delle acque". E il nostro illustre conterraneo - che ha speso gran parte della vita a scoprire, inseguire ed interpretare le difficili piste della storia e della cultura dei nostri avi nuragici - aggiunge e sottolinea che "il culto idrico dei protosardi si rivolgeva all'acqua del cielo, come eredità d'una religione della pioggia propria delle genti a civiltà agricola dell'età prenuragica; ma riguardava, in prevalenza, l'acqua di 'vena': quella, cioè, delle fonti, dei pozzi, delle sorgive, a cui si abbeveravano i pastori e le loro greggi".
domenica 23 novembre 2014
Storia, leggenda, arte e culto dell'acqua in Sardegna e nel mondo
Storia, leggenda, arte e
culto dell'acqua in Sardegna e nel mondo
di Efisio Lippi Serra
Il problema dell'acqua è fra i più antichi
della millenaria, tormentata, storia della Sardegna. In questo articolo non v'è
alcuna pretesa di indicare soluzioni all'annoso problema che da sempre angustia
la nostra comunità e soffoca la nostra economia (specie agricola), ma il
desiderio di provocare una riflessione su quel che l'acqua ha rappresentato e
rappresenta nella storia dei popoli; nonché nella leggenda, nel culto e
nell'arte della ultra millenaria storia della Sardegna.
Tutti sono consapevoli che l'acqua, fra gli
elementi della natura, sia il più importante; tanto è vero che, nel comune
sentire, non può esserci vita in assenza di acqua! E all'acqua, poeti e
scrittori d'ogni tempo e latitudine hanno dedicato versi e pagine immortali.
In una recente relazione, Margherita Satta ha
ricordato che Mircea Eliade, nella sua "Storia delle Religioni", ha
affermato che "l'acqua è fonte e origine della vita umana" e vi ha
descritto il ruolo che l'acqua ha avuto ed ancora ha in alcune culture del
mondo.
Né possiamo tacere quanto sostengono autorevoli
studiosi sul ruolo e il culto dell'acqua nel "preistorico" Sardo. Il
Lanternari ha detto che "il culto preistorico dell'acqua nell'Isola si
atteggia in un aspetto particolare che è il culto delle sorgenti". Per il
Taramelli il culto delle grotte, nell'età del bronzo, era in Sardegna così
intenso da essere considerato "patrimonio fondamentale della stirpe
Sarda".
Per Giovanni Lilliu "il culto centrale e
principale dei protosardi dell'età dei nuraghi era proprio quello
delle acque". E il nostro illustre conterraneo - che ha speso gran parte della vita a scoprire, inseguire ed interpretare le difficili piste della storia e della cultura dei nostri avi nuragici - aggiunge e sottolinea che "il culto idrico dei protosardi si rivolgeva all'acqua del cielo, come eredità d'una religione della pioggia propria delle genti a civiltà agricola dell'età prenuragica; ma riguardava, in prevalenza, l'acqua di 'vena': quella, cioè, delle fonti, dei pozzi, delle sorgive, a cui si abbeveravano i pastori e le loro greggi".
delle acque". E il nostro illustre conterraneo - che ha speso gran parte della vita a scoprire, inseguire ed interpretare le difficili piste della storia e della cultura dei nostri avi nuragici - aggiunge e sottolinea che "il culto idrico dei protosardi si rivolgeva all'acqua del cielo, come eredità d'una religione della pioggia propria delle genti a civiltà agricola dell'età prenuragica; ma riguardava, in prevalenza, l'acqua di 'vena': quella, cioè, delle fonti, dei pozzi, delle sorgive, a cui si abbeveravano i pastori e le loro greggi".
Quel che non sfugge neppure all'osservatore più
distratto è che i sardi della preistoria - a differenza di quanto accade oggi -
avevano dell'acqua un rispetto così alto e sacro da elevarla a divinità.
Per chi ama girare il mondo per scoprirne gli
aspetti meno noti e le popolazioni meno conosciute non è difficile verificare i
molteplici modi di rapportarsi con l'acqua delle diverse civiltà e culture che
popolano il pianeta e constatare che, minore è il grado di sviluppo civile e
sociale di un popolo, maggiore è il suo rispetto per l'acqua: acqua che non è
solo "elemento del vivere quotidiano" ma "ragione fondante della
vita".
