mercoledì 6 aprile 2011
Porti e approdi antichi nel Sulcis, Piero Bartoloni
Porti e approdi del Sulcis
di Piero Bartoloni
Si è conclusa in questi giorni la rassegna organizzata dall'Associazione Italia Nostra Onlus, che vede la partecipazione di alcuni archeologi su temi riguardanti porti e approdi antichi nell'isola (vedi locandina nell'immagine). Ho assistito agli incontri e ho pensato di regalare ai lettori che non sono potuti intervenire, la sbobinatura delle relazioni, scusandomi fin da ora per la presenza di qualche piccolo errore, dovuto a mia imperizia per la difficoltà di trasformare il "file" registrato in "file" leggibile. Questo è l'ultimo della rassegna, e ringrazio tutti i lettori per il tempo che hanno dedicato a questo importante argomento che riguarda la nostra storia marinaresca nel periodo di integrazione fra fenici e nuragici.
Il Sulcis-Iglesiente è la regione della Sardegna in cui troviamo la maggior concentrazione degli insediamenti fenici. La ragione è la ricchezza mineraria della zona, soprattutto per quanto riguarda l’argento, metallo di riferimento per i popoli del vicino oriente: 7.2 grammi di argento erano l’unità di misura della moneta orientale. I sardi, proprietari delle miniere d’argento scambiavano questo metallo con il rame perché le miniere di questo elemento sono solo 8 e non erano sufficienti al fabbisogno dell’isola. Solo Funtana Raminosa forniva una buona quantità di rame, le altre miniere erano povere. Oggi è l’oro il metallo di riferimento, ma anticamente avevamo l’argento nel Vicino Oriente e il rame in Sardegna. I fenici avevano bisogno di porti, luoghi dove sostare con le navi che offrivano anche la possibilità di penetrare verso l’interno. Qualunque porto, per quanto grande e attrezzato possa essere, se ha le montagne alle spalle perde quasi completamente il suo valore strategico. Da Guspini, a nord, fino all’attuale Carbonia, si trovano miniere di piombo argentifero e di galena argentifera. I greci affermavano che la Sardegna era l’isola dalle vene d’argento, e sono state censite 399 miniere di questo metallo. I principali insediamenti nella Sardegna meridionale sono Monte Sirai, Carloforte, Sant’Antioco, Pani Loriga-Santadi e Bithia. I porti importanti per imbarcare l’argento erano Guspini a nord, nello stagno di San Giovanni, e Sulki a sud. Il metallo veniva semilavorato negli insediamenti, e imbarcato sulle navi dirette nel Vicino Oriente. Già nella carta ottocentesca di Alberto Ferrero La Marmora si nota come la città di Sulki, il più antico agglomerato urbano sardo (780 a.C.), sia affacciata sullo stagno di Sant’Antioco e sul Golfo di Palmas.
Era un sito favorevole e ricercato dai marinai, tanto che nella prima guerra punica ci fu una importante battaglia navale nel Golfo di Palmas perché i romani volevano impadronirsi del porto. Nella battaglia di Sulki l’ammiraglio cartaginese fu sconfitto, riparò a terra e, come avveniva in quelle circostanze, fu crocifisso. Nelle monete romane dell’epoca si notano una serie di rostri, importanti perché rappresentavano il trofeo delle battaglie navali. Inoltre erano danaro contante in quanto realizzati in bronzo. Il porto fenicio di Sulki si trovava dove ancora oggi i diportisti ormeggiano le barche, protetto dal castello di Castro e da quello di Su Pisu. Contro la tramontana, l’unico vento dannoso per questo porto, c’era il becco roccioso di Sant’Isandra, oggi sprofondato, sopra il quale abbiamo individuato un edificio costruito, anch’esso oggi sommerso.
