolto nell’isola, in un heroon che le fonti
considerano eretto su una vera e propria tomba-santuario: per Solino (metà III
secolo d.C.) Iolenses a eo dicti sepulcro eius templum addiderunt, quod
imitatus virtutem patrui malis plurimis Sardiniam liberasse[76]. Gli
ultimi studi hanno confermato che il mondo greco ammetteva che l’heroon di
Iolao a Tebe davanti alle Porte Pretidi (la porta d'ingresso alla rocca Cadmea,
dalla quale si accedeva alle tombe a camera micenee della città, oggi Megalo
Kastelli) era solo un cenotafio davanti al quale secondo Aristotele i soldati
del battaglione sacro, eromenoi ed erastai,
giuravano mutua fedeltà in battaglia[77]:
secondo una tradizione conosciuta da Pindaro[78], le
feste che si celebravano presso la tomba comune di Amphtryon e di Iolaos
prendevano il nome di Iolaeia e di Herakleia[79].
Pausania precisa: c’è anche il ginnasio che ha il nome da Iolao e
inoltre uno stadio e un tumulo di terra come quelli di Olimpia ed Epidauro; qui
viene anche mostrato un santuario di Iolao. Che lo stesso Iolao sia
morto in Sardegna insieme agli Ateniesi e ai Tespiesi che erano andati
con lui lo ammettono anche i Tebani[80].
Nell’immaginario greco, quello
di Iolao era un heroon leggendario ormai distrutto, che doveva
ricordare un demiurgo nazionale tradotto dai Greci per proteggere il corpo di
un benefattore defunto, un dio che aveva conosciuto la morte o un morto
deificato: il mistero della morte in un santuario si allontana non poco dalla
realtà archeologica di un complesso come quello di Mont’e Prama, dove secoli
prima non avevano sfilato dei Sardi Pelliti, coperti con la mastruca, ma
arcieri, lottatori, pugilatori addestrati nelle palestre (i gymnasia sardi
del mito?), di una nazione ancora non soggetta al predominio cartaginese o
romano, forse assistiti da sacerdoti. Come dimenticare Diodoro? Iolao, allora,
sistemate le cose relative alla colonia e fatto venire Dedalo dalla Sicilia,
eresse molte e grandi costruzioni che permangono fino ai tempi d’oggi e sono
chiamate dedalee dal loro edificatore. Costruì anche ginnasi grandi e
magnifici, kaì gumnàsia megàla te kaì polutelè, ed istituì
tribunali e quant’altro contribuisce al vivere felice[81]. E
ancora: Iolao, il nipote di Eracle messo a capo dell’impresa, presone possesso
(della Sardegna) fondò città degne di nota e, divisa in lotti la terra,
denominò le genti da se stesso, Iolee, edificò inoltre ginnasi e templi agli
dei ed ogni cosa benefica per la vita umana, cose delle quali fino a questi
tempi permane memoria[82].
Molte sono le fonti che ci informano sul culto di Eracle e di Iolao nelle
palestre greche. Un heroon ormai distrutto, quello di Iolao,
demiurgo nazionale tradotto dai Greci, che - se dovesse coincidere con Mont’e
Prama - sarebbe collocato al piede meridionale del Montiferru, comunque a poca
distanza dal sito dove Livio avrebbe localizzato lo scontro tra Hostus e
Toquato, se si precisa che l’urbs Cornus era caput eius
regionis, capoluogo della regione nella quale si era svolta la battaglia.
Iliei, Ilieis, Iliesi, Ilienses Troiani consanguinei
dei Romani
Che le due tradizioni,
originariamente distinte, si siano incrociate è sicuro: Pausania (e prima di
lui Sallustio) conosce da un lato la vicenda (greca) degli Iolei, i compagni di
Iolao giunti in Sardegna, e quella, romana, degli Ilieis-Ilienses,
che compaiono in Livio solo a partire dal 181 a.C. e che ora localizziamo nel
Marghine-Goceano[83]:
caduta Ilio, un certo numero di Troiani scampò e tra questi, quelli che si
salvarono con Enea; una parte di questi, trasportata dai venti in Sardegna, si
congiunse agli Elleni che già vi abitavano. Ma fu impedito ai barbari di venire
a battaglia con Greci e Troiani; infatti erano equivalenti in tutto l’apparato
militare e il fiume Thorso che scorreva nella regione incuteva ugualmente ad
entrambi il timore del guado[84]. Si
tratta di una vicenda mitica nata sicuramente tra il 234 e il 146 a.C., dunque
tra il probabile trattato di Tito Manlio Torquato che fissava il confine tra
Roma e Cartagine alle Arae Neptuniae e la distruzione di
Cartagine, se Servio commentando Virgilio avrebbe ricordato gli scogli dedicati
a Nettuno dove i Punici ed i Romani avrebbero firmato un trattato di pace, dopo
l’occupazione romana della Sadegna: ibi Afri et Romani foedus inierunt
et fines imperii sui illic esse voluerunt[85].
Insomma, il mito degli Iliei (= Ilienses) della Barbaria sarda
come lo leggiamo in Pausania potrebbe esser stato sistemato cronologicamente
prima delle grandi rivolte in Sardegna e potrebbe in gran parte ascriversi
direttamente al XII libro degli Annales di Ennio oppure al IV
libro delle Origines di Catone. Insomma, solo nel II
secolo a.C., i Romani tentarono di favorire un'assimilazione dei Sardi
nella romanità e spiegare la straordinaria civiltà nuragica alla luce di una
mitica origine troiana, che imparentava i Sardi con Enea, abbandonando così la
tradizionale visione greca imperniata su Eracle e i suoi figli, accompagnati da
Iolao. In questa visione, sembra possibile scorgere l’azione di Catone, ostile
alla grecità[86]. Il
mito delle origini troiane è troppo noto, così come la sua utilizzazione
strategica da parte romana nell'ottica dell'espansione nella penisola e nei
territori extra italici, in particolare in una grande provincia transmarina
come la Sardegna nei primi decenni del II secolo a.C. Il tentativo era quello
di utilizzare leggende locali o leggende ellenistiche già esistenti, al fine di
creare un apparentamento etnico tra Romani e alcune genti o città tale da
giustificare rapporti di alleanza, utili ai fini di azioni militari di conquista
o di assoggettamento di popoli e territori. Ma nel racconto del Bellum
Sardum di Livio riscontriamo un vero e proprio rifiuto del mito greco
degli Iolei, che non sarebbe sorprendente se venisse da Catone. Dunque i Romani
hanno utilizzato e se si vuole strumentalizzato nel corso dell’occupazione
della Sardegna leggende più antiche della diaspora troiana. In occasione del
recente Convegno di Cuglieri sulla Sardegna romana, credo che abbiamo
dimostrato che la narrazione del Bellum Sardum del 215 a.C.
