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sabato 2 aprile 2011

Porti e approdi antichi in Sardegna, Oristano


Tharros, Othoca e Neapolis
di Raimondo Zucca


E' in corso la rassegna organizzata dall'Associazione Italia Nostra Onlus, che vede la partecipazione di alcuni archeologi su temi riguardanti porti e approdi antichi nell'isola (vedi locandina nell'immagine). Ho assistito ai primi incontri e ho pensato di regalare ai lettori che non sono potuti intervenire, la sbobinatura delle relazioni, scusandomi fin da ora per la presenza di qualche piccolo errore, dovuto a mia imperizia per la difficoltà di trasformare il "file" registrato in "file" leggibile.

Il concetto chiave sul quale dobbiamo basare le nostre ricerche sui porti e gli approdi della Sardegna antica è la dinamica del paesaggio costiero. Sono quasi assenti i paesaggi costieri naturali, nei quali l’uomo, col suo passaggio, non abbia avuto alcun ruolo. I paesaggi sono stati sempre frequentati e quello costiero del Golfo di Oristano è stato fin dall’antichità uno dei più antropizzato, soprattutto in funzione della portualità. La dinamica del paesaggio scaturisce da un’interazione fra i fattori naturali e quelli antropici. La sciagura che in questi giorni ha colpito il Giappone è un esempio dell’attività che le forze endogene della natura possono manifestare, dando luogo a mutamenti profondi e immediati del paesaggio. Lo tsunami e le scosse di terremoto di altissima intensità hanno provocato delle variazioni sostanziali della costa che conoscevamo. Ma anche senza invocare fenomeni sismici o di maremoto, in relazione alla grandiosità dell’Oceano Pacifico e della evidenza del movimento delle placche terrestri che hanno portato a tale forza, dobbiamo avere piena coscienza che in un terra a bassa sismicità come la Sardegna, si possano avere dei fenomeni di varia natura che portano ugualmente al profondo mutamento del paesaggio nel corso delle ere geologiche. In precedenza gli studi sulla portualità antica del Golfo di Oristano hanno fatto riferimento ai fenomeni di bradisismo, parlando di città sommerse a Nora e a Tharros. Ma da diversi decenni si escludono i fenomeni di bradisismo per spiegare la sommersione reale di alcuni elementi delle due città, compresi quelli di carattere portuale. Effettivamente ci sono delle strutture che sono andate sott’acqua ma il motivo è differente. Il livello del mare è andato sollevandosi nel corso di numerosi millenni dell’ultimo periodo, quello dell’Olocene. Nel Mediterraneo questo sollevamento non avviene allo stesso modo nelle varie località, e ci sono profonde differenze di risalita del mare nei vari settori. C’è anche un fenomeno opposto a quello della risalita del livello, vale a dire la subsidenza, ossia quando si abbassa il livello della terra e del fondale. I due fenomeni opposti sono entrambi alla base di profonde differenze fra il paesaggio dell’antichità e il paesaggio odierno. La Sardegna di 5000 anni prima di Cristo, e nei millenni seguenti, ha subito profonde modificazioni della linea di costa. Questa dinamica del paesaggio è da tenere in considerazione durante gli scavi archeologici. Percorrendo le strade di Tharros, lastricate al principio del II d.C., dobbiamo sforzarci di capire che il paesaggio che si presentava agli occhi di un viandante dell’epoca è ben diverso da ciò che vediamo oggi. Anche le condizioni climatiche sono differenti perché ci sono stati periodi di maggiore piovosità alternati ad altri di maggiore aridità, e il sistema idrografico del Sinis è variato nei millenni. Il territorio, oggi quasi desertico tanto da essere stato utilizzato da una compagnia cinematografica per ambientare alcuni film western, era perfetto per rappresentare l’assetato e assolato west americano. San Salvatore di Sinis, in quei film di mezzo secolo fa, mostrava un paesaggio con diligenze, pistoleri, saloon e tutti gli altri elementi utili alle scene western. Ma il paesaggio desertico e arido del Sinis vale solo per quel periodo, perché il regime di acque è cambiato nei secoli e nei millenni. Bisogna chiedersi se l’attuale corona di lagune, comprendendo quelle di Cabras, di Santa Giusta, di Marceddì, di San Giovanni e di Santa Maria, esisteva anche in antichità. La geoarcheologia, la geomorfologia, la sperimentologia e altre discipline offrono una risposta a vari quesiti. La ricerca dei paesaggi costieri, e dunque della portualità, è frutto di un complesso di studi e di ricerche. Oltre la sovrintendenza ai beni archeologici, varie università lavorano al progetto. Proprio in questi giorni l’Unione Sarda, il quotidiano sardo, ha dato enfasi alla scoperta di una nave armata ritrovata nei fondali del Poetto a Cagliari. O ancora della terracotta di straordinaria bellezza che rappresenta un satiro, individuata nella laguna di Santa Giusta ad opera di una missione congiunta della sovrintendenza di Cagliari e Oristano, con l’intervento di Ignazio Sanna e Carla Del Vais. Inoltre, nella costa meridionale del Golfo di Oristano, hanno operato la sovrintendenza, l’Università di Cagliari e quella di Sassari in stretta collaborazione.