Questo edificio era realizzato con i blocchi delle fortificazioni cartaginesi. Si tratta di due quadrilateri affiancati, che sono stati recentemente demoliti perché i pescatori si sono serviti di questi blocchi per fare dei pedagni per le reti. Probabilmente si trattava di un piccolo santuario collocato lungo una strada rotaia, parallela alla linea di costa, che consentiva alle navi di essere trascinate in porto con delle corde legate a buoi, secondo una tecnica utilizzata anche in altri luoghi. La laguna non era certamente navigabile a vela, e anche oggi pur essendoci un canale profondo circa 5 metri, nessuno affronta il rischio di approdare procedendo solo con le vele. Il livello dell’acqua dal 700 a.C. si è alzato di quasi un metro e mezzo e quindi oggi lo scoglio si vede solo in caso di bassa marea. In un portolano del 1261 che illustra le isole dell’arcipelago del Sulcis, si nota che il passaggio fra lo stagno di Sant’Antioco e il Golfo di Palmas era assente. In antichità il passaggio del mare era garantito dal fatto che l’istmo non era completamente consolidato, ma sappiamo che sull’istmo sono stati rinvenuti due menhir del 3000 a.C. e dobbiamo pensare che già da quel periodo l’istmo era percorribile via terra, pur non essendo continuo. I depositi del Rio Palmas hanno contribuito, nel tempo, al consolidamento completo della striscia di terra creando un tombolo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna. In un altro portolano, del 1844, si vede un forte posto nel passaggio del ponte e si nota anche il castello bizantino di Castro, raso al suolo intorno al 1870 per far passare la ferrovia. Oggi al suo posto c’è il campo di calcio. Negli anni scorsi, grazie alla guardia di finanza, ho messo a punto un progetto che prevede il rilevamento di tutti gli insediamenti fenici grazie a circa 8000 foto aeree che hanno documentato tutte le coste del territorio. In questo modo oggi abbiamo un quadro chiaro, oltre che dell’ubicazione, anche delle distanze fra gli insediamenti fenici. La morfologia della costa è cambiata perché nel corso degli anni hanno demolito, dragato, aggiunto e modificato le strutture, in funzione delle necessità del porto.
La zona di Sulki è caratteristica anche dal punto di vista climatico. Quando ci sono le brezze, nella parte nord di Sant’Antioco tira un vento di maestrale, mentre a sud c’è il vento il levante. È il tratto di cerniera tra il Mare di Sardegna e il canale di Sardegna. Il dragaggio del canale navigabile ha creato un isolotto chiamato Sa Barra. L’antica linea di costa, oggi interrata, è individuabile osservando la lunga fila di alberi piantata in città negli anni Cinquanta, che oggi corre parallela al mare, e corrisponde all’antico tracciato della ferrovia.
Sant’Antioco attuale risiede totalmente sulla città antica, e le indagini sul vecchio insediamento sono complicate. Tutte le fontane che derivano dalla falda freatica che scende dalle colline verso il porto sono state la condizione fondamentale per la fondazione di Sant’Antioco. Senza acqua non c’è sopravvivenza e sotto il paese questo prezioso liquido si raccoglie e sgorga ad una profondità di 6/7 metri, infatti tutte le case hanno un pozzo. I marinai potevano provvedere all’acquata e proseguire la navigazione, e tutta la costa presenta punti nei quali si poteva fare l’operazione di carico dell’acqua potabile. Il Golfo di Palmas è uno degli ancoraggi migliori della Sardegna, paragonabile a quello di Porto Conte, dove si trova il sito di Sant’Imbenia. Anche l’ammiraglio Nelson, che si intendeva di approdi con facile accesso al riparo dai venti dominanti, scelse questo golfo per approdare in epoca napoleonica. Giacomo II di Aragona, quando conquistò la Sardegna sbarcò nel Golfo di Palmas, ma non fu il solo in quanto anche Carlo V, scendendo verso Tunisi, si fermò a dormire a Palma de Sol. Se calano le ancore in questi luoghi evidentemente il golfo era propizio. Il sito offre una profondità che mai è inferiore ai 20 metri e consentiva l’ancoraggio sicuro sul fondo sabbioso di posidonia.
