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sabato 30 aprile 2011

Atlantide di Platone


Estratto dal saggio:
HASSALEH – L’OCCHIO DI HORUS.
Manetone aveva ragione!
di Antonio Crasto


La più importante testimonianza scritta ci è pervenuta non dall’Egitto, ma dal mondo classico greco. Sono i famosissimi dialoghi di Platone (427-347 a.C.), il Timeo, ovvero Della natura, e il Crizia, che quasi sicuramente furono le prime due parti di una trilogia forse rimasta incompiuta.
L’opera scritta sotto forma di dialogo fra alcuni illustri personaggi, Socrate, Timeo, Crizia ed Ermocrate, è una trattazione filosofica sull’origine del mondo e la natura dell’uomo, ma per quanto ci riguarda in questo momento, essa si sofferma in particolare su una storia che Crizia avrebbe appreso dal bisnonno Dropide, parente e grande amico dello statista ateniese Solone (639-559 a.C.), al quale sarebbe stata riferita dai sacerdoti della città di Sais durante un suo viaggio in Egitto, effettuato intorno al 580 a.C.
Si racconta come il saggio Solone, volendo provocare e stimolare a parlare i sacerdoti egizi, abbia incominciato a narrare dei personaggi mitologici che sarebbero vissuti in Grecia al tempo del Grande Diluvio di Deucalione e Pirra e di come questi, sopravvissuti alla catastrofe, avessero miracolosamente dato origine a una nuova generazione umana. I sacerdoti dell’antica capitale, interrotto il grande statista, gli avrebbero detto, quasi indispettiti, che lui e tutti i suoi conterranei erano in pratica come dei fanciulli, senza più memoria dei veri fatti accaduti ai loro antichi antenati, i quali avrebbero subito l’effetto devastante di varie immani catastrofi, dovute sia alla deviazione di corpi celesti sia all’inondazione delle terre determinata dalla volontà punitiva divina.
In particolare i loro antenati del decimo millennio a.C., in stretta alleanza con le popolazioni dell’Egitto, si sarebbero opposti vittoriosamente all’invasione coloniale della grande potenza di Atlantide, che già aveva esteso i propri domini dall’Atlantico al Mediterraneo, fino alla Tirrenia (le coste dell’Italia) e la Libia (l’Africa settentrionale dal Marocco fino ai confini occidentali dell’Egitto); subito dopo essi sarebbero stati annientati, così come le popolazioni delle altre due civiltà, da un’immane catastrofe.
Gli antichi abitanti della Grecia avrebbero perso il ricordo di tale sventura perché i loro pochi superstiti, appartenendo alle classi sociali meno colte, non furono in grado di documentare per i posteri i fatti accaduti, mentre in Egitto, per alcune fortunate coincidenze, ci furono fra i superstiti rappresentanti della classe sacerdotale, i quali furono in grado di testimoniare gli avvenimenti con documenti nella loro sacra scrittura, i geroglifici, consentendo così al ricordo delle antiche catastrofi di tramandarsi, senza modificarsi a causa della tradizione orale e perdersi nei miti collegati.
La narrazione quasi leggendaria ha suscitato, sin dai tempi antichi, un vespaio di critiche, ma anche di apprezzamenti, purtroppo a volte interessati. Da una parte, in considerazione del ruolo assegnato ad Atene, si è ritenuta valida l’ipotesi che Platone abbia ideato una storia epica per esaltare la gloria della sua città e sottolineare nel contempo le sue idee filosofiche sullo stato perfetto, descrivendo la grande civiltà di Atlantide e prendendo spunto, per la descrizione delle catastrofi naturali, dal ricordo di avvenimenti molto più vicini al suo tempo, quale la distruzione dell’isola vulcanica di Thera (intorno al 1450 a.C.) e la conseguente fine della civiltà cretese. Per un altro verso, molti altri hanno accettato che quanto descritto avesse un riferimento reale, ipotizzando però che l’autore abbia commesso tutta una serie di errori che, a seconda dei loro desideri, avrebbero riguardato l’unità di misura di superficie e/o quella temporale o addirittura i precisi riferimenti geografici.
La realtà è che, pur avendo un grande rispetto per la sua genialità, l’unico interrogativo serio da porsi è:

come ha fatto Platone a scrivere di cose che, ai suoi tempi, non avrebbe potuto sapere?

Dobbiamo ritenere che il grande filosofo greco fosse a conoscenza di particolarissime informazioni scientifiche per poter parlare, sia pure inventando o idealizzando la storia eroica dei suoi antenati ateniesi, di:
- distruzioni dovute a corpi celesti che deviano dalla propria orbita:
«[…] Fetonte, figliuolo del Sole, una volta aggiogati i cavalli al carro del padre, e montatovi su, non sapendo carreggiare la strada, aveva arso ogni cosa sopra la terra, morendo egli di folgore; questo a forma di favola; il vero poi è lo dichinamento degli astri che si rivolvono per lo cielo attorno alla terra, e lo incendimento di tutte le cose sopra la terra per molto fuoco.[…] »;
- distruzioni per fuoco o per acqua:
«[…] ci furono e saranno molti e diversi sterminii di uomini, grandissimi quelli per fuoco e acqua, da meno quelli per le altre innumerabili cose […]»;
- esistenza nell’Oceano Atlantico di una grande isola oltre lo stretto di Gibilterra, di altre isole ancora più a occidente e, infine, di un grande continente:
«[…] Quel pelago allora era navigabile, da poi che un’isola aveva innanzi dalla bocca, la quale chiamate voi Colonne d’Ercole; ed era l’isola più grande che la Libia e l’Asia insieme, donde era passaggio alle altre isole a quelli che viaggiavano di quel tempo e dalle isole a tutto il continente che è dirimpetto, che inghirlanda quel vero mare. […] Ora, in cotesta isola Atlantide, venne su possanza di cotali re, grande e maravigliosa, che signoreggiavano in tutta l’isola, e in molte altre isole e parti del continente; […]»;
- esistenza di una civiltà ateniese intorno al 9600 a.C., proprio nel periodo del 2° diluvio, di un intuibile lungo periodo di crisi per le civiltà distrutte dalla catastrofe e della rinascita della civiltà, almeno quella egizia, mille anni dopo:
«[…] per la Dea, la quale ebbe in sorte e quella e la nostra, e allevolle e disciplinò tutte due: quella mille anni innanzi, prendendo la semenza da Terra e Vulcano, questa poi; e dell’ordinamento suo è segnato nei sacri libri il numero di anni otto mila. […]»;
e ancora:
«[…] Comincerò osservando innanzitutto come novemila sia la somma degli anni passati da quando si dice sia scoppiata la guerra tra coloro che abitavano oltre le colonne di Ercole e tutti quelli che abitavano all’interno di esse; […]. »;
- distruzioni di intere civiltà:
«[…] Passando poi tempo, facendosi terremoti grandi e diluvii, sopravvegnendo un dì e una notte molto terribili, i guerrieri vostri tutti quanti insieme sprofondarono entro terra; e l’Atlantide isola, somigliantemente inabissando entro il mare, si sparve. E però ancora presentemente quel pelago non è corso da niuno, ed è inesplorabile; essendo d’impedimento il profondo limo, il quale, al nabissare dell’isola, si scommosse. »;
- continue distruzioni per inondazione:
«[…] Accadute dunque molte grandi inondazioni per novemila anni (tanti ne son corsi da quel tempo fino ad ora), la terra, che in quei tempi e avvenimenti scendeva dalle alture, non si ammassò come altrove in monticelli degni di menzione, ma sempre scorrendo scomparve nel profondo mare […]. E la città era così abitata in quel tempo: anzitutto l’Acropoli non era allora come adesso, perché in una sola notte piogge torrenziali, avendola liquefatta d’intorno, la spogliarono di tutta la terra, in mezzo a terremoti e a un enorme inondazione, che fu la terza innanzi al diluvio di Deucalione. […]»

