sabato 30 aprile 2011
Atlantide di Platone
Estratto dal saggio:
HASSALEH – L’OCCHIO DI HORUS.
Manetone aveva ragione!
di Antonio Crasto
La più importante testimonianza scritta ci è pervenuta non dall’Egitto, ma dal mondo classico greco. Sono i famosissimi dialoghi di Platone (427-347 a.C.), il Timeo, ovvero Della natura, e il Crizia, che quasi sicuramente furono le prime due parti di una trilogia forse rimasta incompiuta.
L’opera scritta sotto forma di dialogo fra alcuni illustri personaggi, Socrate, Timeo, Crizia ed Ermocrate, è una trattazione filosofica sull’origine del mondo e la natura dell’uomo, ma per quanto ci riguarda in questo momento, essa si sofferma in particolare su una storia che Crizia avrebbe appreso dal bisnonno Dropide, parente e grande amico dello statista ateniese Solone (639-559 a.C.), al quale sarebbe stata riferita dai sacerdoti della città di Sais durante un suo viaggio in Egitto, effettuato intorno al 580 a.C.
Si racconta come il saggio Solone, volendo provocare e stimolare a parlare i sacerdoti egizi, abbia incominciato a narrare dei personaggi mitologici che sarebbero vissuti in Grecia al tempo del Grande Diluvio di Deucalione e Pirra e di come questi, sopravvissuti alla catastrofe, avessero miracolosamente dato origine a una nuova generazione umana. I sacerdoti dell’antica capitale, interrotto il grande statista, gli avrebbero detto, quasi indispettiti, che lui e tutti i suoi conterranei erano in pratica come dei fanciulli, senza più memoria dei veri fatti accaduti ai loro antichi antenati, i quali avrebbero subito l’effetto devastante di varie immani catastrofi, dovute sia alla deviazione di corpi celesti sia all’inondazione delle terre determinata dalla volontà punitiva divina.
In particolare i loro antenati del decimo millennio a.C., in stretta alleanza con le popolazioni dell’Egitto, si sarebbero opposti vittoriosamente all’invasione coloniale della grande potenza di Atlantide, che già aveva esteso i propri domini dall’Atlantico al Mediterraneo, fino alla Tirrenia (le coste dell’Italia) e la Libia (l’Africa settentrionale dal Marocco fino ai confini occidentali dell’Egitto); subito dopo essi sarebbero stati annientati, così come le popolazioni delle altre due civiltà, da un’immane catastrofe.
Gli antichi abitanti della Grecia avrebbero perso il ricordo di tale sventura perché i loro pochi superstiti, appartenendo alle classi sociali meno colte, non furono in grado di documentare per i posteri i fatti accaduti, mentre in Egitto, per alcune fortunate coincidenze, ci furono fra i superstiti rappresentanti della classe sacerdotale, i quali furono in grado di testimoniare gli avvenimenti con documenti nella loro sacra scrittura, i geroglifici, consentendo così al ricordo delle antiche catastrofi di tramandarsi, senza modificarsi a causa della tradizione orale e perdersi nei miti collegati.
La narrazione quasi leggendaria ha suscitato, sin dai tempi antichi, un vespaio di critiche, ma anche di apprezzamenti, purtroppo a volte interessati. Da una parte, in considerazione del ruolo assegnato ad Atene, si è ritenuta valida l’ipotesi che Platone abbia ideato una storia epica per esaltare la gloria della sua città e sottolineare nel contempo le sue idee filosofiche sullo stato perfetto, descrivendo la grande civiltà di Atlantide e prendendo spunto, per la descrizione delle catastrofi naturali, dal ricordo di avvenimenti molto più vicini al suo tempo, quale la distruzione dell’isola vulcanica di Thera (intorno al 1450 a.C.) e la conseguente fine della civiltà cretese. Per un altro verso, molti altri hanno accettato che quanto descritto avesse un riferimento reale, ipotizzando però che l’autore abbia commesso tutta una serie di errori che, a seconda dei loro desideri, avrebbero riguardato l’unità di misura di superficie e/o quella temporale o addirittura i precisi riferimenti geografici.