Alcune tribù Maori della Nuova Zelanda vivono
nelle acque calde delle sorgenti vulcaniche. In quelle pozze fumanti e in quei
fanghi giocano i bambini, i giovanotti nuotano per irrobustire le loro
strutture scheletriche e tonificare le masse muscolari, le donne lavano panni e
stoviglie, essiccano e modellano particolari erbe palustri che usano, poi, per
rivestire i loro nudi corpi scultorei nelle feste tribali e nelle ricorrenze
religiose.
Ho visto giovani tuffarsi pericolosamente
dall'alto di rocce e palafitte che sovrastavano le calde acque del vulcano e
alla domanda perché si esponessero a tanto pericolo il "vecchio" del
villaggio rispose che non si trattava di esibizioni di bravura ma di "voti"
offerti alla divinità delle acque: per invocare l'amore, la fedeltà della
sposa, la felicità e la prosperità della famiglia, l'abbondanza dei raccolti,
la fecondità della bestie.
Gli aborigeni australiani - quelli che non
praticano il "nomadismo" tanto diffuso nei 6 Stati australiani vivono
prevalentemente nelle acque delle "riserve" ove esercitano la pesca,
la concia delle pelli e la tempera dei legni dai quali ricavano i loro preziosi
"boomerang". Anche loro celebrano con rigida osservanza e grande
folklore i riti per le divinità fluviali.
I Daiaki ("i tagliatori di teste" del
Sarawak, nel Borneo Nord Occidentale) vivono prevalentemente nell'acqua. La
notte riposano nei rifugi costruiti sugli alberi più alti della foresta per
difendersi dai coccodrilli, dai serpenti velenosi che infestano gli acquitrini
e dalle bestie feroci; ma durante il giorno giocano e lavorano nelle torbide
acque ai piedi del villaggio, si lavano, tagliano e lavorano i giganteschi
alberi delle foreste, li scavano e decorano col machete, preparano le gabbie
per i galli da combattimento, per gli animali da cortile, i maiali e le bufale;
oppure navigano con le lunghe piroghe nelle vorticose acque del fiume infestato
dagli alligatori. Prima del riposo della notte, il capo tribù e lo stregone non
mancano mai di avviare le danze per propiziare la pioggia e ringraziare le
divinità delle acque: danze cui partecipa tutta la comunità con indosso i
rudimentali monili, le penne e i perizomi più pregiati.
I Toraja dell'isola di Celebes, nell'Arcipelago
indonesiano, hanno, più di qualunque altro popolo di mia conoscenza, affinità
con i nostri antenati protosardi e nuragici nel rito sacro dei morti e nel
culto delle acque. Celebrano i funerali dei loro defunti solo quando dispongono
dei mezzi necessari per fare una festa più grande e ricca possibile; alla quale
vengono invitati non solo i famigliari ma tutta la comunità raggiungibile.
La cerimonia si svolge in luogo pubblico: in
una vasta area, sgombra d'alberi, ove vengono disposte a ferro di cavallo delle
tribune di bambù: la centrale riservata ai famigliari del defunto , quelle
laterali alla folla accorsa al funerale. Al centro della pista vengono infissi
robusti tronchi d'albero, ai quali viene legata la zampa anteriore sinistra dei
bufali e/o dei maiali destinati al sacrificio. Sarà, poi, il
"cerimoniere" ad imporre il silenzio e annunciare l'inizio della
cerimonia funebre.
Lo stregone del villaggio, dopo aver lavato con
cura la bestia predestinata, effettua danze propiziatrici e innalza canti sacri
e preghiere al Dio delle acque invocando piogge e abbondanza di raccolti e al
Dio dei morti perché accolga il defunto in felicità e benessere. Quindi si
accosta, con passo rituale, al bufalo o al maiale indicato dalla folla e, con
un sol colpo di machete, gli recide le carotidi dalle quali sgorga, abbondante,
il sangue che viene raccolto nella cavità di grosse canne di bambù debitamente
predisposte. Quel sangue, che è il primo segno sacrificale della cerimonia,
viene offerto, ancora fumante, ai famigliari del defunto e a chi ne faccia
richiesta.