Considerazioni
Vediamo di analizzare le varie critiche che sono state apportate alle descrizioni contenute nei due dialoghi:

Dimensioni dell’isola di Atlantide
Non esiste nell’Oceano Atlantico orientale alcuna isola dalle dimensioni simili a quelle descritte (Asia e Libia insieme), né è possibile che una tale isola sia esistita 11.500 anni fa, anche tenendo conto della perdita di superficie delle attuali terre emerse a causa dell’innalzamento del mare di oltre un centinaio di metri. Pur considerando validissima questa contestazione, non si ritiene accettabile la drastica decurtazione delle dimensioni riportate dall’autore, ipotizzando errori commessi da Solone o dallo stesso Platone, così da poter ridurre a piacimento le dimensioni dell’isola a valori insignificanti e sentirsi così autorizzati a sistemarla dove fa più comodo: Santorino, Creta, Malta, Sardegna, Bermuda, Cuba, altipiani nell’America meridionale e addirittura l’Antartide.
È più ragionevole, invece, cercare di capire quanto tramandatoci, essendo possibile che il testo di Platone sia stato mal interpretato o che ci siano sfuggiti, finora, aspetti scientifici della geologia dell’Atlantico, forse alcuni anomali sprofondamenti delle terre emerse, connessi alle distruzioni catastrofiche dei diluvi e/o dei molti impatti cosmici, o una progressiva anomala subsidenza.
È molto probabile che il testo in greco sia stato mal tradotto, interpretando, come ipotizzato recentemente da un gruppo di lavoro diretto dal filologo Jorge Ribero-Meneses, in maniera non corrispondente alcuni termini usati dallo scrittore:
- pelagos come oceano, quando potrebbe anche significare acquitrino o arcipelago;
- nesos de pantas e nesos indistintamente come isola, mentre il primo dovrebbe indicare le penisole e il secondo le isole.
È possibile che Platone abbia voluto indicare nel nome della grande capitale, Atlantis, le “terre della zona intermedia”, così come sembrerebbe indicare il termine Atlas, e che, in generale, abbia voluto parlare di un vasto impero composto sostanzialmente da una grande penisola, che si estendeva nell’Atlantico dalle coste della Libia (Marocco), di un grande arcipelago a occidente delle Colonne d’Ercole, di una grande isola principale, sede della capitale della federazione e posizionata quasi al centro del grande oceano e, infine, da vari possedimenti nel versante occidentale dello stesso.
Come noto e come è evidenziato dalla carta geografica in figura 14, tratta con elaborazione elettronica da una carta in scala 1: 80.000.000 del Touring Club Italiano, l’Oceano Atlantico presenta oggi, a occidente della penisola iberica e del Marocco, alcuni arcipelaghi, Canarie, Madeira e Azzorre, che potrebbero essere le regioni oggi emerse delle terre considerate da Platone: una penisola in corrispondenza dell’arcipelago delle Canarie, l’arcipelago di Madeira, alcune isole poste proprio di fronte allo stretto di Gibilterra, formate dagli attuali bassi fondali a occidente dell’imboccatura dello stretto, e, infine, una grande isola in mezzo all’Atlantico, della quale ora risultano emerse solamente le regioni più elevate di allora, l’arcipelago delle Azzorre.

L’attuale superficie emersa non è però paragonabile a quella dell’isola descritta nel Crizia e, pur tralasciando il discorso della sua superficie pari all’Asia e la Libia messe insieme, che deve quasi sicuramente intendersi un riferimento dell’intero dominio di Atlantide, è comunque necessario che si possa parlare di un’isola al centro dell’oceano le cui dimensioni e forma possano in qualche modo soddisfare la descrizione di Platone, che, considerando i valori medi delle unità di misura di lunghezza in uso in Grecia:



