sabato 30 novembre 2013
Doppio evento. Apre a Pisa il museo delle navi romane. A Mantova giornata sulla musealizzazione.
Navi romane, apre oggi a Pisa il museo
Nasce a Pisa il Museo delle Navi Antiche. Agli Arsenali Medicei saranno visibili permanentemente i relitti dello scavo di San Rossore. L'iniziativa sarà presentata sabato 30 novembre, alle ore 11.30, dal direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana Isabella Lapi. L'evento sarebbe dovuto essere presentato dal ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Massimo Bray ma a causa di impegni istituzionali sopraggiunti il politico non sarà presente.
Il Museo delle Navi Antiche di Pisa, all'interno degli Arsenali Medicei di Lungarno Simonelli, sarà il più grande d'Europa a riunire archeologia, mondo navale e archeologia industriale. L'allestimento, sviluppato sulla base di un progetto espositivo della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, sarà ultimato in concomitanza con il lavoro di restauro degli Arsenali Medicei, curato dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici delle Province di Pisa e Livorno.
Gli Arsenali ospiteranno gran parte dei reperti riportati alla luce nel sito archeologico adiacente alla stazione di Pisa San Rossore, uno dei più importanti nel suo genere.Si tratta di 30 navi databili tra il III sec. a.C. e il VII d.C con i loro carichi di gioielli e utensili vari, anfore, monete. Un cantiere di 10.650 metri quadrati (3.500 di scavo vero e proprio, 1.700 di laboratori e centro restauro) che i visitatori ora possono attraversare con un percorso guidato. Le imbarcazioni sono attualmente in fase di restauro presso il centro di restauro del legno bagnato, che ospita studenti e tirocinanti in archeologia e restauro provenienti da tutto il mondo.
Colgo l'occasione per segnalare un altro evento previsto per la prossima settimana.
Comunicato stampa
Archeologia & Architettura
Il prossimo 5 dicembre Mantova ospiterà una giornata di studio sul tema Archeologia & Architettura, una millenaria complicità, organizzata nell’ambito della UNESCO chair nel polo mantovano del Politecnico di Milano, affronterà temi specifici legati alla protezione e alla musealizzazione dei siti archeologici, portando a confronto alcuni studi italiani ed esteri.
Mantova attende da anni il proprio museo archeologico e nel frattempo la collezione si è arricchita con reperti d’eccezione tra i quali spiccano gli “amanti di Valdaro” e la Domus Romana, nella centralissima piazza Sordello. In questi giorni, sta suscitando molto aspettative, un concorso in atto nel cuore di Roma per la sistemazione del straordinario sito dell’Auditorium di Adriano scoperto nel 2009, molti fondi sono stanziati per la salvaguardia di Pompei, la vivace disputa intorno al rifacimento della protezione di Villa Casale in Piazza Armerina non si è placato, per citarne solo alcuni. La giornata di studi per quanto di profilo accademico, non intende affrontare direttamente le vicende locali ma molti degli argomenti hanno una attinenza e non potranno non suggestionare e alimentare, la già vivace discussione in corso su quei argomenti e perciò, la manifestazione è gratuita ed aperta alla cittadinanza.
La musealizzazione e l’apertura dei siti alla fruizione è un percorso, teso tra temi inerenti la conservazione, e il restauro dei luoghi e reperti passa attraverso l’esigenza della loro protezione, e il tutto non può essere scisso da una considerazione sulla gestione e l’apertura ai visitatori – il bene culturale deve essere messo a disposizione del pubblico.
I partecipanti e i temi che saranno affrontati apriranno un’ampia finestra sulle nuove tendenze in materia della musealizzazione e la valorizzazione del patrimonio archeologico come volano culturale e come tale la sua potenzialità di sollecitare, diventare indirettamente perfino un volano economico.
La collaborazione che si profila nella giornata, tra i promotori che sono il Polo universitario che ha sede a Mantova, il Sistema museale Provinciale, vede una attiva partecipazione della Regione e la Soprintendenza regionale Lombarde, l’amministrazione comunale, il mondo economico ed imprenditoriale è un importante traguardo e In un momento di crisi come quella attuale è un fatto riguardabile e indispensabile scommettere sul patrimonio nel quale l’Italia è impareggiabile: la cultura. Un titolo apparso pochi giorni fa su un noto
quotidiano Romano “Auditorium di Adriano, cercasi archistar per la copertura-museo del capolavoro” rivela la grande approssimazione con la quale questo tema viene approcciato sottolineando l’urgenza di contrapporre argini scientifici, culturali ed economici congrui a questi luoghi comuni.
Coordinatore scentifico :
David Palterer _ david.palterer@polimi.it
Info:
Sistema museale provinciale _ 0376 357531 e IAT 0376 432432
Nasce a Pisa il Museo delle Navi Antiche. Agli Arsenali Medicei saranno visibili permanentemente i relitti dello scavo di San Rossore. L'iniziativa sarà presentata sabato 30 novembre, alle ore 11.30, dal direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana Isabella Lapi. L'evento sarebbe dovuto essere presentato dal ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Massimo Bray ma a causa di impegni istituzionali sopraggiunti il politico non sarà presente.
Il Museo delle Navi Antiche di Pisa, all'interno degli Arsenali Medicei di Lungarno Simonelli, sarà il più grande d'Europa a riunire archeologia, mondo navale e archeologia industriale. L'allestimento, sviluppato sulla base di un progetto espositivo della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, sarà ultimato in concomitanza con il lavoro di restauro degli Arsenali Medicei, curato dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici e Etnoantropologici delle Province di Pisa e Livorno.
Gli Arsenali ospiteranno gran parte dei reperti riportati alla luce nel sito archeologico adiacente alla stazione di Pisa San Rossore, uno dei più importanti nel suo genere.Si tratta di 30 navi databili tra il III sec. a.C. e il VII d.C con i loro carichi di gioielli e utensili vari, anfore, monete. Un cantiere di 10.650 metri quadrati (3.500 di scavo vero e proprio, 1.700 di laboratori e centro restauro) che i visitatori ora possono attraversare con un percorso guidato. Le imbarcazioni sono attualmente in fase di restauro presso il centro di restauro del legno bagnato, che ospita studenti e tirocinanti in archeologia e restauro provenienti da tutto il mondo.
Colgo l'occasione per segnalare un altro evento previsto per la prossima settimana.
Comunicato stampa
Archeologia & Architettura
Il prossimo 5 dicembre Mantova ospiterà una giornata di studio sul tema Archeologia & Architettura, una millenaria complicità, organizzata nell’ambito della UNESCO chair nel polo mantovano del Politecnico di Milano, affronterà temi specifici legati alla protezione e alla musealizzazione dei siti archeologici, portando a confronto alcuni studi italiani ed esteri.
Mantova attende da anni il proprio museo archeologico e nel frattempo la collezione si è arricchita con reperti d’eccezione tra i quali spiccano gli “amanti di Valdaro” e la Domus Romana, nella centralissima piazza Sordello. In questi giorni, sta suscitando molto aspettative, un concorso in atto nel cuore di Roma per la sistemazione del straordinario sito dell’Auditorium di Adriano scoperto nel 2009, molti fondi sono stanziati per la salvaguardia di Pompei, la vivace disputa intorno al rifacimento della protezione di Villa Casale in Piazza Armerina non si è placato, per citarne solo alcuni. La giornata di studi per quanto di profilo accademico, non intende affrontare direttamente le vicende locali ma molti degli argomenti hanno una attinenza e non potranno non suggestionare e alimentare, la già vivace discussione in corso su quei argomenti e perciò, la manifestazione è gratuita ed aperta alla cittadinanza.
La musealizzazione e l’apertura dei siti alla fruizione è un percorso, teso tra temi inerenti la conservazione, e il restauro dei luoghi e reperti passa attraverso l’esigenza della loro protezione, e il tutto non può essere scisso da una considerazione sulla gestione e l’apertura ai visitatori – il bene culturale deve essere messo a disposizione del pubblico.
I partecipanti e i temi che saranno affrontati apriranno un’ampia finestra sulle nuove tendenze in materia della musealizzazione e la valorizzazione del patrimonio archeologico come volano culturale e come tale la sua potenzialità di sollecitare, diventare indirettamente perfino un volano economico.
La collaborazione che si profila nella giornata, tra i promotori che sono il Polo universitario che ha sede a Mantova, il Sistema museale Provinciale, vede una attiva partecipazione della Regione e la Soprintendenza regionale Lombarde, l’amministrazione comunale, il mondo economico ed imprenditoriale è un importante traguardo e In un momento di crisi come quella attuale è un fatto riguardabile e indispensabile scommettere sul patrimonio nel quale l’Italia è impareggiabile: la cultura. Un titolo apparso pochi giorni fa su un noto
quotidiano Romano “Auditorium di Adriano, cercasi archistar per la copertura-museo del capolavoro” rivela la grande approssimazione con la quale questo tema viene approcciato sottolineando l’urgenza di contrapporre argini scientifici, culturali ed economici congrui a questi luoghi comuni.
Coordinatore scentifico :
David Palterer _ david.palterer@polimi.it
Info:
Sistema museale provinciale _ 0376 357531 e IAT 0376 432432
venerdì 29 novembre 2013
Suelli, eccezionale scoperta archeologica negli scavi di Pranu Siara.
Suelli, eccezionale scoperta archeologica negli scavi di Pranu
Siara.
Il sindaco di
Suelli, Massimiliano Garau, cultore ed appassionato di archeologia, ha
annunciato la rilevante scoperta in un Convegno nella Casa museo del suo
comune. Gli scavi del sito sono recenti, pur se tuttavia negli anni Settanta fu
violata una tomba e trafugato il suo contenuto, e il sito cadde nel
dimenticatoio. Fino ad un mese fa circa, quando Garau ha insistito per far
riprendere gli scavi sotto la direzione scientifica della Soprintendenza
archeologica di Cagliari e Oristano, guidata dalla dott.ssa Donatella Cocco e
coadiuvata da un team di giovani impegnati nel "Progetto Archeo
Siara".
La tomba
prenuragica di Pranu Siara, sita su un altipiano poco al di fuori dal centro
abitato di Suelli, presenta un'architettura unica nel suo genere nel panorama
sardo. Oltre a numerosi frammenti campaniformi, utili ad un maggior
approfondimento degli studi inerenti la tarda età del Rame, è stato rinvenuto
un enorme quantitativo di ossa umane in perfetto stato di conservazione,
probabilmente riconducibili a persone di notevole statura, con un'altezza
minima di 180 cm.
Il materiale
ceramico di cultura Monte Claro e Bonnanaro, è risalente ad un arco temporale
che copre il periodo dalla prima metà del III millennio a.C. agli inizi del II
millennio a.C. (circa 2700-1900 a.C.), oltre a resti di monili e al
rinvenimento di un esemplare di pugnale in rame o bronzo con fori per l'immanicatura
e con i relativi ribattini ancora inseriti.
La monumentalità
della tomba non ha al momento altri confronti nel resto dell'isola, poiché
anche i riferimenti segnalati nel territorio di Barumini e Gesturi
risultano sommari e scarsamente rilevanti. L'eccezionalità del sito di Pranu
Siara è in particolare riferita al fatto che la tomba non risulta isolata ma fa
parte di una estesa necropoli perfettamente allineata per qualche centinaio di
metri e sormontato, in corrispondenza del salto di quota, da una sorta di cinta
fortificata che sembra configurarsi a protezione del pianoro, secondo modelli
insediativi di consimili documentati nell'area nord occidentale dell'isola,
nelle zone di Olmedo e Castelsardo.
"Il sito
svela potenzialità enormi sia sotto il profilo della ricerca archeologica in
ambito pre-nuragico sia per lo sviluppo dell'area di interesse dal punto di
vista turistico ed occupazionale", rivela con orgoglio e passione il
sindaco di Suelli, che conferma il minuzioso ed attento lavoro del team che sta
riportando alla luce tutti i reperti. L'idea di far diventare il sito di Pranu
Siara un polo fortemente attrattivo per le giovani generazioni alletta
Massimiliano Garau, che giustamente sogna in grande. Un polo che riscriverebbe
le teorie pre-nuragiche, già abbondantemente messe in discussione. E gli scavi a Suelli sono solo all'inizio: il timore
che le lungaggini burocratiche e la supervisione della Sovrintendenza possa
rallentare la nuova scoperta è legittimo.
Ci si augura che
l'interessamento per il sito non riceva la stessa sorte riservata ai giganti di
Mont'e Prama: mentre ancora si discute delle sorti museali dei guerrieri di Monte Prama, il
terreno restituisce nuove fondamenta culturali per riscrivere nuovamente la
storia della Sardegna.
Fonte:http://m.sardegnaoggi.it
giovedì 28 novembre 2013
Ossidiana, l'oro nero della preistoria
La montagna della roccia nera
di Carlo Lugliè
Da cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indaga sullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria.
A Est dell’ampio Golfo di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale, il complesso vulcanico del Monte Arci di 812 metri campeggia col suo compatto rilievo a scudo esteso per circa 150 kmq. Questo massiccio, formatosi essenzialmente tra la fine dell’Era terziaria e l’inizio del Quaternario, ha esercitato un forte condizionamento sul primo insediamento umano di questa regione ma non solo per la netta impronta che conferisce al paesaggio. Infatti per i versanti del monte, sotto i boschi secolari di lecci, roverelle e corbezzoli o tra la densa macchia di lentisco, erica e cisto, si disperdono in diverse località come in una vasta miniera a cielo aperto le ossidiane formatesi da circa 3,25 milioni di anni. Esse hanno avuto notevole importanza per le popolazioni preistoriche del Mediterraneo occidentale e sono state uno dei fattori di attrazione per le prime comunità neolitiche: approdati circa settemila anni fa in un’isola che le attuali evidenze archeologiche spingono a ritenere disabitata e coperta di foreste, questi coloni-pionieri hanno dato avvio al suo popolamento. Sa pedra crobina, alla lettera “la roccia nera come il corvo” è l’espressione più usata in lingua sarda per denominare l’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanico scuro e lucente che si forma sulla superficie terrestre per il raffreddamento rapido di lave dalla composizione acida: la caratteristica omogeneità della struttura di questa roccia e la sua durezza, consentendo un elevato controllo della frattura e un’ottima lavorabilità all’applicazione di diverse tecniche di scheggiatura, l’hanno resa una delle materie prime più apprezzate fin dall’antica età della pietra per la realizzazione di utensili d’uso quotidiano dalle forme e funzioni disparate, quali armature di proiettili, lame, perforatori, raschiatoi. Più raramente l’ossidiana veniva anche levigata per ottenere monili e oggetti di ornamento. In alcune aree continentali dell’Africa e dell’Asia come a Melka Kunture, in Etiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan- Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, è testimoniata la produzione di manufatti in ossidiana da parte di cacciatori del Paleolitico inferiore, in tempi compresi tra 1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltre che alle caratteristiche tecnologiche in- dicate e all’efficienza dei margini taglienti delle sue schegge, si deve a prerogative estetiche come la colorazione scura brillante e la traslucenza il fatto che l’uomo sia stato affascinato e conquistato dall’ossidiana in diverse regioni della terra e fin dai primordi del suo cammino evolutivo. Col passaggio alla preistoria recente e all’epoca neolitica, la progressiva istituzione di reti di scambio delle materie prime ha promosso una più vasta diffusione di questa risorsa, che ha raggiunto anche territori nei quali per la produzione di strumenti erano disponibili e sfruttate rocce alternative altrettanto efficienti. Questa circolazione per notevoli distanze è indizio di un’elevata considerazione dell’ossidiana per l’uomo neolitico, accresciuta dal numero limitato delle aree sorgenti: tutto questo ha spinto talora a considerarla alla stregua di un vero e proprio bene esotico, carico di valenze simboliche e indicatore di elevato status sociale per chi lo possedesse. Il Mediterraneo occidentale è una regione dove il fenomeno della concentrazione e marginalizzazione delle fonti di ossidiana risulta più evidente, perché quelle effettivamente sfruttate a partire dal Neolitico antico (VI millennio a.C.), sono tutte localizzate su isole distanti dal continente. Oltre che in Sardegna l’ossidiana si trova infatti circoscritta all’isola di Lipari nell’arcipelago delle Eolie, a quella di Palmarola nelle Isole Ponziane e a Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nordafricana. Il loro reperimento periodico doveva senz’altro implicare il possesso di consolidate capacità di navigazione d’altura e una forte motivazione. L’attuale interesse degli archeologi per l’ossidiana è incentrato, oltre che sui sistemi di produzione che contraddistinguono le diverse comunità preistoriche che la impiegarono, anche sugli aspetti connessi alla circolazione di questa materia prima. Grazie alla “firma composizionale” che ne caratterizza l’origine e che si conserva inalterata nel tempo, questa roccia è studiata da decenni con lo scopo di localizzarne la provenienza e di delineare le forme di contatto e interazione tra le comunità preistoriche nelle più disparate regioni della Terra. Così, a fronte di rocce più diffuse o di più difficile caratterizzazione geochimica, l’ossidiana è divenuta a partire dagli anni ‘50 la cartina di tornasole privilegiata delle interazioni tra popolazioni culturalmente distinte, oltre che uno strumento per indagare i livelli di organizzazione sociale ed economica delle comunità che ne hanno promosso e curato la ricerca, la trasformazione e la diffusione.
di Carlo Lugliè
Da cinque anni un progetto di ricerche archeologiche e archeometriche indaga sullo sfruttamento e la distribuzione dell’ossidiana del Monte Arci nella preistoria.
