Archeologia. Le origini della
navigazione.
Riflessioni di Aldo Cherini
Il mare è costellato da
un immenso arcipelago di imbarcazioni di tutte le dimensioni e forme, che si
contano a migliaia, senza confini, tramandate grazie a ferree tradizioni
tribali tanto da giungere fino ai nostri tempi, o per meglio dire all’epoca
della fotografia, che ha assicurato una buona base documentaria agli studi
dell’etnografia nautica. Quando l’uomo primitivo, uscendo finalmente dallo
stato di sedentarietà, prese ad uscire dalla grotta e dal limitrofo ambiente
per portarsi sempre più lontano spinto dalla sete di appropriazione e dalla
curiosità, dovette fronteggiare ostacoli, difficoltà e pericoli d’ogni genere,
ma bastavano a fermarlo un corso d’acqua un po’profonda, lo specchio d’acqua
d’un lago pur tranquillo, un braccio di mare anche poco ondoso. Però
quell’essere era pur sempre un uomo che non mancava di intelligenza, di spirito
di osservazione, di capacità di adattamento.
L’acqua portava non di rado
fortuiti ammassi sradicati di vegetali e di tronchi d’albero, di carogne gonfie
di animali e chissà cosa ancora, che suggerivano l’idea della galleggiabilità
senza contare il fatto che un bel momento l’uomo stesso, ad imitazione di molti
animali, aveva imparato a
mantenersi a galla, a nuotare, prendendo un po’ di
confidenza con l’acqua.
Ha avuto così inizio la grande
avventura della nautica che si estese con una rete senza confini fino ad abbracciare
tutto il globo terracqueo. Il che è avvenuto in tempi e percorsi disparati date
le diverse condizioni ecologiche dei punti di origine e del contributo
attitudinale più o meno affinato ma ha segnanto un progresso che si è misurato
in termini di civiltà in quanto l’acqua ha rappresentato per millenni pressoché
l’unica via praticabile di contatto tra le culture emergenti.
La nautica rappresenta uno dei
principali settori di indagine degli etnologi con non poche pubblicazioni
specializzate, frutto di un lavoro assai impegnativo perché ha richiesto non di
rado faticosi viaggi e permanenze in zone non prive di pericoli.
L’etnologo svizzero George
Alexis Montandon ha tracciato il seguente grafico seguendo tre linee di
sviluppo con concatenazione finale riguardante due di esse:
I. a)-zattera
piatta b)– zattera concava c)– piroga monoscorza d)–
piroga monòssile e)– piroga doppia f)– piroga ad un
bilanciere g)– piroga a due bilancieri.
II. a)-
barca rotonda di pelle b)– kajak c)– umiak.
III. a)-piroga
di scorze cucite b)– piroga di tronco scavato con bordo rialzato di
tavole aggiunte c)– barca di tavole.
Battello a vela, derivazione
della piroga a due bilanceri e della barca di tavole.
Lo studioso Piero Dell’Amico
parte dai galleggianti fortuiti e individua anch’egli tre linee di sviluppo ma
con diverso percorso:
I. A)-tronco
d’albero cavalcato B)– monòssile semplice C)– monossile
ad un bilancere D)– monossile a due bilanceri. La
monossile progredisce con l’aggiunta di tavole per aumentare il bordo libero
arrivando alla barca a fasciame.
Compaiono la zattera di tronchi e la zattera con aggiunta di tavole arrivando
anch’esse alla barca di tavole.
II. -la
seconda linea, suggerita dalla carogna galleggiante col ventre gonfio,
reca:
A)- l’otre gonfiato come
sostegno individuale B)-la zattera di otri gonfiati C)- la zattera di orci o
anfore fittili.
Si sviluppano inoltre i natanti di pelle, di corteccia , le quffa , le barche
di pelle.
III. L’ammasso
di vegetali suggerisce la zattera formata da fasci di canne palustri e la
zattera di rami con l’esito finale in forma di imbarcazione.
Si reputa generalmente che il
tronco d’albero più o meno sagomato, incavato o scavato — cioè l’imbarcazione
monòssile — sia il primo manufatto a comparire in epoca preistorica aprendo la
strada allo sviluppo della nautica. Ciò non corrisponde al vero, in quanto la
monòssile preistorica rappresenta soltanto il tipo più solido pervenuto ai
nostri tempi attraverso il corso dei secoli anzi dei millenni (spesso in
cattivo stato di conservazione o frammentato) mentre di altri possibili modelli
non è rimasta traccia. Lo stato di conservazione dei reperti varia molto da
zona a zona secondo le caratteristiche del terreno di ricetto, meglio
conservati i manufatti più antichi per il fatto che il corpo è stato tenuto più
massiccio e le estremità lasciate più vicine alla linea di taglio trasversale
del tronco.