La realtà è che, pur avendo un grande rispetto per la sua genialità, l’unico interrogativo serio da porsi è:
come ha fatto Platone a scrivere di cose che, ai suoi tempi, non avrebbe potuto sapere?
Dobbiamo ritenere che il grande filosofo greco fosse a conoscenza di particolarissime informazioni scientifiche per poter parlare, sia pure inventando o idealizzando la storia eroica dei suoi antenati ateniesi, di:
- distruzioni dovute a corpi celesti che deviano dalla propria orbita:
«[…] Fetonte, figliuolo del Sole, una volta aggiogati i cavalli al carro del padre, e montatovi su, non sapendo carreggiare la strada, aveva arso ogni cosa sopra la terra, morendo egli di folgore; questo a forma di favola; il vero poi è lo dichinamento degli astri che si rivolvono per lo cielo attorno alla terra, e lo incendimento di tutte le cose sopra la terra per molto fuoco.[…] »;
- distruzioni per fuoco o per acqua:
«[…] ci furono e saranno molti e diversi sterminii di uomini, grandissimi quelli per fuoco e acqua, da meno quelli per le altre innumerabili cose […]»;
- esistenza nell’Oceano Atlantico di una grande isola oltre lo stretto di Gibilterra, di altre isole ancora più a occidente e, infine, di un grande continente:
«[…] Quel pelago allora era navigabile, da poi che un’isola aveva innanzi dalla bocca, la quale chiamate voi Colonne d’Ercole; ed era l’isola più grande che la Libia e l’Asia insieme, donde era passaggio alle altre isole a quelli che viaggiavano di quel tempo e dalle isole a tutto il continente che è dirimpetto, che inghirlanda quel vero mare. […] Ora, in cotesta isola Atlantide, venne su possanza di cotali re, grande e maravigliosa, che signoreggiavano in tutta l’isola, e in molte altre isole e parti del continente; […]»;
- esistenza di una civiltà ateniese intorno al 9600 a.C., proprio nel periodo del 2° diluvio, di un intuibile lungo periodo di crisi per le civiltà distrutte dalla catastrofe e della rinascita della civiltà, almeno quella egizia, mille anni dopo:
«[…] per la Dea, la quale ebbe in sorte e quella e la nostra, e allevolle e disciplinò tutte due: quella mille anni innanzi, prendendo la semenza da Terra e Vulcano, questa poi; e dell’ordinamento suo è segnato nei sacri libri il numero di anni otto mila. […]»;
e ancora:
«[…] Comincerò osservando innanzitutto come novemila sia la somma degli anni passati da quando si dice sia scoppiata la guerra tra coloro che abitavano oltre le colonne di Ercole e tutti quelli che abitavano all’interno di esse; […]. »;
- distruzioni di intere civiltà:
«[…] Passando poi tempo, facendosi terremoti grandi e diluvii, sopravvegnendo un dì e una notte molto terribili, i guerrieri vostri tutti quanti insieme sprofondarono entro terra; e l’Atlantide isola, somigliantemente inabissando entro il mare, si sparve. E però ancora presentemente quel pelago non è corso da niuno, ed è inesplorabile; essendo d’impedimento il profondo limo, il quale, al nabissare dell’isola, si scommosse. »;
- continue distruzioni per inondazione:
«[…] Accadute dunque molte grandi inondazioni per novemila anni (tanti ne son corsi da quel tempo fino ad ora), la terra, che in quei tempi e avvenimenti scendeva dalle alture, non si ammassò come altrove in monticelli degni di menzione, ma sempre scorrendo scomparve nel profondo mare […]. E la città era così abitata in quel tempo: anzitutto l’Acropoli non era allora come adesso, perché in una sola notte piogge torrenziali, avendola liquefatta d’intorno, la spogliarono di tutta la terra, in mezzo a terremoti e a un enorme inondazione, che fu la terza innanzi al diluvio di Deucalione. […]»
Considerazioni
Vediamo di analizzare le varie critiche che sono state apportate alle descrizioni contenute nei due dialoghi:
Dimensioni dell’isola di Atlantide
Non esiste nell’Oceano Atlantico orientale alcuna isola dalle dimensioni simili a quelle descritte (Asia e Libia insieme), né è possibile che una tale isola sia esistita 11.500 anni fa, anche tenendo conto della perdita di superficie delle attuali terre emerse a causa dell’innalzamento del mare di oltre un centinaio di metri. Pur considerando validissima questa contestazione, non si ritiene accettabile la drastica decurtazione delle dimensioni riportate dall’autore, ipotizzando errori commessi da Solone o dallo stesso Platone, così da poter ridurre a piacimento le dimensioni dell’isola a valori insignificanti e sentirsi così autorizzati a sistemarla dove fa più comodo: Santorino, Creta, Malta, Sardegna, Bermuda, Cuba, altipiani nell’America meridionale e addirittura l’Antartide.