porta sinteticamente a:
- una grandissima isola con al suo centro una vasta e fertile pianura;
- una montagna, non alta e degradante dolcemente su ogni versante, in vicinanza della pianura a una distanza di circa cinquanta stadi (9,6 km);
- una piccola isola artificiale, di circa cinque stadi di diametro (~1 km) ricavata sul versante orientale o sud-orientale di questa bassa montagna; l’isola fu realizzata scavando tre grandi canali circolari concentrici, separati fra loro da due fasce di terra anch’esse circolari; i canali avevano una larghezza, pari a tre (578 m), due (385 m) e uno stadio, decrescente verso l’interno;
- un canale lungo cinquanta stadi (9,6 km), largo trecento piedi (~ 96 m) e profondo cento piedi (~ 33 m), che consentiva il passaggio alle navi dall’oceano fino al canale circolare più interno, il porto della metropoli;
- l’area circolare di circa cinquanta stadi di raggio era densamente popolata e circondata da un muro difensivo che lasciava libero solamente lo sbocco al mare del canale d’ingresso all’isola interna;
- la regione interna della grande isola era costituita da una vastissima pianura delimitata verso nord da alte montagne, le più alte fra quelle conosciute ai tempi di Platone;
- questa pianura, quasi rettangolare, aveva la dimensione di 3000 x 2000 stadi (~ 578 x ~ 385 km) ed era circondata da un canale perimetrale, largo uno stadio e profondo 100 piedi (~ 33 m ), che consentiva di raccogliere le acque provenienti dalle montagne.
La batimetria dell’area centrale dell’Oceano Atlantico è estremamente significativa, presentando, in corrispondenza della regione delle Azzorre, una vasta regione, compresa dall’isobata di - 2.000 metri, decisamente sufficiente a configurare una grande isola come quella ipotizzata da Platone.
Non sembra però fisicamente accettabile che i pur tremendi fenomeni che accompagnarono il secondo diluvio, i violenti tsunami che sicuramente investirono e sommersero l’isola di Atlantide, i violenti terremoti e l’estesa attività vulcanica, abbiano distrutto una struttura di queste dimensioni e provocato il suo inabissamento, anche parziale, nel corso di una sola notte.
Né può soccorrerci il supposto “effetto altalena” di sprofondamento dell’area atlantica, causato dallo scioglimento dei ghiacci che, durante l’ultima Era Glaciale, coprivano l’Europa e l’America settentrionale. Così come il rimodellamento della crosta terrestre avrebbe fatto sì che, in piena era glaciale, alla subsidenza delle terre continentali sia corrisposto un innalzamento di quelle oceaniche, le varie fasi di scioglimento dei ghiacci avrebbero determinato, invece, movimenti della crosta terrestre inversi, comportando così sia il lento innalzamento delle regioni continentali sia l’abbassamento di quelle oceaniche. Purtroppo il supposto abbassamento, la cui azione si somma a quella dell’innalzamento del livello del mare, non può da solo giustificare lo sprofondamento della vasta pianura di Atlantide di oltre mille metri.
Se vogliamo dar credito al grande filosofo greco, che fra l’altro non poteva conoscere l’esistenza di questo vasto pianoro sommerso, dobbiamo ipotizzare che l’ampia regione della dorsale atlantica, almeno quella comprendente le zone di frattura di Maxwell, Pico e Atlantide, abbia subito anomali sprofondamenti così da far risultare, dopo circa 11.500 anni, le terre allora emerse a una profondità compresa fra i 1.000 e i 2.000 metri.
È da considerare al riguardo che questa regione è situata proprio alla confluenza di tre zolle tettoniche, in quanto quella orientale, separata dalla dorsale atlantica, si divide in due proprio lungo il parallelo passante per le isole Azzorre ed è quindi ipotizzabile che quest’area sia particolarmente instabile e che, in corrispondenza del secondo diluvio, si sia verificata una così intensa attività eruttiva dei molti vulcani della zona da provocare l’espulsione di una massa immensa di materiale e il conseguente sprofondamento di tutta la regione, trascinando negli abissi quello che rimaneva della grande capitale, che molto probabilmente doveva essere già stata sommersa dalle ceneri e dalla lava.
A conferma di questa possibilità, per ora non riconosciuta, occorre segnalare il ricupero nel 1898, dalle profondità dell’oceano (circa 2.000 metri) e in corrispondenza della Platea dei Telegrafi, durante le operazioni di posa del cavo transatlantico, di un tachilite, una roccia di origine vulcanica la cui struttura vitrea lasciava intendere una sua formazione sulla terra ferma; secondo Paul Termier, allora direttore dell’Istituto Oceanografico di Parigi, lo stato di conservazione della roccia, con contorni ancora non corrosi, e la considerazione che questo tipo di roccia tende a sciogliersi nell’acqua di mare, portavano a stimare la sua formazione a meno di 15.000 anni.
Analoghe considerazioni possono essere fatte considerando lo stato di conservazione degli strati lavici che ricoprono il fondo del mare di vaste aree della regione delle Azzorre; la presenza di spigoli ancora taglienti, la quasi assenza di effetti, dovuti all’aggressione chimica e meccanica delle lave, lasciano ipotizzare una loro deposizione, su superfici emerse, posteriore a 15.000 anni fa.
Testimonianze di sprofondamenti di estese regioni emerse nell’Oceano Atlantico sono state ricavate ancora dallo studio di diversi campioni del fondo marino; in particolare quello prelevato nella Fossa di Romanche, a circa 4.500 chilometri a sud delle Azzorre, ha permesso d’individuare, alla profondità di 7.300 metri, tracce di plancton che generalmente vive a livelli del mare superiori di alcune migliaia di metri (tra i 2.000 e i 4.500 metri di profondità), mentre i campioni prelevati nel 1956, a circa 3.600 metri di profondità, dal dottor P. Kolbe, del Museo Nazionale di Stoccolma, lasciavano intravedere resti fossili di diatomee d’acqua dolce, sicuramente provenienti da un lago appartenente a una terra emersa in un periodo compreso fra i 10.000 e i 12.000 anni fa.
Altro elemento di testimonianza di possibili sprofondamenti di intere regioni emerse è stato visto nella presenza di vasti banchi di sabbia, depositata sugli estesi altipiani sottomarini e provenienti, quasi sicuramente, da spiagge formatesi sulla costa emersa di molti millenni fa.
Alla luce del possibile progressivo sprofondamento di estese aree continentali, si ritiene dunque ipotizzabile la ricostruzione dell’isola atlantidea considerando proprio l’isobata -2.000, la quale lascia intravedere un vasto altopiano in direzione sud-ovest nord-est, di dimensioni tali da soddisfare la descrizione di Platone.
La rappresentazione in figura 15, tratta con elaborazione elettronica da una carta geografica, in scala 1:4.500.000, del Touring Club Italiano, consente la definizione della grande pianura rettangolare nella parte sud occidentale dell’arcipelago delle Azzorre e d’ipotizzare la città fortificata nell’area sommersa detta “Banco della Principessa Alice”, da noi segnalata con il segno “+”.
Questa zona, costituita da una collina sottomarina di circa 50 km di diametro e con cime che arrivano fino a una profondità di circa - 30 metri, potrebbe ben rappresentare la collina sul cui versante orientale sarebbe stata realizzata l’isola della reggia e i suoi canali difensivi; essa è posta a oriente della vasta pianura e, quando emersa, sarebbe stata protetta dai venti freddi del nord dalla stessa collina, ma, soprattutto, dalle alte montagne che l’avrebbero cinta a nord, le montagne le cui cime sono le attuali isole: Pico, Faial, São Jorge, Graciosa e Terceira.