Questo rito dimostra che i Toraja considerano
ancora sacro il rapporto fra sangue e acqua, fra la morte e l'acqua che è fonte
di vita: aspetti mitologici e religiosi assai affini alle culture greca,
etrusca, egizia, indiana, che ritroviamo in opere immortali come l'Odissea e la
Divina Commedia.
Il macabro rito propiziatorio viene ripetuto
tante volte quanti sono gli animali destinati al sacrificio; e maggiore è
l'importanza e la ricchezza del defunto, maggiore è il numero delle bestie
sacrificate. In una bolgia infernale di urla e canti, la cerimonia si protrae
fino a notte fonda e per altri giorni ancora; fino a quando il massacro sarà
finito e i partecipanti saranno sfiniti dalla fatica, dal gran mangiare e dagli
alcolici. Intanto, nella roccia vicina alla casa dell'estinto è già pronta la
sua ultima dimora: quella che noi Sardi chiameremmo "domu de Jana".
L'abitacolo è, infatti, simile a quelli scavati nelle rocce delle nostre
montagne. La sola differenza è che, attorno all'apertura del cunicolo, viene
disposto un balconcino ligneo dal quale sporgerà un pupazzo dalle vesti
colorate raffigurante il defunto e alla base della "parete mortuaria"
verrà sistemato un "baldacchino" riproducente le antiche imbarcazioni
dell'Isola.
I Toraja abitano case di legno dalla
caratteristica forma delle antiche imbarcazioni del luogo; ma la maggior parte
della giornata la trascorrono in lunghi e stretti gradini di terra strappati
alle colline ove, dopo averli inondati d'acqua, piantano il riso e fan pascolare
i bufali. Le loro divinità dominanti sono la pioggia e l'acqua.
Ricordo di aver incontrato, una mattina, seduto
ai piedi di una costruzione simile agli "Stupa" Birmani, un vecchio
dalla lunga e fili forme barba bianca che gli spioveva dal mento rinsecchito.
Aveva le labbra tumefatte e così arrossate da sembrare il sedere d'una scimmia.
Masticava delle strane radici che lo costringevano a sputare sovente una saliva
scura e dall'odore sgradevole. Gli chiesi chi fosse e cosa facesse. Dopo
essersi lavato la bocca con un sorso d'acqua, mi disse di essere il custode
della "Fonte sacra" dalla quale non poteva mai allontanarsi per non
irritare il Dio del fiume e delle acque.
Mi licenziò con un inchino ed un sorriso e
riprese a masticare le sue radici mentre recitava una noiosissima cantilena e
sgranava uno stranissimo rosario.
I Birmani Intha del lago Inle meritano una
citazione particolare perché non solo vivono costantemente nell'acqua ove
esercitano la pesca e svolgono la maggior parte delle loro funzioni quotidiane,
ma dal fondo del lago prelevano il fango pregno di "humus fluviali",
lo trasformano in grossi "pani" che assemblano con robuste e lunghe
canne di bambù, fissate, poi al fondo del lago per creare i famosi
"giardini galleggianti": autentico miracolo di ingegneria agricola. E
non esagerato affermare che nessun'acqua gode di tanto rispetto e culto come
quella dell'Inle; se è vero, come è vero, che in questo straordinario bacino
montano - che si distende su un vastissimo territorio a 1320 m. sul livello del
mare ed è abitato da 126.000 abitanti - galleggiano centinaia di orti-giardino
(che producono, per 12 mesi l'anno, frutta e verdura di ogni specie) e diecine
di piccole pagode e monasteri; mentre le sue coste sono popolate da 100 grandi
monasteri e più di 1000 stupa costruiti, per lo più, su palafitte.
Un connubio perfetto e sorprendente fra
attività umana e meditazione spirituale!
Gli Intha del lago sono buddisti come la
stragrande maggioranza dei Birmani ma, a differenza del resto della popolazione
(nota per la scarsa attitudine al lavoro), sono tenacemente legati alla terra
ed alle attività contadine. La loro fede non vieta il culto della pioggia e
dell'acqua, anche se tutti si riservano il privilegio di osservare l'obbligo
religioso di trascorrere almeno un anno della loro vita in un monastero
buddista.