È più ragionevole, invece, cercare di capire quanto tramandatoci, essendo possibile che il testo di Platone sia stato mal interpretato o che ci siano sfuggiti, finora, aspetti scientifici della geologia dell’Atlantico, forse alcuni anomali sprofondamenti delle terre emerse, connessi alle distruzioni catastrofiche dei diluvi e/o dei molti impatti cosmici, o una progressiva anomala subsidenza.
È molto probabile che il testo in greco sia stato mal tradotto, interpretando, come ipotizzato recentemente da un gruppo di lavoro diretto dal filologo Jorge Ribero-Meneses, in maniera non corrispondente alcuni termini usati dallo scrittore:
- pelagos come oceano, quando potrebbe anche significare acquitrino o arcipelago;
- nesos de pantas e nesos indistintamente come isola, mentre il primo dovrebbe indicare le penisole e il secondo le isole.
È possibile che Platone abbia voluto indicare nel nome della grande capitale, Atlantis, le “terre della zona intermedia”, così come sembrerebbe indicare il termine Atlas, e che, in generale, abbia voluto parlare di un vasto impero composto sostanzialmente da una grande penisola, che si estendeva nell’Atlantico dalle coste della Libia (Marocco), di un grande arcipelago a occidente delle Colonne d’Ercole, di una grande isola principale, sede della capitale della federazione e posizionata quasi al centro del grande oceano e, infine, da vari possedimenti nel versante occidentale dello stesso.
Come noto e come è evidenziato dalla carta geografica in figura 14, tratta con elaborazione elettronica da una carta in scala 1: 80.000.000 del Touring Club Italiano, l’Oceano Atlantico presenta oggi, a occidente della penisola iberica e del Marocco, alcuni arcipelaghi, Canarie, Madeira e Azzorre, che potrebbero essere le regioni oggi emerse delle terre considerate da Platone: una penisola in corrispondenza dell’arcipelago delle Canarie, l’arcipelago di Madeira, alcune isole poste proprio di fronte allo stretto di Gibilterra, formate dagli attuali bassi fondali a occidente dell’imboccatura dello stretto, e, infine, una grande isola in mezzo all’Atlantico, della quale ora risultano emerse solamente le regioni più elevate di allora, l’arcipelago delle Azzorre.