riflette fatti storici reali e che deriva dalle Origines di
Catone, che sempra fare di Hampsicora e Hostus due sardi-libici alleati dei
Sardi Pelliti e dagli Annales di Ennio, che invece fa di
Hampsagoras e di suo figlio due esponenti del popolo degli Ilienses-Teucri
della Barbaria, imparentati con i Romani attraverso Enea e i
profughi troiani approdati sull’isola dopo esser stati sbattuti dalla tempesta
attorno alle Arae Neptuniae, a occidente di Trapani. Fu proprio
Ennio a tradurre la hierà anagraphé, la sacra historia del
siciliano Evemero di Messene e a portarla a conoscenza dei Romani attorno al
180 a.C. Evemero idealizzava l’isola di Pancaia, sede di una repubblica ideale:
uno stato collettivistico, gestito da sacerdoti-artigiani, coltivatori e
soldati. Evemero immaginava razionalisticamente che gli dei erano stati in
passato degli eroi, ai quali sulla terra e in vita veniva attribuita
un’adorazione divina. Se veramente c’è il rischio di una mitizzazione di fatti
reali, allora dovrebbe derivarne di conseguenza l’ipotesi che il poeta Ennio in
persona abbia mitizzato la guerra alla quale aveva partecipato e abbia
travisato volutamente gli avvenimenti da lui vissuti in Sardegna,
evemeristicamente chiamando le divinità ad affiancare i combattenti vittoriosi:
questa sarebbe un’ottima spiegazione per l’inverosimile intervento di Apollo
che compare solo nella versione di Silio Italico che risale proprio a Ennio e
poi a Sallustio. Possiamo per un momento pensare al tempio del Sardus
Pater ad Antas, in quello che è veramente il luogo alto dove è
ricapitolata tutta la storia del popolo sardo nell’antichità, nelle sue
chiusure e resistenze, ma anche nella sua capacità di adattarsi e confrontarsi
con le culture mediterranee. Il collegamento con un culto funerario di bronzo finale-prima
età del ferro potrebbe essere testimoniato ad Antas come a Mont’e Prama dalla
necropoli con le arcaiche sepolture a pozzetto analoga a quella di Su Bardoni[87].
Significativo appare il collegamento con l’area mineraria vicina. E’ necessario
far riferimento alla statua metallica di Sardus collocata dai
Barbari dell’Occidente, i Sardi, nel santuario di Apollo a Delfi. Scrive
Pausania il periegeta, richiamando il ruolo della Pitia nella colonizzazione
della Sardegna: Dei barbari d’occidente, le genti di Sardegna inviarono (a
Delfi) una statua di bronzo del loro eponimo (Sardus Pater)[88].
Pausania non colloca nel tempo questo avvenimento, che però sarà più
comprensibile se si pensa al ruolo dell’oracolo panellenico di Delfi nel corso
della guerra annibalica e all’antica azione del santuario greco nell'espansione
verso l'occidente barbarico, nel rapporto tra natura e cultura. Significativa è
poi la citazione da parte di Silio Italico dei Teucri-Ilienses dopo
la distruzione di Troia, alleati di Annibale nello scontro di Cornus: dice
Silio che affluirono in Sardegna anche i Troiani dispersi sul mare dopo la
caduta di Pergamo e costretti a stabilire lì le loro dimore[89]. Ma i
Troiani non sono Greci, come si è osservato. Se veramente la leggenda delle
origini troiane degli Ilienses va collocata cronologicamente
in epoca successiva alla conquista romana della Sardegna ma prima della
distruzione di Cartagine, tra il 234 ed il 146 a.C., siamo evidentemente di
fronte ad una tradizione più recente rispetto a quella ellenistica, che
ugualmente aveva tentato di appropriarsi delle monumentali testimonianze della
civiltà nuragica ed aveva collegato di conseguenza il popolo della Barbaria Sarda
ad Iolao, il nipote e compagno di Eracle, attribuendo a Dedalo la costruzione
dei Daidaleia, le torri nuragiche[90].
Le stratificazioni dei miti
Ci sembra che sia allora possibile
sintetizzare il sovrapporsi e l’intrecciarsi nel tempo di tre distinti
miti.
Innanzi tutto il mito di Eracle, Iolao Padre, i Tespiadi, eponimi del popolo sardo degli Iolei-Iolaei, un mito funzionale agli interessi greci di VI secolo per sostenere la fondazione di colonie sulle coste di Ichnussa-Sandaliotis. Piero Meloni, avviando nel 1942 questo filone di studi, arrivava a sostenere che forse tracce del culto di Iolao sopravvivevano in Sardegna, perché il mito dell’eroe potrebbe ricordare l’arrivo di elementi greci che importarono il culto di Iolao da Tebe e dalla Sicilia, in epoca assai precedente alla prima grande colonizzazione occidentale dell’VIII-VII a.C. Successivamente il mito del Sardus Pater figlio di Maceride africano, il demiurgo benefattore, che però sostanzialmente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: viene collegato col Sid punico ed è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle origini della vicenda di Hampsicora. Il mito che appare ri-funzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale: per Pettazzoni egli avrebbe i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio[91]. In terzo luogo, infine, il mito dei nostoi troiani, dell’arrivo in Sardegna di Teucri, collocati sulla sponda destra del Tirso al confine con la Barbaria, staccatisi da Enea dopo il naufragio alle Arae Neptuniae e provenienti da Troia: un mito collegato con l’esigenza romana di inizio II a.C. di creare una parentela etnica tra Sardi e Romani: un obiettivo apparentemente legato alle figure di Ennio e Catone, per le vantate origini troiane di Hampsagoras, dunque la sua appartenenza al popolo degli Ilienses della Sardegna (namque, ortum Iliaca iactans ab origine nomen: fiero del nome che faceva derivare da Troia), affermata da Silio attraverso fonti molto più affidabili e concrete di quanto non si sia immaginato. In particolare l’origine troiana è sottolineata dal richiamo ai Teucri effettuata da Silio ai vv. 361-362.
