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martedì 15 novembre 2011

Fenici e Punici in Sardegna - Paolo Bernardini - 1° parte di 2


Paolo Bernardini1
Fenici e Punici in Sardegna - Atti I.I.P.P.

Introduzione:
Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).

Fenici e Punici in Sardegna


La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X sec. a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, ancora legata nella tradizione degli studi alla problematica e per molti versi insoddisfacente nomenclatura della “precolonizzazione”, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume forme importanti nella cultura locale soprattutto con l’avvio del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo nelle botteghe
indigene della bronzistica figurata e della circolazione di un articolato bagaglio di imagerie vicino-orientale che trovano peculiari forme di adozione nell’artigianato autoctono, influenzando e condizionando, a livello più profondo, comportamenti sociali, modi di aggregazione, ideologie di potere. Nella rete dei commerci mediterranei e atlantici rivitalizzata dai Fenici sulla scia di tradizionali e accreditate rotte interne e internazionali gestite dalle popolazioni rivierasche dell’Occidente, la Sardegna appare profondamente coinvolta sin dalle fasi alte della seconda metà del IX sec. a.C. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia nel golfo di Alghero e organizzano con la comunità locale lo sfruttamento e la commercializzazione del vino del fertile territorio della Nurra. Il vino di Sant’Imbenia, trasportato in anfore di tipo levantino prima eseguite in impasto e poi tornite, talora decorate con motivi a cerchielli tipici del gusto indigeno, circola, a partire da tale data, nelle nuove frontiere degli insediamenti fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva, in parallelo con l’ampia attestazione in questi luoghi di brocche askoidi, anch’esse legate al consumo e all’uso del vino, e di altre forme significative di “contenitori” di merci come i vasi a collo. Anfore vinarie, prodotte nell’Algherese e in altre località dell’isola, brocche askoidi e vasi a collo sono presenti, oltre lo stretto di Gibilterra, in contesti databili appunto tra l’840 e il 775 a.C.; ma il fenomeno prosegue nel tempo, come attestano le brocche indigene provenienti da Cartagine, da Mozia e dall’isola di Creta. Esiste peraltro una prospettiva di studi che tenta di riportare la circolazione di questi materiali a orizzonti della fine dell’età del Bronzo o di primissima età del Ferro (Lo Schiavo 2005) anche coinvolgendo in questa prospettiva cronologica “alta” l’abbondante materiale sardo attestato in Etruria: Etruria e Sardegna. Non meno significativa è la presenza negli avamposti fenici dell’estremo Occidente di teglie, semplici o a base forata, la cui attribuzione a fabbriche della Sardegna, è sempre più verosimile e che introducono, accanto al tema della partecipazione sarda ai traffici fenici, prospettive di possibile stanzialità di gruppi di etnia sarda nelle nuove frontiere atlantiche. La prima metà dell’VII a.C. registra, nelle regioni costiere della Sardegna centro-meridionale, la presenza di nuclei insediativi fenici saldamente organizzati; i “fuochi” principali di irradiazione si individuano, sulla base dei dati conoscitivi attualmente disponibili, nel golfo di Palmas e in quello di Oristano; ma vi sono altre aree strategicamente sensibili, come la costa olbiese, dove sorge un importante santuario di Melqart che le ricerche iniziano a farci intravedere, e naturalmente l’ampia e appetibile insenatura del golfo di Cagliari, porta delle piane iolee dei Campidani e sede delle opulente comunità indigene del retroterra, che assumono
precocemente modelli culturali orientali. La formazione nell’isola di gruppi emergenti, che è forse ancora improprio, per lo stato delle conoscenze, definire come “aristocrazie”, ma che certamente partecipano a pieno titolo del mutamento epocale che nel Mediterraneo antico determina l’affermazione del potere gentilizio e di classe, trova nuovi motori di sviluppo e di accelerazione nel graduale inserimento nella nuova rete dei traffici occidentali e, soprattutto, attraverso la costante e profonda interazione con i centri fenici costieri. Sulky, nell’isola di Sant’Antioco, è quello meglio noto per l’imponenza e la omogeneità della documentazione restituita dagli scavi dell’abitato e del santuario tofet; ma non meno importante è la testimonianza della precocità del fenomeno di irradiazione nella regione interna sulcitana: da Monte Sirai al Nuraghe Sirai, dal nuraghe di Tratalias a quello di Tzirimagus per volgersi di nuovo alla costa con San Giorgio di Portoscuso e all’installazione insulare con San Vittorio di Carloforte. Nel golfo oristanese, i siti di Othoca, Tharros e Neapolis governano gli approdi costieri e organizzano una penetrazione capillare verso quei Campidani centrali, che studi recenti individuano come uno specifico e vitale di28 stretto della Sardegna dell’età del Ferro; i territori oggi di Cabras, di San Vero Milis, di Narbolia, di Nuraxi Nieddu restituiscono infatti per questa età insediamenti abitativi, installazioni di santuario, arredi liturgici scolpiti quali i modelli di nuraghe e seriazioni ceramiche di rilievo, come nel caso delle brocche askoidi, delle pintadere, dei calici su lungo stelo fittamente decorati, nonché di una produzione bronzistica figurata di altissimo rilievo. Nei grandi santuari dell’etnia indigena, soprattutto quelli in collegamento con la grande via d’acqua del Tirso che facilita i percorsi verso l’interno, circolano prestigiosi manufatti prodotti o veicolati dai Fenici: che siano i vasi laminati in argento del Nuraghe Nurdole di Orani, le imagines orientali di Santa Cristina di Paulilatino o di Olmedo o i supporti di torciere di S’Uraki. In questi luoghi vi sono opere di bottega locale in cui fortemente radicati appaiono modelli e iconografie orientali: dalla trasposizione indigena dello schema del faraone trionfante al nuraghe Nurdole ai fieri arcieri corazzati di Sant’Anastasia di Sardara che pure ha restituito una importante serie di bacili.