Va tenuto presente che il
nuovo non ha scacciato il vecchio, non del tutto, e che ancor oggi esistono
monòssili o imbarcazioni costruite ed impiegate regolarmente e tali da potersi
paragonare ai tipi preistorici o protostorici. Moltissime sono, infatti, le
piroghe (e non solo le piroghe) ancora usate nelle zone marginali di tutti i
continenti, dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest. Se ne trovano ancora perfino
in Europa. L’ultima monòssile (zòppolo) è stata costruita con un tronco di
frassino a Santa Croce presso Trieste alla fine del 1800 ed esiste tuttora
conservata tra le raccolte museali De Enriquez.
In fatto di centri genetici
identificati e studiati, più ricche si presentano le zone del Nord Europa, meno
quelle del Meridione e del Mediterraneo, dove le condizioni fisiche e
climatiche hanno favorito la presenza degli agenti disgregatori delle materie
organiche. Non mancano comunque interessanti esemplari di età romana, tardo
romana e medioevale non molto diversi dai più antichi.
Va considerato il fatto che la
costruzione di una monòssile comportava molto faticoso lavoro, il maneggio di
pesi elevati, l’impiego di utensili taglienti inizialmente non disponibili e
alquanta organizzazione tribale, mentre ad esempio un galleggiante
di canne palustri sagomato e tenuto insieme con semplici legature richiedeva un
lavoro molto più leggero. Lo stesso vale anche col galleggiante di pelle o di corteccia.
La monòssile, quindi, rappresenta un prodotto che si può considerare alquanto
sofisticato, un tipo di arrivo e non di partenza. Ma tuttavia diviene tipo di
partenza in un secondo tempo quando il suo bordo libero viene alzato con uno e
più corsi di tavole fino a relegare la parte monòssile alla funzione, si
direbbe, di chiglia trasformando il manufatto in una vera barca.
Lo scarso numero di reperti
archeologici disponibili non consente indagini esaustive né in fatto di
varianti tipologiche né di schemi probanti. Nella maggioranza dei casi è
incerta anche la datazione. Il reperto più antico sembra essere la monòssile di
Pesse della Drenthe (Olanda) databile ad oltre il 6000 a.C. che costituisce un
unicum in quanto lungo resta il periodo richiesto per arrivare a successivi
reperti, nel 4000 a C. (Mediterraneo Orientale) e nel 2500 a.C. (Italia). È,
questo di Pesse, un reperto completo, ma esistono parti frammentate reputate
più antiche ancora.
La letteratura paleontologica
fornisce sui procedimenti di costruzione solo elementi assai generici in forme
che vanno dal truogolo massiccio a tipi con fiancate sottili tenute aperte a
baccello con divaricatori trasversali, con parti prodiere ed anche poppiere
affusolate per offrire meno resistenza all’avanzamento. .
Uno dei primi problemi, forse
il primo, è stato la capacità di carico e la stabilità, risolto con
l’appaiamento di più tronchi, la zattera semplice, cui segue presto
l’applicazione di tavole alzate lungo i bordi più o meno sagomati ma senza
arrivare al battello vero e proprio. Caratteristica della zattera è la
proprietà al galleggiamento del materiale che la compone: cioè la zattera non
conosce la spinta idrostatica della barca, la carena, l’opera viva. Resta
zattera anche quando viene costruita (per esempio con giunchi) in forma tale da
sembrare una barca.. Dal più semplice e primitivo degli assemblaggi si arriva
infine alle forme complesse e più funzionali, quali la “jangada” dell’America
Meridionale capace di tenere bene il mare e le andature a vela. Vela che taluni
indagatori hanno ritenuta non confacente ma che la realtà dei fatti ha smentito
(grazie all’impiego delle “guaras”, lunghe derive mobili verticali infilate tra
i tronchi). La zattera ha rappresentato, si può dire, la forma di natante più
antica e più diffusa, capace di assicurare il trasporto di pesi quali nessuna
altra imbarcazione poteva imbarcare. Nessun continente ne è privo se non nelle
zone proibitive per bassa temperatura o per indisponibilità del legname.
Legname di tutte le specie e caratteristiche, dal tronco massiccio e quindi
pesante degli alberi d’alto fusto alla leggera balsa dell’America Meridionale,
dai grandi bambù delle regioni sud-orientali dell’Asia a quant'altro può
prestarsi consentendo una varietà di tipi e d’impiego molto vasta, anche con
apprestamenti compositi aggiuntivi, persino da diporto turistico come la
zattera fluviale di bambù della Giamaica..
