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lunedì 21 novembre 2011

Fenici e Punici in Sardegna - 2° e ultima parte - Paolo Bernardini

Paolo Bernardini
Fenici e Punici in Sardegna - Atti I.I.P.P.


Dopo la prima parte, pubblicata qualche giorno fa, oggi inserisco la conclusione dell'intervento del Prof. Bernardini, scusandomi per il contrattempo legato al virus che ha infettato il mio p.c. e mi ha impedito in questi giorni di legare le due parti. Buona lettura.


Nell’ambito di quella che, con accezione approssimativa e generale, viene definita “corrente rialzista”, alcuni studiosi lavorano attualmente su una prospettiva conciliativa che, partendo dalla valutazione di una sostanziale continuità della cultura nuragica fino a tutto l’VII a.C. e dalla difficoltà oggettiva di separare esperienze e tradizioni culturali e tecnologiche nel passaggio dal Bronzo al Ferro, confermano sostanzialmente al IX e all’VIIa.C. il processo di incontro e interrelazione tra Fenici e indigeni in Sardegna; la cultura nuragica, intesa come cultura vitale, specifica e autonoma sarebbe però in via di esaurimento già entro il secolo successivo. La crescita degli insediamenti fenici costieri e interni tra la fine del VII e il VI a.C. è soprattutto affidata alla registrazione delle necropoli: principalmente Monte Sirai e Bitia da una parte, Tharros e Othoca dall’altra. Nei corredi alla ceramica fenicia si accompagnano ora, in modo abbondante, le importazioni di ambito etrusco e greco: si tratta, rispettivamente, di buccheri e ceramica etrusco-corinzia, di prodotti corinzi e greco- orientali, che trovano anche una buona circolazione in ambito indigeno, attraverso forme di commercio per le quali il tramite fenicio non può considerarsi esclusivo: i casi più noti sono le coppe “ioniche” di Monastir o i buccheri di Furti, senza dimenticare la grande frequenza di prodotti di questo genere attestata nella Sardegna meridionale e che, come nel caso di San Sperate, attende una pubblicazione esaustiva. L’insediamento di Focei a Olbìa, la crisi strutturale dei modelli insediativi fenici in area atlantica e mediterranea, l’emergere prepotente di Cartagine sullo scenario occidentale, il venir meno dell’energia imprenditoriale tiria nella madrepatria preludono intorno alla metà del secolo, allo scontro epocale nelle acque del mare sardo e al mutamento di orizzonte e di ideologia che segna il passaggio a una nuova epoca della storia mediterranea. L’intervento cartaginese in Sicilia e in Sardegna, l’intera politica mediterranea del centro africano tra il 540 e il 509 a.C. –anno del primo trattato con Roma, l’altra nuova realtà mediterranea in fase di espansione– appartengono a un disegno che mira alla formazione di un ben preciso predominio politico. Cartagine ha avviato questa strategia nella prima metà del secolo innanzitutto in terra africana attraverso la progressiva formazione di uno stato forte e solidamente impiantato, fornito di un’ampia estensione territoriale. La creazione di questo potente stato nord-africano è la premessa all’ulteriore espansione mediterranea; i suoi promotori sono la ricca aristocrazia cartaginese sempre più orientata verso l’acquisizione di un potere familiare e personale. Ad una intraprendente personalità dell’aristocrazia cartaginese della prima metà del V a.C., Annone, una fonte antica attribuisce il merito di aver trasformato i Cartaginesi da Tirii (cioè Fenici ) in Africani (cioè, in potenza egemone mediterranea, ben radicata in terra d’Africa). Ad altri due personaggi della stessa classe aristocratica è attribuita l’iniziativa della conquista della Sardegna: le spedizioni di Malco e di Magone, tra il 545 e il 535 la prima, tra il 525 e il 510 la seconda, realizzano quel parziale e ancora precario controllo politico e militare dell’isola sarda sancito alla fine del secolo dal già ricordato trattato con Roma. Il contesto generale dei rapporti mediterranei di Cartagine rivela il reale significato storico della conquista dell’isola; non si tratta certamente di accorrere in aiuto dei vecchi empori fenici minacciati dai greci o dagli indigeni ma di un disegno legato a una strategia più ampia, scandita da importanti avvenimenti “internazionali. Negli anni intorno al 540 a.C. Cartagine si impegna a