L’ampia pianura era stata suddivisa in appezzamenti quadrati di terreno di circa dieci stadi di lato, separati da canali secondari, larghi circa cento piedi e derivati dal canale periferico principale. Tale suddivisione del territorio consentiva quindi la definizione di sessantamila ripartizioni, ognuna delle quali avrebbe, fra l’altro, partecipato all’organizzazione militare dell’isola, per altro simile a quella delle altre nove regioni, nelle quali era suddivisa la grande federazione atlantidea, fornendo: un capo, un sesto di carro militare, due cavalli con cavaliere, due cavalli da tiro, un cavaliere a piedi, un auriga, due soldati armati, due arcieri, due frombolieri, tre lanciatori di pietre, tre lanciatori di giavellotto; ogni ripartizione avrebbe dovuto assicurare, inoltre, quattro marinai cosi da poter equipaggiare complessivamente ben milleduecento navi.
L’ipotesi da noi presa in considerazione ricalca quella presentata dal geniale scienziato viennese Otto Heinrich Muck, il quale nel 1954 ipotizzò che la grande isola di Atlantide potesse essere individuata dall’isobata di 3.000 metri, quella allora conosciuta, in corrispondenza della Dorsale di Dolphin e dell’arcipelago delle Azzorre.
L’isola Atlantis, disegnata secondo lo schema in figura 16, avrebbe presentato una vastissima regione montuosa a nord e nord-est, mostrato un’ampia pianura di circa 600 x 370 km e, infine, previsto la città fortificata all’estremità nord orientale della pianura, a sud dell’attuale isola di Santa Maria.
La batimetria della regione sembra dare maggior credito al posizionamento da noi supposto, in quanto l’area scelta da Muck dovrebbe trovarsi solamente al margine sud orientale del vasto pianoro sommerso.


Discordanza dei tempi

Molti critici pretendono di dimostrare l’infondatezza dei dati temporali citati da Platone contestando il fatto che si parli di 9.000 anni sia per la fondazione di Atene sia per la guerra contro Atlantide e asserendo che l’Egitto non poteva aver partecipato allo scontro fra le due grandi civiltà in quanto la sua nascita sarebbe dovuta risalire a mille anni dopo.
A parte che l’ammissione di una grande civiltà, 10.500 anni fa, sarebbe già una notevole prova del diverso sviluppo della civiltà egizia, sembra chiaro che ci troviamo di fronte a un’interpretazione non coerente con la descrizione fatta da Platone. È evidente che i novemila e gli ottomila anni devono essere considerati dei valori approssimati, puramente indicativi di grandi eventi storici, senza per altro entrare nel dettaglio dei tempi di fondazione delle civiltà di Atlantide, Egitto e Atene.
La fondazione di Sais intorno al 8500 a.C., circa mille anni dopo la grande guerra, non può essere assimilata alla nascita della civiltà egizia, ma, alla luce dell’andamento del livello del mare, va considerata come una possibile rifondazione di una città costiera, distrutta dal 2° diluvio, in una regione più interna lungo uno dei rami del nuovo Delta del Nilo.
Le difficoltà interpretative degli aspetti temporali non giustificano, anche questa volta, l’ipotesi di errori madornali compiuti da Platone; la divisione delle date per dieci, dodici o tredici, ipotizzando uno scambio del geroglifico delle migliaia al posto di quello delle centinaia o la confusione fra anni, mesi o lunazioni, oltre a essere uno “schiaffo” alla genialità del grande filosofo, sembra poco consistente, in quanto porterebbe la guerra intorno al 950 a.C., in piena civiltà faraonica e in un periodo in cui sicuramente la civiltà egizia non subì alcun annientamento catastrofico; il tentativo poi di assimilare la civiltà di Atlantide con l’ondata conquistatrice dei “Popoli del Mare”, ipotizzando la confusione fra anni e mesi così da riportare l’evento bellico intorno al 1250 a.C., sembra addirittura ridicolo, così come quello di voler vedere la catastrofe descritta nei dialoghi con le distruzioni provocate dall’esplosione di Thera, sicuramente conosciuta da Platone.
A parte il fatto che questo catastrofico avvenimento avrebbe preceduto l’invasione dei “Popoli del Mare” di circa 200 anni, si ritiene che in questo caso si sia trattato del “diluvio di Deucalione”, causato dai tremendi tsunami che si sarebbero abbattuti sulla costa greca durante le fasi distruttive del vicino vulcano, inondazione che sarebbe stata, a detta di Platone, ben la terza dopo la catastrofe di Atlantide.

Testimonianze nella mitologia greca
Per quanto riguarda la civiltà della Grecia ai tempi di Atlantide viene citata solamente Atene, ma non è immaginabile che una sola città abbia potuto affrontare una forza coloniale come quella che avrebbe invaso il Mediterraneo, a meno che Platone non abbia invertito i ruoli degli alleati, esaltando la potenza di Atene e sottovalutando la vera potenza mediterranea, l’Egitto.
È molto probabile, anzi, che sia stata proprio la civiltà egizia, che abbiamo supposto si sia formata dopo il 1° diluvio, a dare origine a filiazioni nelle regioni del Mediterraneo orientale e in modo particolare in Grecia.
È estremamente significativo al riguardo il mito dei figli di Belo: Egitto e Danao; quest’ultimo, in seguito alle dispute per la suddivisione del regno del padre e per il dominio dell’Africa settentrionale, sarebbe stato costretto a lasciare l’Egitto e si sarebbe rifugiato nell’Argolide e qui avrebbe, in qualche modo, ricevuto il regno di Argo dal re Gelanore.
Il fatto che il mito ci parli poi di un lupo, che avrebbe ucciso il toro della mandria del re, ci porta a ipotizzare che esso si riferisca allo scontro fra le forze egizie (Egitto e Danao) contro le colonie mediterranee di Atlantide, ben simboleggiate dal toro sacro della grande civiltà.
Analogo simbolismo potrebbe esistere nel complesso mito di Teseo e del Minotauro. Androgeo, figlio del re di Creta Minosse, sarebbe stato ucciso ad Atene, forse durante una ribellione contro il dominio della civiltà cretese; Minosse avrebbe domato la rivolta e preteso dagli ateniesi il sacrificio annuale di sette fanciulli e sette fanciulle; Teseo avrebbe avuto ragione del “mostro” cretese, ma si sarebbe dimenticato di cambiare la velatura delle sue navi, bianche al posto di quelle nere, così che il padre Egeo, immaginando un mesto ritorno del cadavere del figlio, si sarebbe tolto la vita distrutto dal dolore.
Tutto lascia intravedere una descrizione mitologica di uno scontro fra Atlantide, tramite la sua colonia Creta, e la rivale Atene, il tentativo vittorioso di Teseo di sconfiggere le forze nemiche, rappresentate dal Minotauro (il toro di Minosse), e la distruzione finale rappresentata dalla morte di Egeo, il luogo del suicidio del padre di Teseo. L’Acropoli di Atene, non può, infine, che ricordare la sottrazione della terra da parte della gigantesca inondazione e il successivo allargamento del mare, proprio il mare Egeo.