L’attuale superficie emersa non è però paragonabile a quella dell’isola descritta nel Crizia e, pur tralasciando il discorso della sua superficie pari all’Asia e la Libia messe insieme, che deve quasi sicuramente intendersi un riferimento dell’intero dominio di Atlantide, è comunque necessario che si possa parlare di un’isola al centro dell’oceano le cui dimensioni e forma possano in qualche modo soddisfare la descrizione di Platone, che, considerando i valori medi delle unità di misura di lunghezza in uso in Grecia:
porta sinteticamente a:
- una grandissima isola con al suo centro una vasta e fertile pianura;
- una montagna, non alta e degradante dolcemente su ogni versante, in vicinanza della pianura a una distanza di circa cinquanta stadi (9,6 km);
- una piccola isola artificiale, di circa cinque stadi di diametro (~1 km) ricavata sul versante orientale o sud-orientale di questa bassa montagna; l’isola fu realizzata scavando tre grandi canali circolari concentrici, separati fra loro da due fasce di terra anch’esse circolari; i canali avevano una larghezza, pari a tre (578 m), due (385 m) e uno stadio, decrescente verso l’interno;
- un canale lungo cinquanta stadi (9,6 km), largo trecento piedi (~ 96 m) e profondo cento piedi (~ 33 m), che consentiva il passaggio alle navi dall’oceano fino al canale circolare più interno, il porto della metropoli;
- l’area circolare di circa cinquanta stadi di raggio era densamente popolata e circondata da un muro difensivo che lasciava libero solamente lo sbocco al mare del canale d’ingresso all’isola interna;
- la regione interna della grande isola era costituita da una vastissima pianura delimitata verso nord da alte montagne, le più alte fra quelle conosciute ai tempi di Platone;
- questa pianura, quasi rettangolare, aveva la dimensione di 3000 x 2000 stadi (~ 578 x ~ 385 km) ed era circondata da un canale perimetrale, largo uno stadio e profondo 100 piedi (~ 33 m ), che consentiva di raccogliere le acque provenienti dalle montagne.
La batimetria dell’area centrale dell’Oceano Atlantico è estremamente significativa, presentando, in corrispondenza della regione delle Azzorre, una vasta regione, compresa dall’isobata di - 2.000 metri, decisamente sufficiente a configurare una grande isola come quella ipotizzata da Platone.
Non sembra però fisicamente accettabile che i pur tremendi fenomeni che accompagnarono il secondo diluvio, i violenti tsunami che sicuramente investirono e sommersero l’isola di Atlantide, i violenti terremoti e l’estesa attività vulcanica, abbiano distrutto una struttura di queste dimensioni e provocato il suo inabissamento, anche parziale, nel corso di una sola notte.
Né può soccorrerci il supposto “effetto altalena” di sprofondamento dell’area atlantica, causato dallo scioglimento dei ghiacci che, durante l’ultima Era Glaciale, coprivano l’Europa e l’America settentrionale. Così come il rimodellamento della crosta terrestre avrebbe fatto sì che, in piena era glaciale, alla subsidenza delle terre continentali sia corrisposto un innalzamento di quelle oceaniche, le varie fasi di scioglimento dei ghiacci avrebbero determinato, invece, movimenti della crosta terrestre inversi, comportando così sia il lento innalzamento delle regioni continentali sia l’abbassamento di quelle oceaniche. Purtroppo il supposto abbassamento, la cui azione si somma a quella dell’innalzamento del livello del mare, non può da solo giustificare lo sprofondamento della vasta pianura di Atlantide di oltre mille metri.
Se vogliamo dar credito al grande filosofo greco, che fra l’altro non poteva conoscere l’esistenza di questo vasto pianoro sommerso, dobbiamo ipotizzare che l’ampia regione della dorsale atlantica, almeno quella comprendente le zone di frattura di Maxwell, Pico e Atlantide, abbia subito anomali sprofondamenti così da far risultare, dopo circa 11.500 anni, le terre allora emerse a una profondità compresa fra i 1.000 e i 2.000 metri.
È da considerare al riguardo che questa regione è situata proprio alla confluenza di tre zolle tettoniche, in quanto quella orientale, separata dalla dorsale atlantica, si divide in due proprio lungo il parallelo passante per le isole Azzorre ed è quindi ipotizzabile che quest’area sia particolarmente instabile e che, in corrispondenza del secondo diluvio, si sia verificata una così intensa attività eruttiva dei molti vulcani della zona da provocare l’espulsione di una massa immensa di materiale e il conseguente sprofondamento di tutta la regione, trascinando negli abissi quello che rimaneva della grande capitale, che molto probabilmente doveva essere già stata sommersa dalle ceneri e dalla lava.