Il Padre dell’ Archeologia sarda, il Canonico Giovanni Spano, nel 1861, riteneva di identificare il porto di Tharros, all’ interno del golfo di Oristano, tra la Torre Vecchia del Capo San Marco e l’ area urbana, allora non ancora riportata alla luce.
Un secolo dopo, nel 1965, dopo l’ avvio nel 1956 degli scavi del centro urbano, il Generale Giulio Schiemdt, sulla base delle fotografie aeree del 1957, ipotizzava l’esistenza di un complesso di banchine portuali sommerso di fronte alla zona compresa fra le terme meridionali e quelle settentrionali di Tharros.
Nel 1979 la prima ricognizione subacquea dei fondali di Tharros, ad opera di Luigi Fozzati e del Prof. Piero Bartoloni, attuale cattedratico di archeologia fenicio-punica dell’ateneo sassarese, identificava una possibile presenza di strutture sommerse presso il Mare Morto, fra il colle più settentrionale di Tharros (loc. Murru Mannu) e le baracche dei pescatori. Nel triennio 1984-1987 l’israeliano Elisha Linder, autore di eccezionali scoperte nel porto di Cesarea, costruito da Erode il Grande, identificò un molo frangiflutti, sommerso, in corrispondenza dell’area compresa fra il battistero paleocristiano tharrense e il principio del colle di Murru Mannu. Nel 1985 il Fioravanti in uno studio complessivo sul porto di Tharros riteneva probabile una ubicazione dello stesso in un’ antica area lagunare oggi interrata, a nord del colle di Murru Mannu.
Nel 1999 un volumetto a cura di Acquaro, Marcolongo, Vangelista, Verga, dal titolo Il porto buono di Tharros, presentava l’ ipotesi di una strada di collegamento fra il centro monumentale di Tharros e il porto, localizzato a nord di Murru Mannu, fra due linee difensive della città. Nel 2005 Attilio Mastino, Pier Giorgio Spanu e Raimondo Zucca, nel volume Mare Sardum, a proposito del porto antico di Tharros osservavano:
Le indagini geomorfologiche hanno dimostrato che la Paùli Sergiola che si frappone tra il Porto Vecchio e lo stagno di Mistras è il risultato di un fenomeno dinamico di interrimento, che ha lasciato testimonianza nei vari cordoni dunari che denunziano un progressivo spostamento verso oriente della linea litorale. Si può ricavare l' esistenza di un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente a lambire l' area dell'abitato odierno di San Giovanni di Sinis, successivamente ridotto a specchio lagunare e ancora a palude. L'esistenza di una necropoli fenicia arcaica nella fascia costiera di San Giovanni, distinta dall' altra necropoli fenicia di Torre Vecchia, a mezzogiorno dell' abitato punico e romano di Tharros, potrebbe forse essere posta in rapporto con il centro portuale tharrense di Porto Vecchio.