I santuari indigeni, e insieme la ricca e variopinta ceramica dei centri interni del Cagliaritano o la straordinaria produzione in bronzo antropomorfa, testimoniano la lunga durata e la vitalità della società indigena dell’età del Ferro che approda a versanti cronologici di piena fase orientalizzante e dell’arcaismo; oltre le produzioni degli artigiani locali e la seriazione di prodotti di importazione o imitazione fenicia, aramaica e siriana, fanno fede del processo i quadri distributivi dei prodotti etruschi, in parte mediati dal commercio fenicio, in parte frutto di contatti diretti con le comunità sarde: bacili bronzei, spesso decorati con figurine di leone, fanno la loro comparsa di nuovo presso i grandi centri cultuali mentre i bronzi figurati e le ceramiche sardi trovano ampia attestazione nei contesti etruschi e campani tra il IX e il VI a.C. Alle porte del golfo di Oristano, tra l’VII e il VII a.C., nel celebre santuario di Monti Prama che ha mosso in questi ultimi tempi le febbrili corde di una metastorica ideologia identitaria e indipendentista, artigiani di tradizione e cultura orientale hanno saputo interpretare le esigenze di una committenza emergente, interessata a dare forme scultorea alle storie e alle saghe delle proprie famiglie; ma altrettanto straordinario è il processo continuo di interazione che percorre le diverse etnie nei centri di fondazione fenicia. A Sulky vasi di fattura e tradizione indigena si spartiscono, mischiati al vasellame fenicio, gli anfratti rocciosi del tofet mentre comunità etnicamente miste, meticcie, vivono quotidianamente nei grandi insediamenti di Monte Sirai, del Nuraghe Sirai o sull’altura fortificata di Tzirimagus; la necropoli di Bitia restituisce stiletti in bronzo di produzione locale così come avviene per le necropoli di Tharros e di Othoca, dove un’altra enclave meticcia sorge sull’altura della Cattedrale. Prende avvio in questi secoli, tra il IX e il VII, quel processo di formazione di comunità sardofenicie che Cartagine, proiettata nel suo itinerario di espansione mediterranea, dovrà spezzare e rifondare, su basi e strategie del tutto differenti, nel VI a.C., all’indomani della battaglia del Mare Sardonio, l’episodio di un conflitto più vasto e generalizzato, in cui Greci, Etruschi e Cartaginesi mutano i profili del Mediterraneo arcaico. I quadri fisici e morfologici, palcoscenico dell’incontro e dell’interrelazione, sono esemplari, per sempre fissati nel mito delle fondazioni fenicia a iniziare dalla leggenda di Tiro, nata sulle rocce erranti per volere di Melqart: che si tratti del paesaggio di terre mobili, fatto di piane fertili, benedette ma precarie, di esili istmi e potenti speroni di roccia impiantati nelle viscere del Mediterraneo che contrassegnano l’habitat del golfo oristanese o della regione fenicia del Sulcis, che si articola in morfologie insulari raccordate alla terraferma da lingue di terra frammentate da vie d’acqua fluviali o lagunari (Sant’Antioco e Bitia) o del tutto autonome (San Vittorio nell’isola di San Pietro), in morfologie di coste basse e aperte, contornate e intersecate da stagni e lagune (S. Giorgio di Portoscuso). È il paesaggio che favorisce gli approdi e le soste; la sua mobilità, che è anche assenza di confini e di limiti, prelude agli incontri, agli scambi; è l’orizzonte fisico e culturale che definisce, nel tempo e nello spazio, il divenire dell’emporia. Ma vi sono anche le fasce fertili del Campidano, le ubertose piane iolee, quelle del mito e quelle della realtà storica, segnate dall’oro del grano, le terre abitate e governate nei primi secoli dell’età del Ferro da quelle ricche e floride comunità indigene eredi della antica tradizione nuragica e pronte ad accogliere gli stimoli e le novità portate dai mercanti stranieri e ad interagire con essi. Questa rapida sintesi, condotta sul versante “fenicio” della ricerca e della riflessione e che prevede la vitalità ininterrotta di una cultura indigena, che si voglia o meno chiamare nuragica, nel passaggio dal Bronzo al Ferro e fino ai periodi orientalizzante e arcaico, si scontra, in modo al momento inconciliabile, con l’orientamento di numerosi studiosi di preistoria e protostoria sarda i quali tendono non soltanto a ritenere concluso lo sviluppo della civiltà nuragica al chiudersi dell’età del Bronzo ma riportano gran parte dei materiali di cui si è finora trattato sotto il profilo dell’interazione, a fasi precedenti della stessa età del Bronzo, svuotando in gran parte i quadri culturali del Ferro, in cui le attestazioni di manufatti indigeni, sia in metallo che in ceramica, sarebbero da interpretarsi come riutilizzi e tesaurizzazioni, quindi come “falsi contesti”. Non è possibile qui entrare nei dettagli di una questione così intricata e complessa, sulla quale peraltro l’imminente congresso presenta numerose discussioni specifiche (ma ricordo i quadri ricostruttivi generali in Ugas 1998 e Torres et alii 2005 e il recente congresso di Villanovaforru, attualmente in corso di pubblicazione: Nuragici e gli Altri); ci si limiterà a ribadire, dal versante fenicio, che le indicazioni stratigrafiche e di contesto che presentano associazioni stringenti con oggetti sardi, fenici e greci sembrano scogli assai ardui da superare.

Nelle immagini (tutte dell'autore): i centri fenici e punici nel Mediterraneo

...domani la 2° e ultima parte.

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