A conferma di questa possibilità, per ora non riconosciuta, occorre segnalare il ricupero nel 1898, dalle profondità dell’oceano (circa 2.000 metri) e in corrispondenza della Platea dei Telegrafi, durante le operazioni di posa del cavo transatlantico, di un tachilite, una roccia di origine vulcanica la cui struttura vitrea lasciava intendere una sua formazione sulla terra ferma; secondo Paul Termier, allora direttore dell’Istituto Oceanografico di Parigi, lo stato di conservazione della roccia, con contorni ancora non corrosi, e la considerazione che questo tipo di roccia tende a sciogliersi nell’acqua di mare, portavano a stimare la sua formazione a meno di 15.000 anni.
Analoghe considerazioni possono essere fatte considerando lo stato di conservazione degli strati lavici che ricoprono il fondo del mare di vaste aree della regione delle Azzorre; la presenza di spigoli ancora taglienti, la quasi assenza di effetti, dovuti all’aggressione chimica e meccanica delle lave, lasciano ipotizzare una loro deposizione, su superfici emerse, posteriore a 15.000 anni fa.
Testimonianze di sprofondamenti di estese regioni emerse nell’Oceano Atlantico sono state ricavate ancora dallo studio di diversi campioni del fondo marino; in particolare quello prelevato nella Fossa di Romanche, a circa 4.500 chilometri a sud delle Azzorre, ha permesso d’individuare, alla profondità di 7.300 metri, tracce di plancton che generalmente vive a livelli del mare superiori di alcune migliaia di metri (tra i 2.000 e i 4.500 metri di profondità), mentre i campioni prelevati nel 1956, a circa 3.600 metri di profondità, dal dottor P. Kolbe, del Museo Nazionale di Stoccolma, lasciavano intravedere resti fossili di diatomee d’acqua dolce, sicuramente provenienti da un lago appartenente a una terra emersa in un periodo compreso fra i 10.000 e i 12.000 anni fa.
Altro elemento di testimonianza di possibili sprofondamenti di intere regioni emerse è stato visto nella presenza di vasti banchi di sabbia, depositata sugli estesi altipiani sottomarini e provenienti, quasi sicuramente, da spiagge formatesi sulla costa emersa di molti millenni fa.
Alla luce del possibile progressivo sprofondamento di estese aree continentali, si ritiene dunque ipotizzabile la ricostruzione dell’isola atlantidea considerando proprio l’isobata -2.000, la quale lascia intravedere un vasto altopiano in direzione sud-ovest nord-est, di dimensioni tali da soddisfare la descrizione di Platone.
La rappresentazione in figura 15, tratta con elaborazione elettronica da una carta geografica, in scala 1:4.500.000, del Touring Club Italiano, consente la definizione della grande pianura rettangolare nella parte sud occidentale dell’arcipelago delle Azzorre e d’ipotizzare la città fortificata nell’area sommersa detta “Banco della Principessa Alice”, da noi segnalata con il segno “+”.
Questa zona, costituita da una collina sottomarina di circa 50 km di diametro e con cime che arrivano fino a una profondità di circa - 30 metri, potrebbe ben rappresentare la collina sul cui versante orientale sarebbe stata realizzata l’isola della reggia e i suoi canali difensivi; essa è posta a oriente della vasta pianura e, quando emersa, sarebbe stata protetta dai venti freddi del nord dalla stessa collina, ma, soprattutto, dalle alte montagne che l’avrebbero cinta a nord, le montagne le cui cime sono le attuali isole: Pico, Faial, São Jorge, Graciosa e Terceira.
L’ampia pianura era stata suddivisa in appezzamenti quadrati di terreno di circa dieci stadi di lato, separati da canali secondari, larghi circa cento piedi e derivati dal canale periferico principale. Tale suddivisione del territorio consentiva quindi la definizione di sessantamila ripartizioni, ognuna delle quali avrebbe, fra l’altro, partecipato all’organizzazione militare dell’isola, per altro simile a quella delle altre nove regioni, nelle quali era suddivisa la grande federazione atlantidea, fornendo: un capo, un sesto di carro militare, due cavalli con cavaliere, due cavalli da tiro, un cavaliere a piedi, un auriga, due soldati armati, due arcieri, due frombolieri, tre lanciatori di pietre, tre lanciatori di giavellotto; ogni ripartizione avrebbe dovuto assicurare, inoltre, quattro marinai cosi da poter equipaggiare complessivamente ben milleduecento navi.