Innanzi tutto il mito di Eracle, Iolao Padre, i Tespiadi, eponimi del popolo sardo degli Iolei-Iolaei, un mito funzionale agli interessi greci di VI secolo per sostenere la fondazione di colonie sulle coste di Ichnussa-Sandaliotis. Piero Meloni, avviando nel 1942 questo filone di studi, arrivava a sostenere che forse tracce del culto di Iolao sopravvivevano in Sardegna, perché il mito dell’eroe potrebbe ricordare l’arrivo di elementi greci che importarono il culto di Iolao da Tebe e dalla Sicilia, in epoca assai precedente alla prima grande colonizzazione occidentale dell’VIII-VII a.C. Successivamente il mito del Sardus Pater figlio di Maceride africano, il demiurgo benefattore, che però sostanzialmente riconosce l’apporto di popolazioni libiche in Sardegna: viene collegato col Sid punico ed è in rapporto con l’arrivo di colonizzatori numidi in Sardegna, alle origini della vicenda di Hampsicora. Il mito che appare ri-funzionalizzato nell’età di Ottaviano e innalzato sul piano religioso ad Antas, attorno ad un’area sepolcrale: per Pettazzoni egli avrebbe i tratti dell’essere supremo, padre della nazione, guaritore delle malattie, difensore della lealtà, punitore dello spergiuro, anche se il tempio nascerebbe da una tomba per quel processo storico che dal culto dell’avo attraverso al culto dell’eroe assurge al culto del dio[91]. In terzo luogo, infine, il mito dei nostoi troiani, dell’arrivo in Sardegna di Teucri, collocati sulla sponda destra del Tirso al confine con la Barbaria, staccatisi da Enea dopo il naufragio alle Arae Neptuniae e provenienti da Troia: un mito collegato con l’esigenza romana di inizio II a.C. di creare una parentela etnica tra Sardi e Romani: un obiettivo apparentemente legato alle figure di Ennio e Catone, per le vantate origini troiane di Hampsagoras, dunque la sua appartenenza al popolo degli Ilienses della Sardegna (namque, ortum Iliaca iactans ab origine nomen: fiero del nome che faceva derivare da Troia), affermata da Silio attraverso fonti molto più affidabili e concrete di quanto non si sia immaginato. In particolare l’origine troiana è sottolineata dal richiamo ai Teucri effettuata da Silio ai vv. 361-362.
Apollo e Dioniso
Per inciso si osservi che
l’emergere prepotente di Apollo non è un fatto isolato nel mito: la freccia che
uccide Hostus si voleva fosse stata forgiata sul Rodope, un monte che prende il
nome dalla sposa di Apollo, madre di Cicone; e Apollo era anche lo sposo di
un’altra ninfa, Cirene, madre di Aristeo, l’eroe che dopo la morte del figlio
Atteone nato da Autonoe avrebbe colonizzato per primo la Sardegna, seguendo le
istruzioni ricevute proprio dalla madre ninfa. E fu la Pizia, l’oracolo di
Apollo a Delfi ad indicare ad Eracle la via della Sardegna per i figli avuti
dalle 50 Tespiadi: per Diodoro secondo l’oracolo relativo alla colonia, coloro
che avessero partecipato alla sua fondazione sarebbero rimasti per sempre
liberi. E Diodoro poteva constatare: è effettivamente accaduto che l’oracolo,
contro ogni aspettativa, abbia salvaguardato, mantenendola intatta fino ad
oggi, la libertà degli abitanti dell’isola. Nello scontro con l’eroe Hostus
Apollo protegge il poeta Ennio, caro alle Muse, considerato degno di competere
con Esiodo. Infine Apollo è chiamato in causa nel giuramento di Annibale di
fronte agli ambasciatori di Filippo V di Macedonia, accanto ad Iolao,
all’indomani di Canne[92]. Ma
il quadro mediterraneo è definito dal richiamo al viaggio degli Argonauti
(arrivati fino al fondo della grande Sirte), in particolare scontratisi in
Tracia col giovane re Cizico. Tracce del culto di Apollo sono documentate
successivamente a Karales (tempio sulla strada sacra che raggiungeva il praetorium provinciale,
a stare alla Passio S. Ephisii), a Tharros (il nome della città è
stato collegato a quello cretese di Apollo Tarraios), a Neapolis (in rapporto
al santuario di Marsias), infine a Nora (dove è ricordata l’interpretatio dell’oracolo
di Apollo di Claros da parte di Caracalla). Silio Italico sembra forse aver
voluto contrapporre Apollo a Dioniso, il dio della luce e del sogno al dio
dell’ebbrezza, con sullo sfondo la cultura simposiaca, i vasi destinati al
vino, la miscela di vino e di acqua nel cratere, come facevano i Sardolibici
isolani, che secondo Ellanico di Mitilene nel V a.C. (da cui Nicolò Damasceno
nell’età di Augusto) in viaggio non portavano con se altra suppellettile che
una tazza per bere il vino e un corto pugnale, kulix e machaira,
ispirati da Dioniso, come Simplicio riferisce per gli officianti le Apaturie,
al momento dell’ingresso dei giovani nell’efebia[93]. Come
non pensare a un collegamento di Dioniso con il fiume Tirso (il Thorsos di
Pausania), che delimitava il territorio occupato dalle popolazioni della Barbaria?
Più in generale penserei alla contrapposizione natura e cultura, mondo
barbarico e mondo civile greco e romano.