Giustificazione della catastrofe
Platone ci fornisce, infine, la giustificazione della tremenda catastrofe; essa sarebbe stata una punizione degli dèi per Atlantide, che aveva col tempo degenerato la sua antica discendenza divina. L’unione dei suoi sovrani con semplici mortali li avrebbe portati a perdere di vista la giustizia che aveva in passato caratterizzato la grande civiltà e, per rimediare a questa situazione, gli dèi sarebbero stati costretti a cancellare quasi tutta l’umanità:
«[…] Il dio degli dei, Zeus, che governa secondo legge e sa vedere queste cose, avvedutosi che una stirpe onorata si trovava in dolorosi frangenti e volendo infliggere loro una punizione, affinché ne fossero corretti e potessero migliorare, radunò tutti gli dei nelle loro santissime dimore, dalle quali si possono scorgere tutte le cose create, dato, che sono poste al centro del mondo. E dopo averli riuniti, così parlò loro: »
Non sappiamo perché Platone finì il suo secondo dialogo in tal modo, senza neanche finire la frase, né perché egli non abbia mai compilato il previsto terzo dialogo, L’Ermocrate, ma dobbiamo ritenere che, per quanto riguarda l’argomento di questo libro, quanto scritto dal grande filosofo ateniese possa essere considerato più che sufficiente per testimoniare l’antichissima leggendaria civiltà egizia.

Copyright Ugiat di Antonio Crasto
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venerdì 29 aprile 2011

Inaugurazione Mediateca del Mediterraneo



Sabato 30 aprile 2011 alle ore 11.00 avrà luogo l’inaugurazione della MEM – Mediateca del Mediterraneo, in via Mameli, a Cagliari.

Situata nel quartiere storico di Stampace, laddove si trovava un tempo il Mercato Civico, in via Mameli, la MEM racchiude in un unico, moderno complesso architettonico l’Archivio Storico, la Biblioteca Generale e di Studi Sardi, che qui si uniranno a nuovi e più articolati servizi anche grazie al concorso di partners privati quali CAMU' e la Società Umanitaria-Cineteca Sarda, la biblioteca per ragazzi e bambini, l'info point culturale, il laboratorio multimediale e, una volta completati i lavori, anche un auditorium e un'aula per la formazione.
Il proposito è quello di dar vita ad una struttura polifunzionale all’avanguardia, dotata di servizi d'eccellenza in grado di soddisfare esigenze formative, informative, culturali e di intrattenimento di un pubblico vasto ed eterogeneo.

Fin dalla sua organizzazione architettonica, la MEM intende comunicare l'idea di un luogo destinato allo scambio culturale, alla circolazione delle idee, a questo vuole alludere la presenza di un'ampia corte centrale sulla quale si affacciano le vetrate dei diversi piani che la circondano lasciando vedere all'interno; questo vuole significare l'assenza di separazione in un flusso ininterrotto tra spazi interni e spazi all'aperto tra l'atrio e la corte.
La MEM si propone come luogo d'incontro di culture diverse comprendenti fin dalla sua denominazione le civiltà e le culture del Mediterraneo, anche con la collaborazione di associazioni che operano nel campo dell'interazione tra culture diverse come il Centro Servizi Interculturale "Fairuz", particolarmente attiva nell'educazione alla mulitculturalita' attraverso l'uso degli audiovisivi.
Nella prima fase di apertura gli spazi della biblioteca bambini e della ludoteca ospiteranno la Mostra “Stampatori e tipografi a Cagliari e in Sardegna: l’arte e il lavoro”, un’esposizione di antichi strumenti e macchinari per la stampa con una presentazione di documenti e libri tematici, che sara' accompagnata da laboratori destinati a bambini e ragazzi.

Per informazioni
MEM - Mediateca del Mediterraneo
Via Mameli, 164 / 164B / 164D Cagliari
telefono 070 677 3865 - fax 070 677 3866
EMAIL: mem@comune.cagliari.it

Atlantide e Nuraghe


Atlantide e i nuraghi: incontro - dibattito a Monte Claro
sabato 30 aprile 2011


E' prevista una massiccia partecipazione all'incontro-dibattito sul tema Atlantide e nuraghe, l’ultima delle iniziative organizzate dalla Biblioteca provinciale, che ha chiamato intorno ad un tavolo alcuni docenti universitari di differenti discipline per discutere sull’identificazione della Sardegna nuragica con l’isola descritta da Platone nel racconto su Atlantide.
All'incontro-dibattito promosso dalla Provincia di Cagliari e previsto per sabato 30 aprile, alle ore 17.00, nella sala conferenze del Parco provinciale di Monte Claro, prenderanno parte: Giulio Angioni, antropologo dell’Università di Cagliari, Alfonso Stiglitz, archeologo del Comune di San Vero Milis, Paolo Bernardini, archeologo dell’Università di Sassari, Antonio Ulzega, geologo dell’Università di Cagliari, Alessandro Usai, archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano e Mauro Perra, direttore del Parco e Museo “Genna Maria” di Villanovaforru.

L’incontro, aperto a tutti e con ingresso libero, sarà curato e moderato da Pierluigi Montalbano.

Gli studiosi interverranno domandandosi se con Atlantide, Platone intendesse veramente costruire un mito o se semplicemente volesse “edificare nobili menzogne” , come peraltro non si preoccupa di nascondere nel suo “Racconto fenicio”, nel testo del suo scritto più conosciuto: “La Repubblica”. Quale il fine nascosto della mitopoiesi antica e moderna? Ci si chiederà inoltre quali sono le ragioni del collasso dei nuraghi e del loro abbandono sulla base dei dati che ci provengono dai sempre più numerosi scavi di tali monumenti.