Quasi tutti gli esemplari più
antichi presentano la caratteristica di essere tenuti insieme non con la
chiodatura ma con ingegnosi sistemi di legatura o cucitura per mezzo di
cordicelle vegetali o con tendini di animali. L’arte navale diventa, cioè, arte
dei nodi che si sviluppa in più direzioni: in Oceania è esistita e venerata una
divinità dei nodi, ma non mancano reperti di tal genere anche in Europa. Il
chiodo ha rappresentato un progresso per arrivare al quale è stato richiesto
molto tempo.
Interessante e ingegnosa
l’evoluzione della monòssile con l’applicazione di un bilanciere, o di due
bilancieri (uno per fiancata), o due scafi uniti bordo contro bordo (fatto che
suggerisce il traghetto di animali grossi) oppure appaiati con robuste
traverse, di cui sono ricche con una infinità di tipi e di esemplari le isole
del Pacifico, sconfinato, stupefacente e insuperato serbatoio di tipologia
nautica con soluzioni molto ingegnose, tutt'altro che “primitive”.
Segue una propria linea di
sviluppo anche l’ammasso di vegetali, per lo più di canne palustri o fluviali
(papiro) o anche di rami sistemati in certo qual modo in forma di zattera, in
fasci singoli o uniti insieme in forma di imbarcazione. Tipi piccoli, per un
solo occupante, o di una certa grandezza e capacità nautica. Punto di arrivo,
questo, non valicabile per la scarsa resistenza al degrado dei vegetali, pur
stante il positivo esperimento di una traversata atlantica effettuata nel 1970
da Heyerdhal . Da ricordare anche la nutrita documentazione proveniente dall’
Egitto predinastico e dinastico in fatto di flottazione sul Nilo. Un modellino
fittile trovato negli scavi di Al Fayum avrebbe rivelato l’età di 11.000 anni,
fatto che collocherebbe questo tipo in testa nella scala dell’antichità
nautica. Rispondenti a questa linea esistono ancora esemplari tutt’ora
impiegati nel vari continenti, specialmente nell’America Meridionale (il
“cabalito” e la “totoca”), e perfino nell’Europa mediterranea , quali “su
fassoni” del lago di Cabras in Sardegna, di uno o due modelli diversi, e la
“cannizza” dell’Abruzzo (Termoli).
Una terza autonoma linea di
sviluppo e di uso corrente in determinate località per lo più climaticamente
tropicali è rappresentato dall’otre di pelle gonfiato, elemento molto leggero
fornito di alto grado di galleggiabilità ma molto vulnerabile. Un vero e
proprio espediente quale sostegno individuale a contatto dell’acqua o impiegato
con file di più otri intelaiati in forma di zattera. Da notare che in
determinate località gli otri sono sostituiti da orci o anfore fittili.
Un tipo antichissimo e tutt’ora
esistente si trova nella Mesopotamia. È la “qufa” che compare nei bassorilievi
assiri e babilonesi, una specie di coffa circolare capace di un certo carico, e
la “kalek”, zattera da flottazione in discesa lungo il Tigri e l’Eufrate con un
ritorno a vuoto, smontata. Esemplari di un tipo similare si trovano anche dove
meno sarebbe da aspettarselo, nell’America dei pellirosse, nell’Asia Sud
Orientale, in India, che allinea un grande numero di diversi modelli d’ogni
genere quali un sub-continente (che tale può considerarsi l’India) può
consentire.
Barche vere e proprie di pelle
su intelaiatura elaborata si trovano, questa volta, nell’opposto climatico
delle zone fredde del Nord America nei due tipi esquimesi del “kajak”,
individuale, e dell’”umiak”, imbarcazione di una certa capienza. Notabili il
“curragh” irlandese e la “coracle” inglese che, una volta di più, costituiscono
la testimonianza di una continuità proveniente dal passato remoto. Numerosi i
graffiti rupestri della Scandinavia rappresentanti un tipo ascrivibile a questa
categoria con un notevole progresso tecnologico giungendo quasi ad un passo
dalle celebri “drakar”, le navi lignee vikinghe ricuperate dagli archeologi e
conservate con grande cura. Non mancano manufatti di questo genere nelle
zone interne della Cina e del Nepal.
L’America degli indios del Sud
e dei pellirosse del Nord è sede di interessanti canoe di corteccia d’albero di
un solo o di più pezzi, non distanti da questa terza linea di sviluppo, con
tipi la cui forma è stata riprodotta nelle moderne imbarcazioni di plastica,
comuni su ogni spiaggia, quasi in testimonianza di una continuità tipologica
non sparita perché ancora pratica.