L’ipotesi da noi presa in considerazione ricalca quella presentata dal geniale scienziato viennese Otto Heinrich Muck, il quale nel 1954 ipotizzò che la grande isola di Atlantide potesse essere individuata dall’isobata di 3.000 metri, quella allora conosciuta, in corrispondenza della Dorsale di Dolphin e dell’arcipelago delle Azzorre.
L’isola Atlantis, disegnata secondo lo schema in figura 16, avrebbe presentato una vastissima regione montuosa a nord e nord-est, mostrato un’ampia pianura di circa 600 x 370 km e, infine, previsto la città fortificata all’estremità nord orientale della pianura, a sud dell’attuale isola di Santa Maria.
La batimetria della regione sembra dare maggior credito al posizionamento da noi supposto, in quanto l’area scelta da Muck dovrebbe trovarsi solamente al margine sud orientale del vasto pianoro sommerso.
Discordanza dei tempi
Molti critici pretendono di dimostrare l’infondatezza dei dati temporali citati da Platone contestando il fatto che si parli di 9.000 anni sia per la fondazione di Atene sia per la guerra contro Atlantide e asserendo che l’Egitto non poteva aver partecipato allo scontro fra le due grandi civiltà in quanto la sua nascita sarebbe dovuta risalire a mille anni dopo.
A parte che l’ammissione di una grande civiltà, 10.500 anni fa, sarebbe già una notevole prova del diverso sviluppo della civiltà egizia, sembra chiaro che ci troviamo di fronte a un’interpretazione non coerente con la descrizione fatta da Platone. È evidente che i novemila e gli ottomila anni devono essere considerati dei valori approssimati, puramente indicativi di grandi eventi storici, senza per altro entrare nel dettaglio dei tempi di fondazione delle civiltà di Atlantide, Egitto e Atene.
La fondazione di Sais intorno al 8500 a.C., circa mille anni dopo la grande guerra, non può essere assimilata alla nascita della civiltà egizia, ma, alla luce dell’andamento del livello del mare, va considerata come una possibile rifondazione di una città costiera, distrutta dal 2° diluvio, in una regione più interna lungo uno dei rami del nuovo Delta del Nilo.
Le difficoltà interpretative degli aspetti temporali non giustificano, anche questa volta, l’ipotesi di errori madornali compiuti da Platone; la divisione delle date per dieci, dodici o tredici, ipotizzando uno scambio del geroglifico delle migliaia al posto di quello delle centinaia o la confusione fra anni, mesi o lunazioni, oltre a essere uno “schiaffo” alla genialità del grande filosofo, sembra poco consistente, in quanto porterebbe la guerra intorno al 950 a.C., in piena civiltà faraonica e in un periodo in cui sicuramente la civiltà egizia non subì alcun annientamento catastrofico; il tentativo poi di assimilare la civiltà di Atlantide con l’ondata conquistatrice dei “Popoli del Mare”, ipotizzando la confusione fra anni e mesi così da riportare l’evento bellico intorno al 1250 a.C., sembra addirittura ridicolo, così come quello di voler vedere la catastrofe descritta nei dialoghi con le distruzioni provocate dall’esplosione di Thera, sicuramente conosciuta da Platone.
A parte il fatto che questo catastrofico avvenimento avrebbe preceduto l’invasione dei “Popoli del Mare” di circa 200 anni, si ritiene che in questo caso si sia trattato del “diluvio di Deucalione”, causato dai tremendi tsunami che si sarebbero abbattuti sulla costa greca durante le fasi distruttive del vicino vulcano, inondazione che sarebbe stata, a detta di Platone, ben la terza dopo la catastrofe di Atlantide.