Ancora Cornus: Hampsicora e i Sardi Pelliti
Mentre Livio sostiene che
l’allontanamento da Cornus di Hampsicora era dovuto al suo viaggio tra i Sardi
Pelliti alla ricerca di alleanze e di rinforzi, Silio Italico appare meglio
informato e supera decisamente Livio il quale all’interno della galassia dei
Sardi Pelliti non distingueva ancora i celeberrimi populi storicamente
documentati in Sardegna, Ilienses, Balari e Corsi che emergeranno nelle Historiae solo
a partire dal 181 a.C., a proposito della rivolta di Marco Pinario Rusca,
domata quattro anni dopo dal padre dei Gracchi. Quaranta anni prima da
quest’ultima data Silio ricorda che il ribelle Hampsagoras, princeps di
un territorio che aveva come capitale la città di Cornus, vantava un'origine
troiana, perché originario del popolo degli Ilienses, popolo ora
localizzato grazie all’iscrizione sull’architrave del nuraghe Aidu Entos di
Mulargia nel Marghine e nel Goceano, dunque sui Montes Insani sulla
destra del Tirso[94]: lo
stesso popolo che Livio conosce più tardi e ricorda in guerra contro i Romani
dall'inizio del II secolo a.C. (con riferimento all'avanzata ad oriente delle
città costiere, tra la Campeda ed il Monte Acuto) e che nell'età di Augusto non
era ancora del tutto pacificato, almeno a giudizio dello storico
patavino: gens nec nunc quidem omni parte pacata[95]. Per
inciso il testo della singolare epigrafe incisa all’inizio della successiva età
imperiale sull’architrave del nuraghe Aidu Entos per contenere il nomadismo naturale
degli Ilienses conserva un esplicito riferimento agli iura
gentis, ai tradizionali diritti naturali delle comunità della Barbaria sarda,
riconosciuti dai Romani, con riferimento alle popolazioni sarde in contatto con
la cultura e l’economia romane[96].
Proprio all’inizio del II a.C.
scrissero le loro opere sia Ennio che Catone: riteniamo che solo un personaggio
di tale livello abbia potuto da un lato decidere di abbandonare l’antica
interpretazione ellenica che collegava il popolo del Marghine-Goceano agli
Iolei figli di Eracle, secondo una tradizione che è arrivata fino a Timeo da
una fonte molto più antica. E insieme decidere di salvare la sostanza, cioè
creare una parentela etnica tra Sardi e Romani, gli uni e gli altri immaginati
come provenienti da Troia, e ciò per favorire l’integrazione, sul modello
proposto secoli prima proprio dai Greci nel rapporto tra Eracle, i suoi 50
figli Tespiadi e gli Iolei della Sardegna interna. Pomponio Mela afferma
espressamente che gli Ilienses sono il popolo più antico
dell'isola (in ea [Sardinia] populorum antiquissimi sunt Ilienses)[97] e
dunque sicuramente si tratta di una tribù locale, in qualche modo
"autoctona" e barbara: credo che essa debba essere dunque decisamente
riferita ad ambito indigeno o meglio barbaricino, in un’area montuosa. Sappiamo
che Floro collegava gli Ilienses ai Montes Insani,
da identificarsi con la catena del Marghine o con il Montiferru, con
riferimento alla vittoria di Tiberio Sempronio Gracco nel 176 a.C.: Sardiniam
Gracchus arripuit. Sed nihil illi gentium feritas Insanorumque – nam sic
vocantur – immanitas montium profuere[98]. Al
Montiferru farebbe del resto pensare il geografo alessandrino Tolomeo quando
come si è detto nei pressi di Cornus indica i Kornénsioi oi
Aichilénsioi, i Cornensi ed i Pelliti coperti di pelli di capra,
testimoniando la conoscenza del mito ancora nel II a.C. Dunque la missione di
Hampsicora partito da Cornus per arruolare i giovani nel vicino territorio dei
Sardi Pelliti, ad iuventutem armandam, potrebbe essere
comprensibile, soprattutto se i Pelliti di Livio fossero quelli del Montiferru
nord-orientale o del Marghine. L’imprudenza di Hostus,adulescentia ferox,
si spiega meglio se il giovane immaginava l’imminente arrivo di rinforzi dai
villaggi vicini. Ne deriva ci sembra che Livio abbia seguito una fonte che ancora
non conosceva gli Ilienses, forse le Origines di
Catone, mentre Silio sembra conoscere meglio la realtà della Sardegna, seguendo
forse gli Annales di Ennio. Crediamo si debba ammettere che
Ennio e Catone avevano comunque sullo stesso episodio scritto cose notevolmente
diverse.
La vicenda sarda è stata
sottoposta di recente ad una severa critica da parte di Federico Melis[101]:
l’elemento fondamentale, il perno di tutta la dimostrazione demolitrice sarebbe
rappresentato dai nomi sospetti dei Sardorum duces, in particolare
di Hostus, in realtà proto-sardo, ed Hampsicora-Hampsagoras,
che unisce una radice libica Hampsic-/Hampsag- con un suffisso
mediterraneo –ora/-ura, paleo-sardo[102]. La
squenza Hampsicora (padre) e Hostus (figlio),
potrebbe trovare un prezioso parallelo nei due antroponimi Osurbal (padre)
e Asadiso (figlio) del cippo funerario del I secolo d.C. di
Ula Tirso (Orruinas), che ricorda il bimbo Asadiso Osurbali (filius)[103], con
nome sicuramente encorico, ma figlio di un Osurbal punico. Insomma,
il mito dei nove (oppure quarantuno) Tespiadi addormentati in Sardegna è stato
creato con l’intento di ridimensionare l’originalità della cultura nuragica,
che proprio nella statuaria eroica di Mont’e Prama trova la sua più coerente e
matura espressione. Ne deriva una visione rinnovata, ci pare, dell’identità della
cultura nazionale sarda, inquinata dal mito greco e romano, ma riconosciuta
proprio da Aristotele, con i suoi continui rapporti con le culture mediterranee
e in particolare con il Nord Africa.
Non sembri fuori luogo e
improprio parlare di “nazione Sarda” in questa sede, dal momento che
utilizziamo una espressione –natio - presente nella Pro
Scauro di Cicerone, sia pure con una sfumatura polemica e spesso in
alternativa a gens oppure agenus[104].
La natio dei Sardi era articolata in una molteplicità di populi,
i più celebri dei quali per Plinio erano gli Ilienses, i Balari e i Corsi.
Troviamo illuminante soprattutto il passo del De re rustica di
Varrone, proprio a proposito dei Sardi Pelliti alleati di
Cornus durante la guerra annibalica, avvicinati ai Getuli africani: quaedam
nationes harum (caprarum) pellibus sunt vestitae, ut in Gaetulia et in Sardinia[105].
Ancora una volta l’Africa mediterranea.