Si raccomanda la massima puntualità in quanto l'orario di inizio, le 17.00, sarà rigorosamente rispettato.
Informazioni: Biblioteca Provinciale di Cagliari.
Tel.0704092901 – Fax 0704092902 - email: biblioteca@provincia.cagliari.it

La Sardegna e i Sardi


La Sardegna e i Sardi
di Alessio Scalas

Molti stranieri in passato hanno scritto in merito a quella che veniva considerata una terra selvaggia e inospitale, la nostra amata Sardegna. Tra questi nel 1888 ci fu Charles Edwardes, autore del libro, pubblicato a Londra l'anno seguente, dal titolo "La Sardegna e i Sardi".
Leggiamo come egli descrive il suo arrivo sull'Isola:

Fu al termine di un’umida notte di maggio che sbarcai dal vapore a Golfo Aranci, a nord-est della Sardegna. La nave collega ogni giorno l’Italia con l’Isola, lasciando la terra ferma nella rossa luminescenza del sole che declina all’arrivo dopo dieci o dodici ore di viaggio. Ritengo che raramente sia stracarica di passeggeri.
Un viaggio di dodici ore costituisce un’impresa ardua per l’italiano medio che, per giunta, se qualcosa conosce della Sardegna, pensa sia una terra di barbari (latrunculi mastrucati) e sa bene che nelle sue selvagge terre deserte non troverà dei caffè con i tavolini sistemati al sole ed altre comodità per i suoi gusti dissoluti...
...Alle quattro del mattino ci trovammo nell’oscurità silente del mare aperto della Sardegna, sotto un gagliardo acquazzone.
Ma le nuvole alte nel cielo non erano foriere di pioggia.
Nel mezzo della massa della nera nuvolaglia, che a tratti si squarciava sopra di noi, brillavano come tenere lune le stelle più grandi. Il loro lucore ci permetteva di scorgere le brevi onde oleose del mare e ci costringeva a sforzare la vista per scrutare le forme spettrali dei promontori collinosi che, come le curve di un forcipe, racchiudono il golfo degli Aranci.
La certezza più assoluta della vicinanza della terra l’avemmo attraverso il senso dell’olfatto. Si percepiva l’incantevole profumo di erbe dolci, l’odore dell’acqua salata. Questo profumo andò intensificandosi quando, traghettati da una barca, raggiungemmo la banchina ferroviaria la quale serve, altresì, come molo di Golfo Aranci.
L’alba grigia, che frattanto si era sufficientemente rischiarata tanto da consentirci di discernere la presenza di parecchi ragazzini che si muovevano lungo il margine della spiaggia, di scorgere qualche casa bianca e la locomotiva di un trenino, rivelò pure i cespugli di timo selvatico, di lavanda, di alti cardi dai fiori azzurro pallido, di cisto, di menta che ricoprivano il declivio pietroso sul quale sbarcammo.
Grandi alberi di ginestra addolcivano l’aria. Avrei potuto immaginare di trovarmi a Kerry e d’altronde il modo brusco e sfacciato, col quale questi ragazzetti sardi si impossessarono del mio bagaglio, mi fece venire in mente proprio l’Irlanda e le costumanze della sua gente.
Nonostante gli sbuffi ed il lungo viaggio che lo aspettava, il trenino pareva non aver fretta alcuna di partire da Golfo Aranci. Sostò per un’ora e mezzo, zigzagando e infilandosi avanti e indietro sulle rotaie viscide.
Frattanto, la parte orientale del cielo aveva assunto un colore rossastro ed era ormai giorno fatto. Non si vedeva il sole; dominavano le nuvole che pendevano basse sulle grigie colline di granito e sulle scogliere tutt’intorno alla baia.
Ora si stagliava chiaro il profilo discontinuo del porto. Somigliava per buona parte alla costa d’Irlanda.
Qui, un impudente isolotto triangolare si elevava dall’acqua color porpora pallido fino alle nuvole. Nello sforzo di congiungersi al cielo, i suoi fianchi erbosi avevano ceduto, creando uno scosceso gradone nel granito. Ci si sarebbe potuti arrampicare dalla terra al cielo attraverso quella massiccia scala naturale. Altrove, le lingue di terra sommerse od emergenti dall’acqua somigliavano, per il loro aspetto, ai fantastici mostri marini scandinavi.
Il golfo è ben protetto. Pare, quasi, che la natura lo abbia racchiuso all’interno di tanti bastioni concentrici. Se l’isola più lontana dovesse sparire a causa di un cataclisma, spetterebbe a quella successiva l’onore di difenderlo.
La più appariscente, e la più grande di queste isole, è Tavolara, situata in direzione sud-est. Qui dimora un re. Quando Carlo Alberto, nel 1843, visitò la Sardegna, il proprietario di Tavolara inviò garbatamente al sovrano delle pecore per la sua mensa. Il re volle ricambiare la cortesia e, pertanto, al colono fu chiesto che cosa potesse desiderare.
– Una libbra di polvere da sparo – fu la risposta data dopo breve esitazione.
– Ma questa è una vera sciocchezza da chiedere ad un re – gli fu osservato.
– Dite allora che mi piacerebbe essere re di Tavolara così che coloro che giungeranno qui mi rendano ossequio come fanno a lui – soggiunse l’ingenuo.
Da allora, il proprietario di Tavolara è diventato il “re di Tavolara”. Possiede una sua bandiera ed un cannone col quale spara in segno di saluto.
Questa stessa persona di larghe vedute si concesse due mogli, due sorelle; una, però, la teneva in un’isoletta del suo principato separata dall’altra, così che la sua pace domestica mai fu posta in pericolo ed egli, col mutar della compagnia, poteva permettersi anche il cambio della scena...

giovedì 28 aprile 2011

Mostra di scultura alla cittadella dei musei


L’Uomo Nuovo
di Giovanni Simbula.