L’ ipotesi formulata nel libro Mare Sardum di “un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente”, in direzione di San Giovanni di Sinis, ha portato la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Sardegna e l’Università di Sassari ad effettuare ricerche mirate alla risoluzione del problema. In questa medesima direzione, indipendentemente dall’attività di ricerca di Sassari, si era mossa l’ Università di Cagliari con Carla Del Vais e Rita Melis, acquisendo risultati di straordinario rilievo. Le foto aeree del Golfo mostrano uno spazio lunato delimitato dal colle di San Marco e dal promontorio della Frasca. Sullo sfondo abbiamo i monti dell’Arcuentu, del Monte Linas, la piana del campidano con il baluardo di Monreale e infine il Monte Arci. Un golfo che appare chiuso in quanto appena 6 miglia nautiche separano i due capi. Questo golfo può ben prestarsi ad accogliere navi. Abbiamo testimonianze, soprattutto di età spagnola, relative alla possibilità per flotte cospicue di stazionare nel Golfo, il cui fondale è sabbioso e non presenta ostacoli particolari come secche o scogli affioranti poiché la profondità, rilevabile oggi, è di circa 50 metri. Prendiamo in esame i dati delle correnti e del vento, simili a quelli che dovevano rilevarsi anche in età antica. Il vento prevalente è quello da Nord Ovest, il maestrale, e il Sinis pur essendo poco riparato, visto che evidenzia elevazioni ben inferiori ai 100 metri sul livello del mare, riesce in alcuni tratti ad offrire riparo da questo forte vento. Il ridosso si può ottenere sul settore oggi occupato dalle barche dei pescatori. Altri venti influenti, anche se meno rilevanti, dall’ostro al libeccio e al ponente, portano nuvolosità persistente e pioggia e riescono a penetrare nel Golfo di Oristano. C’è un gioco di correnti che fa si che il vento di libeccio sia il più grave per le navi che si trovano alla fonda. Il Golfo di Oristano non è dunque un riparo sicurissimo per le navi, comporta dei problemi e si sente la necessità di attrezzare zone particolari più riparate per evitarli. La barriera del promontorio della Frasca offre riparo al libeccio, e l’approdo delle navi è favorito. La laguna circolare di Santa Giusta è interna, dotata di un canale che la mette in comunicazione con il fiume Tirso. Ma non sappiamo quando è avvenuto lo sbarramento della laguna. Inizialmente era una grande insenatura interessata dal moto ondoso e dal gioco delle correnti, e la nostra documentazione presenta dei problemi interpretativi. Solo la ricerca interdisciplinare potrà fare chiarezza sulla situazione passata.
Iniziamo dall’approdo a nord del Golfo di Oristano: Tharros, con il promontorio di San Marco sormontato dalla torre di San Giovanni.
Oggi possiamo indicare una serie di punti fermi:
Sa Mistra Manna o cordone dunario di Su Siccu che separa il bacino orientale di Mistra dal golfo di Oristano è formazione relativamente recente: non esisteva al tempo di Tharros. Allora il mare entrava con le sue ondate sospinte dai venti del secondo e terzo quadrante (in particolare scirocco e libeccio) fino ad una spiaggia fossile sul versante orientale della lingua di terra detto Sa Mistraredda. In questa spiaggia fossile (“beach rock”) si sono individuati moltissimi materiali archeologici romani ma anche punici, La lingua di terra di sa Mistraredda era più sottile sul lato occidentale, in quanto si sono riconosciute due linee di spiagge fossili, una delle quali, leggibile per circa ottocento metri, restituisce sono materiali fenici, punici e greci. Dunque il bacino più occidentale di Mistras era più esteso almeno in età cartaginese e tale bacino dovette fungere da porto della città di Tharros. Questa ipotesi si basa non solo su rinvenimenti archeologici ceramici all’ interno di questo specchio d’acqua, ma soprattutto sulla scoperta di un probabile bacino portuale scavato nella roccia, all’estremità meridionale di Mistras, non lungi da San Giovanni di Sinis. Questo porto scavato potrebbe essere il cothon (secondo la denominazione semitica del porto di Cartagine) di Tharros. Il bacino si presenta con una fronte rettilinea di metri 225 e con un