Nel delta del Mekong, nel Vietnam del Sud,
milioni di Vietnamiti vivono permanentemente nell'acqua. Nel prezioso elemento
i cittadini svolgono tutte le attività civili, sociali, commerciali. Nel delta
si naviga e si pesca e negli stupendi giardini delle sue coste si coltivano
frutti deliziosi e si consumano cibi saporiti. Quell'area lacustre che fu, per
anni, focolaio di odio e lido di morte è tornata alle origini della sua
tradizione e della sua storia. E nonostante la diffidenza e l'ostilità del
"regime", il culto di quel popolo per il suo delta appare evidente
anche al più distratto degli osservatori.
Le imbarcazioni ammucchiate sulle rive, quelle
che trasportano merci e masserizie, le piroghe dei venditori ambulanti e le
barche che solcano le dense acque del delta portano tutte i segni del religioso
rispetto, della devozione e del culto sacro per l'acqua: elemento essenziale
per la vita di quel popolo, sopravvissuto ad una lunga, devastante guerra anche
(e soprattutto) per merito del delta del Mekong.
Il discorso sul rapporto che ancora esiste fra
molti popoli e l'acqua come elemento di vita e momento di culto, potrebbe
fermarsi a questo punto. Vale, però, la pena fare un brevissimo cenno al
"culto delle acque" nei popoli del continente indiano.
Maria Margherita Satta, nella sua relazione al
III Simposio di Etnopoetica tenutosi ad Alghero il 30 marzo 2000, fra le altre
interessantissime cose, diceva: " Nella mitologia induista, Indra è
ricordato sia come la divinità che squarcia le nuvole e permette alla pioggia
di fecondare la terra, sia come il Dio che uccide Vrta, liberando le acque e
dando vita agli esseri della terra". "Parjnya è identificato come
l'elemento fecondatore puro e semplice"; e continua: "Queste divinità
acquisiscono una notevole importanza soprattutto all'interno di quelle società
la cui economia si basava sull'agricoltura e l'allevamento, dove era essenziale
fecondare la terra tramite la pioggia e controllare gli argini dei fiumi in modo
da evitare le inondazioni, fenomeni negativi per i sistemi
agro-pastorali".
Ebbene, non è mia intenzione soffermarmi
sull'affermazione della Satta, da me totalmente condivisa. Desidero solo
aggiungere che - a parte la arcinota sacralità del Gange, ove, per le religioni
induiste, tutto nasce e tutto muore, ove il Fiume sacro divora i cadaveri umani
ed animali, purifica gli spiriti, restituisce la salute agli ammalati e la vita
alla morte - in un Paese come il Nepal (ove è ancora venerata dalla casta
sacerdotale e persino dal re la Dea Cumari, eletta periodicamente fra 300
bambine vergini e dichiarata decaduta al primo segno di pubertà) è talmente
profondo e radicato il culto dell'acqua e della pioggia che a ridosso dei pozzi
o fiumi sacri si consumano migliaia di sacrifici (che, a seconda delle
disponibilità del credente vanno dalla pecora all'agnello, dal pollo all'uovo,
dal maiale al toro) in un nauseabondo miscuglio di muggiti, grugniti, belati e
di sangue che appesta l'aria e arrossa le acque dei rivi, i muri dei pozzi, le
pietre degli altari e la terra invasa dai pellegrini in preghiera, assiepati
come cavallette.
Non è dato sapere se analoghe cerimonie
sacrificali fossero presenti anche nei riti pagani protosardi e nuragici. È,
invece, certo che ancora sono visibili - dentro e fuori dai complessi nuragici,
siti e pozzi sacri - i segni di celebrazione sacrificali; anche di quelle più
feroci e drammatiche.
Del resto, leggende come quella de
"L'abisso delle vergini" nella Grotta di Ispinigoli di Dorgali,
quella della "Voragine del golgo" di Baunei e di altri siti della
Sardegna indicati da leggende e tradizioni locali come luoghi di tortura e di
morte verso malfattori, traditori, donne infedeli, streghe, ma anche verso nemici
ed avversari, potrebbero essere considerate la testimonianza che, nell'era
nuragica e prenuragica, i Sardi non fossero estranei a culture ed a riti
sacrificali comparabili a quelli sopra menzionati.