Un altro approdo di Sant’Antioco è il Golfo di Maladroxia, una piccola insenatura dotata di una sorgente di acqua termale, e di una valle coltivabile a grano. In un portolano francese del 1344 questo approdo è citato, e varie interpretazioni sono state fornite per spiegare la denominazione. A mio parere l’ascendente è un vocabolo fenicio, quello che da origine al nome dell’isola di Malta, ossia Malad, che significa rifugio. Essendo Malad-roxia un nome composito, visto che le parole fenicie sono scritte prive di consonanti e considerato che rox(sc) in fenicio significa capo, la parola sarebbe “il rifugio del capo”, ossia il promontorio di Capo Sperone, la prima struttura a sinistra che si trova entrando nel Golfo di Palmas. Dalla parte opposta abbiamo Cala Sapone, importante sede per le tonnare. In sintesi abbiamo una strada che unisce un fiume perenne alle sorgenti di acqua termale e un golfo che offre riparo dai venti dominanti e vede tante cale per fare carena. L’isola è protetta da un nuraghe polilobato, denominato Sega-Marteddu, a dimostrazione che i nuragici avevano i loro porti e predisponevano torri per il controllo degli approdi. Tutta la valle è accuratamente circondata da nuraghe.
A Nord c’è il porto di Inosim, l’isola dei falchi, ossia Carloforte. I fenici la chiamavano "Enosim" o "Inosim", mentre per i greci era "Hieracon Nesos" e per i romani "Accipitrum Insula" (Isola degli sparvieri, o dei falchi). Il nome deriva dalla presenza di un piccolo falco migratore, il falco della regina, che è presente e nidificante in una numerosa colonia, accuratamente protetta dalle inaccessibili e scoscese falesie costiere. A Cagliari, nella costa di Stampace, vicino Bonaria, è stata trovata un’iscrizione monumentale conservata al museo di Cagliari che ci parla di un Dio Baal dei cieli, signore di Inosim, ossia di Carloforte. Si tratta forse di una pietra utilizzata come zavorra che è stata scaricata nella spiaggia quando la nave è salpata. Le indagini archeologiche hanno permesso di individuare l’antico insediamento intorno alla torre di San Vittorio, dove c’è l’osservatorio astronomico. Il sito è segnalato dalla presenza di anfore fenicie della prima parte dell’VIII a.C., e il porto si trovava nella zona delle attuali saline. La grande insenatura che si vede a occidente dell’isolotto di San Vittorio era l’invaso portuario.
A Portoscuso è stata individuata, da Paolo Bernardini, la più antica necropoli fenicia della Sardegna, databile al 750 a.C. Carloforte si trova a nord dell’antico insediamento, ma è l’erede naturale di quell’insediamento.
Portopino si trova in prossimità dello stagno di Is Brebeis, ed è protetto da un antemurale fino a Punta Menga, sede di un’antica tonnara. Il Sulcis è pieno di antiche tonnare, ma l’unica rimasta attiva è quella di Portoscuso. La cala di Portopino era sicuramente un ricovero per barche, e le opere più importanti sono quelle cartaginesi, come ad esempio il canale che precede temporalmente quello attualmente in opera. I canali avevano la funzione di scolmatori per la conservazione del pescato. I cartaginesi erano produttori di cibi in conserva, soprattutto prodotti derivanti dal pescato. Il garum, ad esempio, era un condimento fatto con le interiora di sgombro. Anticamente andava di moda il contrasto fra agro e dolce, e la ricetta principale per quanto riguarda il cibo di Cartagine era la minestra. I romani, consumatori della proteina nobile della carne, indicavano con ironia i cartaginesi come mangiatori di minestre. Una delle ricette più prelibate si è conservata fino ai nostri giorni: in una pentola si aggiungevano 5 parti di semola, 1 di formaggio fresco e all’interno il miele. Il tutto veniva mescolato per ottenere la seadas, un cibo agrodolce che rispecchia i gusti di quei tempi.