grande molo lungo 190 metri, che lascia un canale di avvicinamento delle navi di una cinquantina di metri. Con grande probabilità si tratta di una cava riutilizzata per creare tale bacino, connesso agli assi viari, che lungo il margine meridionale e occidentale di Mistras collegavano Tharros a Othoca e Cornus, innervando il territorio, destinato alla cerealicoltura. Il grano e altre risorse erano destinate non solo al consumo interno ma soprattutto all’esportazione marittima a Cartagine. Presso San Giovanni di Sinis, non lungi da questo settore, si è individuato il Ceramico, l’area dove i figoli di Tharros producevano vasellame e anfore destinate anche a contenere le derrate da inviare all’esterno. La ricerca ha infine evidenziato due grandi argini, che si incontrano ad angolo retto, e che servivano il bacino portuale. Altri argini minori parrebbero collegati alla coltivazione di saline in età antica. Il porto si dovette interrire a causa di potenti limi forse in età altomedievale. La fine della città di Tharros e il trasferimento dei tharrensi a Oristano potrebbe mettersi in relazione alla decadenza del porto e alla ricerca di un nuovo porto trovato a Torre Grande, il porto Cuchusio (Cuguzzu) della capitale giudicale arborense. Nel medioevo l’ approdo di Capo San Marco va ricercato nella caletta va mezzo miglio (615 metri) dal Capo, mentre resta da individuare l’approdo ridossato da una scogliera, all’interno del golfo, a due miglia dal capo segnalato nel 1520-1521 nel portolano turco di Piri Reisi. La ricerca è appena agli inizi, future indagini sulle linee di riva databili
con mezzi archeometrici consentirà di definire dettagliatamente la dinamica dei paesaggi costieri di Tharros, la nascita, la crescita e la morte del primitivo porto.
La città di Tharros, così come si presentava negli scavi del 1956, condotti da Gennaro Pesce, era limitata tra il settore di Murru Mannu e la falda orientale del colle della torre di San Giovanni. La zona è protetta dal vento di maestrale, perciò la ricerca archeologica ha orientato i primi studi mirati all’individuazione del porto di Tharros, proprio nel settore del mare morto (Golfo di Oristano), distinto dal mare vivo, ossia il Mare Sardo. Si pensava ad un centro abitato, monumentalizzato e dotato di porto. I dati acquisiti dalla ricerca archeologica e dallo studio della morfologia della costa hanno dimostrato che quella visione era sbagliata. Sulla base dell’analisi delle foto aeree del sito, fatte dal generale Smith, di fronte al secondo edificio termale si notava una serie di strutture che potevano rappresentare i moli del porto. L’analisi è andata avanti, e nel 1985 Fioravanti ha preso in considerazione l’area a nord di Tharros. Nella zona di Murru Mannu, il colle settentrionale di Tharros, si trovano delle linee murarie di difficile cronologia relative alla cortina muraria della città. Possono aiutarci a capire quale era la linea di costa nel periodo cartaginese, circa 2500 anni fa. Fu un passo avanti notevole perché lo studioso ritenne che il porto di Tharros si trovasse in una insenatura a nord, ai piedi del tophet, in vicinanza dell’unica via