A Est dell’ampio Golfo di Oristano, nella Sardegna centro-occidentale, il complesso vulcanico del Monte Arci di 812 metri campeggia col suo compatto rilievo a scudo esteso per circa 150 kmq. Questo massiccio, formatosi essenzialmente tra la fine dell’Era terziaria e l’inizio del Quaternario, ha esercitato un forte condizionamento sul primo insediamento umano di questa regione ma non solo per la netta impronta che conferisce al paesaggio. Infatti per i versanti del monte, sotto i boschi secolari di lecci, roverelle e corbezzoli o tra la densa macchia di lentisco, erica e cisto, si disperdono in diverse località come in una vasta miniera a cielo aperto le ossidiane formatesi da circa 3,25 milioni di anni. Esse hanno avuto notevole importanza per le popolazioni preistoriche del Mediterraneo occidentale e sono state uno dei fattori di attrazione per le prime comunità neolitiche: approdati circa settemila anni fa in un’isola che le attuali evidenze archeologiche spingono a ritenere disabitata e coperta di foreste, questi coloni-pionieri hanno dato avvio al suo popolamento. Sa pedra crobina, alla lettera “la roccia nera come il corvo” è l’espressione più usata in lingua sarda per denominare l’ossidiana. Si tratta di un vetro vulcanico scuro e lucente che si forma sulla superficie terrestre per il raffreddamento rapido di lave dalla composizione acida: la caratteristica omogeneità della struttura di questa roccia e la sua durezza, consentendo un elevato controllo della frattura e un’ottima lavorabilità all’applicazione di diverse tecniche di scheggiatura, l’hanno resa una delle materie prime più apprezzate fin dall’antica età della pietra per la realizzazione di utensili d’uso quotidiano dalle forme e funzioni disparate, quali armature di proiettili, lame, perforatori, raschiatoi. Più raramente l’ossidiana veniva anche levigata per ottenere monili e oggetti di ornamento. In alcune aree continentali dell’Africa e dell’Asia come a Melka Kunture, in Etiopia, o a Chikiani, Djraber-Fontan- Kendarasi e Arzni in Georgia e Armenia, è testimoniata la produzione di manufatti in ossidiana da parte di cacciatori del Paleolitico inferiore, in tempi compresi tra 1.500.000 e 200.000 anni fa. Tuttavia, oltre che alle caratteristiche tecnologiche in- dicate e all’efficienza dei margini taglienti delle sue schegge, si deve a prerogative estetiche come la colorazione scura brillante e la traslucenza il fatto che l’uomo sia stato affascinato e conquistato dall’ossidiana in diverse regioni della terra e fin dai primordi del suo cammino evolutivo. Col passaggio alla preistoria recente e all’epoca neolitica, la progressiva istituzione di reti di scambio delle materie prime ha promosso una più vasta diffusione di questa risorsa, che ha raggiunto anche territori nei quali per la produzione di strumenti erano disponibili e sfruttate rocce alternative altrettanto efficienti. Questa circolazione per notevoli distanze è indizio di un’elevata considerazione dell’ossidiana per l’uomo neolitico, accresciuta dal numero limitato delle aree sorgenti: tutto questo ha spinto talora a considerarla alla stregua di un vero e proprio bene esotico, carico di valenze simboliche e indicatore di elevato status sociale per chi lo possedesse. Il Mediterraneo occidentale è una regione dove il fenomeno della concentrazione e marginalizzazione delle fonti di ossidiana risulta più evidente, perché quelle effettivamente sfruttate a partire dal Neolitico antico (VI millennio a.C.), sono tutte localizzate su isole distanti dal continente. Oltre che in Sardegna l’ossidiana si trova infatti circoscritta all’isola di Lipari nell’arcipelago delle Eolie, a quella di Palmarola nelle Isole Ponziane e a Pantelleria, tra la Sicilia e la costa nordafricana. Il loro reperimento periodico doveva senz’altro implicare il possesso di consolidate capacità di navigazione d’altura e una forte motivazione. L’attuale interesse degli archeologi per l’ossidiana è incentrato, oltre che sui sistemi di produzione che contraddistinguono le diverse comunità preistoriche che la impiegarono, anche sugli aspetti connessi alla circolazione di questa materia prima. Grazie alla “firma composizionale” che ne caratterizza l’origine e che si conserva inalterata nel tempo, questa roccia è studiata da decenni con lo scopo di localizzarne la provenienza e di delineare le forme di contatto e interazione tra le comunità preistoriche nelle più disparate regioni della Terra. Così, a fronte di rocce più diffuse o di più difficile caratterizzazione geochimica, l’ossidiana è divenuta a partire dagli anni ‘50 la cartina di tornasole privilegiata delle interazioni tra popolazioni culturalmente distinte, oltre che uno strumento per indagare i livelli di organizzazione sociale ed economica delle comunità che ne hanno promosso e curato la ricerca, la trasformazione e la diffusione.
mercoledì 27 novembre 2013
Il vino in archeologia: Menta, cedro, cannella, ecco il vino primordiale.
Menta, cedro, cannella, ecco il vino primordiale
Che gusto ha un vino di 3.700 anni fa? Sa di menta, cedro, miele, resina e cannella. Sono questi gli ingredienti che conteneva. Un cocktail oggi impensabile. Ma per i vignaioli antichi era una necessità. La scoperta che il vino del passato era sofisticato e non puro non è nuova, ma ora arriva una conferma importante. Nel nord di Israele, a Nahariya, sono state trovate quaranta anfore all’interno della cantina di un palazzo. Era la scorta di vino della famiglia, il vino migliore, da bere nei momenti importanti, durante i banchetti.
“Non è certo il vino che una persona vorrebbe bere per rilassarsi dopo una giornata di lavoro” spiega Andrew Koh della Brandeis University, uno degli archeologi che hanno presentato due giorni fa i risultati del ritrovamento e delle analisi chimiche sui resti nelle anfore. Assieme a lui c’erano Eric Cline della George Washington University e Assaf Yasur-Landau della Haifa University in Israele.
Mettere a fermentare assieme frutta diversa e uva era utile sia per rendere più dolce possibile il vino, sia perchè alcuni ingredienti avevano una funzione antibatterica. Così veniva preparato il vino della tradizione biblica e quello che venne fatto servire da Gesù alle nozze di Caana.
“Un paragone con un vino attuale? Il più vicino può essere il Moscato di Pantelleria – ipotizza il professor Attilio Scienza, docente di Viticoltura a Milano, l’Indiana Jones del vino, che gira il mondo per trovare le tracce genetiche delle piante antiche -. Il vino un tempo era solo dolce, anche i Romani aggiungevano la mirra. Il Moscato di Pantelleria è il vino che ancora oggi viene fatto con la stessa tecnica consigliata da Esiodo, viene aggiunta uva passa al vino base”.
Secondo lo storico della viticoltura Patrick McGovern, dell’università della Pennsylvania, la scoperta fatta nel Nord di Israele “getta una nuova luce sui percorsi del vino che da lì si diffuse in tutto il Mediterraneo”. I più antichi residui di vino sono stati trovati in Iraq, all’interno di una sola anfora, qualche anno fa, da una spedizione americana: risale a 6.000 anni fa. Anche in quel caso non era un liquido ricavato da sola uva.
Il vino puro, ricorda Scienza, è un sogno moderno, degli ultimi tre secoli. Prima lo si sofisticava anche con spezie e frutti usati come conservanti e aromatizzanti o come antisettici per evitare il proliferare dei batteri. Gli assiro-babilonesi aggiungevano miele e mosto cotto, serviva per bloccare la fermentazione in un epoca senza solforosa e con poca igiene.
“Era essenziale – dice il professore – dare gradevolezza al vino. A quell’epoca non era un alimento ma un liquido per i rituali, per l’estasi dionisiaca, una droga sociale, insomma”.
E quindi, nelle anfore israeliane simili a quelle antiche che sono state trovate anche in Georgia, si metteva un po’ di tutto. Le susine appena erano mature, poi arrivavano albicocche, pere, mele e alla fine l’uva, tutte assieme. Secondo Scienza “i Greci usavano invece solo uva, ma perché il clima secco non faceva crescere molte altre piante da frutto”. Il vino dell’antichità era sempre rosso, il bianco arriva dopo il grande freddo del 1300, quando vitigni allora rossi mutarono, come accadde con lo Chardonnay.
La scoperta e le analisi del gruppo israeliano e statunitense, indicano anche che già 3.700 anni fa si cercava di far riconoscere il proprio vino, producendolo con la stessa ricetta. Curtis Runnels, archeologo di Boston, dice che le analisi chimiche hanno chiarito che il contenuto di ogni anfora è molto simile a quello delle altre, “dimostrando coerenza e controllo produttivo che ci si aspetta da ogni cantina”.
Fonte: http://divini.corriere.it
Che gusto ha un vino di 3.700 anni fa? Sa di menta, cedro, miele, resina e cannella. Sono questi gli ingredienti che conteneva. Un cocktail oggi impensabile. Ma per i vignaioli antichi era una necessità. La scoperta che il vino del passato era sofisticato e non puro non è nuova, ma ora arriva una conferma importante. Nel nord di Israele, a Nahariya, sono state trovate quaranta anfore all’interno della cantina di un palazzo. Era la scorta di vino della famiglia, il vino migliore, da bere nei momenti importanti, durante i banchetti.
“Non è certo il vino che una persona vorrebbe bere per rilassarsi dopo una giornata di lavoro” spiega Andrew Koh della Brandeis University, uno degli archeologi che hanno presentato due giorni fa i risultati del ritrovamento e delle analisi chimiche sui resti nelle anfore. Assieme a lui c’erano Eric Cline della George Washington University e Assaf Yasur-Landau della Haifa University in Israele.
Mettere a fermentare assieme frutta diversa e uva era utile sia per rendere più dolce possibile il vino, sia perchè alcuni ingredienti avevano una funzione antibatterica. Così veniva preparato il vino della tradizione biblica e quello che venne fatto servire da Gesù alle nozze di Caana.
“Un paragone con un vino attuale? Il più vicino può essere il Moscato di Pantelleria – ipotizza il professor Attilio Scienza, docente di Viticoltura a Milano, l’Indiana Jones del vino, che gira il mondo per trovare le tracce genetiche delle piante antiche -. Il vino un tempo era solo dolce, anche i Romani aggiungevano la mirra. Il Moscato di Pantelleria è il vino che ancora oggi viene fatto con la stessa tecnica consigliata da Esiodo, viene aggiunta uva passa al vino base”.
Secondo lo storico della viticoltura Patrick McGovern, dell’università della Pennsylvania, la scoperta fatta nel Nord di Israele “getta una nuova luce sui percorsi del vino che da lì si diffuse in tutto il Mediterraneo”. I più antichi residui di vino sono stati trovati in Iraq, all’interno di una sola anfora, qualche anno fa, da una spedizione americana: risale a 6.000 anni fa. Anche in quel caso non era un liquido ricavato da sola uva.
Il vino puro, ricorda Scienza, è un sogno moderno, degli ultimi tre secoli. Prima lo si sofisticava anche con spezie e frutti usati come conservanti e aromatizzanti o come antisettici per evitare il proliferare dei batteri. Gli assiro-babilonesi aggiungevano miele e mosto cotto, serviva per bloccare la fermentazione in un epoca senza solforosa e con poca igiene.
“Era essenziale – dice il professore – dare gradevolezza al vino. A quell’epoca non era un alimento ma un liquido per i rituali, per l’estasi dionisiaca, una droga sociale, insomma”.
E quindi, nelle anfore israeliane simili a quelle antiche che sono state trovate anche in Georgia, si metteva un po’ di tutto. Le susine appena erano mature, poi arrivavano albicocche, pere, mele e alla fine l’uva, tutte assieme. Secondo Scienza “i Greci usavano invece solo uva, ma perché il clima secco non faceva crescere molte altre piante da frutto”. Il vino dell’antichità era sempre rosso, il bianco arriva dopo il grande freddo del 1300, quando vitigni allora rossi mutarono, come accadde con lo Chardonnay.
La scoperta e le analisi del gruppo israeliano e statunitense, indicano anche che già 3.700 anni fa si cercava di far riconoscere il proprio vino, producendolo con la stessa ricetta. Curtis Runnels, archeologo di Boston, dice che le analisi chimiche hanno chiarito che il contenuto di ogni anfora è molto simile a quello delle altre, “dimostrando coerenza e controllo produttivo che ci si aspetta da ogni cantina”.
Fonte: http://divini.corriere.it
martedì 26 novembre 2013
I macabri segreti delle grotte spagnole
Archeologia. I macabri segreti delle grotte spagnole
Gli scavi nella grotta Can Sadurni, nei pressi di Barcellona, hanno riportato alla luce quattro scheletri umani risalenti a circa 6400 anni fa, sepolti a seguito di uno sconosciuto rituale funerario. Alcune delle grotte circostanti sono, in realtà, antiche necropoli risalenti al Neolitico Medio.
I resti ritrovati sono particolarmente importanti, in quanto gli scheletri sono quasi del tutto intatti. Una frana li ha sepolti nel momento in cui cominciava il processo di decomposizione, proteggendo i cadaveri e permettendo che essi arrivassero fino a noi praticamente integri, nella posizione in cui erano stati sepolti. I resti appartengono ad un uomo di circa 50 anni di età, un giovane e due bambini, uno di circa 3-4 anni, l'altro di 5-6. L'uomo più anziano era accompagnato da diversi oggetti di corredo: un vetro ovoidale con due manici ed i resti di due capre e un vitello. Sotto il braccio sinistro dell'uomo, vicino al gomito, è stato ritrovato un ciondolo d'osso smaltato.
Gli scheletri giacevano in posizione fetale, con le spalle rivolte alla parete nord della grotta. Gli arti inferiori sono stati piegati, le ginocchia poste all'altezza del torace. Le braccia erano piegate tra le gambe. Per mantenere questa posizione i cadaveri potrebbero essere stati legati ed avvolti in una sorta di sudario. Nel 1999, nello stesso luogo, i ricercatori hanno ritrovato il frammento di una tazza che, analizzato con le tecniche moderne, ha permesso di individuare tracce di fitoliti di orzo e di mais che hanno fatto pensare alle tracce della fermentazione della più antica birra mai ritrovata in Europa.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
Gli scavi nella grotta Can Sadurni, nei pressi di Barcellona, hanno riportato alla luce quattro scheletri umani risalenti a circa 6400 anni fa, sepolti a seguito di uno sconosciuto rituale funerario. Alcune delle grotte circostanti sono, in realtà, antiche necropoli risalenti al Neolitico Medio.
I resti ritrovati sono particolarmente importanti, in quanto gli scheletri sono quasi del tutto intatti. Una frana li ha sepolti nel momento in cui cominciava il processo di decomposizione, proteggendo i cadaveri e permettendo che essi arrivassero fino a noi praticamente integri, nella posizione in cui erano stati sepolti. I resti appartengono ad un uomo di circa 50 anni di età, un giovane e due bambini, uno di circa 3-4 anni, l'altro di 5-6. L'uomo più anziano era accompagnato da diversi oggetti di corredo: un vetro ovoidale con due manici ed i resti di due capre e un vitello. Sotto il braccio sinistro dell'uomo, vicino al gomito, è stato ritrovato un ciondolo d'osso smaltato.
Gli scheletri giacevano in posizione fetale, con le spalle rivolte alla parete nord della grotta. Gli arti inferiori sono stati piegati, le ginocchia poste all'altezza del torace. Le braccia erano piegate tra le gambe. Per mantenere questa posizione i cadaveri potrebbero essere stati legati ed avvolti in una sorta di sudario. Nel 1999, nello stesso luogo, i ricercatori hanno ritrovato il frammento di una tazza che, analizzato con le tecniche moderne, ha permesso di individuare tracce di fitoliti di orzo e di mais che hanno fatto pensare alle tracce della fermentazione della più antica birra mai ritrovata in Europa.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
lunedì 25 novembre 2013
La trapanazione del cranio nel Neolitico
Trapanazione del cranio
di Pierluigi Montalbano
Al Museo Sanna di Sassari è esposto uno dei numerosi crani che mostrano fori nella calotta e che sono riferiti a migliaia di anni fa. In Sardegna il ricorso a trapanazioni craniche effettuate su persone vive risale a studi su resti umani della tomba di Scaba ‘e Sarriu di Siddi, datata a cavallo fra Neolitico ed Età del Rame. Precedentemente quest'operazione si riferiva alla cultura Bonnannaro e poteva essere semplice o multipla con l'asportazione di rondelle ossee. In un caso un cranio mostra che l'individuo ha subìto in vita quattro interventi con la sopravvivenza dopo i primi tre. La formazione del relativo callo osseo dimostra che questa operazione di chirurgia era svolta con particolare perizia e gli individui sopravvivevano alla fuoriuscita del materiale cerebrale.