Mostra di scultura alla Cittadella dei Musei dal 3 al 13 Maggio 2011, l’arte di creare un ponte fra scienza e spirito.
Gli scultori della Sardegna di oggi si chiamano Giuseppe Sciola, un ritorno alle civiltà del passato e al non finito, Tore Pintus, dalle forme stilizzate e aeree, Anna Cabras Brundo, dai ritratti scultorei vivi, Edoardo Pala, la semplicità in una cadenza quasi ieratica, Luciano Muscu, Salvatore Fois, Antonio Casu, Dolores De Murtas, la ricerca attraverso le tradizioni popolari, Luigi Angius, Ottavio Amaranto…e Giovanni Simbula. Sardo è pure Costantino Nivola che vive negli Stati Uniti.
Giovanni Simbula è giovane, la sua scultura prende forma e movimento soprattutto con il filo di ferro saldato, rare volte con il ferro e la lamiera. Di lui ci interessa in particolare la tematica: la Sardegna. Non crediamo di sbagliare affermando che si tratta di uno dei pochi artisti rimasti fedeli alla propria isola. Il vento, il forte maestrale che impiega uomini alberi, domina nella maggior parte delle opere. Ciò che sorprende a prima vista della produzione di sculture in ferro di Giovanni Simbula è che accanto a opere già apprezzate, quasi tutte non brunite, viene a collocarsi un'intera “Via Crucis”: su pannelli di lamiera, tutti delle dimensioni 30 x 40 cm, il paesaggio appena punteggiato, le gocce di ferro fuso hanno scandito attimo per attimo, sobriamente, il dramma della Redenzione. Lo scultore è homo faber per eccellenza proprio perché fabbrica, agisce con la materia, e dà forma in tre dimensioni alle sue creature. Simbula trasforma, o della e, con lo stilema che predilige, il filo di ferro, disegna nello spazio le sue opere ricche di significati interiori. Anche se lavora seguendo una precisa linea formale, egli dà al contenuto un'importanza fondamentale. I contenuti di Giovanni Simbula sono sincretici così come lo è il suo modus operandi. Tutto è strettamente legato dal fil di ferro, energia vitale, linea curva continua, flusso della vita che, con il suo scorrere circolare, parafrasa le linee curve di villaggi nuragici visti dall'alto.
I sette colori dell'arcobaleno che fanno da sfondo ai sette elementi della natura, creati con il fil di ferro saldato con maestria, così da formare un'immagine che trasmette un sentimento profondo. Queste sette composizioni dello scultore Cagliaritano, della dimensione di 130 x 130 cm, sono la punta di diamante di oltre 50 opere della sua personale intitolata “equilibrio degli opposti”.
Ogni opera contiene anche un elemento della tradizione nuragica perché per lui i valori del passato sono da riscoprire per farne delle bandiere in cui la società contemporanea deve ritrovarsi. Per l'artista aria, acqua, fuoco, terra, etere, cosmo e fioritura sono i cardini dell'esistenza che servono a nutrire la spiritualità dell'uomo che se ne deve servire per condurre la sua vita. Lo scultore, non a caso, per far sentire la sua “voce” scolpisce anche il cemento armato e il marmo, utilizzando tecniche miste e realizzando grandi opere che sistema in spazi all'aperto. Le sue opere si trovano in numerose collezioni pubbliche e private, e in molti spazi all'aperto in vari centri la Sardegna.

SA DIE DE SA SARDINIA



Non solo una rappresentazione in piazza sui moti che portarono alla sollevazione popolare e alla cacciata dei piemontesi, ma una festa che coinvolge tutta l'isola nell'ambito dei 150 anni dell'Unità d'Italia.
Così la Regione presenta Sa Die de Sa Sardigna (il giorno della Sardegna) edizione 2011 che si celebrerà giovedì 28 aprile. "Questo appuntamento poteva sembrare un di più rispetto ai festeggiamenti per i 150 anni - ha spiegato l'assessore della Pubblica Istruzione e Cultura, Sergio Milia - ma lo abbiamo voluto caratterizzare come un unicum coinvolgendo 50 scuole dell'Isola. Sarà un giorno di festa e insieme una riflessione per il ruolo che la Sardegna deve esprimere in un momento in cui si parla di federalismo: una riflessione per l'attuale classe dirigente ma anche per i nostri giovani".
Con un finanziamento di 300 mila euro la Regione ha organizzato eventi non solo a Cagliari e negli altri capoluoghi di provincia, dal 27 al 30 aprile, ma anche in 17 comuni, in due province, Medio Campidano e Oristano, e in una Unione dei comuni (Parteolla e Basso Campidano). "Vogliamo che i sardi si sentano ancora più uniti fra di loro - ha osservato Milia - in una realtà che deve trovare riscontri nel rapporto con uno Stato che, non solo ora, è distratto rispetto alle rivendicazioni dell'Isola".
Tra gli eventi principali quello del giorno della festa, il 28 appunto, nella biblioteca regionale alle 10,30, con il governatore Ugo Cappellacci, l'assessore Milia, il presidente della commissione Cultura del Consiglio regionale, Attilio Dedoni, e i componenti dell'Osservatorio per la cultura e la Lingua Sarda. Il 28 aprile gli uffici pubblici resteranno aperti ma le scuole osserveranno un giorno di riposo.
Sa die de sa Sardigna è la festa del popolo sardo che ricorda i cosiddetti "Vespri Sardi", cioè l'insurrezione popolare del 28 aprile 1794 con il quale si allontanarono da Cagliari i Piemontesi e il viceré Balbiano in seguito al rifiuto del governo torinese di soddisfare le richieste dell'isola titolare del Regno di Sardegna.
I Sardi chiedevano che venisse loro riservata una parte degli impieghi civili e militari e una maggiore autonomia rispetto alle decisioni della classe dirigente locale. Il governo piemontese rifiutò di accogliere qualsiasi richiesta, perciò la borghesia cittadina con l'aiuto del resto della popolazione scatenò il moto insurrezionale.
Il movimento di ribellione era iniziato già negli anni Ottanta del Settecento ed era proseguito negli anni Novanta toccando tutta l'isola. Le ragioni erano di ordine politico ed economico insieme.
Il motivo del malcontento popolare era dovuto anche al fatto che la Sardegna era stata coinvolta nella guerra della Francia rivoluzionaria contro gli stati europei e dunque contro il Piemonte. Nel 1793 una flotta francese aveva tentato di impadronirsi dell'isola, sbarcando a Carloforte e insistendo successivamente anche a Cagliari. I Sardi però opposero resistenza con ogni mezzo, in difesa della loro terra e dei Piemontesi che dominavano allora in Sardegna. Questa resistenza ai Francesi aveva entusiasmato gli animi, perciò ci si aspettava un riconoscimento ed una ricompensa dal governo sabaudo per la fedeltà dimostrata alla Corona.
La scintilla che fece esplodere la contestazione fu l'arresto ordinato dal viceré di due capi del partito patriottico, gli avvocati cagliaritani Vincenzo Cabras ed Efisio Pintor. Siamo appunto al 28 aprile del 1794: la popolazione inferocita decise di allontanare dalla città il viceré Balbiano e tutti i Piemontesi, che nel mese di maggio di quell'anno furono imbarcati con la forza e rispediti nella loro regione. Incoraggiati dalle vicende cagliaritane, gli abitanti di Alghero e Sassari fecero altrettanto.

Nell'immagine, di marcocamedda.blog.tiscali.it, l'ingresso trionfale di Angioy a Sassari nel 1794.

mercoledì 27 aprile 2011

Cartografia Nautica...prosegue il corso.