Le modeste conoscenze della complessa materia
non mi permettono, però, di affermare che esistano riscontri certi sui rituali
sacrificali del Sardo delle caverne e dei nuraghi. Nel contempo non credo si
possa mettere in dubbio che i nostri antenati fossero tanto sensibili ai
bisogni dell'acqua e così consapevoli della sua indispensabilità per la
sopravvivenza dell'uomo, delle bestie e della campagna da avvertire la
necessità di riconoscerne la Divinità e, conseguentemente, fare in modo di
guadagnarne i favori invocandone la protezione.
Attorno all'antico culto delle acque è fiorita,
in Sardegna, una infinità di credenze popolari e leggende che ancora
sopravvivono e alimentano la fantasia popolare.
Sa peristoria de Maria Giusta, pubblicata per
la prima volta da Franco Enna e resa nota, in tutta la sua drammatica bellezza,
da Enedina Sanna nel già citato III Simposio di Etnopoetica del marzo 2000, ad
Alghero, ha permesso di squarciare quel muro di mistero che avvolgeva i riti
sacrificali del periodo nuragico e prenuragico.
Sa peristoria racconta di una donna che, mentre
andava in cerca di legna da ardere, vide cadere e andare in fiamme un leccio
accanto ad un pozzo lì vicino. Da una scure senza manico abbandonata in mezzo
al bosco comparve una "fata" che disse alla donna: "getta la
scure a doppio filo nel pozzo e vi sgorgherà l'acqua". La donna, dopo aver
bevuto di quell'acqua, dimenticò tutto. Quando arrivò l'estate, tutti ebbero
sete; anche il figlio che, sconfitto dall'arsura, si afflosciò come un giglio.
La donna, disperata, tornò al pozzo e sentì una voce che le diceva:
"S'abba non naschet / si sambene no paschet" (l'acqua non nasce / se
sangue non pasce). La donna capì, si gettò nel pozzo e l'acqua sgorgò
abbondante.
La poesia, di rara efficacia e bellezza,
raccolta da Franco Enna a Macomer dalla stanca voce di Maddalena Deriu, ormai
novantenne, è una delle "leggende - testimonianza" che inducono a
ritenere che molta della "storia antica non scritta" resti scolpita
nella cultura e nelle tradizioni dei popoli come memoria incisa nella pietra.
Un po' come quello che ho avuto modo di vedere
nei giganteschi graffiti della Namibia; ove migliaia di anni prima d'oggi i
Boscimani, popolo primordiale ormai in via di estinzione, incidevano nelle
pareti levigate delle montagne la loro storia, quella della loro fauna, della loro
flora e della loro economia: florida e opulenta fino al disseccarsi del lago
Ethosa Pan ed al sopraggiungere del deserto di Sossusvlei con le sue
meravigliose dune di sabbia di corallo.
La lettura de Sa peristoria de Maria Giusta ci
permette di capire molti dei segreti del Santuario nuragico di Santa Vittoria
di Serri: un vero e proprio villaggio edificato intorno al pozzo sacro dello
stesso nome.
Questo santuario nuragico, costruito sulla
Giara di Serri che sovrasta quella più vasta di Gesturi, ha fatto ritenere che
quei luoghi alti, oltre che terrazze naturali di difesa, fossero anche luoghi
di culto. Giovanni Lilliu - archeologo di fama mondiale e accademico dei Lincei
- ha definito il Villaggio Santuario di Santa Vittoria" uno dei monumenti
più importanti, fascinosi ed evocativi della civiltà nuragica" e
rappresenta, per chiunque abbia passione per l'antichità sarda, il Pantheon
delle memorie nuragiche; come si legge nella Guida insolita della Sardegna di
Franco Fresi.
Gli scavi del Villaggio di Santa Vittoria di
Serri hanno portato alla luce molti oggetti legati al culto sacro delle acque,
considerati autentiche offerte votive alla divinità delle acque. Ma l'elemento
che maggiormente ha catturato l'interesse degli studiosi e lega questo
importante monumento archeologico a Sa peristoria de Maria Giusta è l'ascia a
due fili: la bipenne o labrys.