In qualche caso si nota anche che li reinnesto riuscito della rondella precedentemente asportata. Non si conoscono le motivazioni di questa pratica, ma si suppone che sia legata a rituali magico religiosi giustificati da manifestazione patologiche. È possibile che l'individuazione di malati di epilessia portasse la comunità a ritenere l'individuo posseduto dagli spiriti maligni con la conseguente necessità di liberarlo. È dunque possibile testimoniare l'esistenza di medici stregoni in possesso di notevoli conoscenze di anatomia. La pratica mostra continuità di vita fino alle soglie della civiltà nuragica, ossia intorno al 1800 a.C. come dimostra la donna sepolta nella grotta di Dorgali denominata di Sisàia, dove l'esame osseo ha dimostrato una trapanazione cranica in vita con il reimpianto della rondella ossea.
Immagine in bianco e nero di www.fantasy.gamberi.org
domenica 24 novembre 2013
Roma. Entra nel vivo il restauro del Colosseo
Roma. Entra nel vivo il restauro del Colosseo
In una conferenza stampa svoltasi a Roma qualche mese fa, il Ministro per i beni culturali Lorenzo Ornaghi, il sindaco di Roma e Diego Della Valle, convenuti con la soprintendente ai beni archeologici hanno comunicato l’avvio al restauro del monumento dopo il via libera degli organi giurisdizionali. Ecco il resoconto:
Il ministro Ornaghi sottolinea l’importanza della partecipazione dell’imprenditoria privata a fianco delle istituzioni pubbliche con le finalità legate al rapporto tra cultura e sviluppo, in un mecenatismo lungimirante. L’impegno delle istituzioni è la tutela e la valorizzazione nelle forme più adeguate ai tempi moderni. E’ una presentazione dell’Italia di fronte al mondo del suo monumento simbolo.
La soprintendente Barbera richiama le linee elaborate nel piano dell’archeologia romana già rese pubbliche e ricorda che la Soprintendenza impegna 1,5 milioni di euro l’anno per la manutenzione, e svolge indagini i cui prossimi risultati serviranno a definire gli ulteriori interventi.
Il sindaco inizia esprimendo gratitudine al gruppo Tod’s e definisce l’iniziativa come un esempio positivo di moderno mecenatismo e di contributo della società civile al patrimonio artistico. Ricorda che un intervento di questa ampiezza manca da 73 anni, l’ultimo paragonabile si è avuto nel 1939, dopo questo solo misure parziali, e confida di averne parlato per la prima volta a Della Valle tre anni fa. Il sindaco, anche rispondendo alla richiesta della Barbera per la “contestualizzazione decorosa del monumento” e alle domande dei giornalisti, inquadra l’intervento nel recupero del decoro urbano e soprattutto nel progetto di “parziale pedonalizzazione dell’area del Colosseo e dei Fori Imperiali”.
L’imprenditore Della Valle spiega che il suo gruppo Tod’s, come espressione del “made in Italy”, non poteva restare insensibile alla necessità di restauro di un monumento simbolo dell’Italia nel mondo, ed è intervenuto “a nome degli italiani per bene che lavorano e possono aspettarsi iniziative di questo tipo”. Aggiunge che il Colosseo appartiene a tutti gli italiani che ne sono fieri e non può esserci appropriazione d’immagine e speculazione”. Spera che l’esempio sia seguito per altre iniziative di valorizzazione e sia un segno di vitalità del nostro paese e della leadership mondiale nei beni culturali data dal suo straordinario patrimonio che deve trasformarsi in una leva di sviluppo; a ciò ha sollecitato altri imprenditori.
La “road map” dei lavori al Colosseo
Parliamo ora della “road map” tracciata dalla soprintendente Barbera. Il 27 luglio 2012 il via alla prima fase con l’aggiudicazione del primo lotto. Ai primi di dicembre 2012 sono stati avviati i lavori con termine a fine luglio 2015. Si provvederà alla pulitura dei prospetti esterni per restituire al monumento l’avorio originale del travertino vincendo l’azione del tempo e dello smog. Il piano di interventi prevede nello specifico le seguenti fasi: opere provvisionali, integrazione del rilievo e mappatura dello stato di conservazione; restauro dei prospetti; pulitura con acqua nebulizzata, stuccature, trattamento degli elementi metallici; rimozione della struttura di protezione delle arcate in basso sostituita da nuova recinzione.
La seconda fase riguarda la realizzazione del Centro servizi nel terrapieno tra via Celio Vibenna e la piazza del Colosseo che si concluderanno dopo 18 mesi nel 2015. Dopo lo scavo del terrapieno sarà realizzata la struttura portante del Centro servizi, poi la “nuova copertura della struttura con terra e trattamento a verde e finiture interne ed esterne”. Si tratta di un intervento di importanza strategica per la fruizione del monumento perché permetterà di liberare le aree interne ora occupate dai servizi oltretutto inadeguati.
Questo avverrà via via senza attendere la fine dei lavori,in modo che saranno spostati all’esterno progressivamente biglietteria e book shop, caffetteria e toilette fino a esternare completare i servizi di accoglienza. Lo precisa, a latere degli interventi ufficiali, Pia Petrangeli, architetto della soprintendenza. Ricordando l’incontro del 2010 ci conferma che gli interventi sul Colosseo, la cui direzione tecnica è della Soprintendenza, seguiranno le linee tracciate dal Rapporto Cecchi. Aggiunge: “Siamo andati a rintracciare le parti sull’Anfiteatro Flavio tra le sue 400 pagine, a suo tempo da noi ampiamente commentate, dove abbiamo trovato notizie più specifiche sulla terza fase di interventi, alla quale si è solo accennato nella presentazione dato che il progetto da porre a base d’asta è ancora in corso di redazione sulla base dei dati ottenuti con ricerche e cantieri-campione. Riguarda il restauro degli ambienti interni, in particolare gli ambulacri e i due terzi dei sotterranei (ipogei), e le opere impiantistiche cioè gli impianti tecnologici”.
Nel “Rapporto Cecchi”, Rossella Rea, direttrice del Colosseo, scriveva: “Al termine dei lavori sarà offerta al pubblico la possibilità di accedere a spazi di particolare suggestione e per la visuale insolita (dal piano ludico verso la monumentale cavea e sulle strutture sotterranee) e per l’eccezionale fruizione dell’unica porzione di edificio pervenuta intatta nella sua struttura originaria, seppure con ampi rifacimenti successivi all’incendio del 217: gli ipogei orientali, destinati all’accesso di uomini e animali nei sotterranei, articolati lungo la galleria di collegamento fra l’Anfiteatro e il ‘Ludus Magnus’ in ampi ambienti destinati alla manovra di grandi montacarichi. All’interno di un ambiente sarà riproposta la funzione originaria: un ascensore consentirà, infatti, l’accesso ai sotterranei”.
I numerosi interventi parziali hanno già consentito l’apertura di parte degli ipogei e del terzo ordine del Colosseo, in molti di essi è stato progettista Piero Meogrossi, architetto con vocazione di archeologo, che raccomanda di curare la continuità archeologica nel contesto storico-ambientale. Ci parlò della sua visione dalla Via Sacra al Monte Cavo alla riapertura del Complesso Severiano.
Intanto con l’intervento massiccio consentito dal provvidenziale contributo finanziario di 25 milioni di euro del gruppo Tod’s l’area fruibile per la visita del Colosseo aumenterà del 25%, sia per la liberazione dell’area interna dai servizi, sia per le aree sotterranee aperte per i due terzi e quelle superiori che saranno visitabili.
Ma anche la pulitura delle facciate va ben oltre la mera manutenzione, pur fondamentale. “E’ un intervento di restauro di notevole complessità, volto all’individuazione e alla pulizia ragionata , quindi diversificata, di superfici che conservano tracce della bimillenaria storia dell’edificio: dai segni, anche dipinti, apposti sui blocchi sbozzati quando erano ancora sulla cava, ai graffiti redatti in epoca antica e post-antica, ai segni degli incendi come quello appiccato da Roberto il Guiscardo, le cui tracce sono ben visibili in alcune arcate del I ordine”.
Queste parole di Rossella Rea partendo dalla tecnica di manutenzione ci proiettano nell’affascinante storia bimillenaria del monumento, che investe l’intera zona in cui è collocato, interessata dal “progetto di fruizione” dell’area centrale. Scrive Roberto Cecchi a pagina XVI dell’introduzione al suo rapporto del 2010: “L’area compresa tra Palatino, Colosseo, Fori e Circo Massimo ha una chiara vocazione unitaria. E’ facile, cioè, immaginare di poter vedere questi beni riuniti all’interno di un unico, ideale perimetro, superando quelle divisioni che ne rendono difficile e poco comprensibile la fruizione”. Poi precisa: “E’ una riflessione questa che non si propone affatto di essere una novità.
Già in passato, a partire dal progetto di L. M. Berthault del 1813, per finire a quello di Benevolo del 1813, passando attraverso la Commissione Reale di fine Ottocento, si è immaginato di realizzare un unico parco archeologico che arrivava ad includere al suo interno anche la via Appia”. Ma se è facile immaginarlo, “sono progetti che non hanno mai visto la luce per l’impossibilità di intervenire così in profondità sul tessuto della città; questo vale anche oggi, allorché contenute modifiche viabilistiche possono innescare processi difficilmente controllabili”.
Il realismo lo porta a una visione unitaria più limitata: “Ed è per questo motivo che al classico Palatino-Colosseo-Fori si è aggiunto anche il Circo Massimo, proprio perché una delle operazioni più semplici per ricostituire quella perduta unitarietà, potrebbe essere proprio riconnettere fisicamente il Circo al Palatino pedonalizzando Via dei Cerchi”; viene citata anche, all’interno dei Fori, l’eliminazione della via Alessandrina per “la percezione in continuità del Foro romano e dei Fori medesimi, compresa l’area dei mercati Traianei”. Ci auguriamo che queste “operazioni più semplici” possano essere portate avanti nel tempo previsto per completare i lavori sul Colosseo e per l’isolamento dal traffico e la pedonalizzazione dell’area circostante; quindi entro il 2015.
Il tormentone del parco archeologico dei Fori Imperiali
E per finire riprendiamo il nostro tormentone, su cui abbiamo insistito da anni, sul ripristino della continuità archeologica dei Fori interrotta da Via dei Fori Imperiali.
La pedonalizzazione già decisa dell’area intorno al Colosseo richiede modifiche dei flussi di traffico che interessano in parte Via dei Fori Imperiali, peraltro già chiusa alle automobili nelle domeniche per le passeggiate ecologiche. Oltretutto la tecnica moderna dei ponti panoramici – basta pensare al Ponte del mare a Pescara e a quello veneziano di Calatrava – rende facile immaginare i Fori interamente portati alla luce con relativa passerella soprastante, un evento che avrebbe risonanza mondiale anche solo se si desse l’annuncio che è allo studio.
Il momento sarebbe favorevole per gli interventi nell’area limitrofa del Colosseo, mentre non lo è sotto il profilo economico: la profonda crisi che ha sconsigliato la candidatura alle Olimpiadi impedirebbe qualunque iniziativa radicale volta a portare alla luce l’immenso patrimonio archeologico coperto da via dei Fori Imperiali da sostituire con un ponte panoramico. Ma al tempo stesso si ha bisogno di iniziative per la crescita e il rilancio del paese, e quale settore è più idoneo dei beni culturali?
In questo quadro il contributo finanziario della Tod’s di Diego della Valle per coprire i costi dei lavori al Colosseo apre una prospettiva ancora più avanzata: crediamo sia altrettanto possibile trovare uno o più sponsor internazionali per l’iniziativa del raddoppio del parco archeologico dei Fori che, in aggiunta agli italiani, potrebbe attrarre i grandi capitali da tutto il mondo, dagli asiatici agli americani, dai russi agli emiri. Chi non sarebbe disposto a pagare, come fa Diego Della Valle nel Colosseo, per mettere la propria firma sotto un evento epocale come quello che evochiamo?
Riprendiamo imperterriti un tormentone testardo che si rivela sempre meno utopistico quando prende corpo in grande stile questa nuova forma di valorizzazione dei beni culturali basata sul contributo dei privati. E se funziona per la pulitura della facciata e gli interventi connessi su un monumento simbolo, perché non farvi ricorso per un progetto ben più ambizioso quale quello appena richiamato che ricorda le grandi campagne di scavi del passato sulle quali viviamo di rendita senza proseguirle neppure quando i reperti sono pochi metri sotto via dei Fori Imperiali?
Non ci aspettiamo una risposta, continueremo a vivere in questo sogno, a coltivare questa utopia.
Foto
Le immagini riproducono il “progetto di restauro delle superfici”, precisamente “facciata e controfacciata”, “ambulacri e ipogei”, “recinzioni”: ad esse si riferisce espressamente Roberto Cecchi al termine dell’Introduzione al rapporto “Roma archaeologia”. Sono elaborazioni grafiche dello Studio di Michele De Lucchi, tratte dal rapporto ora citato.
Fonte: http://notizie.antika.it/0012545_roma-parte-il-restauro-del-colosseo/#comment-2298
In una conferenza stampa svoltasi a Roma qualche mese fa, il Ministro per i beni culturali Lorenzo Ornaghi, il sindaco di Roma e Diego Della Valle, convenuti con la soprintendente ai beni archeologici hanno comunicato l’avvio al restauro del monumento dopo il via libera degli organi giurisdizionali. Ecco il resoconto:
Il ministro Ornaghi sottolinea l’importanza della partecipazione dell’imprenditoria privata a fianco delle istituzioni pubbliche con le finalità legate al rapporto tra cultura e sviluppo, in un mecenatismo lungimirante. L’impegno delle istituzioni è la tutela e la valorizzazione nelle forme più adeguate ai tempi moderni. E’ una presentazione dell’Italia di fronte al mondo del suo monumento simbolo.
La soprintendente Barbera richiama le linee elaborate nel piano dell’archeologia romana già rese pubbliche e ricorda che la Soprintendenza impegna 1,5 milioni di euro l’anno per la manutenzione, e svolge indagini i cui prossimi risultati serviranno a definire gli ulteriori interventi.
Il sindaco inizia esprimendo gratitudine al gruppo Tod’s e definisce l’iniziativa come un esempio positivo di moderno mecenatismo e di contributo della società civile al patrimonio artistico. Ricorda che un intervento di questa ampiezza manca da 73 anni, l’ultimo paragonabile si è avuto nel 1939, dopo questo solo misure parziali, e confida di averne parlato per la prima volta a Della Valle tre anni fa. Il sindaco, anche rispondendo alla richiesta della Barbera per la “contestualizzazione decorosa del monumento” e alle domande dei giornalisti, inquadra l’intervento nel recupero del decoro urbano e soprattutto nel progetto di “parziale pedonalizzazione dell’area del Colosseo e dei Fori Imperiali”.
L’imprenditore Della Valle spiega che il suo gruppo Tod’s, come espressione del “made in Italy”, non poteva restare insensibile alla necessità di restauro di un monumento simbolo dell’Italia nel mondo, ed è intervenuto “a nome degli italiani per bene che lavorano e possono aspettarsi iniziative di questo tipo”. Aggiunge che il Colosseo appartiene a tutti gli italiani che ne sono fieri e non può esserci appropriazione d’immagine e speculazione”. Spera che l’esempio sia seguito per altre iniziative di valorizzazione e sia un segno di vitalità del nostro paese e della leadership mondiale nei beni culturali data dal suo straordinario patrimonio che deve trasformarsi in una leva di sviluppo; a ciò ha sollecitato altri imprenditori.
La “road map” dei lavori al Colosseo
Parliamo ora della “road map” tracciata dalla soprintendente Barbera. Il 27 luglio 2012 il via alla prima fase con l’aggiudicazione del primo lotto. Ai primi di dicembre 2012 sono stati avviati i lavori con termine a fine luglio 2015. Si provvederà alla pulitura dei prospetti esterni per restituire al monumento l’avorio originale del travertino vincendo l’azione del tempo e dello smog. Il piano di interventi prevede nello specifico le seguenti fasi: opere provvisionali, integrazione del rilievo e mappatura dello stato di conservazione; restauro dei prospetti; pulitura con acqua nebulizzata, stuccature, trattamento degli elementi metallici; rimozione della struttura di protezione delle arcate in basso sostituita da nuova recinzione.
La seconda fase riguarda la realizzazione del Centro servizi nel terrapieno tra via Celio Vibenna e la piazza del Colosseo che si concluderanno dopo 18 mesi nel 2015. Dopo lo scavo del terrapieno sarà realizzata la struttura portante del Centro servizi, poi la “nuova copertura della struttura con terra e trattamento a verde e finiture interne ed esterne”. Si tratta di un intervento di importanza strategica per la fruizione del monumento perché permetterà di liberare le aree interne ora occupate dai servizi oltretutto inadeguati.