d’accesso naturale a Tharros, che si estende proprio in quella zona. Nessuna fonte antica parla del porto di Tharros, anche se nel 170 d.C. il geografo Tolomeo riconosce Tharros lungo il fianco occidentale della Sardegna, lungo la costa. Le prime notizie le troviamo in un codice cinquecentesco della passione di Sant’Efisio in cui il santo è fatto sbarcare nel Portus Tharrensis, presso la foce di un fiume, forse il Tirso. Successivamente, nella cartografia medievale e postmedievale noi conosciamo un porto di San Marco, ma non siamo certi che si tratti proprio del porto della città di Tharros. Tuttavia oggi sappiamo che la variazione della linea di costa nella zona di Tharros è stata notevole, e siamo sicuri che il porto medievale non potesse sorgere dove c’era il porto antico. La portualità di Tharros risale almeno al periodo nuragico perché abbiamo documentazione di scambi internazionali fra nuragici e altri popoli mediterranei. La colonizzazione del Sinis nella prima Età del Ferro, ossia intorno al IX a.C., da parte dei fenici trasforma la struttura urbana sarda con una diminuzione del numero degli insediamenti e un aumento della densità degli stessi. Il motivo per il quale siamo certi dello scambio transmarino è evidente visto che il Sinis aveva un mercato ceramico molto florido che durò fino alla prima metà del VII a.C. Il nuraghe Suraki di San Vero Milis è il più grande della zona e catalizzava i commerci. In quella zona sono state trovate anche le statue di Monte Prama ed esisteva una importante via nuragica fra Tharros e Nurachi. Lungo questa via i ritrovamenti sono stati tanti perché certamente c’era un buon numero di piccoli villaggi. Nel nuraghe sistemato nell’area di Murru Mannu è stato trovato un frammento di ceramica micenea del 1400 a.C., sbarcato da una nave proveniente forse dalla Argolide (Tirinto), a dimostrazione di commerci a largo raggio. Gennaro Pesce, nel suo libro dedicato a Tharros, si chiedeva come fosse possibile che i navigli micenei giungessero e ponessero le ancore a Tharros. Negli scavi del 1990 nel nuraghe Arrubiu di Orroli, è stato trovato un contenitore di profumi (alabastròn), e insieme al frammento miceneo sono i reperti più antichi, di area egea, trovati in Sardegna. Fra i reperti importati, Paolo Bernardini ha trovato un vaso a corpo globulare decorato con un uccello, una pianta e forse un luogo di culto, proveniente probabilmente da Cipro e databile al 900 a.C., dunque le navi continuavano a commerciare. I fenici non erano ancora giunti in Sardegna, ma i traffici dei sardi nuragici erano floridi e gestivano gli approdi. Il problema della portualità di Tharros risale almeno a quell’epoca. I sardi continuano a vivere a Tharros almeno fino ai primi decenni del VII a.C., come testimoniano i materiali ritrovati, ad esempio un bronzetto con rappresentati una coppia di buoi aggiogati che proviene dalla zona di San Marco. I fenici quando arrivano a Tharros trovano una situazione ben avviata commercialmente, e iniziano ad integrarsi.
Nel 1979 scavai la 25° tomba di Monte Prama trovando uno scarabeo di produzione levantina, forse cipriota, che secondo lo studioso Stiglitz è databile all’VIII a.C. Evidentemente nel porto di Tharros, ancora nuragico, arrivavano questi oggetti e arrivò anche l’idea della statuaria monumentale, tipicamente orientale. Ma i centri nuragici del territorio oristanese, come Suraki e Sa Ruda, restituiscono materiali di ispirazione fenicia realizzati dai nuragici. Si può ritenere che la distruzione delle statue di Monte Prama sia avvenuta per mano di genti che volevano affrancarsi dai nuragici che imponevano pedaggi per l’uso del porto.