Raimondo Zucca, nel suo Il Santuario Nuragico
di Santa Vittoria di Serri, narra che nella capanna della bipenne, "ai
piedi dell'altare si individuarono un pilastrino che si inseriva in una basetta
con dentellatura superiore e una grande ascia bipenne in bronzo (della
lunghezza di 27 cm.) che, secondo il Taramelli, potevano costituire una 'sacra
bipenne betilica', alla quale entro il recinto si prestava il culto con riti e
sacrifici dei quali si videro le tracce".
A parte le considerazioni sulle origini e la
diffusione nel mondo mediorientale e mediterraneo del labrys e sul significato
simbolico del "bipenne" (connubio "Toro-Sole",
"Vacca-Luna"), è sorprendente l'accostamento del verso
"S'istrale a duos filos" de Sa peristoria de Maria Giusta col
riscontro archeologico del "bipenne" bronzeo dell'altare del
Santuario di Serri e con gli amuleti di pietra, a forma di ascia, ritrovati
all'interno della sua Fontana Sacra.
Questa sconcertante storia potrebbe essere la
riprova che molto spesso le leggende sono il veicolo più affascinante, e spesso
più veritiero, delle "storie non scritte" dei popoli.
Di pozzi sacri in Sardegna se ne contano,
sinora, una trentina. Nella maggior parte dei casi hanno la stessa struttura
architettonica composta da un vestibolo a livello del terreno, nel quale
venivano esercitate le cerimonie dei sacerdoti e deposte le offerte votive. Lì
venivano celebrati i riti propiziatori spesso accompagnati da sacrifici di
animali e, forse, di uomini. Circostanza, questa, che nessuno è stato in grado
di escludere ma che potrebbe essere possibile se si vuol dare un minimo di
attendibilità a Sa peristoria de Maria Giusta della quale abbiamo detto sopra.
Fra i tanti pozzi sacri, quello maggiormente
studiato e conosciuto, il più interessante dal punto di vista archeologico ed
architettonico, è certamente quello di Santa Cristina. Del pozzo sacro di Santa
Cristina ha parlato e scritto la cultura, l'archeologia e l'architettura di
tutto il mondo contemporaneo. È, quindi, arduo aggiungere altro al tanto che
già si è detto e si sa.
Percorrendo la strada statale 131 - più o meno
a 110 Km. da Cagliari - compare sulla destra un picco roccioso dietro il quale
si nasconde il miracolo del "pozzo sacro di Santa Cristina". Il
monumento è una delle più affascinanti e misteriose testimonianze della civiltà
protosarda. La mirabile realizzazione architettonica si apre con una scala
attraverso la quale gli officianti giungevano fino alla fonte. Attorno al pozzo
si sviluppa l'esedra e il recinto sacro, mentre nelle vicinanze si intravedono
timide tracce di edifici civili e commerciali. A un centinaio di metri sorge il
nuraghe.
Lo stupore, però, assale i visitatori quando,
oltre un piccolo ripiano pietroso, oltre i querci sopravvissuti agli incendi,
si scopre la magnificenza di un'opera dinanzi alla quale impallidiscono persino
quelle immortali di Roma, di Atene e dell'Egitto.
Gianfranco Pintore, nella sua opera Sardegna
sconosciuta ha scritto: "quando riportarono alla luce il pozzo di S.
Cristina, l'ingegnere che ne stava rilevando le proporzioni, smarrito, rivelò
agli archeologi che erano con lui: 'Se si dovesse progettare oggi una cosa del
genere avremmo bisogno di un buon computer e di non poche settimane di
lavoro'".
Quando, in Grecia, andai a visitare la
famosissima Tomba di Agamennone, ricordando i giganteschi macigni che
concorrono alla costruzione di gran parte dei nostri nuraghi e, soprattutto,
avendo nella mente lo stupore del pozzo di Santa Cristina, mi domandai se i
Sardi potessero essere autori della monumentale opera funeraria di uno dei più
mitici e celebrati eroi Omerici o fossero, invece, i Greci ad aver contribuito
alla realizzazione delle inimitate ricchezze archeologiche della età nuragica
della Sardegna. Ed evidentemente non sono il solo a stupirmi dinanzi a tanto
miracolo architettonico se è vero che decine di studiosi si sono affannati a
scoprire il mistero di un'opera che trova pochi riscontri nell'archeologia di
tutti i tempi.