Questo avverrà via via senza attendere la fine dei lavori,in modo che saranno spostati all’esterno progressivamente biglietteria e book shop, caffetteria e toilette fino a esternare completare i servizi di accoglienza. Lo precisa, a latere degli interventi ufficiali, Pia Petrangeli, architetto della soprintendenza. Ricordando l’incontro del 2010 ci conferma che gli interventi sul Colosseo, la cui direzione tecnica è della Soprintendenza, seguiranno le linee tracciate dal Rapporto Cecchi. Aggiunge: “Siamo andati a rintracciare le parti sull’Anfiteatro Flavio tra le sue 400 pagine, a suo tempo da noi ampiamente commentate, dove abbiamo trovato notizie più specifiche sulla terza fase di interventi, alla quale si è solo accennato nella presentazione dato che il progetto da porre a base d’asta è ancora in corso di redazione sulla base dei dati ottenuti con ricerche e cantieri-campione. Riguarda il restauro degli ambienti interni, in particolare gli ambulacri e i due terzi dei sotterranei (ipogei), e le opere impiantistiche cioè gli impianti tecnologici”.
Nel “Rapporto Cecchi”, Rossella Rea, direttrice del Colosseo, scriveva: “Al termine dei lavori sarà offerta al pubblico la possibilità di accedere a spazi di particolare suggestione e per la visuale insolita (dal piano ludico verso la monumentale cavea e sulle strutture sotterranee) e per l’eccezionale fruizione dell’unica porzione di edificio pervenuta intatta nella sua struttura originaria, seppure con ampi rifacimenti successivi all’incendio del 217: gli ipogei orientali, destinati all’accesso di uomini e animali nei sotterranei, articolati lungo la galleria di collegamento fra l’Anfiteatro e il ‘Ludus Magnus’ in ampi ambienti destinati alla manovra di grandi montacarichi. All’interno di un ambiente sarà riproposta la funzione originaria: un ascensore consentirà, infatti, l’accesso ai sotterranei”.
I numerosi interventi parziali hanno già consentito l’apertura di parte degli ipogei e del terzo ordine del Colosseo, in molti di essi è stato progettista Piero Meogrossi, architetto con vocazione di archeologo, che raccomanda di curare la continuità archeologica nel contesto storico-ambientale. Ci parlò della sua visione dalla Via Sacra al Monte Cavo alla riapertura del Complesso Severiano.
Intanto con l’intervento massiccio consentito dal provvidenziale contributo finanziario di 25 milioni di euro del gruppo Tod’s l’area fruibile per la visita del Colosseo aumenterà del 25%, sia per la liberazione dell’area interna dai servizi, sia per le aree sotterranee aperte per i due terzi e quelle superiori che saranno visitabili.
Ma anche la pulitura delle facciate va ben oltre la mera manutenzione, pur fondamentale. “E’ un intervento di restauro di notevole complessità, volto all’individuazione e alla pulizia ragionata , quindi diversificata, di superfici che conservano tracce della bimillenaria storia dell’edificio: dai segni, anche dipinti, apposti sui blocchi sbozzati quando erano ancora sulla cava, ai graffiti redatti in epoca antica e post-antica, ai segni degli incendi come quello appiccato da Roberto il Guiscardo, le cui tracce sono ben visibili in alcune arcate del I ordine”.
Queste parole di Rossella Rea partendo dalla tecnica di manutenzione ci proiettano nell’affascinante storia bimillenaria del monumento, che investe l’intera zona in cui è collocato, interessata dal “progetto di fruizione” dell’area centrale. Scrive Roberto Cecchi a pagina XVI dell’introduzione al suo rapporto del 2010: “L’area compresa tra Palatino, Colosseo, Fori e Circo Massimo ha una chiara vocazione unitaria. E’ facile, cioè, immaginare di poter vedere questi beni riuniti all’interno di un unico, ideale perimetro, superando quelle divisioni che ne rendono difficile e poco comprensibile la fruizione”. Poi precisa: “E’ una riflessione questa che non si propone affatto di essere una novità.
Già in passato, a partire dal progetto di L. M. Berthault del 1813, per finire a quello di Benevolo del 1813, passando attraverso la Commissione Reale di fine Ottocento, si è immaginato di realizzare un unico parco archeologico che arrivava ad includere al suo interno anche la via Appia”. Ma se è facile immaginarlo, “sono progetti che non hanno mai visto la luce per l’impossibilità di intervenire così in profondità sul tessuto della città; questo vale anche oggi, allorché contenute modifiche viabilistiche possono innescare processi difficilmente controllabili”.
Il realismo lo porta a una visione unitaria più limitata: “Ed è per questo motivo che al classico Palatino-Colosseo-Fori si è aggiunto anche il Circo Massimo, proprio perché una delle operazioni più semplici per ricostituire quella perduta unitarietà, potrebbe essere proprio riconnettere fisicamente il Circo al Palatino pedonalizzando Via dei Cerchi”; viene citata anche, all’interno dei Fori, l’eliminazione della via Alessandrina per “la percezione in continuità del Foro romano e dei Fori medesimi, compresa l’area dei mercati Traianei”. Ci auguriamo che queste “operazioni più semplici” possano essere portate avanti nel tempo previsto per completare i lavori sul Colosseo e per l’isolamento dal traffico e la pedonalizzazione dell’area circostante; quindi entro il 2015.
Il tormentone del parco archeologico dei Fori Imperiali
E per finire riprendiamo il nostro tormentone, su cui abbiamo insistito da anni, sul ripristino della continuità archeologica dei Fori interrotta da Via dei Fori Imperiali.
La pedonalizzazione già decisa dell’area intorno al Colosseo richiede modifiche dei flussi di traffico che interessano in parte Via dei Fori Imperiali, peraltro già chiusa alle automobili nelle domeniche per le passeggiate ecologiche. Oltretutto la tecnica moderna dei ponti panoramici – basta pensare al Ponte del mare a Pescara e a quello veneziano di Calatrava – rende facile immaginare i Fori interamente portati alla luce con relativa passerella soprastante, un evento che avrebbe risonanza mondiale anche solo se si desse l’annuncio che è allo studio.
Il momento sarebbe favorevole per gli interventi nell’area limitrofa del Colosseo, mentre non lo è sotto il profilo economico: la profonda crisi che ha sconsigliato la candidatura alle Olimpiadi impedirebbe qualunque iniziativa radicale volta a portare alla luce l’immenso patrimonio archeologico coperto da via dei Fori Imperiali da sostituire con un ponte panoramico. Ma al tempo stesso si ha bisogno di iniziative per la crescita e il rilancio del paese, e quale settore è più idoneo dei beni culturali?
In questo quadro il contributo finanziario della Tod’s di Diego della Valle per coprire i costi dei lavori al Colosseo apre una prospettiva ancora più avanzata: crediamo sia altrettanto possibile trovare uno o più sponsor internazionali per l’iniziativa del raddoppio del parco archeologico dei Fori che, in aggiunta agli italiani, potrebbe attrarre i grandi capitali da tutto il mondo, dagli asiatici agli americani, dai russi agli emiri. Chi non sarebbe disposto a pagare, come fa Diego Della Valle nel Colosseo, per mettere la propria firma sotto un evento epocale come quello che evochiamo?
Riprendiamo imperterriti un tormentone testardo che si rivela sempre meno utopistico quando prende corpo in grande stile questa nuova forma di valorizzazione dei beni culturali basata sul contributo dei privati. E se funziona per la pulitura della facciata e gli interventi connessi su un monumento simbolo, perché non farvi ricorso per un progetto ben più ambizioso quale quello appena richiamato che ricorda le grandi campagne di scavi del passato sulle quali viviamo di rendita senza proseguirle neppure quando i reperti sono pochi metri sotto via dei Fori Imperiali?
Non ci aspettiamo una risposta, continueremo a vivere in questo sogno, a coltivare questa utopia.
Foto
Le immagini riproducono il “progetto di restauro delle superfici”, precisamente “facciata e controfacciata”, “ambulacri e ipogei”, “recinzioni”: ad esse si riferisce espressamente Roberto Cecchi al termine dell’Introduzione al rapporto “Roma archaeologia”. Sono elaborazioni grafiche dello Studio di Michele De Lucchi, tratte dal rapporto ora citato.
Fonte: http://notizie.antika.it/0012545_roma-parte-il-restauro-del-colosseo/#comment-2298
sabato 23 novembre 2013
Archeologia della Sardegna. Iscrizione tardo punica su mano votiva
Inedita lettura di un'iscrizione 'tardopunica' incisa su una mano votiva in terracotta rinvenuta nel porto di Cagliari
di Roberto Casti
Oggi presentiamo la prima proposta interpretativa di un' iscrizione a caratteri ‘tardo-punici’ incisi prima della cottura sul dorso di una mano votiva sinistra frammentaria, in corrispondenza dell’attaccatura del polso. Recupero subacqueo del 1994 dal Porto di Cagliari. III-II sec. a.C.. Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Premesso che la lettura risulta incerta a causa di una scrostatura superficiale che ha abraso parte dei solchi della terza e della quarta lettera e che sono ormai trascorsi quasi venti anni dal suo ritrovamento, propongo la seguente trascrizione delle cinque lettere incise: ‘HWT’
Proposta interpretativa
Vivi - vita - (che possa vivere!) dalla radice ḤWY ‘vivere’ attestato finora come sostantivo nelle varianti ḤYM e ḤYT; si vedano in proposito anche le due iscrizioni identiche dipinte su due anfore dalla necropoli punica di Tuvixeddu Cagliari dove il sostantivo risulterebbe attestato anche nella forma ḤWT ( v. tripolit. 32 - KAI 126; cfr. Amadasi Guzzo 1967 pp. 115-116; Idem, IFPI 1990 p. 74 ; Garbini 1982 pp. 463-466; Garbini 1986 p. ; Ribichini 1995 pp. 19-20).
Annotazioni
La prima lettera è senza alcun dubbio ayin con vertice superiore apicato. Il secondo segno grafico, per quanto inciso con una forma anomala e straordinariamente speculare rispetto alla sua normale rappresentazione nella scrittura neopunica, non può essere altro che una ‘He’ (unica attestazione della lettera in questa forma particolare che dimostra ancora una volta come la scrittura neopunica assuma in Sardegna forme specifiche e del tutto nuove rispetto al resto del mediterraneo, v. iscrizione di Bithia). La terza lettera, sbrecciata superiormente, é quasi certamente waw. Un' altra sbrecciatura superficiale ha cancellato l’asta inferiore della quarta lettera di cui s’intravedono i solchi residui di una probabile lettera Tau. L’ultima lettera, sebbene in parte abrasa dalla stessa sbrecciatura che ha obliterato buona parte della lettera precedente, è senza alcun dubbio aleph. Va infine sottolineato come la vocalizzazione presente in questa iscrizione rifletta con tutta probabilità influssi del linguaggio parlato locale.
Ricordiamo in proposito le attestazioni del verbo nella formula di chiusura di numerose iscrizioni funerarie del nordafrica sia puniche che bilingui latino - puniche: Vixit annis... = visse anni... dove il verbo assume talvolta forme differenti, come ad es. ‘W‘ / ‘W’ / ‘WH.
Bibliografia di riferimento
M. G. Amadasi Guzzo, Le iscrizioni fenicie e puniche delle Colonie in Occidente, IFPCO Studi Semitici n. 28, Istituto di Studi del Vicino Oriente Sard. 35, Tav. XLIII 1967 pp. 115-116;
M.G. Amadas iGuzzo, Osservazioni sull'iscrizione tripolitana 32 in Studi Magrebini n. 11 1979 pp. 27-35;
M.G. Amadasi Guzzo, Iscrizioni fenicie e puniche in Italia, MBCA (IFPI) n. 4 Roma 1990 p. 74 ;
G. Garbini, Annali dell'Istituto Orientale di Napoli AION n. 42 Napoli 1982 pp. 463-466;
G. Garbini, Venti anni di epigrafia punica nel Magreb (1965-1985), in Rivista di Studi Fenici Volume XIV, Supplemento, CNR Roma 1986;
G. Coacci Polselli, A proposito di alcune iscrizioni edite nel'Ottocento, in Atti del I congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici Vol. III CNR. Roma 1983p. 773;
S. Ribichini, Flebili Dee Fenicie in RStFen 23 1995 pp. 19-20;
D. Salvi, Attraccare sul passato: il giacimento archeologico del Porto di Cagliari, in A. Benini & M. Giacobelli (a cura di), Atti del II Convegno Nazionale di Archeologia Subacquea (Castiglioncello, 7-9 settembre 2001). Edipuglia, Bari 2003, pp. 61-75 spec. p.69 fig. 15;
S. Ribichini, Sui riti funerari Fenici e Punici. Tra Archeologia e Storia delle Religioni, in A. Gonzales Prats(ed.), El Mundo funerario. Actas del III Seminario internacional sobre temas fenicios ( Guardamar del Segura, 3 a 5 de majo de 2002 ), Alicante 2004 pp. 43-76. (estratto p. 15 nota 71);
D. Salvi, Mercanti e imperatori: bolli, marchi e monete provenienti da scavi subacquei in Ricerche e confronti 2010, Atti. Archeo Arte. Rivista Elettronica di Archeologia e Arte, supplemento 2012 al n. 1 p. 243 e fig. 4;
M. Minoja - Consuelo Cossu - Michela Migaleddu, Parole di Segni L’alba della Scrittura in Sardegna; Collana Sardegna Archeologica Guide e Itinerari n. 47 p. 54 cat. n. 24.
di Roberto Casti
Oggi presentiamo la prima proposta interpretativa di un' iscrizione a caratteri ‘tardo-punici’ incisi prima della cottura sul dorso di una mano votiva sinistra frammentaria, in corrispondenza dell’attaccatura del polso. Recupero subacqueo del 1994 dal Porto di Cagliari. III-II sec. a.C.. Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Premesso che la lettura risulta incerta a causa di una scrostatura superficiale che ha abraso parte dei solchi della terza e della quarta lettera e che sono ormai trascorsi quasi venti anni dal suo ritrovamento, propongo la seguente trascrizione delle cinque lettere incise: ‘HWT’
Proposta interpretativa
Vivi - vita - (che possa vivere!) dalla radice ḤWY ‘vivere’ attestato finora come sostantivo nelle varianti ḤYM e ḤYT; si vedano in proposito anche le due iscrizioni identiche dipinte su due anfore dalla necropoli punica di Tuvixeddu Cagliari dove il sostantivo risulterebbe attestato anche nella forma ḤWT ( v. tripolit. 32 - KAI 126; cfr. Amadasi Guzzo 1967 pp. 115-116; Idem, IFPI 1990 p. 74 ; Garbini 1982 pp. 463-466; Garbini 1986 p. ; Ribichini 1995 pp. 19-20).
Annotazioni
La prima lettera è senza alcun dubbio ayin con vertice superiore apicato. Il secondo segno grafico, per quanto inciso con una forma anomala e straordinariamente speculare rispetto alla sua normale rappresentazione nella scrittura neopunica, non può essere altro che una ‘He’ (unica attestazione della lettera in questa forma particolare che dimostra ancora una volta come la scrittura neopunica assuma in Sardegna forme specifiche e del tutto nuove rispetto al resto del mediterraneo, v. iscrizione di Bithia). La terza lettera, sbrecciata superiormente, é quasi certamente waw. Un' altra sbrecciatura superficiale ha cancellato l’asta inferiore della quarta lettera di cui s’intravedono i solchi residui di una probabile lettera Tau. L’ultima lettera, sebbene in parte abrasa dalla stessa sbrecciatura che ha obliterato buona parte della lettera precedente, è senza alcun dubbio aleph. Va infine sottolineato come la vocalizzazione presente in questa iscrizione rifletta con tutta probabilità influssi del linguaggio parlato locale.
Ricordiamo in proposito le attestazioni del verbo nella formula di chiusura di numerose iscrizioni funerarie del nordafrica sia puniche che bilingui latino - puniche: Vixit annis... = visse anni... dove il verbo assume talvolta forme differenti, come ad es. ‘W‘ / ‘W’ / ‘WH.
Bibliografia di riferimento
M. G. Amadasi Guzzo, Le iscrizioni fenicie e puniche delle Colonie in Occidente, IFPCO Studi Semitici n. 28, Istituto di Studi del Vicino Oriente Sard. 35, Tav. XLIII 1967 pp. 115-116;
M.G. Amadas iGuzzo, Osservazioni sull'iscrizione tripolitana 32 in Studi Magrebini n. 11 1979 pp. 27-35;
M.G. Amadasi Guzzo, Iscrizioni fenicie e puniche in Italia, MBCA (IFPI) n. 4 Roma 1990 p. 74 ;
G. Garbini, Annali dell'Istituto Orientale di Napoli AION n. 42 Napoli 1982 pp. 463-466;
G. Garbini, Venti anni di epigrafia punica nel Magreb (1965-1985), in Rivista di Studi Fenici Volume XIV, Supplemento, CNR Roma 1986;
G. Coacci Polselli, A proposito di alcune iscrizioni edite nel'Ottocento, in Atti del I congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici Vol. III CNR. Roma 1983p. 773;
S. Ribichini, Flebili Dee Fenicie in RStFen 23 1995 pp. 19-20;
D. Salvi, Attraccare sul passato: il giacimento archeologico del Porto di Cagliari, in A. Benini & M. Giacobelli (a cura di), Atti del II Convegno Nazionale di Archeologia Subacquea (Castiglioncello, 7-9 settembre 2001). Edipuglia, Bari 2003, pp. 61-75 spec. p.69 fig. 15;
S. Ribichini, Sui riti funerari Fenici e Punici. Tra Archeologia e Storia delle Religioni, in A. Gonzales Prats(ed.), El Mundo funerario. Actas del III Seminario internacional sobre temas fenicios ( Guardamar del Segura, 3 a 5 de majo de 2002 ), Alicante 2004 pp. 43-76. (estratto p. 15 nota 71);
D. Salvi, Mercanti e imperatori: bolli, marchi e monete provenienti da scavi subacquei in Ricerche e confronti 2010, Atti. Archeo Arte. Rivista Elettronica di Archeologia e Arte, supplemento 2012 al n. 1 p. 243 e fig. 4;
M. Minoja - Consuelo Cossu - Michela Migaleddu, Parole di Segni L’alba della Scrittura in Sardegna; Collana Sardegna Archeologica Guide e Itinerari n. 47 p. 54 cat. n. 24.
venerdì 22 novembre 2013
Clamoroso ritrovamento: un affresco di Paestum ritrovato nel New Jersey.