Indubbiamente questo antico porto deve essere puntualizzato sul piano topografico. Nuove ricerche, arricchite da foto aeree, hanno messo in luce l’allineamento di una gigantesca struttura sommersa. Quando esisteva una portualità nella zona settentrionale, il cordone non esisteva ancora. Analizziamo gli elementi che giocano una funzione nel descriverci le fasi dell’evoluzione del porto di Tharros. Ho forti dubbi sull’autonomia di una Tharros fenicia anteriormente al 630 a.C. perché il tophet e le due necropoli, settentrionale e meridionale, restituiscono materiali che partono da questa data. Probabilmente, quindi, il centro fenicio di Tharros inizia la sua vita indipendente nella seconda metà del VII a.C., mentre in precedenza a gestire i traffici erano gli indigeni, con all’interno una comunità fenicia la cui localizzazione è ancora dubbia. L’area di necropoli fenicia più grande e più ricca di dati che conosciamo per Tharros è settentrionale, e ci sorge il dubbio che il primitivo insediamento fenicio fosse nato proprio in corrispondenza dello scalo portuale del settore di Mistra. Mentre il centro punico, e poi quello romano, sorgono nella zona in cui ancora oggi possiamo ammirarli, dobbiamo pensare che il porto antico fosse, invece, nella zona a nord, nel mare vivo. Nel Golfo di Oristano, quindi nel mare morto, i cordoni dunali di Sa Mistra Manna e Su Siccu, si sono formati in successione di tempo. La linea di costa del mare interno ha visto la costituzione del primo cordone e la costituzione di nuove linee di riva più avanzate. Le analisi di archeologia subacquea hanno rivelato che la linea retta lunga circa 150 metri che si nota dalle foto aeree è costituita da blocchi di arenaria quadrati. Proprio in corrispondenza della linea di riva più antica abbiamo quindi una struttura che sembra intagliata, e facendo i saggi di scavo sulle linee di riva fossili, si sono trovati materiali molto coerenti. In sequenza gli archeologi hanno trovato i materiali fenici, quelli cartaginesi, e i materiali romani. In età punica abbiamo un porto intagliato e scavato, come a Cartagine e in altri siti. C’è la possibilità di avere un sistema di portualità di Tharros all’interno della laguna di Mistras, che si è progressivamente spostata fino all’età romana. Ebbe il suo ruolo principale in età cartaginese, quando Tharros era forse la capitale della provincia punica di Sardegna. In età romana il porto aveva un ruolo molto minore perché si trovava nella sponda opposta alla costa laziale. Ritengo che questo dato della variazione della linea di costa, e di progressivo interrimento del porto punico, sia stato un fattore determinante ma non esclusivo dello spostamento del porto. Probabilmente si aggiunsero decisioni di carattere politico volute da Roma. Secondo l’archeologo Stiglitz, una situazione simile avvenne anche a Cagliari. L’aspetto della variazione della linea di costa, con la creazione della barra di Sa Scafa, dovrebbe aver deciso il destino del porto della Cagliari punica a Santa Gilla, con il passaggio alla nuova zona della darsena.
Analizziamo ora la situazione di Othoca. Nel bacino di Santa Giusta si trova il canale di Sant’Elia, rettificato nel 1910 perché prima era serpeggiante. Per inquadrare al meglio gli avvenimenti, dobbiamo tenere conto della dinamica del fiume Tirso, il più lungo della Sardegna, che si ingrossa notevolmente con l’apporto del fiume Talora, e trascina alla foce una notevole quantità di materiale partendo dalla Barbagia. Nel 1923 fu costruita la diga di Santa Chiara, ma precedentemente ci furono profonde inondazioni, come quella del 1870 che fece vittime, e rese Oristano simile a Venezia, con le barche che circolano nelle strade. Il Tirso ha svolto un ruolo determinante sia per la formazione delle barre, secondo il flusso delle correnti, sia nel decidere il suo regime nella piana. C’è da chiedersi se esisteva una profonda insenatura che giungeva a Santa Giusta, o se la barra si sia formata precocemente. Sono state eseguite delle indagini terrestri e subacquee sul canale. A Sant’Elia è stato rilevato un insediamento nuragico del IX-VIII a.C. che ha avuto un suo ruolo nel controllare l’accesso a Othoca. Dal 1973 conosciamo una grande quantità di anfore che provengono dai fondali di Santa Giusta. Difficile dare una chiave di lettura dei fenomeni fino a quando non si faranno delle ricerche ideologiche approfondite. Il livello dello stagno è bassissimo ma forse c’era un ingresso per le navi che consentiva la risalita per un breve tratto del Tirso. All’interno delle anfore ritrovate c’erano tracce di carni macellate ma ancora non sappiamo cosa rappresentano le anfore. Non pensiamo si tratti del carico di un relitto affondato perché sono state trovate secondo una sequenza cronologica molto ampia, dal VII a.C. fino a età tardoromana, e non si può pensare ad un unico evento catastrofico che abbia provocato la perdita delle anfore. Pensiamo all’esistenza di un porto ma gli elementi trovati fino ad oggi non consentono di leggere una topografia portuale. Anche quest’area era interessata al rapporto con le comunità levantine perché presso il canale di Othoca si è trovato un frammento di tripode cipriota conservato in un museo di Firenze e databile al 1150 a.C. (tardocipriota III) che impone di riconoscere l’esistenza di uno scalo portuale durato a lungo.
Passando all’analisi di Neapolis, nella zona a sud del Golfo di Oristano. Anche questo centro, come Tharros e Othoca, era dotato di porto. Fra i reperti ritrovati in prossimità del possibile scalo portuale ci sono le statuette ceramiche dei devoti sofferenti che chiedono la guarigione. Dalle immagini satellitari si notano la laguna di Marceddì, la laguna di San Giovanni e la zona dove si trovavano gli stagni di Santa Maria.
Gli archeologi hanno identificato come gli insediamenti neolitici, ricchi in questo settore, vivessero non in funzione delle lagune ma di una fertilissima valle irrigata dal Rio Cixerri e dal Flumini Mannu che correvano insieme. La laguna si forma per sommersione della valle, e le ricerche mostrano che proprio nella zona degli stagni di Santa Maria avevamo l’approdo di Neapolis. I depositi dei materiali anforacei greci, fenici e cartaginesi si trovano nel santuario che doveva sorgere in prossimità dello scalo. In età romana, I d.C., gli stagni erano formati perché proprio nel cordone che divide lo stagno di San Giovanni dagli stagni di Santa Maria, si è trovata una buona quantità di anfore romane. La città di Neapolis non aveva più il porto ai suoi piedi a causa della formazione del cordone dovuta agli apporti del materiale trasportato dai fiumi, e si dovettero spostare le infrastrutture dal bacino di Marceddì. In età punica la città accolse il pregiato vasellame greco, e il nome stesso della città è di derivazione greca, trasformazione del vecchio nome dato da Cartagine: Macomadas , ossia luogo del mercato nuovo che doveva garantire gli scambi economici con diversi partners. Era un luogo controllato da Cartagine, infatti in quel periodo non si poteva approdare in tutti i porti, ma solo in quegli approdi che Cartagine teneva sotto controllo. Nella costa orientale della Tunisia si è potuto verificare che al di là della Neapolis tunisina, che dal V a.C. era deputata agli scambi cartaginesi, tanti altri approdi controllati dai cartaginesi avevano lo stesso nome. Secondo l'acuta interpretazione etimologica di Giovanni Garbini le Macomades puniche (ne sono note tre in Africa e cinque in Sardegna a Nigolosu-Magomadas, Magomadas-Tresnuraghes, Magumadas-Nureci, a Macumadas-Gesico, Macumadas-Nuoro) segnerebbero altrettanti "mercati nuovi" che si aprivano al commercio cartaginese. Questo spiega adeguatamente
la loro dislocazione ai margini del dominio punico. Centri di piccole dimensioni (nulla di paragonabile a Tharros, Sulcis o Cagliari), articolati intorno a un nuraghe che evidentemente ne costituiva il centro ideale e materiale, punto di pacifico incontro tra gli abitanti locali e commercianti punici che risiedevano sul posto. Le Macomades riflettono dunque una realtà economico-sociale legata alla presenza cartaginese. In Sardegna esisteva però anche un altro toponimo, formato con la parola maqom "mercato": Macopsisa (oggi Macomer), un mercato che evidentemente non era nuovo e che pur tuttavia era stato abbastanza importante da aver dato il suo nome semitico a un centro sardo. La storia di questa portualità continua nel medioevo perché nei portolani e nelle carte nautiche abbiamo a più riprese menzionato il Napolitanus Portus. A Neapolis il mutamento del paesaggio non aveva conservato la portualità di quel porto, e così la storia che noi possiamo raccontare è proprio la storia del paesaggio. La morfologia che possiamo vedere oggi, con un paesaggio di stagni, mare e terra, è in realtà un paesaggio che cambia di continuo grazie alla natura. Noi siamo testimoni della bellezza del paesaggio ma siamo chiamati a conservarla, pur nella sua mutevolezza. Dobbiamo capire che alcuni porti sono finiti sott’acqua, altri si sono interriti, e altri si sono spostati quando il mare è divenuto sabbia.



L'immagine della carta antica del Golfo di Oristano è di www.mbmaps.net

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