Neppure i monumenti impareggiabili del Messico,
del Perù, della Birmania, della Cina, del Nepal, dell'India e di altre parti
del Pianeta, colonizzate nei trascorsi millenni da civiltà superiori ed ormai
scomparse, si sentirebbero sminuiti dal confronto con quelli della preistoria
sarda che, comunque, rimarranno immortali nel tempo. Attorno a questo prodigio
creativo si è scatenata la curiosità e la fantasia di studiosi, archeologi,
artisti, architetti e, persino, geografi ed astronomi di tutto il mondo. Si
sono cercate e trovate somiglianze con l'arte greca e, soprattutto, con quella
egizia; al punto che alcuni hanno sostenuto e sostengono che capolavori come il
pozzo di S. Cristina siano opera di architetti egiziani richiamati in Sardegna
da signorotti del tempo. Sono quesiti che non troveranno risposta!
Quel che è certo è che l'orientamento verso il
Meridiano della sezione trasversale del pozzo fa sì che la Luna, nei periodi
della sua massima declinazione, si rispecchi, per un breve periodo (ed in
particolare a mezzanotte), sul fondo del pozzo; circostanza che ha autorizzato
la convinzione che il pozzo Sacro di S. Cristina avrebbe avuto impieghi, oltre
che rituali, anche astrologici: di laboratorio, cioè, per lo studio delle
stelle, della Luna, del Sole e dell'Universo.
Vale la pena aggiungere che gli studiosi di
questi monumenti rituali sostengono che la costruzione dei pozzi sacri, e in
particolare di quelli di S. Cristina e di Santa Vittoria di Serri, lascia
intravedere una particolare competenza geografica e astronomica dei loro
progettisti e costruttori. Chissà!
Certo è che quelle scale così perfette di S.
Cristina, quelle pareti monumentali, quei giganteschi blocchi di basalto
rosa-scuro costringono gli sprovveduti come il sottoscritto a domandarsi:
"Come hanno fatto questi Sardi antichi - senza nessuna attrezzatura
meccanica, senza neppure i semplici e tradizionali scalpellini dei
contemporanei lavoratori della pietra, senza esplosivi di alcun genere - a fare
quel che, a fatica, fanno oggi gli addetti alle cave di granito e i cavatori
del marmo della Toscana e di ogni parte del mondo?"
Si dice che per preparare quei blocchi di
pietra si usasse fare un foro nella roccia madre, la si riempisse d'acqua che,
dilatandosi per il gelo, spaccasse la pietra secondo i desideri del
"protoarchitetto". Ammesso che questo fosse possibile e sia avvenuto,
come facevano, poi, i Sardi del tempo a rendere così perfetti tutti gli
elementi che hanno concorso alla realizzazione di quest'opera inimitabile?
Giovanni Lilliu ha scritto che per la
costruzione del pozzo di S. Cristina sono state adottate tecniche costruttive
"che mostrano i paramenti tirati su a parabola lungo la quale i conci ben
tagliati si sovrappongono obliquamente: il concio superiore leggermente in
ritiro rispetto all'inferiore. In questi ultimi pozzi si osserva una tecnica
moderna che, se non rivela proprio una rottura della tradizione architettonica,
dimostra almeno una linea più avanzata, una sensibilità artistica più raffinata
in confronto al vecchio modo di costruire".
Questa sottile osservazione e le conseguenti
conclusioni mi paiono chiare e abbastanza evidenti. Resta, però, da chiedersi
come mai a questa "linea più avanzata" nella costruzione del pozzo di
S. Cristina non abbia fatto riscontro altrettanto avanzato livello
architettonico nell'edilizia abitativa e in tutte le opere d'ingegneria civile,
pubblica e privata, che sono rimaste immutate fino all'arrivo in Sardegna di
civiltà e culture più evolute.