Note:
[1] Le
sculture di Mont’e Prama, a cura di Antonietta Boninu, Andreina Costanzi
Cobau, Luisanna Usai, Maro Minoja, Alessandro Usai, Gangemi, Roma 2014. Vd. anche
A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca, Giganti di pietra, Monte
Prama, l’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo,
Cagliari 2012.
[2] A.
Usai, Alle origini del fenomeno di Mont’e Prama. La civiltà nuragica
nel Sinis, in Le sculture di Mont’e Pramacit., Contesto, scavi e
materiali, p. 31.
[3]L.Piloni, Le
carte geografiche, cit., tav. CXX (Carta mineraria dell’ Isola di
Sardegna con l’ indicazione delle miniere concesse e in esplorazione a tutto il
1870: Miniere di Galena Argent(ifer)a e Blenda. 232 - Precone Bachis
Zedda–Seneghe; 233- Riu Olorchi-Seneghe. Miniere di Ferro. 412- Monte
Ferru-Seneghe; 413- Coa S’ Ambidda-Seneghe).
[4]G. M. Ingo,
G. Bultrini, G. Chiozzini, Microchemical Studies for locating the Iron
Ores Sources exploited at Tharros during Phoenician-Punic Period, Tharros
XXI-XXII, «Rivista di Studi Fenici», XXIII, supplemento, 1995, pp. 99-107; G.M.
Ingo et alii, Primi risultati delle indagini chimico-fisiche sui
materiali rinvenuti nel quartiere metallurgico di Tharros (Sardegna),
in L’ Africa romana, XI, Ozieri 1996, pp. 853-872.
[5]G. Garbini, I
Filistei. Gli antagonisti di Israele, Milano 1997, p. 115.
[6]G. Meloni, in
G. Meloni, P. F. Simbula, Demografia e fiscalità nei territori del
Regno di Sardegna al principio del XV secolo, XV Congreso de Historia de la
Corona de Aragon. Actas. Tomo I, 3. El poder real en la Corona de
Aragon (Siglos XIV-XVI), Zaragoza 1996, p. 168, n. 83; vedi anche F. C.
Casula, Dizionario storico sardo, Sassari 2001, p. 1863.
[7] S.
Fadda, M. Fiori, S. Pretti, The sandstone-hosted Pb occurrence of Rio
Pischinappiu-Sardinia, Italy: a Pb-carbonate end-member, “Ore Geology
Reviews” 12 , 1998, pp. 355–377; da ultimo: P. Mameli, G. Mongelli, G. Oggianu,
D. Rovina, First finding of early medieval iron Slags in Sardinia: a
geochemical-minerogical Approach to insights into ore provenance and Work
Activity, “Archeometry”, 2013.
[8]Per le fonti
relative allo sfruttamento delle miniere di ferro in Sardegna in età antica
cfr. Y. Le Bohec, Notes sur les mines de Sardaigne à l' époque romaine,
in Sardinia antiqua. Studi in onore di Piero Meloni in occasione del
suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 255-264.
[9]Ptol. III, 3,
6, cfr. P. Meloni, La geografia della Sardegna in Tolomeo (Geogr. III,
3, 1-8), “Nuovo Bullettino Archeologico Sardo”, III, 1986, pp. 207 ss.
[10]Liv.
30, 39, 2-3; Flor. I, 22, 35; Claud. De bello Gild. I,
482 s.
[11]E.
Pais, Sulla vera posizione dei Montes Insani, in Due
questioni relative alla Geografia antica della Sardegna, Torino 1878, pp.
3-11; B. R. Motzo, La posizione dei Montes Insani della Sardegna,
Atti del II Congresso Nazionale di Studi Romani, I, Roma 1931, pp. 385 ss.; M.
Gras, Les Montes Insani de la Sardaigne, in Mélanges
offerts à R. Dion, Parigi 1974, pp. 349 sgg.; G. Paulis,Sopravvivenze
della lingua punica in Sardegna, in L' Africa Romana, VII,
Sassari 1990, pp. 636 ss.; A. Mastino, I Montes Insani e gli Ilienses
della Sardegna interna: Montiferru, Marghine o Gennargentu ?, in A.
Mastino, Le testimonianze archeologiche di età romana del territorio di
Santulussurgiu nel Montiferru, AA.VV., Santu Lussurgiu. Dalle
origini alla "Grande Guerra", a cura di G. P. Mele, I, Nuoro
2005, pp. 137-139.
[12] FLOR.
I, 22,35.
[13] Per
tutti, vd. G. Oggiano, P. Mameli, S. Cuccuru, Indagine preliminare di
rocce carbonatiche relative ai reperti di Mont’e Prama, in Le
sculture di Mont’e Prama, Conservazione e restauro, a cura di A. Boninu e
A. Constanzi Cobau, Roma 2014, pp. 103 ss.
[14] A.
Usai, Alle origini del fenomeno di Mont’e Prama.cit., p. 58.
[15] A.
Mastino, La voce degli antichi, in Nur, La misterosa
civiltà dei Sardi, Milano 1980, p. 270; vd. poi Id., I miti
classici e l’isola felice, in in Logos peri tes Sardous, Le fonti
classiche e la Sardegna, a cura di R. Zucca, Roma 2004, p. 18: <<Le
suggestioni per l'archeologo sono infinite e sono state variamente colte dagli
studiosi, alcuni dei quali nelle costruzioni dedalee hanno visto gli edifici a
volta dei nuraghi o dei pozzi sacri; nelle grotte, nelle spelonche, nelle costruzioni
sotterranee ricordate da Diodoro e Pausania, i nuraghi a corridoio; nei
ginnasi, i recinti dei santuari nuragici; nei tribunali, le capanne del
parlamento o del senato; nelle tombe degli eroi, dove si svolgeva il rito del
sonno terapeutico, e nel fanum di Iolao sarebbe possibile
infine vedere le tombe di Giganti o anche le aree funerarie-cultuali sul tipo
di quella di Monti Prama-Cabras>>.. Cfr. I. Didu, Aristotele, il
mito dei Tespiadi e la pratica dell’incubazione in Sadegna, “Rivista
storica dell’antichità”, XXVIII, 1998, pp. 59 ss. in particolare a n. 17.
