martedì 18 novembre 2014
I Tofet, i cimiteri fenici dedicati ai bambini
I Tofet, i cimiteri fenici dedicati ai bambini
di Pierluigi Montalbano
Si tratta di santuari caratteristici dell’area mediterranea centrale.
Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna, a Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tofet.
Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos (un recinto sacro), all’interno del quale c’è la deposizione di urne in ceramica e stele in pietra.
Generalmente si realizzava a nord dell’abitato in una posizione periferica e non veniva mai spostato: qualora si dovevano fortificare le città, per non spostarlo si arrivava a modificare il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti, agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma e dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.
È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”, che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici necropoli a incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture.
Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli che vengono sacrificati agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i popoli mediterranei non li chiamavano così, si tratta di un termine convenzionale usato in archeologia. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.
Ad esempio, nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco, per i loro Dei, i figli e le figlie loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo figliolo secondo gli abominevoli rituali delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli d’Israele”. Un rituale, dunque, non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo, dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle dell’eccidio, e si seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”.
Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne Valle di Ben Innom, ma Valle della strage”.
Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui a Cartagine sono state trovate queste urne con centinaia di bambini incinerati, gli studiosi hanno pensato al luogo di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa teoria del sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980 la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini, ma di sacrifici per placare l’ira delle divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.
Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale misterioso”.
Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso
Gerusalemme dove i Fenici si diceva "passassero per il fuoco" i bambini. Dalla valle di Ben Innom (come si dice nel Vecchio Testamento) il tofet passerà, nella letteratura storico-archeologica, ad indicare tutti i santuari simili rinvenuti successivamente in area occidentale. Naturalmente ciò fornì il pretesto per stigmatizzare questa usanza da parte degli israeliti, i quali fecero di tutto per proibire tale rito. In realtà il termine "passare per il fuoco" è stato sempre strumentalizzato per porre in cattiva luce i fenici, mentre con tutta probabilità si tratta di un rito di passaggio, del "salto" di un fuoco da parte di un bambino, accompagnato da un adulto, il quale con questa "prova" accedeva a tutti gli effetti tra i membri attivi della comunità. Si tratta di una straordinaria analogia col fuoco di S.Giovanni al solstizio d'estate. È simile a quando si salta un falò in spiaggia, retaggio di un antico rituale di passaggio all'età adulta.
Come si può facilmente vedere la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali.
Secondo Moscati nei tophet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Un gran numero di iscrizioni ritrovate nei tophet riportano delle formule rituali sempre uguali: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Questa formula viene poi cambiata mettendo prima il nome della divinità.
Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.
Ad oggi non sappiamo se ogni stele sia legata ad un urna in particolare, ne se le offerte erano rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o piccoli tempietti con all’interno la rappresentazione della divinità.
In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.
Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa del Dio). In qualche caso un “idolo a bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito del VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.
Le zone più importanti del territorio cartaginese sono il Cap Bòn e il litorale (Sael), che hanno restituito strutture puniche dalle quali siamo risaliti alla fisionomia dell’area in età antica. Le città più importanti sono Utica e Sousse. Il sito principale di Cap-Bon è Kerkouàne, munito di fortificazioni con torri costiere che servivano per gli avvistamenti. Altri siti importanti sono: Ràs Fortàss, Ràs ad-Drèk e Kelìbia. Oltre questi abbiamo santuari e necropoli.
Nelle immagini i tophet di Mozia e Cartagine
di Pierluigi Montalbano
Si tratta di santuari caratteristici dell’area mediterranea centrale.
Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna, a Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tofet.
Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos (un recinto sacro), all’interno del quale c’è la deposizione di urne in ceramica e stele in pietra.
Generalmente si realizzava a nord dell’abitato in una posizione periferica e non veniva mai spostato: qualora si dovevano fortificare le città, per non spostarlo si arrivava a modificare il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti, agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma e dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.
È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”, che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici necropoli a incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture.
Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli che vengono sacrificati agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i popoli mediterranei non li chiamavano così, si tratta di un termine convenzionale usato in archeologia. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.
Ad esempio, nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco, per i loro Dei, i figli e le figlie loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo figliolo secondo gli abominevoli rituali delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli d’Israele”. Un rituale, dunque, non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo, dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle dell’eccidio, e si seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”.
Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne Valle di Ben Innom, ma Valle della strage”.
Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui a Cartagine sono state trovate queste urne con centinaia di bambini incinerati, gli studiosi hanno pensato al luogo di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa teoria del sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980 la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini, ma di sacrifici per placare l’ira delle divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.
Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale misterioso”.
Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso
Gerusalemme dove i Fenici si diceva "passassero per il fuoco" i bambini. Dalla valle di Ben Innom (come si dice nel Vecchio Testamento) il tofet passerà, nella letteratura storico-archeologica, ad indicare tutti i santuari simili rinvenuti successivamente in area occidentale. Naturalmente ciò fornì il pretesto per stigmatizzare questa usanza da parte degli israeliti, i quali fecero di tutto per proibire tale rito. In realtà il termine "passare per il fuoco" è stato sempre strumentalizzato per porre in cattiva luce i fenici, mentre con tutta probabilità si tratta di un rito di passaggio, del "salto" di un fuoco da parte di un bambino, accompagnato da un adulto, il quale con questa "prova" accedeva a tutti gli effetti tra i membri attivi della comunità. Si tratta di una straordinaria analogia col fuoco di S.Giovanni al solstizio d'estate. È simile a quando si salta un falò in spiaggia, retaggio di un antico rituale di passaggio all'età adulta.
Come si può facilmente vedere la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali.
Secondo Moscati nei tophet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Un gran numero di iscrizioni ritrovate nei tophet riportano delle formule rituali sempre uguali: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Questa formula viene poi cambiata mettendo prima il nome della divinità.
Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.
Ad oggi non sappiamo se ogni stele sia legata ad un urna in particolare, ne se le offerte erano rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o piccoli tempietti con all’interno la rappresentazione della divinità.
In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.
Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa del Dio). In qualche caso un “idolo a bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito del VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.
Le zone più importanti del territorio cartaginese sono il Cap Bòn e il litorale (Sael), che hanno restituito strutture puniche dalle quali siamo risaliti alla fisionomia dell’area in età antica. Le città più importanti sono Utica e Sousse. Il sito principale di Cap-Bon è Kerkouàne, munito di fortificazioni con torri costiere che servivano per gli avvistamenti. Altri siti importanti sono: Ràs Fortàss, Ràs ad-Drèk e Kelìbia. Oltre questi abbiamo santuari e necropoli.
Nelle immagini i tophet di Mozia e Cartagine
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