A Portoscuso c’è lo scoglio della Ghinghetta, oggi sede di un famoso ristorante. Era un’importante sede di tonnara, a dimostrazione che i fenici erano grandi consumatori di tonno. Conoscevano i meccanismi degli spostamenti di questo pesce azzurro che, come gli sgombri e le sardine, gradisce un tasso di salinità costante, a differenza di spigole e orate che possono risalire i fiumi. I fenici gettavano le reti in punti strategici e catturavano una grande quantità di tonni. Impararono velocemente le abitudini dei pesci perché essendo grandi navigatori avevano necessità di sostentarsi in mare. La commercializzazione del pesce divenne di fondamentale importanza per la loro economia. L’antico porto di Portoscuso si trovava in prossimità della torre, vicino al porto attuale. La necropoli di San Giorgio è stata trovata nella zona dei bagni rossi vicino alle industrie. Si tratta di 11 tombe del 750 a.C. appartenenti ad una famiglia nobile. Fin da allora traspare il rapporto strettissimo tra il vino e il mondo funerario. Il vino era un elemento indispensabile nel rito funerario fenicio. I corpi dei defunti venivano bruciati e sepolti all’interno di anfore. Il tappo dell’anfora è una coppa, e il corredo funerario comprende sempre una brocca per la libagione sacra.
In Sardegna ci sono tracce di 24 tonnare, e la maggior concentrazione di queste erano proprio nel Sulcis Iglesiente, a dimostrazione del rapporto fra fenici e mare. Era una caccia molto vivace che serviva per alimentare l’industria della conservazione del pescato. I fenici commerciavano in tutto il mediterraneo, e avevano bisogno di prodotti conosciuti e certificati per aumentare le esportazioni. Quando Roma era ancora un villaggio, Sant’Antioco commerciava con tutto il Mediterraneo, dall’Atlantico fino al Vicino Oriente.
La situazione portuale dell’epoca ci mostra una morfologia abbastanza precisa dei luoghi nei quali le navi approdavano, ma bisogna sempre tenere presente che la situazione cambiò col passare del tempo, e la linea di costa continua ancora oggi a cambiare. Alcuni porti non consentirono più alle navi di approdare in sicurezza e dovettero essere spostati, come avvenne anche a Cagliari. Le navi fenicie erano grandi, lunghe fino a 40 metri, e caricavano 10.000 anfore. I viaggi erano difficili e molto lunghi e si prevedeva quasi sempre una permanenza di oltre un anno lontano dal luogo di origine. Come tutti i marinai sanno, la terra è nemica, e la navigazione a vela sotto costa non era l’ideale per quelle grandi barche. Cercavano di navigare lontani dalle coste, così da avere più possibilità di manovra. La costa sottovento era morte sicura, infatti la maggior parte dei relitti si trovano proprio con la costa sottovento. Per quanto riguarda i rapporti commerciali, c’è un bel racconto di Erodoto che dice come i fenici si procuravano l’oro dalle popolazioni che non conoscevano. Arrivavano in spiaggia, scaricavano le mercanzie, accendevano un fuoco e risalivano sulle barche allontanandosi qualche miglio dalla costa. Gli indigeni vedevano il fumo, scendevano in spiaggia, controllavano le mercanzia, mettevano un corrispettivo in oro e rientravano verso l’interno del villaggio. I fenici rientravano, controllavano se la quantità di oro era sufficiente per le merci e concludevano l’affare. Se l’oro non era sufficiente, si allontanavano senza prenderlo, così che gli indigeni potessero aumentare l’offerta. La trattazione generalmente si concludeva bene perché se uno scambio non funzionava i fenici non sarebbero più ritornati in quel luogo, e il mercato finiva. I nuraghe sulla costa non erano contro i fenici, ma contro le bardane di saccheggio avviate dagli altri cantoni nuragici. La Sardegna non ha mai conosciuto una “unità nazionale”, così come nessuno nel mondo antico. I fenici si riconoscevano nel “diritto cittadino”, e non si consideravano fenici, ma appartenenti ad un popolo ben preciso: di Tharros, di Sulki, di Cartagine, di Karalis…e sicuramente anche i nuragici seguivano lo stesso sistema ed erano divisi fra cantoni.
Le immagini del nuraghe Sega Marteddu, delle saline, del tophet e del tramonto a Capo Sandalo sono di www.sardegnaturismo.it
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