[16] I. Didu, I Greci e la
Sardegna. Il mito e la storia, Cagliari 2002, pp. 139 ss.; Id., Iolei
o Iliei ?, in Poikilma, Studi in onore di Michele Cataudella in
occasione del 60° compleanno, Firenze 2002, pp. 397 ss.; Didu, Aristotele cit.,
pp. 59 ss.; G. Minunno, A Note on Ancient Sardinian Incubation
(Aristotle, Physica IV, 11), in O. Loretz, S. Ribichini,
W.G.E. Watson, J.A. Zamona (edd.),Ritual, Religion, and Reason. Studies
in the Ancient World in Honour of Paolo Xella (Alter Orient und Altes
Testament, Band 404), Münster 2013, pp. 553-560. Gli studi sul passo di
Aristotele partono dall’Ottocento: vd. E. Rohde, Sardinische Sage von
der Neunschläfern, in “Rheinisches Museum für Philologie”, 35, 1880, pp.
157-163; Id., Zu der Sage von den Sardinischen Heroën,ibid., 37,
1882, pp. 465-468.
[17] Pseudo
Arist., 100; per Dedalo vd. Diodoro, IV, 30, 1: G.F. Chiai, Sul valore
storico della tradizione dei Daidaleia in Sardegna (a proposito dei rapporti
tra la Sardegna e i Greci in età arcaica), in Logos peri tes
Sardous, cit., pp. 112 ss.; vd. ora gli atti del
Convegno Internazionale di Studi “Daedaleia. Le torri nuraghiche oltre l’Età
del Bronzo”, Cagliari, Cittadella dei Musei, 19 aprile 2012 (in stampa).
[18] E.
Galvagno, I Greci e il “miraggio” sardo, in AA.VV., Da Olbìa ad
Olbia, I, a cura di A. Mastino, P. Ruggeri, Sassari 1996, pp. 149-163.
[19] Arist. Phys.,
IV, 11, 218 b, ll. 23-33 e 219 a, ll. 1-2.
[20] Aristotele, Fisica,
Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Luigi Ruggiu,
testo greco a fronte, Mimesis 2007, p. 460; vd. il testo e la traduzione alle
pp. 170 ss.
[21] Commentaria
in Aristotelem Graeca V,2 Them, in Arist. Phys. Parphrasis 314
(Schenkl).
[22] Commentaria
in Aristotelem Graeca XVII, p. 715 (Vitelli).
[23] De
anima, 49,2. Vd. J.H. Waszink, Quinti Septimi Florentis Tertulliani De
Anima (Suppl. Vigiliae Christianae, 100), Leiden-Boston 2010.
[24] Tutto
in Didu, I Greci e la Sardegna cit, pp. 94 ss.; Id., Aristotele, p.
59 ss.
[25] Didu, Iolei
o Iliei ?, cit., pp. 397 ss.
[26] Commentaria
in Aristotelem Graeca IX, pp. 707 s. (Diels).
[28] Eudemo,
in Simplicio, Commentaria in Aristotelem Graeca IX, pp. 707 s.
(Diels). La traduzione è di Didu, I Greci e la Sardegna cit, p.
180.
[29] Minunno, A
Note on Ancient Sardinian Incubation cit., pp. 554 ss.
[30] R.
Pettazzoni La religione primitiva di Sardegna, Piacenza 1912,
p. 147; G. Paulis, Le “ghiande maine” e l’erba del riso sardonio negli
autori greco-romani e nella tradizione dialettale sarda, in “Quaderni
di semantica”, I, 1993, pp. 9 ss.; S. Ribichini, Il riso sardonico,
Storia di un proverbio antico, Sassari 2003; Didu, I Greci e la
Sardegna, pp. 139 ss., con bibliografia precedente
[31] Cic., Q.
fr. 2,2, vd. P. Cugusi, Epistolographi Latini minores, Torino
1979, II, 2, frg. 21. Vd. A. Mastino, Olbia in età antica, in Da
Olbìa ad Olbia, 2500 anni di una città mediterranea, Atti del Convegno
maggio 1994, I, Olbia in età antica, a cura di A. Mastino e P. Ruggeri, Sassari
2004 (II edizione), pp. 55 ss.
[32] Val.
Max. I, 13; vd. anche Cic., divin. I, 17, 33 e 36; nat.
deor. II, 4, 10 sg.; Ps. Aur., Vict., vir. Ill. 44,2;
Plut., Marc. V,1 ss.; Liv.,Periocha XLVI. Vd. ora R.
Fiori, Auspicia ubana e militaria, in Gli auspici e i
confini, in “Fundamina”, 20 (1) 2014, pp. 309 ss.
[33] Vd.
N. Baran, L’expression du temps et de la durée en latin, in Aiôn,
Le temps chez les Romains, Paris 1976, pp. 1 ss.
[34] Ps.-Apollodoro
II, 7, 6.
[35] Didu, Aristotele
cit., pp. 59-84.
[36] La
Sardegna arcaica tra tradizioni euboiche ed attiche, in “Nouvelle
contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes”,
Cahiers du Centre J. Bérard, VI, Napoli 1981, pp. 82-91. Per le
imprecisioni, vd. p. 84, dove attribuisce ad Aristotele la notizia relativa
agli <<eroi addormentati in Sardegna>> e ai commentatori il fatto
cche <<gli eroi erano ammalati e si svegliarono guariti>>; ma vd.
Minunno, A Note on Ancient Sardinian Incubation cit., p. 554
n. 13.
[37] Ibid.,
pp. 553 ss.
[38] Pettazzoni La
religione primitiva di Sardegna cit., p. 87.
[39] CIL I,22 2226
e a.1986 add. III = X 7856 = ILS 1874 = ILLRP I,
41= IG XIV 608 = IGR I 511 = CIS I,1
143 = ICO Neop. 9. Vd. G. Tore, Religiosità semitica
in Sardegna attraverso la documentazione archeologica: inventario preliminare, in Religiosità
telogia e arte. La religiosità sarda attraverso l’arte dalla preistoria ad oggi,
a cura di P. Marras, Città Nuova editrice, Roma 1989, p. 48. Per il
collegamento tra riti di incubazione e culto di Asclepio presso i Nasamoni,
gli Augiliae ed i Sardi, vd. A. Russi, Un
Asclepiade nella Daunia. Podalirio e il suo culto tra le genti
daune, «ASP» 19, 1966, p. 281 e n. 18, con specifica attenzione per il
culto di Podalirio in Daunia.
[40] C.