Clamoroso ritrovamento archeologico: un affresco di Paestum ritrovato nel New Jersey.
Era stato venduto sottobanco al miliardario Steinhardt, imprenditore e filantropo americano che fa parte del consiglio d'amministrazione della casa d'aste Christie's
L'antica Poseidonia ritrovata all'aeroporto Newark Liberty e sequestrata dalle forze dell'ordine. Non è una bufala ma un vero e proprio pezzo d'arte trafugato negli anni '70 e ritrovato mentre era in viaggio verso la sua nuova casa. Ossia quella di un miliardario americano. L'opera d'arte, un «pezzo» di un affresco di Paestum, è stato ritrovato lo scorso 7 novembre. Era finito nelle mani di un collezionista svizzero che poi aveva venduto e spedito il misterioso pacco intercettato dalle autorità aeroportuale al miliardario americano Michael Steinhardt, imprenditore, filantropo e consigliere d'amministrazione della casa d'aste Christie's.
Steinhardt a quanto riferito sarebbe un collezionista anomalo visto che è stato sorpreso più volte con le mani su opere trafugate o di dubbia provenienza dalle autorità americane.
La notizia riportata sui media americani e anche dal settimanale l'Espresso riferisce che quando gli agenti hanno aperto il pacchetto indirizzato a Steinhardt si sono trovati davanti un pezzo di frontone triangolare con l'affresco della tomba 53 scoperta dall'archeologo Mario Napoli nel 1969 nella necropoli di Andriuolo e scomparsa quasi subito, negli anni '70 senza lasciar traccia mentre gli altri affreschi gemelli sono tuttora esposti al museo archeologico di Paestum.
www.corrieredelmezzogiorno.corriere.it
Era stato venduto sottobanco al miliardario Steinhardt, imprenditore e filantropo americano che fa parte del consiglio d'amministrazione della casa d'aste Christie's
L'antica Poseidonia ritrovata all'aeroporto Newark Liberty e sequestrata dalle forze dell'ordine. Non è una bufala ma un vero e proprio pezzo d'arte trafugato negli anni '70 e ritrovato mentre era in viaggio verso la sua nuova casa. Ossia quella di un miliardario americano. L'opera d'arte, un «pezzo» di un affresco di Paestum, è stato ritrovato lo scorso 7 novembre. Era finito nelle mani di un collezionista svizzero che poi aveva venduto e spedito il misterioso pacco intercettato dalle autorità aeroportuale al miliardario americano Michael Steinhardt, imprenditore, filantropo e consigliere d'amministrazione della casa d'aste Christie's.
Steinhardt a quanto riferito sarebbe un collezionista anomalo visto che è stato sorpreso più volte con le mani su opere trafugate o di dubbia provenienza dalle autorità americane.
La notizia riportata sui media americani e anche dal settimanale l'Espresso riferisce che quando gli agenti hanno aperto il pacchetto indirizzato a Steinhardt si sono trovati davanti un pezzo di frontone triangolare con l'affresco della tomba 53 scoperta dall'archeologo Mario Napoli nel 1969 nella necropoli di Andriuolo e scomparsa quasi subito, negli anni '70 senza lasciar traccia mentre gli altri affreschi gemelli sono tuttora esposti al museo archeologico di Paestum.
www.corrieredelmezzogiorno.corriere.it
giovedì 21 novembre 2013
Placca in bronzo con incisione punica nel Tempio di Antas
Incisione punica nel Tempio di Antas
di Roberto Casti
Riproduzione grafica di un’iscrizione punica incisa su una placchetta in bronzo frammentaria provvista di fori per l’infissione (dim. cm. 5 x 4,5 x 2,5 mm.). Il testo, di cui residua la sola parte sinistra, si sviluppa su 5 linee di scrittura. Fu rinvenuta insieme numerose altre (una ventina) nell’area attorno al tempio di Antas (Fluminimaggiore) nel corso delle campagne di scavo 1967-1968. Solo una di queste iscrizioni risultava completa; tutte le altre, così come questa, erano frammentarie. Presentiamo qui, per la prima volta in caratteri latini, la trascrizione delle lettere già pubblicate nel 1969 da M. Fantar in caratteri ebraici com'era d’abitudine fino ad allora per le traslitterazioni di tutte le iscrizioni semitiche.
IV–III a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
Bibliografia: Mohamed Fantar, Les Inscriptions, in AA. VV. Ricerche puniche ad Antas, Rapporto preliminare della Missione archeologica dell’Università di Roma e della Soprintendenza alle Antichità di Cagliari, Studi Semitici 30 Istituto di Studi del Vicino Oriente. Roma 1969 pp. 64-68. Tav. XXV, 2.
Trascrizione:
L 1 … ’Š NDR HMLKT
L 2 … BN B‘l YTN HŠPT
L 3 … [‘] DRB ‘L HŠPT BN
L 4 … ‘M HSLKY BŠT
L 5 … HN’
Traduzione:
1 … che ha offerto Himilkat
2 … figlio di Baalyaton il sufeta
3 … [A]ddirbaal il sufeta, figlio di
4 ... che fa parte del popolo di Sulky, nell’anno di
5 ... Hanno’
Di rilievo in questa iscrizione, oltre ai nomi dei sufeti, l’attestazione del nome punico dell’odierna città di Sant’Antioco.
di Roberto Casti
Riproduzione grafica di un’iscrizione punica incisa su una placchetta in bronzo frammentaria provvista di fori per l’infissione (dim. cm. 5 x 4,5 x 2,5 mm.). Il testo, di cui residua la sola parte sinistra, si sviluppa su 5 linee di scrittura. Fu rinvenuta insieme numerose altre (una ventina) nell’area attorno al tempio di Antas (Fluminimaggiore) nel corso delle campagne di scavo 1967-1968. Solo una di queste iscrizioni risultava completa; tutte le altre, così come questa, erano frammentarie. Presentiamo qui, per la prima volta in caratteri latini, la trascrizione delle lettere già pubblicate nel 1969 da M. Fantar in caratteri ebraici com'era d’abitudine fino ad allora per le traslitterazioni di tutte le iscrizioni semitiche.
IV–III a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.
Bibliografia: Mohamed Fantar, Les Inscriptions, in AA. VV. Ricerche puniche ad Antas, Rapporto preliminare della Missione archeologica dell’Università di Roma e della Soprintendenza alle Antichità di Cagliari, Studi Semitici 30 Istituto di Studi del Vicino Oriente. Roma 1969 pp. 64-68. Tav. XXV, 2.
Trascrizione:
L 1 … ’Š NDR HMLKT
L 2 … BN B‘l YTN HŠPT
L 3 … [‘] DRB ‘L HŠPT BN
L 4 … ‘M HSLKY BŠT
L 5 … HN’
Traduzione:
1 … che ha offerto Himilkat
2 … figlio di Baalyaton il sufeta
3 … [A]ddirbaal il sufeta, figlio di
4 ... che fa parte del popolo di Sulky, nell’anno di
5 ... Hanno’
Di rilievo in questa iscrizione, oltre ai nomi dei sufeti, l’attestazione del nome punico dell’odierna città di Sant’Antioco.
mercoledì 20 novembre 2013
La supposta origine fenicia di Bosa
La supposta origine fenicia di Bosa
di Massimo Pittau
Bosa [localmente (B)Osa; (nel Medioevo anche Vosa)] (cittadina della provincia di Oristano, sulla costa occidentale della Sardegna).
La notevole importanza di questa città nell'epoca classica è dimostrata dal fatto che essa è citata in alcune opere e precisamente in queste: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (III, 85), Claudio Tolomeo, Geographia (III, 3, 7), Itinerarium Antonini (83, 8), Anonimo Ravennate, Cosmographia (26, 10, 10), Guidone, Geographica (64, 22, 4).
Nella periferia orientale dell'odierna Bosa esiste il rudere di un nuraghe, che è carico di grande valenza dimostrativa, per due differenti motivi: I) Il fatto che su di esso risulti costruita la chiesetta di Santu Lò, Lói «Sant'Eligio» è una delle prove più evidenti e tangibili della destinazione religiosa dei nuraghi. All'atto della evangelizzazione della Sardegna infatti i missionari cristiani hanno proceduto a costruire una chiesa nel medesimo sito in cui in precedenza c'era un tempio pagano, appunto il nuraghe; proprio come i missionari cristiani hanno fatto in numerose altre località della Sardegna e anche in tutto il mondo mediterraneo (SN §§ 34, 35). II) L'esistenza di quel nuraghe, assieme con altri tre situati nell'agro di Bosa, chiamati rispettivamente Albaganes, Furru e Zarra, costituiscono una prova sicura e chiara che Bosa, contrariamente a quanto si è pensato e detto finora, non è stata fondata dai Fenici, bensì è di origine sardiana o protosarda o nuragica. I nuraghi infatti sono senza alcun dubbio costruzioni nuragiche e nient'affatto costruzioni fenicie. Oltre a ciò è pressoché assurdo ritenere che i Nuragici, già molto prima dei Fenici, non avessero manifestato attenzione e provato interesse alla foce del fiume Temo, alla sua fertile vallata e all'intera conca in cui è situata l'odierna cittadina di Bosa.
È quasi incredibile che ciò che finora aveva spinto gli studiosi a ritenere Bosa una fondazione fenicia fosse la sola circostanza che nel sito dell'antica Bosa (Bosa Vetus, che era attorno alla odierna chiesa episcopale di San Pietro), sarebbe stata rinvenuta una iscrizione fenicia scalfita in un masso di pietra. Senonché quella iscrizione – ammesso che fosse autentica - non dimostra affatto che Bosa non esistesse già prima del sec. VIII a. C., nel quale per la prima volta sono sbarcati i Fenici in Sardegna (cfr. Ferruccio Barreca in StSN § 52). In particolare sembra che quella iscrizione riportasse il solo vocabolo bšn, che sarebbe da interpretare «Bosano», con una indicazione che puzza di falso in misura massima. È infatti grandemente inverosimile che delle centinaia di vocaboli della lingua fenicia si sia conservato nel sito della città – per semplice caso – solamente quello che significava «Bosano». Del resto non è senza significato la circostanza che il masso con l'iscrizione sia scomparso alla fine dell'Ottocento quasi subito dopo il suo rinvenimento: è la sorte che tocca molto di frequente ai “falsi archeologici ed epigrafici”, dato che i falsari hanno grande cura a che non intervengano gli specialisti per esaminare i reperti.
di Massimo Pittau
Bosa [localmente (B)Osa; (nel Medioevo anche Vosa)] (cittadina della provincia di Oristano, sulla costa occidentale della Sardegna).
La notevole importanza di questa città nell'epoca classica è dimostrata dal fatto che essa è citata in alcune opere e precisamente in queste: Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (III, 85), Claudio Tolomeo, Geographia (III, 3, 7), Itinerarium Antonini (83, 8), Anonimo Ravennate, Cosmographia (26, 10, 10), Guidone, Geographica (64, 22, 4).
Nella periferia orientale dell'odierna Bosa esiste il rudere di un nuraghe, che è carico di grande valenza dimostrativa, per due differenti motivi: I) Il fatto che su di esso risulti costruita la chiesetta di Santu Lò, Lói «Sant'Eligio» è una delle prove più evidenti e tangibili della destinazione religiosa dei nuraghi. All'atto della evangelizzazione della Sardegna infatti i missionari cristiani hanno proceduto a costruire una chiesa nel medesimo sito in cui in precedenza c'era un tempio pagano, appunto il nuraghe; proprio come i missionari cristiani hanno fatto in numerose altre località della Sardegna e anche in tutto il mondo mediterraneo (SN §§ 34, 35). II) L'esistenza di quel nuraghe, assieme con altri tre situati nell'agro di Bosa, chiamati rispettivamente Albaganes, Furru e Zarra, costituiscono una prova sicura e chiara che Bosa, contrariamente a quanto si è pensato e detto finora, non è stata fondata dai Fenici, bensì è di origine sardiana o protosarda o nuragica. I nuraghi infatti sono senza alcun dubbio costruzioni nuragiche e nient'affatto costruzioni fenicie. Oltre a ciò è pressoché assurdo ritenere che i Nuragici, già molto prima dei Fenici, non avessero manifestato attenzione e provato interesse alla foce del fiume Temo, alla sua fertile vallata e all'intera conca in cui è situata l'odierna cittadina di Bosa.
È quasi incredibile che ciò che finora aveva spinto gli studiosi a ritenere Bosa una fondazione fenicia fosse la sola circostanza che nel sito dell'antica Bosa (Bosa Vetus, che era attorno alla odierna chiesa episcopale di San Pietro), sarebbe stata rinvenuta una iscrizione fenicia scalfita in un masso di pietra. Senonché quella iscrizione – ammesso che fosse autentica - non dimostra affatto che Bosa non esistesse già prima del sec. VIII a. C., nel quale per la prima volta sono sbarcati i Fenici in Sardegna (cfr. Ferruccio Barreca in StSN § 52). In particolare sembra che quella iscrizione riportasse il solo vocabolo bšn, che sarebbe da interpretare «Bosano», con una indicazione che puzza di falso in misura massima. È infatti grandemente inverosimile che delle centinaia di vocaboli della lingua fenicia si sia conservato nel sito della città – per semplice caso – solamente quello che significava «Bosano». Del resto non è senza significato la circostanza che il masso con l'iscrizione sia scomparso alla fine dell'Ottocento quasi subito dopo il suo rinvenimento: è la sorte che tocca molto di frequente ai “falsi archeologici ed epigrafici”, dato che i falsari hanno grande cura a che non intervengano gli specialisti per esaminare i reperti.
martedì 19 novembre 2013
Corso di archeologia a Quartu
Corso di Archeologia a Quartu.
Inizierà oggi alle ore 17.00, nell’Aula Magna dell’Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena, il corso di archeologia sul tema: "Risorse, attività e manufatti della Sardegna preistorica".
Le lezioni termineranno a Maggio 2014, con appuntamenti settimanali dalle 17.00 alle 18.00 tutti i martedì, in Viale Colombo nell'Aula Magna al secondo piano.
Docente per il terzo anno consecutivo sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano.
Con l'ausilio di immagini e filmati proiettati in aula, lo studioso racconterà le vicende che hanno caratterizzato la storia della Sardegna dal 6000 a.C. fino alla romanizzazione dell’isola.
Nella prima lezione sarà approfondito l'argomento: Scavi e stratigrafie.
Gli incontri saranno finalizzati all'analisi dell'organizzazione delle attività dei sardi dal Neolitico alle Età dei Metalli, ponendo l'economia del territorio alla base della politica delle comunità locali. Vie commerciali, porti, sfruttamento delle miniere, produzione di manufatti e tecnologie saranno posti in relazione con le altre civiltà mediterranee del II Millennio a.C. Durante le lezioni saranno forniti gli strumenti culturali per acquisire le competenze necessarie per affrontare i testi di archeologia.
Tecniche di scavo, metodi di datazione, riconoscimento di architetture e manufatti costituiranno il nucleo dell'intero corso. Al termine delle lezioni i partecipanti saranno in grado di "leggere" il paesaggio archeologico e avranno sviluppato una capacità critica in grado di aiutarli nella scelta dei testi di approfondimento.
Le iscrizioni al corso si ricevono in segreteria al numero 070.8696096
Inizierà oggi alle ore 17.00, nell’Aula Magna dell’Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena, il corso di archeologia sul tema: "Risorse, attività e manufatti della Sardegna preistorica".
Le lezioni termineranno a Maggio 2014, con appuntamenti settimanali dalle 17.00 alle 18.00 tutti i martedì, in Viale Colombo nell'Aula Magna al secondo piano.
Docente per il terzo anno consecutivo sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano.
Con l'ausilio di immagini e filmati proiettati in aula, lo studioso racconterà le vicende che hanno caratterizzato la storia della Sardegna dal 6000 a.C. fino alla romanizzazione dell’isola.
Nella prima lezione sarà approfondito l'argomento: Scavi e stratigrafie.
Gli incontri saranno finalizzati all'analisi dell'organizzazione delle attività dei sardi dal Neolitico alle Età dei Metalli, ponendo l'economia del territorio alla base della politica delle comunità locali. Vie commerciali, porti, sfruttamento delle miniere, produzione di manufatti e tecnologie saranno posti in relazione con le altre civiltà mediterranee del II Millennio a.C. Durante le lezioni saranno forniti gli strumenti culturali per acquisire le competenze necessarie per affrontare i testi di archeologia.
Tecniche di scavo, metodi di datazione, riconoscimento di architetture e manufatti costituiranno il nucleo dell'intero corso. Al termine delle lezioni i partecipanti saranno in grado di "leggere" il paesaggio archeologico e avranno sviluppato una capacità critica in grado di aiutarli nella scelta dei testi di approfondimento.
Le iscrizioni al corso si ricevono in segreteria al numero 070.8696096
lunedì 18 novembre 2013
Nuraghe Palmavera di Alghero, "La Capanna delle Riunioni"
Nuraghe Palmavera di Alghero, "La Capanna delle Riunioni"
di Pierluigi Montalbano
Lo scavo del nuraghe Palmavera ad opera del Taramelli costituisce di fatto la prima esplorazione di un nuraghe condotta con criteri scientifici, ovviamente riportati agli inizi del secolo. L'archeologo procede con metodo stratigrafico, distinguendo la successione dei livelli culturali, lascia testimoni di controllo, descrive le architetture e i materiali, è attento alle associazioni, e ricorre alle informazioni che altre scienze gli possono offrire. Le analisi del metallo e dei resti di pasto rivelano che fra i metalli vi era del rame puro e che i resti ossei erano di cervo, bue, pecora, capra, cinghiale, lepri e conigli.
La grande capanna edificata a Sud-Ovest del bastione e inclusa nell’antemurale, risulta l’ambiente più vasto dell’intero complesso, comprese le camere a tholos del bastione, misurando quasi 12 metri di diametro, con uno spessore di 1.3 metri.
Gli scavi del 1976 hanno restituito elementi culturali che suggeriscono una funzione pubblica: una nicchia; un sedile addossato al profilo circolare della capanna; una vasca delimitata da lastre ortostatiche; una base circolare che sostiene un piccolo nuraghe in pietra; un incensiere; un piccolo trono in arenaria. Si può ipotizzare un utilizzo come sala del Consiglio con 43 posti a sedere.
Il nuraghe scolpito al centro della capanna fu scoperto nel livello inferiore dello strato di crollo, a contatto con il pavimento, vicino al focolare, in naturale posizione di caduta. Il manufatto costituisce una sorta di idolo protettivo della comunità, che ancora nel IX a.C. si riconosce negli ideali degli avi nuragici costruttori di torri, e svolge le attività pubbliche ponendo al centro delle decisioni la "divinità nuragica".
Un rifinito elemento circolare in arenaria presenta una concavità al centro della faccia superiore, annerita dal fuoco perché probabilmente utilizzata come braciere rituale.
Gli scavi del 1977 portarono alla luce, sotto uno spesso strato di cenere al centro della sala, fittili e resti di pasto, oltre un frammento di pilastrino troncoconico di sezione adattabile al betilo-torre rinvenuto l’anno precedente, così da portare l'altezza complessiva a circa 1 metro, la maggiore fra quelle note di sculture simili.
Lo scavo ha infine accertato che quando fu costruita la Capanna delle Riunioni si demolirono le strutture abitative che insistevano sull’area interessata dal nuovo edificio. Si normalizzò il terreno con piccole pietre e terra di riporto e si realizzò il pavimento con un sottile strato di malta bianca ottenuta con il disfacimento della pietra calcarea.
Gli scavi hanno restituito materiali fittili, alcuni decorati a cerchielli, vaghi di ambra e di bronzo, tre bracciali in bronzo finemente incisi a spina di pesce, una lucerna a cucchiaio e un’altra a barchetta ornata a cerchielli. Analisi effettuate dall'Università della Pennsylvania su un nucleo di ossidiana rinvenuto nella capanna, ha fornito la datazione: 898±123 a.C., una cronologia coerente con i dati emersi nel corso dell’indagine. Infatti, al IX a.C. sono databili i materiali fittili con decorazione geometrica. Lo stretto legame formale fra il seggio di Palmavera e un modellino di sgabello bronzeo, di fattura nuragica, proveniente dalla tomba villanoviana di Cavalupo (circa 850 a.C.), il cui corredo conteneva anche due bronzi sardi, costituisce una prova importante per la datazione di questa grande capanna.
Nelle immagini:
Sopra: il piccolo nuraghe-betilo
Al centro: il Nuraghe Palmavera.
Sotto: il nuraghe-betilo di Barumini
domenica 17 novembre 2013
La magia e il mistero delle spirali neolitiche nel nord della Gran Bretagna
La magia e il mistero delle spirali neolitiche nel nord della Gran Bretagna
Northumberland è la contea più settentrionale dell’Inghilterra, ai confini con la Scozia, nota per essere una tra le aree più fredde in tutto l’intero stato, con una temperatura media annuale inferiore ai 10°C.
La geografia fisica di questa contea è varia: si parte con zone basse e piatte nei pressi della costa del mare del Nord e si prosegue con altitudini sempre maggiori verso il nordovest.
Avendo fatto parte dell’impero romano ed essendo stato teatro di numerose battaglie tra la Scozia e l’Inghilterra, il Northumberland è ricco di storia, e in alcuni casi nemmeno tanto facile da ricostruire. Questo spiegherebbe la ragione della grande quantità di castelli che si trovano disseminati in questa regione.
Eppure, la storia delle contea è molto più antica, tanto da affondare le radici addirittura nella preistoria. La prova è fornita dalla scoperta di migliaia di sculture strane e misteriose scolpite nella roccia, che secondo i ricercatori potrebbero risalire a più di 6000 anni fa.
Queste straordinarie opere d’arte preistoriche sono rimaste indisturbate per migliaia di anni, fino a quanto ricercatori dell’Università di Newcastle e dell’English Eritage non le hanno riportate alla luce.
I litogrammi comprendono una serie di intricati disegni concentrici, anelli interconnessi e coppe circolari. Tuttavia, per essendo una delle più importanti collezioni di arte preistorica della Gran Bretagna, il suo significato preciso sfugge ancora ai ricercatori.
Uno dei maggiori contributi allo studio dei litogrammi di Northumberland si deve al dottor Stan Beckensall, uno dei maggiori esperti al mondo di arte su pietra. A partire dalla metà degli anni ’60, lo studioso ha impiegato quasi 40 anni per la ricerca e lo studio del sito, catalogando più di 1500 sculture. Dopo aver completato lo studio, Beckensall ha donato l’archivio completo dei suoi studi all’Università di Newcastle.
Grazie al lavoro di Beckensall, la comprensione sul passato remoto del nord della Gran Bretagna è molto meglio compreso che in passato. Inoltre, lo studio del ricercatore rappresenta la base fondamentale per le successive scoperte e analisi che sono state effettuate nel corso degli anni successivi.
L’ultima spedizione è stata organizzata dai ricercatori dell’English Eritage, la cui scoperta più interessante è stata quella di un grande masso intagliato nel sito di Barnigham Moor, una zona a 300 metri di altezza, ai piedi delle catene montuose.
Le incisioni mostrano numerose figure astratte, scanalature e fori a forma di coppa. Probabilmente, le sculture sono state realizzate con strumenti di pietra o di osso. L’opera è così ben conservata che è possibile vedere ancora i segni della lavorazione.
“Ci sono molte teorie su cosa possano significare le incisioni”, spiega Kate Wilson, ispettrice di antichi documenti dell’English Heritage”. Essi possono aver avuto un significato simbolico di tipo pratico, per marcare un territorio ad esempio.
Ma, potrebbero avere anche un significato di tipo spirituale. Nelle comunità dei cacciatori-raccoglitori, i luoghi dove le ‘montagne toccano il cielo’ erano considerati il dominio degli antenati soprannaturali. La maggior parte dell’arte rupestre si trova in quelle zone”.
I litogrammi mostrano cerchi concentrici, abbozzi di formazione a spirale. Secondi i ricercatori, questi disegno mostrano che qualcosa nella società del mesolitico stava cambiando: “C’è un abisso di tempo e di civiltà tra la società che ha scolpito queste pietre e la nostra”, racconta uno dei volontari che ha partecipato alla scoperta. “Il loro vero significato è qualcosa che forse non capiremo mai”.
Recentemente, un gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle ha lanciato l’allarme sulla sopravvivenza dei litogrammi di Northumberland. Secondo gli scienziati, l’innalzamento delle temperature globali e l’aumento dell’umidità mettono seriamente a rischio la conservazione delle incisioni rupestri.
Northumberland è la contea più settentrionale dell’Inghilterra, ai confini con la Scozia, nota per essere una tra le aree più fredde in tutto l’intero stato, con una temperatura media annuale inferiore ai 10°C.
La geografia fisica di questa contea è varia: si parte con zone basse e piatte nei pressi della costa del mare del Nord e si prosegue con altitudini sempre maggiori verso il nordovest.
Avendo fatto parte dell’impero romano ed essendo stato teatro di numerose battaglie tra la Scozia e l’Inghilterra, il Northumberland è ricco di storia, e in alcuni casi nemmeno tanto facile da ricostruire. Questo spiegherebbe la ragione della grande quantità di castelli che si trovano disseminati in questa regione.
Eppure, la storia delle contea è molto più antica, tanto da affondare le radici addirittura nella preistoria. La prova è fornita dalla scoperta di migliaia di sculture strane e misteriose scolpite nella roccia, che secondo i ricercatori potrebbero risalire a più di 6000 anni fa.
Queste straordinarie opere d’arte preistoriche sono rimaste indisturbate per migliaia di anni, fino a quanto ricercatori dell’Università di Newcastle e dell’English Eritage non le hanno riportate alla luce.
I litogrammi comprendono una serie di intricati disegni concentrici, anelli interconnessi e coppe circolari. Tuttavia, per essendo una delle più importanti collezioni di arte preistorica della Gran Bretagna, il suo significato preciso sfugge ancora ai ricercatori.
Uno dei maggiori contributi allo studio dei litogrammi di Northumberland si deve al dottor Stan Beckensall, uno dei maggiori esperti al mondo di arte su pietra. A partire dalla metà degli anni ’60, lo studioso ha impiegato quasi 40 anni per la ricerca e lo studio del sito, catalogando più di 1500 sculture. Dopo aver completato lo studio, Beckensall ha donato l’archivio completo dei suoi studi all’Università di Newcastle.
Grazie al lavoro di Beckensall, la comprensione sul passato remoto del nord della Gran Bretagna è molto meglio compreso che in passato. Inoltre, lo studio del ricercatore rappresenta la base fondamentale per le successive scoperte e analisi che sono state effettuate nel corso degli anni successivi.
L’ultima spedizione è stata organizzata dai ricercatori dell’English Eritage, la cui scoperta più interessante è stata quella di un grande masso intagliato nel sito di Barnigham Moor, una zona a 300 metri di altezza, ai piedi delle catene montuose.
Le incisioni mostrano numerose figure astratte, scanalature e fori a forma di coppa. Probabilmente, le sculture sono state realizzate con strumenti di pietra o di osso. L’opera è così ben conservata che è possibile vedere ancora i segni della lavorazione.
“Ci sono molte teorie su cosa possano significare le incisioni”, spiega Kate Wilson, ispettrice di antichi documenti dell’English Heritage”. Essi possono aver avuto un significato simbolico di tipo pratico, per marcare un territorio ad esempio.
Ma, potrebbero avere anche un significato di tipo spirituale. Nelle comunità dei cacciatori-raccoglitori, i luoghi dove le ‘montagne toccano il cielo’ erano considerati il dominio degli antenati soprannaturali. La maggior parte dell’arte rupestre si trova in quelle zone”.
I litogrammi mostrano cerchi concentrici, abbozzi di formazione a spirale. Secondi i ricercatori, questi disegno mostrano che qualcosa nella società del mesolitico stava cambiando: “C’è un abisso di tempo e di civiltà tra la società che ha scolpito queste pietre e la nostra”, racconta uno dei volontari che ha partecipato alla scoperta. “Il loro vero significato è qualcosa che forse non capiremo mai”.
Recentemente, un gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle ha lanciato l’allarme sulla sopravvivenza dei litogrammi di Northumberland. Secondo gli scienziati, l’innalzamento delle temperature globali e l’aumento dell’umidità mettono seriamente a rischio la conservazione delle incisioni rupestri.
sabato 16 novembre 2013
La Città del Vino nuragica scoperta nella Valle del Tirso.
La Città del Vino nuragica scoperta nella Valle del Tirso.
di Valeria Pinna
Conoscevano i segreti del vino fin dall'età nuragica. E nella terra, culla storica della vernaccia, forse era scritto nel Dna. Già 3200 anni fa, gli antenati degli oristanesi erano veri maestri con uva e fermentazioni. Ma erano anche abili nella pesca, nella lavorazione dei metalli e del legno. Tante conoscenze e abilità manuali venute fuori inaspettatamente dal cuore della valle del Tirso.
Da quei cumuli di terra, spostati dalle ruspe che si danno da fare per realizzare il ponte di Brabau (eterna incompiuta, in costruzione da circa 30 anni per collegare Oristano a Torregrande e alla costa di Cabras). E che hanno avuto la grande fortuna di portare alla luce un prezioso insediamento del Bronzo. Scoperta da capogiro per gli archeologi che, fino a oggi, sugli usi e sulle abitudini quotidiane dei nuragici avevano viaggiato «un po' con la fantasia, ma adesso abbiamo finalmente testimonianze certe: dai pezzi di legno intagliati ai semi di uva e di fico, fino ai pezzi d'osso», ha commentato il soprintendente Alessandro Usai, mentre illustrava il tesoro scoperto casualmente due anni fa. Reperti che potrebbero realmente riscrivere la storia del vino e della civiltà alimentare nell'Oristanese. In località “Sa Osa”, a due passi dal fiume Tirso, è stato ritrovato un insediamento risalente all'età nuragica: «Un sito atipico - dice il soprintendente illustrando il valore del ritrovamento - perché non c'è nulla di monumentale in superficie che lo richiama. Non ci sono resti di nuraghi, perciò non saremmo mai andati a scavare là». Poi, un pizzico di fortuna ha fatto sì che la storia travagliata del ponte di Brabau si intrecciasse con quella degli antichi popoli. «Ci siamo trovati davanti a una scoperta unica - ha aggiunto lo studioso - che troverà spazio nella letteratura internazionale: le pubblicazioni su questo materiale faranno il giro del mondo nei prossimi decenni». Il sito risale alla piena età nuragica, è contemporaneo del nuraghe che si trova nei pressi del Rimedio vicino al ponte Tirso, ritrovato anch'esso durante lavori di costruzione di una strada. «Evidentemente in quell'epoca c'erano diverse comunità nuragiche insediate nelle campagne della zona - ha spiegato Usai -, popoli che vivevano di caccia, pesca, raccolta di frutti e agricoltura». Si tratta di un insediamento interessante sotto il profilo geografico per la vicinanza al fiume e al mare ed è costituito da fosse scavate nel terreno. I cosiddetti «fondi di capanna» sopra i quali si edificava con materiali deteriorabili che, infatti, non sono arrivati fino ai giorni nostri. Sono rimaste, però, le fosse e i pozzi con le tracce dei gesti e delle attività compiute tanti secoli fa. Alcuni, lontani parenti delle discariche, erano utilizzati per depositare rifiuti come cocci, conchiglie e ossa di animali. Altri per contenere scorte di acqua e vari materiali. Erano scavati in profondità, anche sotto il livello del mare.
Uno di questi si è rivelato una sorta di pozzo delle meraviglie per gli studiosi del passato. Una fossa di un metro di diametro e quattro metri di profondità (ma gli studiosi intendono provare a scendere ancora). Ed è stata l'umidità del sottosuolo il vero segreto per conservare i materiali in condizioni uniche e farli arrivare pressoché intatti nelle mani della squadra di archeologi. «Abbiamo trovato molti vasi interi e frammenti grandi che sarà facile rimettere insieme» ha spiegato Usai. All'interno un terriccio fangoso liquido che passato al setaccio ha consentito di ritrovare «frammenti di lische di pesce e anche i pesi delle reti - va avanti - a dimostrazione che la pesca avveniva già allora secondo tecniche precise». Sono stati trovati pezzi di legno grezzo e lavorato, «legni intagliati, fatti su misura per comporre qualche altro oggetto». Ancora, lucerne e piccoli vasi dal carattere votivo e simbolico, quelli che gli studiosi definiscono «manufatti miniaturistici». Conservati nel fango si sono mantenuti benissimo centinaia di semi legumi, di cereali, di olive «che danno lumi sulle abitudini alimentari» e semi di uva e fichi «che documentano l'uso del vino in Sardegna già in quell'epoca antichissima».
venerdì 15 novembre 2013
Eventi: Seminario a Sestu e corso di Archeologia a Quartu
L'Associazione Culturale Archeologica SEXTUM,Piazza Rinascita, 1 a Sestu (CA), presenta:
SESTU TRA PREISTORIA E MEDIOEVO
Sesto seminario di studi archeologici organizzato
dall’Associazione Sextum, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Sestu.
Aula Consiliare, sabato 16 novembre 2013, ore 16.30
Programma della manifestazione:
- Emanuela ATZENI: il patrimonio archeologico del territorio di Monastir e le ricerche in corso.
- Angela DEMONTIS: “Il popolo di bronzo”: genesi di una mostra (con proiezione dell’intervista con Syusy Blady).
- Maria Rosaria MANUNZA, Pierangela DEFRASSU: “Selargius, località Santa Rosa, Campagna di scavo 2012-2013. Dalla necropoli al quartiere artigianale: un contesto inedito da interpretare”.
- Simonetta UCCHEDDU: “La rinascita delle graniglie”.
- Antonello V. GRECO: “«Come il diavolo e l’acqua santa»: ponti, pozzi, cisterne, “diaboliche” strutture. Aspetti di archeologia leggendaria a Sestu e dintorni”.
- Esposizione di creazioni artistiche dell’artista Francesco Pitzanti.
L’Associazione SEXTUM promuove la CONOSCENZA, la RICERCA, la DIVULGAZIONE e... la SOCIALITÀ. e-mail: associazionesextum@alice.it - Tel. 331 7906888
Corso di Archeologia a Quartu.
Si svolgerà con inizio Martedì 19 Novembre all'Università di Quartu un ciclo di 23 lezioni di archeologia.
Tutti gli appuntamenti saranno dalle 17.00 alle 18.00 il martedì, in Viale Colombo nell'Aula Magna al secondo piano.
Docente per il terzo anno consecutivo sarà lo scrittore Pierlugi Montalbano.
Con l'ausilio di immagini e filmati proiettati in aula, lo studioso illustrerà il tema: "Risorse, attività e manufatti della Sardegna preistorica".
Nella prima lezione sarà approfondito l'argomento: Scavi e stratigrafie.
Il programma delle lezioni di archeologia avrà come tema "Risorse, attività, manufatti e architetture preistoriche".
Gli incontri saranno finalizzati all'analisi dell'organizzazione delle attività dei sardi dal Neolitico alle Età dei Metalli, ponendo l'economia del territorio alla base della politica delle comunità locali. Vie commerciali, porti, sfruttamento delle miniere, produzione di manufatti e tecnologie saranno posti in relazione con le altre civiltà mediterranee del II Millennio a.C. Durante le lezioni saranno forniti gli strumenti culturali per acquisire le competenze necessarie per affrontare i testi di archeologia.
Tecniche di scavo, metodi di datazione, riconoscimento di architetture e manufatti costituiranno il nucleo dell'intero corso. Al termine delle lezioni i partecipanti saranno in grado di "leggere" il paesaggio archeologico e avranno sviluppato una capacità critica in grado di aiutarli nella scelta dei testi di approfondimento.
giovedì 14 novembre 2013
Satelliti amici dell'archeologia aiutano a scoprire i segreti della Via della Seta.
Satelliti amici dell'archeologia
Grazie all’occhio dei satelliti italiani torna alla luce l'antica Via della Seta, nell'ambito del progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche Cnr), finanziato dal Ministero Affari Esteri e diretto da Nicola Masini e Rosa Lasaponara.
Chiamato "Via della Seta", il progetto intende costituire una rete di cooperazione scientifica tra Italia e Cina nel campo delle scienze e delle tecnologie applicate ai Beni Culturali.
Per due millenni la Via della Seta è stata l’arteria di collegamento tra Ovest ed Est, tra le civiltà del Mediterraneo ed i regni e imperi cinesi, consentendo la circolazione di merci e di idee e lo sviluppo dell’economia e della cultura nei secoli. Una delegazione del Cnr, costituita da ricercatori dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali e dell’Istituto di Metodologie di Analisi Ambientale di Potenza, è appena tornata dalla Cina per la prima campagna di indagine nell’antica Luoyang, luogo di partenza della Via della Seta, che nel sottosuolo conserva i resti di numerose capitali dal VIII secolo a.C. al V secolo d.C.
Al progetto, della durata di tre anni, partecipano ricercatori del Cnr e dell'Accademia Cinese delle Scienze. Obiettivo primario è supportare gli archeologi cinesi nella ricerca dell’antica ‘città proibita’ di Luoyang con l’ausilio delle più avanzate tecniche di indagine basate sui satelliti ottici e radar, come quelli della costellazione italiana Cosmo-SkyMed dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi).
Obiettivo del progetto è inoltre produrre conoscenze utili per salvaguardare e conservare siti e monumenti iscritti nel patrimonio dell’Unesco.
In particolare, sui giganteschi Buddha di Longmen e sull’antico villaggio di Hong Cun, noto per essere stato il set del famoso film “La tigre e il dragone”, sono previsti studi sui fenomeni di degrado e di instabilità strutturale che si baseranno anche sui dati dei satelliti.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
Grazie all’occhio dei satelliti italiani torna alla luce l'antica Via della Seta, nell'ambito del progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche Cnr), finanziato dal Ministero Affari Esteri e diretto da Nicola Masini e Rosa Lasaponara.
Chiamato "Via della Seta", il progetto intende costituire una rete di cooperazione scientifica tra Italia e Cina nel campo delle scienze e delle tecnologie applicate ai Beni Culturali.
Per due millenni la Via della Seta è stata l’arteria di collegamento tra Ovest ed Est, tra le civiltà del Mediterraneo ed i regni e imperi cinesi, consentendo la circolazione di merci e di idee e lo sviluppo dell’economia e della cultura nei secoli. Una delegazione del Cnr, costituita da ricercatori dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali e dell’Istituto di Metodologie di Analisi Ambientale di Potenza, è appena tornata dalla Cina per la prima campagna di indagine nell’antica Luoyang, luogo di partenza della Via della Seta, che nel sottosuolo conserva i resti di numerose capitali dal VIII secolo a.C. al V secolo d.C.
Al progetto, della durata di tre anni, partecipano ricercatori del Cnr e dell'Accademia Cinese delle Scienze. Obiettivo primario è supportare gli archeologi cinesi nella ricerca dell’antica ‘città proibita’ di Luoyang con l’ausilio delle più avanzate tecniche di indagine basate sui satelliti ottici e radar, come quelli della costellazione italiana Cosmo-SkyMed dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi).
Obiettivo del progetto è inoltre produrre conoscenze utili per salvaguardare e conservare siti e monumenti iscritti nel patrimonio dell’Unesco.
In particolare, sui giganteschi Buddha di Longmen e sull’antico villaggio di Hong Cun, noto per essere stato il set del famoso film “La tigre e il dragone”, sono previsti studi sui fenomeni di degrado e di instabilità strutturale che si baseranno anche sui dati dei satelliti.
RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
mercoledì 13 novembre 2013
Archeologi italiani scoprono in Turchia la Porta dell'Inferno con la statua del cane-mostro a tre teste Cerbero.
Archeologi italiani scoprono in Turchia la Porta dell'Inferno con la statua del cane-mostro a tre teste Cerbero.
ANKARA - Restano ormai pochi dubbi sul fatto che la grotta scoperta dal team di archeologici italiani guidato da Francesco D'Adria a Hierapolis, l'antica citta' sacra della Frigia, oggi Pamukkale, nella Turchia nord-occidentale, sia la mitica 'Porta degli Inferi', meta di pellegrinaggio, anche di Vip di allora come Cicerone o il grande geografo greco Strabone, nell'Antichita' greco-romana.
Lo stesso D'Adria ha annunciato oggi all'Ansa il ritrovamento all'ingresso della grotta del 'Ploutoniom' di Hierapolis di una statua in marmo di Cerbero, il cane a tre teste che la mitologia greca aveva posto a guardia dell'ingresso dell'Ade, il Regno dei Morti. Accanto a quella di Cerbero - il mostro che solo Ercole era riuscito a sottomettere, facendogli mangiare una pagnotta con semi di papavero che lo aveva addormentato - e' stata scoperta anche la statua in marmo di un enorme serpente, altro animale guardiano per gli antichi greci dell'Oltretomba. L'annuncio durante un convegno in marzo a Istanbul sulle missioni archeologiche italiane in Turchia della scoperta della Porta degli Inferi aveva suscitato enorme interesse in tutto il mondo. Il team di archeologi dell'Universita' del Salento guidato da D'Adria aveva individuato l'antica Porta dell'Ade grazie ai cadaveri di alcuni uccellini, ritrovati morti davanti a una sorta di grotta da dove uscivano fumi mefitici di anidride carbonica. Nei racconti dei suoi viaggi in Asia Minore nel I secolo AC, Strabone aveva descritto la Porta degli Inferi come una apertura ''di dimensioni sufficienti'' per fare passare un uomo ''riempita di un vapore fitto e scuro, cosi' denso che il fondo difficilmente puo' essere individuato''.
Gli animali che entrano ''muoiono all'istante. Anche i tori, quando sono portati al suo interno, cadono a terra, morti''.
''Noi stessi gettammo dentro dei passeri - racconta Strabone - che immediatamente caddero a terra senza vita''.
Gli scavi a Hierapolis procedono con meticolosa prudenza. La grotta, larga non piu' di due metri, non e' stata ancora investigata e potrebbe riservare altre sorprese. D'Adria ha definito la scoperta della statua di Cerbero un ''unicum'', di straordinaria importanza storica e archeologica. L'equipe archeologica italiana continua intanto il lavoro di restauro dell'eccezionale sito di Hierapolis. Nella chiesa accanto alla tomba dell'apostolo San Filippo, scoperta due anni fa da D'Adria, sono state rimontate 8 grandi colonne di marmo, ed e' quasi completato il lavoro di restauro del teatro, uno degli edifici piu' spettacolari dei siti greco-romani in Turchia.
Fonte: ANSAmed
ANKARA - Restano ormai pochi dubbi sul fatto che la grotta scoperta dal team di archeologici italiani guidato da Francesco D'Adria a Hierapolis, l'antica citta' sacra della Frigia, oggi Pamukkale, nella Turchia nord-occidentale, sia la mitica 'Porta degli Inferi', meta di pellegrinaggio, anche di Vip di allora come Cicerone o il grande geografo greco Strabone, nell'Antichita' greco-romana.
Lo stesso D'Adria ha annunciato oggi all'Ansa il ritrovamento all'ingresso della grotta del 'Ploutoniom' di Hierapolis di una statua in marmo di Cerbero, il cane a tre teste che la mitologia greca aveva posto a guardia dell'ingresso dell'Ade, il Regno dei Morti. Accanto a quella di Cerbero - il mostro che solo Ercole era riuscito a sottomettere, facendogli mangiare una pagnotta con semi di papavero che lo aveva addormentato - e' stata scoperta anche la statua in marmo di un enorme serpente, altro animale guardiano per gli antichi greci dell'Oltretomba. L'annuncio durante un convegno in marzo a Istanbul sulle missioni archeologiche italiane in Turchia della scoperta della Porta degli Inferi aveva suscitato enorme interesse in tutto il mondo. Il team di archeologi dell'Universita' del Salento guidato da D'Adria aveva individuato l'antica Porta dell'Ade grazie ai cadaveri di alcuni uccellini, ritrovati morti davanti a una sorta di grotta da dove uscivano fumi mefitici di anidride carbonica. Nei racconti dei suoi viaggi in Asia Minore nel I secolo AC, Strabone aveva descritto la Porta degli Inferi come una apertura ''di dimensioni sufficienti'' per fare passare un uomo ''riempita di un vapore fitto e scuro, cosi' denso che il fondo difficilmente puo' essere individuato''.
Gli animali che entrano ''muoiono all'istante. Anche i tori, quando sono portati al suo interno, cadono a terra, morti''.
''Noi stessi gettammo dentro dei passeri - racconta Strabone - che immediatamente caddero a terra senza vita''.
Gli scavi a Hierapolis procedono con meticolosa prudenza. La grotta, larga non piu' di due metri, non e' stata ancora investigata e potrebbe riservare altre sorprese. D'Adria ha definito la scoperta della statua di Cerbero un ''unicum'', di straordinaria importanza storica e archeologica. L'equipe archeologica italiana continua intanto il lavoro di restauro dell'eccezionale sito di Hierapolis. Nella chiesa accanto alla tomba dell'apostolo San Filippo, scoperta due anni fa da D'Adria, sono state rimontate 8 grandi colonne di marmo, ed e' quasi completato il lavoro di restauro del teatro, uno degli edifici piu' spettacolari dei siti greco-romani in Turchia.
Fonte: ANSAmed
martedì 12 novembre 2013
Archeologia della Sardegna. La Civiltà dei Sardi, di Giovanni Lilliu.
La Civiltà dei Sardi
di Giovanni Lilliu.
A conclusione di questo pezzo, propongo le mie conclusini, parecchio distanti da queste del grande maestro dell'archeologia sarda.
Le vicende della Civiltà Sarda dei nuraghi e delle culture che l’hanno preparata si comprendono meglio se visti nella cornice del quadro fisico in cui ebbero origine e si svilupparono, difatti gli elementi naturali che condizionano le manifestazioni culturali di ogni popolo, orientarono le genti isolane conducendole a risultati materiali e morali in cui si rivela una stretta aderenza fra l’ambiente e i suoi abitanti. Effetto dell’ambiente sardo fu la condanna della ventosa terra arcaica, posta fra cielo e mare, a una pittoresca immobilità, quasi a far da mostra a un mondo ancestrale e fossile, mentre nel resto del mondo l’umanità progrediva, e a divenire l’immagine didattica della preistoria nella storia.
L’isola si trova all’incontro di paesaggi, da quello italico a quello delle regioni africane, e all’incrocio della importante via marittima longitudinale fra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo, in una posizione di valore militare ed economico tale che fin dai primi tempi delle sue vicende, il convergere di elementi culturali ed etnici, e il fondersi di essi, diede origine a quadri che assunsero via via una fisionomia peculiare di grande suggestione.
Le coste sarde ebbero, e hanno, scarso valore economico e si prestano male a servire da tramite tra l’isola e le terre circostanti. La mediocrità delle coste sarde ha contribuito a rendere assai modesta la vita marittima e ad accentuare quell’isolamento naturale che ha avuto conseguenze decisive per i caratteri antropici della regione. La scarsa popolazione, in ogni tempo, del suolo sardo, dipende anche dal basso potere di attrazione del litorale isolano che ha favorito quel fenomeno di popolamento e di colonizzazione caratteristico della Sicilia e della Magna Grecia. La colonizzazione della Sardegna ebbe caratteri di sfruttamento e di dominio politico e militare con scarsi riflessi di trasformazione e di potenziamento antropico ed etico-tecnico. All’isolamento dall’esterno si aggiunse quello interno, determinato dalla struttura e dalla morfologia particolare dell’isola.
La storia della Sardegna e dei suoi popoli più remoti, non giunse aldilà della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e, dentro il villaggio, a quella del clan e, dentro del clan, a quella del gruppo familiare. Le sue genti non riuscirono mai a evadere la stretta dell’isola per espandersi verso altre terre, limitando spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica di un altopiano di poche miglia quadrate. Questo frammentarsi di comunità determinò una molteplicità di aspetti culturali, ciascuno operante in compartimenti ambientali privi di una visione organica e di una coesione politica unitaria, rendendo estremamente facile l’azione degli invasori in ogni tempo.
Il paesaggio più favorevole alle scelte di vita dei nuragici, e alla loro attitudine cantonale di pastori e guerrieri, era proprio quello dei tavolati basaltici e rachitici, con frastagli a rientranze e sporgenze donde erano facili il dominio e la visuale, con una posizione elevata, ventilata e soleggiata, con roccia copiosa e buona da lavorarsi per realizzare migliaia di torri megalitiche, orientando attività, metodi di vita e pensieri dei loro costruttori.
di Giovanni Lilliu.
A conclusione di questo pezzo, propongo le mie conclusini, parecchio distanti da queste del grande maestro dell'archeologia sarda.
Le vicende della Civiltà Sarda dei nuraghi e delle culture che l’hanno preparata si comprendono meglio se visti nella cornice del quadro fisico in cui ebbero origine e si svilupparono, difatti gli elementi naturali che condizionano le manifestazioni culturali di ogni popolo, orientarono le genti isolane conducendole a risultati materiali e morali in cui si rivela una stretta aderenza fra l’ambiente e i suoi abitanti. Effetto dell’ambiente sardo fu la condanna della ventosa terra arcaica, posta fra cielo e mare, a una pittoresca immobilità, quasi a far da mostra a un mondo ancestrale e fossile, mentre nel resto del mondo l’umanità progrediva, e a divenire l’immagine didattica della preistoria nella storia.
L’isola si trova all’incontro di paesaggi, da quello italico a quello delle regioni africane, e all’incrocio della importante via marittima longitudinale fra il bacino orientale e quello occidentale del Mediterraneo, in una posizione di valore militare ed economico tale che fin dai primi tempi delle sue vicende, il convergere di elementi culturali ed etnici, e il fondersi di essi, diede origine a quadri che assunsero via via una fisionomia peculiare di grande suggestione.
Le coste sarde ebbero, e hanno, scarso valore economico e si prestano male a servire da tramite tra l’isola e le terre circostanti. La mediocrità delle coste sarde ha contribuito a rendere assai modesta la vita marittima e ad accentuare quell’isolamento naturale che ha avuto conseguenze decisive per i caratteri antropici della regione. La scarsa popolazione, in ogni tempo, del suolo sardo, dipende anche dal basso potere di attrazione del litorale isolano che ha favorito quel fenomeno di popolamento e di colonizzazione caratteristico della Sicilia e della Magna Grecia. La colonizzazione della Sardegna ebbe caratteri di sfruttamento e di dominio politico e militare con scarsi riflessi di trasformazione e di potenziamento antropico ed etico-tecnico. All’isolamento dall’esterno si aggiunse quello interno, determinato dalla struttura e dalla morfologia particolare dell’isola.
La storia della Sardegna e dei suoi popoli più remoti, non giunse aldilà della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e, dentro il villaggio, a quella del clan e, dentro del clan, a quella del gruppo familiare. Le sue genti non riuscirono mai a evadere la stretta dell’isola per espandersi verso altre terre, limitando spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica di un altopiano di poche miglia quadrate. Questo frammentarsi di comunità determinò una molteplicità di aspetti culturali, ciascuno operante in compartimenti ambientali privi di una visione organica e di una coesione politica unitaria, rendendo estremamente facile l’azione degli invasori in ogni tempo.
Il paesaggio più favorevole alle scelte di vita dei nuragici, e alla loro attitudine cantonale di pastori e guerrieri, era proprio quello dei tavolati basaltici e rachitici, con frastagli a rientranze e sporgenze donde erano facili il dominio e la visuale, con una posizione elevata, ventilata e soleggiata, con roccia copiosa e buona da lavorarsi per realizzare migliaia di torri megalitiche, orientando attività, metodi di vita e pensieri dei loro costruttori.
lunedì 11 novembre 2013
Archeologia. Scoperto a Sant’Agata di Bologna il pozzo delle meraviglie
Scoperto a Sant’Agata di Bologna il pozzo delle meraviglie
di Alessandro Belardetti
Bologna. E’ diventato il pozzo delle meraviglie, era diventato la ‘cassaforte’ di una villa romana . Un giorno dopo l’altro sono venuti a galla oggetti antichi e preziosi, mandando così in estasi gli archeologi che stavano scavando per arrivare alla fine del pozzo della villa romana — 2.100 metri quadrati, risalente alla seconda metà del I secolo avanti Cristo — di Sant’Agata.
«Alla fine dei lavori il pozzo si è rivelato profondo 10,7 metri (ad agosto si era arrivati a sei, ndr) — spiega Tiziano Trocchi, funzionario della Soprintendenza regionale —. Fino a sette metri non abbiamo trovato nulla, poi verso gli otto sono apparsi oggetti meravigliosi, tra cui una quarantina di vasi in ceramica e quattro vasi (pentole e brocche, ndr) di bronzo e rame, tutti perfettamente intatti».
Gli studi preliminari hanno consentito di stabilire che il pozzo fosse un deposito di materiali di uso quotidiano e oggetti di valore. «Probabilmente gli abitanti della villa hanno depositato volontariamente questi reperti — prosegue Trocchi —, per preservarli da eventi traumatici. Indicativamente siamo tra il VI e VII sec. d.C., così si può pensare alla Guerra Gotica tra Impero bizantino e Ostrogoti in Età Longobarda. Il territorio era in subbuglio e, avendo trovato strati di fogliame tra il vasellame, pare logico che questi oggetti venissero considerati importanti a tal punto da conservarli».
La villa è stata attiva, con la sua parte rustica e quella produttiva, fino al III sec. d.C. e infatti sono stati trovati anche pettini, cucchiai, coltelli e altri beni (104 reperti in tutto). Ma aver portato alla luce un pozzo deposito, usato dal I sec. a.C. fino al VII d.C., all’interno del suo contesto ambientale è il primo caso tra Bologna e Modena. «Un aspetto che stupisce è aver trovato una brocca di bronzo rattoppata diverse volte — analizza Trocchi —: non potevano buttarla e si capisce che erano periodi duri dal fatto che è stato conservato anche vasellame in ceramica».
A spiegare l’importanza sul piano storico della scoperta, ci pensa il sindaco di Sant’Agata, Daniela Occhiali: «Si tratta di un tesoro che nessuno pensava fosse lì. Man mano che andavamo avanti quel pozzo diventava un oggetto del desiderio e ci ha regalato forti emozioni. A un certo punto con la Soprintendenza, il Museo Archeologico Ambientale e la Partecipanza abbiamo dovuto cambiare strategia: trovare finanziamenti e mezzi nuovi. I costi sono lievitati: solo per il pozzo hanno raggiunto i 30mila euro, ma rifarei tutto. Vogliamo che tutti i resti archeologici trovati rimangano qua».
Fonte: Il Resto del Carlino
di Alessandro Belardetti
Bologna. E’ diventato il pozzo delle meraviglie, era diventato la ‘cassaforte’ di una villa romana . Un giorno dopo l’altro sono venuti a galla oggetti antichi e preziosi, mandando così in estasi gli archeologi che stavano scavando per arrivare alla fine del pozzo della villa romana — 2.100 metri quadrati, risalente alla seconda metà del I secolo avanti Cristo — di Sant’Agata.
«Alla fine dei lavori il pozzo si è rivelato profondo 10,7 metri (ad agosto si era arrivati a sei, ndr) — spiega Tiziano Trocchi, funzionario della Soprintendenza regionale —. Fino a sette metri non abbiamo trovato nulla, poi verso gli otto sono apparsi oggetti meravigliosi, tra cui una quarantina di vasi in ceramica e quattro vasi (pentole e brocche, ndr) di bronzo e rame, tutti perfettamente intatti».
Gli studi preliminari hanno consentito di stabilire che il pozzo fosse un deposito di materiali di uso quotidiano e oggetti di valore. «Probabilmente gli abitanti della villa hanno depositato volontariamente questi reperti — prosegue Trocchi —, per preservarli da eventi traumatici. Indicativamente siamo tra il VI e VII sec. d.C., così si può pensare alla Guerra Gotica tra Impero bizantino e Ostrogoti in Età Longobarda. Il territorio era in subbuglio e, avendo trovato strati di fogliame tra il vasellame, pare logico che questi oggetti venissero considerati importanti a tal punto da conservarli».
La villa è stata attiva, con la sua parte rustica e quella produttiva, fino al III sec. d.C. e infatti sono stati trovati anche pettini, cucchiai, coltelli e altri beni (104 reperti in tutto). Ma aver portato alla luce un pozzo deposito, usato dal I sec. a.C. fino al VII d.C., all’interno del suo contesto ambientale è il primo caso tra Bologna e Modena. «Un aspetto che stupisce è aver trovato una brocca di bronzo rattoppata diverse volte — analizza Trocchi —: non potevano buttarla e si capisce che erano periodi duri dal fatto che è stato conservato anche vasellame in ceramica».
A spiegare l’importanza sul piano storico della scoperta, ci pensa il sindaco di Sant’Agata, Daniela Occhiali: «Si tratta di un tesoro che nessuno pensava fosse lì. Man mano che andavamo avanti quel pozzo diventava un oggetto del desiderio e ci ha regalato forti emozioni. A un certo punto con la Soprintendenza, il Museo Archeologico Ambientale e la Partecipanza abbiamo dovuto cambiare strategia: trovare finanziamenti e mezzi nuovi. I costi sono lievitati: solo per il pozzo hanno raggiunto i 30mila euro, ma rifarei tutto. Vogliamo che tutti i resti archeologici trovati rimangano qua».
Fonte: Il Resto del Carlino
domenica 10 novembre 2013
Cartografia: Mercatore
Cartografia: Mercatore
di Rolando Berretta
Quante volte ho provato a spiegare cosa sono i Primari e i Secondari?
Come è possibile passare da un giro di compasso da 26 a un secondario da 13?
Ho segnalato che lo schema a base 34 serve per impostare un Primario da 26 e un secondario da 13.
E, non volendo, mi sono trovato sopra la Piana di Gyza.
Con i quadretti è una fesseria saltare da una scala all’altra.
Ma, senza quadretti, come procedevano?
Facilissimo! Avevano uno schemino pronto all’uso: l’ORGANUM DIRECTORIUM.
Prendiamo un GRANDE. Usiamo Giovan Battista Agnese; il maestro dei giri di compasso da 26.
Agnese usa un giro di compasso da 26 derivato da uno schema da 34 ( il mitico schema RoBer )
Si passa dallo schema da 26 a quello da 34 grazie all’ Organum Directorim nel seguente modo:
Molto semplice.
Attenzione adesso:
Ci potrebbe essere qualche spirito stravagante che agisce in modo poco chiaro.
Adesso presento l’organum directorium di Gerardo Mercatore.
Questo bellisimo strumento è presente nella celebre carta che riporta la sua proiezione.
Sarebbe la sua spiegazione… di che cosa?
Ho già presentato la carta di Giovanni Vespucci; che usa un giro di compasso da 34.
Ricordo che Giovanni era il nipote di Amerigo Vespucci. Fu lui ad ereditare tutto il materiale scientifico dello zio. Dal giro di compasso da 34 si passa facilmente allo schema da 40 unità presente nell’Atlante Castiglioni; che, solo per me, è stato fatto a Firenze e credo di averlo dimostrato con prove inconfutabili.
Ritrovarmi l’Organum Directorium , utilizzato per spiegare anche la PROIEZIONE DI MERCATORE, non mi convince.
La STORIA, quella seria, ci ricorda che i Francescani fondarono una bella scuola; in quel di OXFORD; Ricorda la WIKIPEDIA:
Robert Greathead (1175 – 9 ottobre 1253), originario di Stradbroke (Suffolk, Inghilterra) vescovo di Lincoln (Inghilterra), teologo, scienziato e statista, fu il primo rettore della scuola che i francescani fondarono a Oxford attorno al 1224…..
Siamo sotto Enrico VIII
…al Papa vennero negate le fonti di finanziamento come l'obolo di San Pietro. L'Act of Succession (Atto di Successione), sempre del 1534, spostò la linea dinastica dalla ex sovrana alla discendenza di Anna Bolena. Tutti gli adulti del regno vennero tenuti ad accettare le disposizioni di queste leggi e chiunque avesse rifiutato sarebbe stato giudicato colpevole di alto tradimento e passibile di pena di morte. Come conseguenza di questi atti tutta la struttura della chiesa cattolica inglese venne attaccata. Thomas Cromwell, spinto e sostenuto dal sovrano, fece approvare dal parlamento, nel 1536, una legge che espropriò i possedimenti dei monasteri minori: questa azione portò, nel giro di alcuni anni, nelle casse dello stato, ingenti quantità di denaro,…
E ci ritroviamo con il Francescano:
… John Forest legato per i fianchi e sospeso sulle fiamme e sui carboni accesi, morì a fuoco lento raccolto in preghiera ed invocando l’aiuto divino.
Il 29 dicembre 1886 papa Leone XIII procedette alla beatificazione di John Forest, unitamente ad altri numerosi martiri della medesima persecuzione.
Credo che qualche Francescano attraversò la Manica; magari portandosi dietro qualche documento importante. Qualcosa è giunta nella Stamperia del Mercatore.
Ed ecco stampata la sua Proiezione che Mercatore non ha mai saputo spiegare.
Nel 1559 Edward Wright, professore universitario a Cambrige, sviluppò la base teorica della proiezione del Mercatore.
L'università di Cambrige si era pronunciata favorevolmente in merito alla questione del divorzio di Enrico VIII (9 marzo 1529-30) e ad essa, sotto il cancellierato di Thomas Cromwell, furono lasciati i beni che erano stati confiscati ai monasteri. (Anche materiale di Oxford; di sicuro.)
A questo punto… mi chiedo: dallo schema a base 34 si può ricavare, anche, la Proiezione?
Qui mi fermo. Sono di quelli che usano la calcolatrice per le operazioni più semplici.
Ci tengo a precisare: se faccio il pignolo, con le sole linee lossodromiche e i meridiani di Mercatore, ottengo un giro di compasso da33.
Se faccio il pignolo con i miei schemi, in generale, ottengo un giro di compasso da 34.
Per me, quella carta,nasce a OXFORD.
Per una comprensione definitiva delle manipolazioni di Mercatore guardate con attenzine questa ultima carta.
Rolando Berretta.
di Rolando Berretta
Quante volte ho provato a spiegare cosa sono i Primari e i Secondari?
Come è possibile passare da un giro di compasso da 26 a un secondario da 13?
Ho segnalato che lo schema a base 34 serve per impostare un Primario da 26 e un secondario da 13.
E, non volendo, mi sono trovato sopra la Piana di Gyza.
Con i quadretti è una fesseria saltare da una scala all’altra.
Ma, senza quadretti, come procedevano?
Facilissimo! Avevano uno schemino pronto all’uso: l’ORGANUM DIRECTORIUM.
Prendiamo un GRANDE. Usiamo Giovan Battista Agnese; il maestro dei giri di compasso da 26.
Agnese usa un giro di compasso da 26 derivato da uno schema da 34 ( il mitico schema RoBer )
Si passa dallo schema da 26 a quello da 34 grazie all’ Organum Directorim nel seguente modo:
Molto semplice.
Attenzione adesso:
Ci potrebbe essere qualche spirito stravagante che agisce in modo poco chiaro.
Adesso presento l’organum directorium di Gerardo Mercatore.
Questo bellisimo strumento è presente nella celebre carta che riporta la sua proiezione.
Sarebbe la sua spiegazione… di che cosa?
Ho già presentato la carta di Giovanni Vespucci; che usa un giro di compasso da 34.
Ricordo che Giovanni era il nipote di Amerigo Vespucci. Fu lui ad ereditare tutto il materiale scientifico dello zio. Dal giro di compasso da 34 si passa facilmente allo schema da 40 unità presente nell’Atlante Castiglioni; che, solo per me, è stato fatto a Firenze e credo di averlo dimostrato con prove inconfutabili.
Ritrovarmi l’Organum Directorium , utilizzato per spiegare anche la PROIEZIONE DI MERCATORE, non mi convince.
La STORIA, quella seria, ci ricorda che i Francescani fondarono una bella scuola; in quel di OXFORD; Ricorda la WIKIPEDIA:
Robert Greathead (1175 – 9 ottobre 1253), originario di Stradbroke (Suffolk, Inghilterra) vescovo di Lincoln (Inghilterra), teologo, scienziato e statista, fu il primo rettore della scuola che i francescani fondarono a Oxford attorno al 1224…..
Siamo sotto Enrico VIII
…al Papa vennero negate le fonti di finanziamento come l'obolo di San Pietro. L'Act of Succession (Atto di Successione), sempre del 1534, spostò la linea dinastica dalla ex sovrana alla discendenza di Anna Bolena. Tutti gli adulti del regno vennero tenuti ad accettare le disposizioni di queste leggi e chiunque avesse rifiutato sarebbe stato giudicato colpevole di alto tradimento e passibile di pena di morte. Come conseguenza di questi atti tutta la struttura della chiesa cattolica inglese venne attaccata. Thomas Cromwell, spinto e sostenuto dal sovrano, fece approvare dal parlamento, nel 1536, una legge che espropriò i possedimenti dei monasteri minori: questa azione portò, nel giro di alcuni anni, nelle casse dello stato, ingenti quantità di denaro,…
E ci ritroviamo con il Francescano:
… John Forest legato per i fianchi e sospeso sulle fiamme e sui carboni accesi, morì a fuoco lento raccolto in preghiera ed invocando l’aiuto divino.
Il 29 dicembre 1886 papa Leone XIII procedette alla beatificazione di John Forest, unitamente ad altri numerosi martiri della medesima persecuzione.
Credo che qualche Francescano attraversò la Manica; magari portandosi dietro qualche documento importante. Qualcosa è giunta nella Stamperia del Mercatore.
Ed ecco stampata la sua Proiezione che Mercatore non ha mai saputo spiegare.
Nel 1559 Edward Wright, professore universitario a Cambrige, sviluppò la base teorica della proiezione del Mercatore.
L'università di Cambrige si era pronunciata favorevolmente in merito alla questione del divorzio di Enrico VIII (9 marzo 1529-30) e ad essa, sotto il cancellierato di Thomas Cromwell, furono lasciati i beni che erano stati confiscati ai monasteri. (Anche materiale di Oxford; di sicuro.)
A questo punto… mi chiedo: dallo schema a base 34 si può ricavare, anche, la Proiezione?
Qui mi fermo. Sono di quelli che usano la calcolatrice per le operazioni più semplici.
Ci tengo a precisare: se faccio il pignolo, con le sole linee lossodromiche e i meridiani di Mercatore, ottengo un giro di compasso da33.
Se faccio il pignolo con i miei schemi, in generale, ottengo un giro di compasso da 34.
Per me, quella carta,nasce a OXFORD.
Per una comprensione definitiva delle manipolazioni di Mercatore guardate con attenzine questa ultima carta.
Rolando Berretta.
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