Un ultimo cenno rapidissimo desidero farlo su
un monumento assai meno noto di quelli appena citati ma che, tuttavia,
rappresenta una delle preziosità archeologiche più raffinate e interessanti
della Sardegna. Si tratta di Funtana Croberta.
Recentemente, dopo aver rivisitato i Menir e la
straordinaria Domu de Jana de Pranu Mutteddu di Goni, ho proseguito per Ballao
con l'intento di saziare lo sguardo delle "orride bellezze" di quelle
montagne disseccate dalla vigliaccheria dei piromani e abbeverarmi alla fonte
della solitudine che è assoluta padrona di quei luoghi desolati e disabitati.
A cinquanta metri dal bivio per Ballao fui
attratto da un piccolo cartello segnaletico: Funtana croberta. Imboccai una stradina sterrata e, dopo
pochi metri, mi fermai dinanzi ad un robusto cancello di ferro, appena
accostato. Lo aprii e parcheggiai in un piccolo spiazzo invaso da pietre
affioranti e poca erba secca. Girovagai lì attorno nella speranza di trovare
"sa Funtana " della quale avevo sentito parlare qualche tempo prima e
persino durante la breve sosta a Goni. Finalmente mi imbattei in un cumulo di
terra e pietrame la cui sommità mostrava qualcosa di molto simile ad un foro.
Decisi, così, di fare una accurata ricognizione di tutto il "cumulo"
e delle aree adiacenti, affollate di cisti rinsecchiti e di verdi lentischi.
Dietro un muro semidemolito che sporgeva dal
cumulo intravidi una stretta scalinata di granito che scendeva verso il basso.
Pensai fosse la via d'accesso a sa Funtana croberta e, con molta circospezione,
discesi fino al piano del pozzo: pieno fino all'orlo ma coperto da una robusta
grata di ferro. L'ambiente, piuttosto angusto, era illuminato da un raggio di
sole che penetrava dal "foro" che avevo visto dall'esterno. Questo mi
permise di gustare uno spettacolo incredibile: le pareti del pozzo si ergevano
perpendicolarmente per circa 2 metri; da quell'altezza aveva inizio una
costruzione cupoliforme, troncoconica, in pietra nuda, che si elevava fino
all'apertura superiore (il foro, appunto) dalla quale potevo ammirare un cielo
luminoso e tersissimo.
Scattai tutte le foto di cui disponevo, ma non
riuscivo ad andar via. Mi sembrava di udire una voce che mi chiamava dal fondo
del pozzo e le acque che intravedevo oltre la grata sembravano vive. Nonostante
la luce scendesse copiosa dall'alto della volta forata, la mia immagine non si
specchiava nell'acqua che, invece, rifletteva la cupola, ingigantendola ed
esaltandone la ricchezza architettonica. Uscii e rientrai più volte senza che
venisse meno nessuna delle sensazioni che avevo provato il primo momento della
mia discesa in quella straordinaria, ma sconosciuta, reliquia della memoria
storica della nostra Sardegna.
Nelle immagini: Il Pozzo di Santa Cristina
Fonte: http://consiglio.regione.sardegna.it/acrs/attivita-ass/rivista/n.15/n15_E.L.Serra.asp
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Un articolo da leggere... assolutamente
RispondiEliminaPozzo di Santa Cristina: l'articolo non dice (è un mio pensiero) che i due muri che circondano la scala triangolare (come il triangolo pubico) sono la simbologia della FEMMINA (quello a ferro di cavallo) e del MASCHIO quello interno a forma fallica. Maschio più femmina più acqua + sole (che entrava dal foro del pozzo ) e ci sono tutti gli elementi per essere un sito dedicato alla FECONDITA' della terra. Manca Inoltre nel bel articolo sui culti dell'acqua nel mondo il riferimento ai circoli concentrici (che io ho trattato più volte nella mia pagina di Lunigiana Preistorica) che spesso sono incisi nelle Domus de Janas sarde e che sono essi stessi la rappresentazione dell'acqua: il sasso nello stagno!. Anche le spirali che rappresentano la forza della natura, possono rappresentare la forza dell'acqua che gira nei gorghi.....
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