Tronchetti, Nora, Sassari 1986, pp. 59 ss.; R. Carboni, “Il
dio ha ascoltato la sua voce e lo ha risanato”. Riflessioni sui culti salutari
nella Sardegna di età tardo-punica e romana, in R. Carboni, Ch. Pilo, E.
Cruccas, Res Sacrae. Note su alcuni aspetti cultuali della Sardegna
romana, Cagliari 2012, p. 38; S. Angiolillo, Falesce quei in Sardinia
sunt, in Ruri mea vixi colendo, Studi in onore di Franco Porrà,
a cura di A.M. Corda e P.G. Floris, Sandhi Editore, Cagliari, pp. 24 ss.
[41] A.
Mastino, Le relazioni tra Africa e Sardegna in età romana,
"Archivio Storico Sardo", XXXVIII, 1995, pp. 11 ss.
[42] S.
Settis, Laocoonte. Fama e stile, Roma 1999, p. 70.
[43] G.
Pesce, Due statue scoperte a Nora, in Studi in onore di A.
Calderini e R. Paribeni, Milano, pp. 284 -304.
[44] Aristoph., Pl. 732
ss.
[45] S.
Angiolillo, A proposito di un monumento con fregio dorico rinvenuto a
Cagliari. La Sardegna e i suoi rapporti con il mondo italico in epoca
tardo-repubblicana, in Studi in onore di G. Lilliu per il suo
settantesimo compleanno, Cagliari 1985, pp. 105 ss:, ; Ead., Falesce
quei in Sardinia sunt, in Ruri mea vixi colendo, Studi in
onore di Franco Porrà, a cura di A.M. Corda e P.G. Floris, Sandhi Editore,
Cagliari 2012, pp. 24 s.
[46] Herod.
IV, 172 e 190, vd. Pettazzoni La religione primitiva cit., pp.
8 e 141.
[47] Vd.
G. Ugas, G. Lucia, Primi scavi nel sepolcreto nuragico di Antas, in Atti
Convegno La Sardegna nel Mediterraneo fra il secondo e il primo millennio a.C.,
Selargius-Cagliari 1986, Cagliari 1987, pp. 255 ss., Un commento è in P.
Bernardini, Necropoli della Prima età del ferro in Sardegna. Una
riflessione su alcuni secoli perduti o, meglio, perduti di vista, Tharros
Felix 4, Roma 2011, pp. 354 ss. (sulle necropoli nuragiche con tombe a
pozzetto). Vd. ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella
necropoli di Mont’e Prama, in Le sculture di Mont’e Prama,
Contesto, scavi e materiali, cit., pp. 175 ss.
[48] IV
172, vd. Russi, Un Asclepiade nella Daunia, p. 281 e n.
18.
[49] Al
VI secolo pensava A. Brelich, Sardegna mitica, in Atti del
convegno di studi religiosi sardi, Cagliari 24-26 maggio 1962, Padova 1963,
pp. 23 ss.
[50] Le
sculture di Mont’e Prama. Contesto, scavi e materiali, cit., p. 174.
[51] Conclusioni, ibid.,
p. 364.
[52] Mela Chor. I,
39, vd. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., pp.
154 e 169 ss.
[53] V,
8, 45. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, cit., pp. 7
ss., p. 154, pp. 169 ss.; Didu, I Greci e la Sardegna cit., pp. 94
ss.; Id., Iolei o Iliei ? cit., pp. 397 ss. Il mito è
ridiscusso nel volume Lógos perì tês Sardoûs. La Sardegna
nelle fonti classiche, Atti convegno Lanusei, a cura di R. Zucca, Roma
2004.
[54] Pettazzoni, La
religione primitiva in Sardegna, cit., pp. 139 ss.
[55] Didu, Aristotele
cit., p. 63.
[56] Cic., Cato
maior 22, 81, cfr. Senof. Cyr. 8,7, 6. .
[57] De re r. II, 11, 11.
[58] LXXX,1.
[59] Cons. Ars
grammatica V, 386.
[60] Dione
Crisostomo, Orat. 72 Dindorf, II, p. 247, vd. Pettazzoni, La religione
primitiva in Sardegna, cit., p. 164.
[61] Pettazzoni., La religione
primitiva in Sardegna, cit., p. 168.
[62] Paus.
X, 17,7. Didu, I Greci e la Sardegna cit., pp. 66 ss., vd. ora
Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus,in c.d.s.
[63] A.
Mastino, T. Pinna, Negromanzia, divinazione, malefici nel passaggio tra
paganesimo e cristianesimo in Sardegna: gli strani amici del preside Flavio
Massimino, in Epigrafia romana in Sardegna. Atti del I Convegno di
studio, Sant’Antioco, 14-15 luglio 2007 (Incontri insulari, I), a cura
di F. Cenerini e P. Ruggeri, Carocci Roma 2008, pp. 41-83. Vd. già A.R.
Agus, Le pratiche divinatorie e i riti magici nelle insulae del Mare
Sardum nell’antichità, in Insulae Christi, Il cristianesimo
primitivo in Sardegna, Corsica e Baleari, a cura di P.G. Spanu, Oristano
2002, pp. 33 ss.
[64] A.
De La Marmora, Voyage en Sardaigne, II, Torino 1840, pp. 34 s. Vd.
R. J. Rowland, The Periphery in the Center. Sardinia in the
ancient and medieval worlds, BAR I.S. Oxford 2001, pp. 42 ss.; S.L. Dyson,
R. J. Rowland, Shepherds, Sailors & conquerors, Archaeology
and History in Sardinia from the Stone Age to the Middle Ages, Philadelphia
2007, pp. 82 ss.
[65] vd.
ora L. Usai, Le statue nuragiche, in Le sculture di Mont’e
Prama. Contesto, scavi e materiali, cit., pp. 219 ss.
[66] Vd.
R. Cameriere, S. De Luca, D. Basile, D. Croci, O. Fonzo, E. Pacciani, L’età
dei defunti di Mont’e Prama: un aspetto interessante e cruciale, ibid., pp. 201
ss.
[67] M.
Minoja, Conclusioni, ibid., p. 364.
[68] C.
Kerényi, Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna,
in Id., Miti e misteri, Torino 1950, pp. 407-429.