Testimonianze nella mitologia greca
Per quanto riguarda la civiltà della Grecia ai tempi di Atlantide viene citata solamente Atene, ma non è immaginabile che una sola città abbia potuto affrontare una forza coloniale come quella che avrebbe invaso il Mediterraneo, a meno che Platone non abbia invertito i ruoli degli alleati, esaltando la potenza di Atene e sottovalutando la vera potenza mediterranea, l’Egitto.
È molto probabile, anzi, che sia stata proprio la civiltà egizia, che abbiamo supposto si sia formata dopo il 1° diluvio, a dare origine a filiazioni nelle regioni del Mediterraneo orientale e in modo particolare in Grecia.
È estremamente significativo al riguardo il mito dei figli di Belo: Egitto e Danao; quest’ultimo, in seguito alle dispute per la suddivisione del regno del padre e per il dominio dell’Africa settentrionale, sarebbe stato costretto a lasciare l’Egitto e si sarebbe rifugiato nell’Argolide e qui avrebbe, in qualche modo, ricevuto il regno di Argo dal re Gelanore.
Il fatto che il mito ci parli poi di un lupo, che avrebbe ucciso il toro della mandria del re, ci porta a ipotizzare che esso si riferisca allo scontro fra le forze egizie (Egitto e Danao) contro le colonie mediterranee di Atlantide, ben simboleggiate dal toro sacro della grande civiltà.
Analogo simbolismo potrebbe esistere nel complesso mito di Teseo e del Minotauro. Androgeo, figlio del re di Creta Minosse, sarebbe stato ucciso ad Atene, forse durante una ribellione contro il dominio della civiltà cretese; Minosse avrebbe domato la rivolta e preteso dagli ateniesi il sacrificio annuale di sette fanciulli e sette fanciulle; Teseo avrebbe avuto ragione del “mostro” cretese, ma si sarebbe dimenticato di cambiare la velatura delle sue navi, bianche al posto di quelle nere, così che il padre Egeo, immaginando un mesto ritorno del cadavere del figlio, si sarebbe tolto la vita distrutto dal dolore.
Tutto lascia intravedere una descrizione mitologica di uno scontro fra Atlantide, tramite la sua colonia Creta, e la rivale Atene, il tentativo vittorioso di Teseo di sconfiggere le forze nemiche, rappresentate dal Minotauro (il toro di Minosse), e la distruzione finale rappresentata dalla morte di Egeo, il luogo del suicidio del padre di Teseo. L’Acropoli di Atene, non può, infine, che ricordare la sottrazione della terra da parte della gigantesca inondazione e il successivo allargamento del mare, proprio il mare Egeo.
Giustificazione della catastrofe
Platone ci fornisce, infine, la giustificazione della tremenda catastrofe; essa sarebbe stata una punizione degli dèi per Atlantide, che aveva col tempo degenerato la sua antica discendenza divina. L’unione dei suoi sovrani con semplici mortali li avrebbe portati a perdere di vista la giustizia che aveva in passato caratterizzato la grande civiltà e, per rimediare a questa situazione, gli dèi sarebbero stati costretti a cancellare quasi tutta l’umanità:
«[…] Il dio degli dei, Zeus, che governa secondo legge e sa vedere queste cose, avvedutosi che una stirpe onorata si trovava in dolorosi frangenti e volendo infliggere loro una punizione, affinché ne fossero corretti e potessero migliorare, radunò tutti gli dei nelle loro santissime dimore, dalle quali si possono scorgere tutte le cose create, dato, che sono poste al centro del mondo. E dopo averli riuniti, così parlò loro: »
Non sappiamo perché Platone finì il suo secondo dialogo in tal modo, senza neanche finire la frase, né perché egli non abbia mai compilato il previsto terzo dialogo, L’Ermocrate, ma dobbiamo ritenere che, per quanto riguarda l’argomento di questo libro, quanto scritto dal grande filosofo ateniese possa essere considerato più che sufficiente per testimoniare l’antichissima leggendaria civiltà egizia.
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