fianco degli Etruschi nella battaglia del mare sardo contro i Focei mentre avvia il consolidamento delle proprie posizioni nel settore occidentale della Sicilia; nel giro di alcuni decenni, importanti centri dell’area tirrenica sono legati a doppio filo con la città punica –si pensi alla politica filo cartaginese del tiranno di Caere, Thefarie Velianas, testimoniata dalle lamine di Pyrgi ma anche al partito filo punico attestato dalle fonti nella stessa Roma, nelle fasi di passaggio dalla fase monarchica a quella repubblicana. Il passaggio della Sardegna alla fase punica non è semplicemente un graduale sviluppo della cultura fenicia verso esiti dipendenti in sempre maggior misura dalla matrice nord-africana di Cartagine; è, al contrario, applicazione dura e traumatica di una realpolitik di cui molti centri fenici dell’isola dovranno subire dolorose conseguenze. Il riconoscimento critico della profonda diversità tra la fase fenicia e quella punica è emerso attraverso l’analisi e la ricerca archeologica nell’evidenza delle diverse ritualità funerarie legate alle rispettive fasi culturali e alla netta distinzione delle relative produzioni artigianali. Ancora l’archeologia ha chiarito in senso storico, oltre la testimonianza dei manufatti, quanto devastante sia stato per vari centri fenici dell’isola l’imposizione dell’egemonia cartaginese nel corso del VI secolo: la distruzione del santuario di Cuccureddus di Villasimius (530 a.C.), il brutale annichilimento dell’insediamento di Monte Sirai alcuni anni dopo (520 a.C. circa) indicano con evidenza, insieme al ripiegamento di altri importanti centri fenici come Sulci o Bitia, quanto duro sia stato lo scontro con Cartagine. Studi recenti tendono a ridimensionare l’entità dell’impegno militare cartaginese nell’isola, valorizzando in alternativa l’importanza dello scambio commerciale come veicolo dell’egemonia culturale della città africana; ma l’intervento militare e la fisionomia archeologica complessiva disponibile per gli orizzonti di fine VI-inizi V sec. a.C. non consentono rimozioni totali, ivi comprese quelle tentate a livello di analisi testuale nei confronti di Malco. Il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione in fossa o in cista litica all’inumazione in tombe costruite e della produzione ceramica e artigianale in genere, con l’apparizione delle protomi, delle maschere, dei gioielli in oro, delle stele nei tofet documentano la portata del mutamento. Il cambio radicale della cultura materiale può infatti spiegarsi almeno in parte come esito di un fenomeno di trasferimento forzoso di popolazione, con l’immissione di massicci nuclei di genti nord-africane nell’isola. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria e la definizione di nuovi rapporti economici e commerciali con gli interlocutori mediterranei che privilegiano in questo caso i mercati ateniesi. Nel corso dei due secoli successivi, i nuovi modelli diventano sempre più evidenti: si assiste alla penetrazione capillare degli spazi fertili dell’isola, che appare sempre più intensa e parcellizzata man mano che la ricerca archeologica procede nelle sue
indagini nell’area centro-meridionale e centro-settentrionale dell’isola. I modelli insediativi prevedono una costellazione di piccole comunità ma anche di grossi borghi siti in luoghi particolarmente favorevoli alla viabilità interna e allo sfruttamento sia delle risorse agricole (ad esempio, Monte Luna di Senorbì) sia delle risorse minerarie (ad esempio, l’insediamento–santuario di Antas di Fluminimaggiore). Ma vi sono anche la creazione di nuovi importanti centri costieri o sottocosta come le città di Neapolis, nata dal potenziamento di un antico emporio fenicio, o di Olbia, lo sviluppo di antichi empori di fondazione fenicia strategicamente utili come collettori di risorse provenienti da aree interne di particolare fertilità, come Tharros e Karalis. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata e di grande spessore che emerge negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.). E’ significativo che la nuova dimensione mediterranea di Cartagine, preludio allo scontro con Roma, proceda di pari passo con il progressivo adeguamento della città africana, tra il IV e il II a.C., ai modelli culturali e ideologici delle fasi iniziali e mature dell’ellenismo, il cui riflesso nella produzione artigianale appare evidente. Dietro la grande fioritura della Sardegna punica in questi secoli esistono certamente, insieme al perseguimento di obiettivi economici, fenomeni legati al prestigio, al potere clientelare e all’evergetismo delle potenti famiglie dell’aristocrazia punica. Sotto questa luce si comprendono compiutamente la ripresa economica e culturale di antichi centri fenici come Sulky, la raffinatezza evidente nella cultura materiale di nuove fondazioni puniche come Neapolis, o la ristrutturazione, nel corso del IV a.C., di settori importanti dei centri urbani come i santuari tofet e i principali templi cittadini o, infine, l’edificazione delle cinte murarie o di delimitazione urbane che nella Sardegna punica si incontrano tutte in questa fase cronologica e culturale. Alla fine del II a.C. (238 a.C.) la Sardegna diventa possedimento romano; le continue e ripetute ribellioni che accompagnano la fine del secolo non riusciranno più a mutare la situazione. Certamente l’isola non perderà, con i nuovi padroni, una tradizione culturale ormai saldamente acquisita; indagini sempre più numerose e puntuali affrontano il problema complesso della produzione artigianale di queste fasi storiche nelle quali i modelli vincenti dell’ellenismo non riescono ad annullare le antiche matrici orientali della cultura fenicia e punica; su un piano diverso, l’uso della lingua punica in iscrizioni ufficiali ancora nel II d.C. dimostra chiaramente quale fosse ancora la tradizione culturale più vitale nell’isola pur dopo secoli di dominazione romana. Una valutazione complessiva sullo stato della ricerca sulla problematica dell’incontro tra Fenici, Cartaginesi e mondo indigeno di Sardegna deve in primo luogo sottolineare due punti che hanno fortemente condizionato gli sviluppi delle indagini: in primo luogo, la concentrazione degli studi sui luoghi “classici” dell’insediamento fenicio e punico, cioè i grandi centri costieri e quelli dell’immediato retroterra coloniale con una generale sottovalutazione per la ricomposizione di quadri territoriali più ampi e organici; in secondo luogo, la sostanziale “solitudine” e impermeabilità con la quale studiosi di cose fenicie ed esperti di archeologia nuragica hanno proceduto e procedono nella loro ricerca, lontani da orizzonti comuni e condivisi di indagine che permetterebbero approcci più puntuali e organizzati alla definizione dei “paesaggi” storici dell’età del Ferro della Sardegna. Ancora applicata marginalmente risulta poi, in campo metodologico, la disciplina dell’archeologia dei paesaggi in ambito di analisi e di ricognizione (Garau 2006), così come pesano come macigni le grandi e disperanti lacune che oscurano interi settori territoriali: basti ricordare il silenzio della costa orientale, pure sede di un insediamento come Sarcapos, neppure sfiorato dalle indagini, o quello che, sulla costa opposta, avvolge Bosa, da cui proviene un frustulo epigrafico fenicio di altissima antichità ma anche l’esiguità dei dati che distingue Cagliari e il suo golfo, senza dimenticare la fase davvero iniziale della ricerca legata ai siti fenici del golfo oristanese, non solo in rapporto a Othoca e a Neapolis ma anche in relazione al sito di Tharros, pure apparentemente corredato da una documentazione imponente; fa fede a questo riguardo la recente attività di prospezione avviata nella regione di Mistras alla ricerca del primitivo porto tharrense con la rivoluzionaria prospettiva di localizzazione della fenicia Tharros in area esterna a quella della Tharros polis di età punica e romana (Zucca cds). Questa situazione ancora “marginale” della ricerca si muove inoltre con un pericolo costante: quello di dare valore di modello a situazioni o siti che sono semplicemente corredati da maggiori informazioni ma che, non per questo, debbono pretendere ipso facto il credito dell’esemplarità; nella ricerca sui Fenici in Sardegna e sui processi di interazione con le comunità indigene e pure con la necessità, che è anche dovere e impegno della ricerca, di proporre quadri preliminari di riferimento e di lettura critica, prudenza e misura sembrano quanto mai opportune.

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