[69] Pausania
X, 17,5: Steph. Byz, Ethn. 21, 7 s., vd. Didu, I Greci
e la Sardegna cit., p. 100. Vd. A. Mastino, R. Zucca, Urbes et
rura. Città e campagna nel territorio oristanese in età romana, in Oristano
e il suo territorio, 1, Dalla preistoria all’alto Medioevo, a cura di Pier
Giorgio Spanu e R. Zucca, Roma 2011, pp. 578 ss. Vd. anche M. Gras, Ogrile,
in Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e
nelle isole tirreniche, XII, 1993, pp. 451 s.
[70] Livio
XXIII, 40,1.
[71] R.
Zucca, Insulae Sardiniae et Corsicae. Le isole minori della Sardegna e
della Corsica nell’antichità, Roma 2003.
[72] A.
Mastino, Nota su Olbia arcaica: i gemelli dimenticati, in Ministero
peri Beni e le attività culturali, Bollettino di archeologia online, volume
speciale, XVII, www.beniculturali.it/bao, pp. 1-7; R. D’Oriano, Olbia e la Sardegna
settentrionale, MAXH: la battaglia del mare Sardonio. Catalogo
della mostra, Oristano 1998-1999, a c. di P.-P. G. SPANU, R. ZUCCA,
Cagliari-Oristano 1999, pp. 205 ss
[73] Hist. II,
1 frg. 6 p. 63 Maurembr.; Paus. X, 17.
[74] G.
Ugas, L’Alba dei nuraghi, Cagliari 2005, p. 31.
[75] S.
Ribichini, Annibale e i suoi dèi, tradotti in Magna Grecia. Un
approccio comparativo, in La Calabria nel Mediterraneo. Flussi di
persone, idee e risorse, Atti del Convegno di Studi (Rende, 3-5 giugno
2013), a cura di G. De Sensi Sestito, Soveria Mannelli 2013, p. 33.
[76] I,
61.
[77] Arist.
fr. 97, vd. A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi 2010, p. 409 n.
127.
[78] Schol.
Pind., Ol., 9, 148 cd.
[79] Schol.
Pind., Ol. 7, 153 e, vd. Brelich, Gli eroi greci,
cit., p. 160.
[80] IX,23,1.
Diversamente Schol. in Pind. Pyth. IX, 137c per la tomba a Tebe
e Schol. in Pind. Nem. IV, 32, per il cenotafio,mnema,
in Sardegna.
[81] IV,30.
[82] V,
15.
[83] A.
Mastino, Analfabetismo e resistenza: geografia epigrafica della
Sardegna, in "L'epigrafia del villaggio", a cura
di A. Calbi, A. Donati, G. Poma (Epigrafia e Antichità, 12), Faenza 1993, pp.
457 ss.
[84] Pausania
X, 17, 6.
[85] SERV., ad
Aen. I, 108.
[86] Vd.
ora A. Mastino, Cornus e il Bellum Sardum di Hampsicora e Hostus storia
o mito ? Processo a Tito Livio, in Convegno internazionale di studi
“Il processo di romanizzazione della provincia Sardinia et Corsica”, Cuglieri,
26 marzo 2015, a cura di S. De Vincenzo, in c.d.s.
[87] Vd.
ora O. Fonzo, E. Pacciani, Gli inumati nella necropoli di Mont’e Prama,
in Le sculture di Mont’e Prama, Contesto, scavi e materiali, cit.,
pp. 175 ss.
[88] Paus.
X, 17, 1 e 18,1; vd. R. Zucca, Sardos in Lexicon
iconographicum mythologiae classicae, VII, 1, Zürich-München, 1990 [1994],
p. 693 nr. 3.
[89] Traduzione
di Maria Assunta Vinchesi, Silio Italico, Le guerre Puniche, BUR
2001.
[90] Diodoro,
IV, 30, 1, vd. gli atti del Convegno Internazionale di Studi “Daedaleia. Le
torri nuraghiche oltre l’Età del Bronzo”, Cagliari, Cittadella dei Musei, 19
aprile 2012 (in stampa).
[91] Pettazzoni, La
religione primitiva in Sardegna cit., pp. 204 ss.
[92] Pol.
VII, 9, 2-3; Liv. XXIII, 234, 1, vd. Pettazzoni, La religione primitiva
in Sardegna cit., p. 74.
[93] FgrHist. 90
F 103r; 4 F 67; NIC. DAM. Frg. 137 Müller.
[94] Mastino, Analfabetismo
e resistenza cit., e G. Paulis, La forma protosarda della
parola nuraghe alla luce dell' iscrizione latina di Nurac Sessar (Molaria),
in L' epigrafia del villaggio, cit., pp. 537 ss. Vd.
anche L. Gasperini, Ricerche epigrafiche in Sardegna (I), 5. Bortigali,
La scritta latina del nuraghe Aidu Entos, in Sardinia antiqua cit., pp. 303
ss. M. Bonello Lai, Il territorio dei populi e
delle civitates indigene in Sardegna, in La tavola
di Esterzili. Il conflitto tra pastori e contadini nella Barbaria sarda, a
cura di A. Mastino, Sassari 1993, pp. 161 ss.
[95] LIV.
40, 34, 13; vd. anche 41, 6,6 (a. 178) e 12,5 (a. 177).
[96] E.
Melis, Amsicora, Hostus e la Gens Manlia, Proposta di lettura
storico-religiosa di alcune pagine di Tito Livio sulla Sardegna, “Theologica
& Historica, Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna”,
XVIII, pp. 337 ss.
[97] Mela
II, 123.
[98] Flor.
I, 22,35.
[99] X,
17, 6.
[100] EE VIII
729, vd. A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro 2009,
pp. 77 e 81.
[101] Melis, Amsicora,
Hostus e la Gens Manlia cit., pp. 337 ss.
[102] .
Mastino, Zucca, Urbes et rura cit., pp. 411-601.
[103] R.
Zucca, Ula Tirso, Un centro della Barbaria sarda, Dolianova 1999,
p. 35; vd. anche p. 59 s. e 63.
[104] Pro
Scauro, 17,38: postremo ipsa natio, cuius tanta vanitas est ut
libertatem a servitute nulla re alia nisi mentiendi licentia distinguendam
putent. Cicerone usa in parallelo e come sinonimo di natio anche
il termine gens: 19, 15, 20 e 43; per genus, vd. 19,
25.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento