domenica 16 giugno 2013
Seneca e il banchetto in antichità, rito di opulenza
Seneca e il banchetto in antichità, rito di opulenza.
A metà del I sec. d.C., Seneca si lamentava delle sofisticate abitudini gastronomiche dei suoi contemporanei: “Convogliano da ogni parte tutti i cibi noti al palato più esigente; si trasporta dall’Oceano, ai confini del mondo, ciò che lo stomaco guastato dalle raffinatezze lascia appena entrare: vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si danno neppure la pena di digerire le pietanze reperite in ogni angolo della terra”.
Non è il caso di soffermarsi sul fatto che Seneca esagerasse o criticasse ciò che lui stesso ben conosceva, dal momento che godeva di una posizione privilegiata alla corte di Nerone, ma piuttosto sul suo modo di evidenziare che i Romani potevano avere sulle loro tavole cibo sufficiente per sfamare tutto l’Impero, e ne approfittavano fino a sprecarlo in modo capriccioso, come se ne fossero signori e padroni. Questa citazione dimostra inoltre che la tavola romana divenne una testimonianza molto eloquente della condizione economica e del circolo sociale a cui apparteneva l’anfitrione.
Una colazione (ientaculum) frettolosa e un pranzo (prandium) più consistente, ma senza formalismi, trasformavano la cena (coena), l’ultimo pasto della giornata, nel momento più rilassato e più facilmente condivisibile e godibile in amicizia.
Si cenava al tramonto, dopo il ritorno dalle terme, e si continuava finchè diventava notte e anche oltre. In uno dei suoi scritti filosofici, Cicerone ricorda che i Greci definivano questo pasto symposio (“bere insieme”) e mettevano, quindi, l’accento sul dato materiale del cibo e del vino, mentre i Latini lo chiamavano convivium, perché l’aspetto fondamentale della cena era la socialità tra i commensali, l’atto di riunirsi per mangiare insieme, condividendo le pietanze e chiacchierando. Questa gradevole visione della convivialità comunicava un egualitarismo molto lontano dalla realtà, sebbene l’aspetto della condivisione fosse senz’altro alla base dell’istituzione della cena. Le numerose allusioni di Marziale o Giovenale a chi cercava di strappare un invito a cena lascerebbero pensare che i banchetti nell’alta società o nelle classi abbienti fossero una pratica frequente per rinnovare clientele e amicizie. Le più acide penne di Roma si dedicarono a denunciare con sarcasmo gli sfacciati che, spinti dalla fame, si facevano trovare nel Foro, ai portici o alle terme e, mostrandosi ossequiosi, simpatici e solleciti con i notabili, speravano di guadagnare un invito a cena per la sera. Erano clienti o semplici parassiti, come quelli che apparivano nelle commedie scritte da Plauto all’inizio del II se. a.C.
Con le cene e le mance si compravano i voti e i favori di parenti e cittadini (i clienti) che avrebbero poi accompagnato senatori e patrizi nei cortei al seguito della loro lettiga, portata dagli schiavi attraverso le strade di Roma fino al Foro, alle terme e agli altri edifici pubblici, a evidente testimonianza del potere e dell’influenza dei loro padroni.
Ma non sempre gli sforzi erano ripagati. Giovenale, nelle Satire, descrive la delusione dei clienti che avevano atteso l’invito tutto il giorno e uscivano a testa bassa dalla casa dei loro padroni perché “la speranza di una cena è per l’uomo la più duratura; ma il fuoco per i miseri cavoli dovranno comprarselo”.
Nell’ultimo periodo della repubblica, gli epula, grandi banchetti pubblici, esasperarono questa tendenza all’invito della plebe da parte dei magnati. In seguito, ai tempi dell’Impero, le clientele divennero più selezionate, ma non scomparvero.
Nella Roma imperiale la tavola era diventata un punto di ritrovo per il patrono e i suoi più illustri clienti e amici. Intorno a essa si delineava una piramide, con al vertice il patrono stesso e il suo invitato d’onore, che aveva una posizione ancora più influente di quella del padrone di casa e occupava il posto più importante. Seguivano gli amici, per fare conversazione, e i clienti, per riempire i posti liberi dei tre letti del triclinio, dove i commensali si sdraiavano per cenare. Ai piedi del triclinio stavano gli schiavi, che avevano accompagnato gli invitati fino al luogo in cui si svolgeva il banchetto. Forse alle cene partecipavano anche la padrona di casa e i suoi bambini, stando però decorosamente sulle sedie e ritirandosi a un’ora prudente. Tuttavia, a partire dal I sec. a.C. anche le donne cominciarono a sdraiarsi sui letti del triclinio senza suscitare disapprovazione. In ogni caso sembra che di opinioni a riguardo ce ne fossero per tutti i gusti. Si passava da quelle conservatrici, che preferivano per la donna la tradizionale posizione seduta, alle più mondane, in linea con il processo di emancipazione e con il potere decisionale che la donna aveva progressivamente conquistato in diversi ambiti, e che non vedevano di cattivo occhio il fatto che anch’essa adottasse la posizione sdraiata durante la cena.
Davanti ai letti c’era spazio solamente per gli schiavi di servizio, ma tutt’intorno l’ambiente era invaso da un tripudio di suoni, intrattenimenti e colori. C’erano servitori in uniforme, altri più anziani che davano ordini, trincianti che tagliavano l’arrosto, cuochi orgogliosi che sfilavano con piatti magistralmente presentati ed efebi dalle chiome lunghe e ricce che versavano il vino. Ma a movimentare l’atmosfera c’erano anche le grottesche pagliacciate dei nani, i suonatori di cetra, le ballerine, gli acrobati seminudi, gli equilibristi, i declamatori di poesie e attori vistosamente truccati. Oppure c’era semplicemente la schiava di casa che faceva tutto: bisogna infatti ricordare che non tutte le tavole erano ricche come quella dell’imperatore Caligola che, secondo il racconto di Seneca, in una sola cena riuscì a dilapidare l’equivalente dei tributi riscossi in tre province.
In Marziale, per esempio, troviamo il menù di una cena semplice. Il pasto serale era composto da un antipasto (gustatio), seguito dalla cena propriamente detta, che poteva continuare con il dolce (secundae mensae) e il dopo cena (comissatio), spesso rallegrato dagli interventi già descritti e debitamente innaffiato di vino. La comissatio era, infatti, accompagnata da una serie di brindisi a ripetizione e poteva prendere una direzione difficile da controllare. Il menù descritto da Marziale comprendeva lattuga, porri e un trancio di tonno coperto da uova strapazzate come aperitivo; per portata principale un cavolo verde e un sanguinaccio che copriva farinate d’avena e fave; come dolce, infine, uvetta, pere siriane e castagne arrostite, il tutto accompagnato da vino, olive, lupini tiepidi e ceci caldi da spizzicare. Si trattava di un menù modesto, ma non povero, era anzi abbondante e più simile a quello che poteva mangiare la gente comune di Roma dei primi secoli dell’Impero. Sulla tavola della maggior parte dei Romani si potevano trovare infatti pane, fave, piselli, lenticchie, ceci, aglio, cipolle, frutta, rape, angurie, zucche, miele, frutta secca, formaggio e olio. La carne e il pesce invece si vedevano solo in rare occasioni. Ma le carni che arrivavano sulla tavola dei cittadini comuni non avevano niente a che vedere con quelle della gastronomia più sofisticata, che comprendeva cinghiali, lepri, antilopi, fagiani, fenicotteri giganti, animelle, vulva di scrofa, ostriche (specialmente quelle del lago Lucrino o della Britannia), lingue di pappagallo e altre prelibatezze. Questi ricchi piatti venivano portati a tavola nei preziosi servizi di famiglia, passati in eredità da una generazione all’altra, costituiti da stoviglie d’argento e raffinati calici di vetro soffiato in cui si versava un vino Falerno di ottima annata. Al momento del brindisi era usanza che i commensali si cingessero il capo con corone di fiori, mentre l’olio profumato, distribuito dagli schiavi, scivolava sulla pelle insieme al sudore, in un’atmosfera satura di aromi, odori ed effluvi sotto la luce pallida delle lampade a olio.
Fonte: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151592894671475&set=a.441702761474.228712.196487776474&type=3&theater
Immagine di antika.it
A metà del I sec. d.C., Seneca si lamentava delle sofisticate abitudini gastronomiche dei suoi contemporanei: “Convogliano da ogni parte tutti i cibi noti al palato più esigente; si trasporta dall’Oceano, ai confini del mondo, ciò che lo stomaco guastato dalle raffinatezze lascia appena entrare: vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, e non si danno neppure la pena di digerire le pietanze reperite in ogni angolo della terra”.
Non è il caso di soffermarsi sul fatto che Seneca esagerasse o criticasse ciò che lui stesso ben conosceva, dal momento che godeva di una posizione privilegiata alla corte di Nerone, ma piuttosto sul suo modo di evidenziare che i Romani potevano avere sulle loro tavole cibo sufficiente per sfamare tutto l’Impero, e ne approfittavano fino a sprecarlo in modo capriccioso, come se ne fossero signori e padroni. Questa citazione dimostra inoltre che la tavola romana divenne una testimonianza molto eloquente della condizione economica e del circolo sociale a cui apparteneva l’anfitrione.
Una colazione (ientaculum) frettolosa e un pranzo (prandium) più consistente, ma senza formalismi, trasformavano la cena (coena), l’ultimo pasto della giornata, nel momento più rilassato e più facilmente condivisibile e godibile in amicizia.
Si cenava al tramonto, dopo il ritorno dalle terme, e si continuava finchè diventava notte e anche oltre. In uno dei suoi scritti filosofici, Cicerone ricorda che i Greci definivano questo pasto symposio (“bere insieme”) e mettevano, quindi, l’accento sul dato materiale del cibo e del vino, mentre i Latini lo chiamavano convivium, perché l’aspetto fondamentale della cena era la socialità tra i commensali, l’atto di riunirsi per mangiare insieme, condividendo le pietanze e chiacchierando. Questa gradevole visione della convivialità comunicava un egualitarismo molto lontano dalla realtà, sebbene l’aspetto della condivisione fosse senz’altro alla base dell’istituzione della cena. Le numerose allusioni di Marziale o Giovenale a chi cercava di strappare un invito a cena lascerebbero pensare che i banchetti nell’alta società o nelle classi abbienti fossero una pratica frequente per rinnovare clientele e amicizie. Le più acide penne di Roma si dedicarono a denunciare con sarcasmo gli sfacciati che, spinti dalla fame, si facevano trovare nel Foro, ai portici o alle terme e, mostrandosi ossequiosi, simpatici e solleciti con i notabili, speravano di guadagnare un invito a cena per la sera. Erano clienti o semplici parassiti, come quelli che apparivano nelle commedie scritte da Plauto all’inizio del II se. a.C.
Con le cene e le mance si compravano i voti e i favori di parenti e cittadini (i clienti) che avrebbero poi accompagnato senatori e patrizi nei cortei al seguito della loro lettiga, portata dagli schiavi attraverso le strade di Roma fino al Foro, alle terme e agli altri edifici pubblici, a evidente testimonianza del potere e dell’influenza dei loro padroni.
Ma non sempre gli sforzi erano ripagati. Giovenale, nelle Satire, descrive la delusione dei clienti che avevano atteso l’invito tutto il giorno e uscivano a testa bassa dalla casa dei loro padroni perché “la speranza di una cena è per l’uomo la più duratura; ma il fuoco per i miseri cavoli dovranno comprarselo”.
Nell’ultimo periodo della repubblica, gli epula, grandi banchetti pubblici, esasperarono questa tendenza all’invito della plebe da parte dei magnati. In seguito, ai tempi dell’Impero, le clientele divennero più selezionate, ma non scomparvero.
Nella Roma imperiale la tavola era diventata un punto di ritrovo per il patrono e i suoi più illustri clienti e amici. Intorno a essa si delineava una piramide, con al vertice il patrono stesso e il suo invitato d’onore, che aveva una posizione ancora più influente di quella del padrone di casa e occupava il posto più importante. Seguivano gli amici, per fare conversazione, e i clienti, per riempire i posti liberi dei tre letti del triclinio, dove i commensali si sdraiavano per cenare. Ai piedi del triclinio stavano gli schiavi, che avevano accompagnato gli invitati fino al luogo in cui si svolgeva il banchetto. Forse alle cene partecipavano anche la padrona di casa e i suoi bambini, stando però decorosamente sulle sedie e ritirandosi a un’ora prudente. Tuttavia, a partire dal I sec. a.C. anche le donne cominciarono a sdraiarsi sui letti del triclinio senza suscitare disapprovazione. In ogni caso sembra che di opinioni a riguardo ce ne fossero per tutti i gusti. Si passava da quelle conservatrici, che preferivano per la donna la tradizionale posizione seduta, alle più mondane, in linea con il processo di emancipazione e con il potere decisionale che la donna aveva progressivamente conquistato in diversi ambiti, e che non vedevano di cattivo occhio il fatto che anch’essa adottasse la posizione sdraiata durante la cena.
Davanti ai letti c’era spazio solamente per gli schiavi di servizio, ma tutt’intorno l’ambiente era invaso da un tripudio di suoni, intrattenimenti e colori. C’erano servitori in uniforme, altri più anziani che davano ordini, trincianti che tagliavano l’arrosto, cuochi orgogliosi che sfilavano con piatti magistralmente presentati ed efebi dalle chiome lunghe e ricce che versavano il vino. Ma a movimentare l’atmosfera c’erano anche le grottesche pagliacciate dei nani, i suonatori di cetra, le ballerine, gli acrobati seminudi, gli equilibristi, i declamatori di poesie e attori vistosamente truccati. Oppure c’era semplicemente la schiava di casa che faceva tutto: bisogna infatti ricordare che non tutte le tavole erano ricche come quella dell’imperatore Caligola che, secondo il racconto di Seneca, in una sola cena riuscì a dilapidare l’equivalente dei tributi riscossi in tre province.
In Marziale, per esempio, troviamo il menù di una cena semplice. Il pasto serale era composto da un antipasto (gustatio), seguito dalla cena propriamente detta, che poteva continuare con il dolce (secundae mensae) e il dopo cena (comissatio), spesso rallegrato dagli interventi già descritti e debitamente innaffiato di vino. La comissatio era, infatti, accompagnata da una serie di brindisi a ripetizione e poteva prendere una direzione difficile da controllare. Il menù descritto da Marziale comprendeva lattuga, porri e un trancio di tonno coperto da uova strapazzate come aperitivo; per portata principale un cavolo verde e un sanguinaccio che copriva farinate d’avena e fave; come dolce, infine, uvetta, pere siriane e castagne arrostite, il tutto accompagnato da vino, olive, lupini tiepidi e ceci caldi da spizzicare. Si trattava di un menù modesto, ma non povero, era anzi abbondante e più simile a quello che poteva mangiare la gente comune di Roma dei primi secoli dell’Impero. Sulla tavola della maggior parte dei Romani si potevano trovare infatti pane, fave, piselli, lenticchie, ceci, aglio, cipolle, frutta, rape, angurie, zucche, miele, frutta secca, formaggio e olio. La carne e il pesce invece si vedevano solo in rare occasioni. Ma le carni che arrivavano sulla tavola dei cittadini comuni non avevano niente a che vedere con quelle della gastronomia più sofisticata, che comprendeva cinghiali, lepri, antilopi, fagiani, fenicotteri giganti, animelle, vulva di scrofa, ostriche (specialmente quelle del lago Lucrino o della Britannia), lingue di pappagallo e altre prelibatezze. Questi ricchi piatti venivano portati a tavola nei preziosi servizi di famiglia, passati in eredità da una generazione all’altra, costituiti da stoviglie d’argento e raffinati calici di vetro soffiato in cui si versava un vino Falerno di ottima annata. Al momento del brindisi era usanza che i commensali si cingessero il capo con corone di fiori, mentre l’olio profumato, distribuito dagli schiavi, scivolava sulla pelle insieme al sudore, in un’atmosfera satura di aromi, odori ed effluvi sotto la luce pallida delle lampade a olio.
Fonte: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151592894671475&set=a.441702761474.228712.196487776474&type=3&theater
Immagine di antika.it
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