Poteva essere la piroga ben
fatta ma a poco o nulla serviva se non si poteva farla andare nella direzione
voluta. Sulle acque basse il problema si risolveva, caso mai, a spintoni
puntando una pertica sul fondale. Ma poi? Nasceva la pagaia che, se di legno
duro, poteva servire anche ad altro. E sono proprio le pagaie che hanno
resistito di più nei giacimenti preistorici dove la piroga ha lasciato solo
l’impronta.
Quando i percorsi cominciarono
a farsi lunghi, la pagaia non bastava più e nasceva la vela sotto forma di rami
fronzuti, che tali sembra potersi interpretare una certa figurazione su di un
rasoio di bronzo trovato in Danimarca o su graffiti tracciati sulle rocce della
Scandinavia. Non viene a mancare una convalida etnologica d’epoca abbastanza
recente con l’autorevole testimonianza di Heyerdahl. L’uomo non aveva tardato,
infatti, a mettere a frutto l’osservazione che il vento faceva presa sul suo
corpo e curvava vistosamente le fronde degli alberi.
Lenta l’evoluzione anche in
questo caso con una grande varietà di forme geometriche, fisse o variabili,
partendo da quel quadrilatero delle prime applicazioni individuate sulle
imbarcazioni del Nilo d’epoca predinastica, impiegate dapprima col vento
spirante di poppa e poi adattate alle diverse andature per risalire il vento
fin dove possibile. Grande la varietà anche in fatto di tessuto e quindi di
peso, non esclusi certi tipi di stuoia di fogliame.
Particolare attenzione
dovrebbe portarsi nel campo delle figure allegoriche, sculture lignee o
composizioni pittoriche, a volte molto ricche, che sembra non aver attirato
ancora l’attenzione degli etnologi quanto meriterebbero e che compaiono su
molte imbarcazioni antiche ed anche moderne, costituenti una forma di mitologia
propria della gente di mare che il progresso non ha eliminato.
Le prime navigazioni erano
imprese individuali che comportavano una sfida agli dei, che il navigante
cercava di ingraziarsi con doni e simbologie esibite in più forme a bordo e a
terra. Vedi le ancore litiche rinvenute tra le rovine dei templi egiziani, le
incisioni mediterranee su pietra, le incisioni e i bassorilievi che in grande
numero si conservano nelle chiese, nell’interno o all’esterno, lungo le rive
marine dell’Europa Occidentale.
Ricchi di colore sono alcuni
tipi di giunche cinesi (vedi il mascone o specchio di prua, ad esempio, della
giunca di Hang Chow) e molte delle imbarcazioni dell’Indonesia.
Immagini varie colorate
vivacemente su gli scafi e sulle vele hanno caratterizzato fino ad epoca non
lontana anche le barche dell’Adriatico Occidentale dalla Puglia al Golfo di
Venezia e di Trieste, alle coste occidentali dell’Istria. Vanno citati l’
“angelo musicante” dei pescherecci di Chioggia ( decorazione tipica che compare
sulla prua dei bragozzi), gli “occhi apotropaici” che spiccano in rilievo sulla
panciuta prua dei trabaccoli e delle brazzere, gli onnipresenti cabotieri dello
stesso Adriatico, un’antichissima sopravvivenza, questa, proveniente dall’Egeo
omerico come testimoniato dalle pitture vascolari greche, presente anche sulle
giunche cinesi, sulle canoe indonesiane e sulle barche siciliane. L’occhio
apotropaico del natante vede i pericoli e sarebbe questa, se vogliamo, la più
antica idea che porterà poi al radar del nostro tempo.
Le vele dipinte è un argomento
che merita una trattazione a parte, non possibile in questa sede, per cui basti
citare la estesissima simbologia riscontrabile sulle vele dei pescherecci dell’Adriatico
occidentale, dalla Puglia al Golfo di Venezia e all’Istria, fatta oggetto di
ampio studio da non molto tempo, che salvo casi sporadici non trova riscontro
in nessuna altra parte del mondo con la sola eccezione delle vele delle
Filippine, che però presentano soltanto accostamenti cromatici a strisce.
Molto diffuso è anche
l’impiego delle “cimarole”, le bandierine segnavento alzate sulla cima degli
alberi, di cui vanno citate quelle dei bragozzi di Chioggia in fantasiose e
complicate composizioni di legno traforato e adornate con vecchie stoffe
variamente colorate, tanto fragili da venire esibite solo in porto quale
singolare pavese di famiglia.
Fonte:
http://www.webalice.it
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