Continuiamo l'esplorazione dei grafici e degli strumenti per acquisire le nozioni di base per la comprensione delle carte nautiche.
di Rolando Berretta

Le scorse settimane abbiamo inserito 3 articoli sulla cartografia: "Corso Base di Cartografia nautica", "Chi ha scoperto l’America?" e "Qual è il significato del nome Gennargentu?" nei quali abbiamo visto cos’è uno schema RoBer a base 34 con un primario dal giro di compasso da 26 unità e il suo secondario da 13 unità e l’uso fondamentale delle diagonali che scalano un quadretto ogni 5. (Fig. 1)
Se si segue la griglia di quadratini si ottengono schemi precisi.
I quadratini non compaiono nelle carte portolane ma, se si osserva con attenzione qualche schema, si noterà che mancano alcune linee. Su quelle linee, sicuramente, c’erano dei puntini di riferimento.
Abbiamo visto come lavorava il bolognese Giovan Battista Agnese, a Venezia, verso la metà del 1500 e ho fatto notare come le sue terre sono dilatate sull’Equatore.
Cercherò di spiegarvi la causa. (Nota: nella successiva ci sono i gradi reali e non quadrati)
Il secondario, che vale 13 unità, si trova esattamente a 30° nord e 30° sud dall’Equatore. (Fig. 2)

Nell’immagine allegata ho sovrapposto due proiezioni moderne. Il secondario tocca, esattamente, i 30° nord e sud. Se si sviluppa uno schema che riporta il valore di 60° anche sull’asse Est-Ovest si arriverà ad assegnare un valore di 160° alle 34 unità sull’Equatore. Controllare l’immagine.
Ricordo che, solo con questa proiezione omalografica (discontinua?) otteniamo i Tropici a 5 unità dall’Equatore e i C.Polari a 9 unità dai Tropici o a 14 dall’Equatore. Stessi Poli.
Battista Agnese ha operato nel modo descritto. Quando si è reso conto che sull’asse nord-sud qualcosa non quadrava ha preferito … saltare la parte. (Fig.3)

Allego una carta dimostrativa di Battista Agnese. (Visionate le diagonali di uno su cinque). (Fig. 4)

Vorrei attirare la vostra attenzione nel segnalarvi che ho presentato una carta allineata sul meridiano di Alessandria. Le carte suggeriscono quell’allineamento. Il secondario degli schemi è allineato con il 30° nord. Vi ricordo che su quel parallelo si finisce dritti nella piana di Giza e che la Grande Piramide è a 29° 58’ 45”nord.
Troppe coincidenze fanno riferimento all’Era del Toro quando il solstizio d’estate traguardava la costellazione del Leone. (Fig. 5)

Tornano i conti con il 3.000 a.C. di Cheope?
Scusate lo scantonamento ma quando sento parlare di certe –date- mi vengono i capelli dritti.
Quando mostro il mio lavoro a qualcuno degli ADDETTI che incontro, arrivato alla datazione, li guardo dritto negli occhi. Dovreste vedere la loro espressione.
La loro tesi è inamovibile. Nel 1.200 d.C. i nostri fraticelli si sono messi a raffigurare il globo terrestre. Bastò un solo viaggio intorno all’Africa per disegnarla tutta; peccato che LORO non guardano nei miei occhi in quel momento.
Ritorno, con un paio di immagini, al più grande cartografo castigliano: al -Maestro di hacer cartas-
Capita, a chi è poco pratico, di sbagliare la scala di quello che si sta copiando. Si crede che una certa carta abbia valore di 26 quando in realtà vale 13.
Propongo la zona americana di Juan de la Cosa con valore -13-. (Fig. 6)

Nessun commento. (Fig. 7)

Torno di nuovo a parlare dell’illustre sconosciuto Opicino de Canistris e del Circolo Polare Artico. Claudio Tolomeo terminava le sue carte sul 64° parallelo nord; oltre c’era la zona gelata e inabitabile. Era l’ultima Tule. Cicerone coniò il termine Circolo Polare per designare una delle quattro fasce climatiche.
Per capire cos’è, veramente, il Circolo Polare, artico e antartico, bisognerebbe sapere dell’inclinazione terrestre. Farsi una bella passeggiata durante il solstizio d’inverno e misurare il punto che vede il sole, a mezzogiorno, sfiorare l’orizzonte: oltre è buio pesto. (Fig. 8)

Ho preso una carta dell’illustre sconosciuto Opicino de Canistris (siamo nel 1.330 circa).
Ho sovrapposto la sua carta a quella di Grazioso Benincasa (1.468) . Ho cercato di far combaciare i profili delle terre. Vedete quelle due linee tratteggiate ? quelle due linee sono presenti nella carta di Opicino. Sembrerebbe che abbia calcolato l’esatta misura del Tropico del Cancro e del Circolo Polare Artico usando la griglia come scala decimale. Credo che sia stato il -primo al mondo-.
Qualcuno conosce Opicino de Canestris ? (Fig. 9)

Provate a misurare i due circoli polari della carta di Francesco Rosselli del 1504. Sono perfetti.
Se ricopiate la griglia di Rosselli, una perfetta proiezione ovale (Gerardo Mercatore verrà poi)
e vi divertite a fare un piccolo spostamento di tutte le terre… (Fig. 10)

...vi farete un’idea del loro concetto di Terre Emerse. (Fig. 11)

Presento una celebre carta antidiluviana (sic!). Si nota che l’America e l’Asia sono unite.
Lo stretto che separa i due continenti, migliaia di anni fa, ancora non c’era.
Qui mi fermo. Ci sono svariati testi che spiegano il fenomeno geologico relativo.
Allora avete realizzato una proiezione, vuota, dell’ ovale di Rosselli ? Perfetto!
Adesso, settore dopo settore, trasferiteci le terre antidiluviane. (Fig. 12)

Questo è il risultato.
Le terre vengono disegnate dilatate. Prenderà, poi, forma l’America. Ben presto, verso il 1560, le due masse si incontreranno a 135° , a ovest, delle coste dell’Africa. Lì, da calcoli presunti da una affermazione di Marino di Tiro, inizierebbe il Paese della Seta.
Sono i mitici 135° di oceano, da attraversare, per raggiungere il Catai.
Se andate nel sito dell’Università della III Età di Quartu Sant’Elena (Cagliari)
www.univerquartu.it
nella Home page cliccate su :
Collegamenti poi su Foto-Pubblicazioni poi su Libri
A questo punto potete scaricare il PDF dal titolo APOSTOLI SOLONE.
C’è il resto della materia.

martedì 26 aprile 2011

Pozzo di Santa Cristina



Arnold Lebeuf, studioso di astronomia e religioni, Domenica 1 Maggio, alle ore 17.00, presenterà documenti tesi a dimostrare che il pozzo di Santa Cristina a Paulilatino era un preciso osservatorio per calcolare la posizione della luna. Appuntamento direttamente sul sito al km. 114 della S.S. 131.
Oltre il relatore saranno presenti Giacobbe Manca e Mauro Peppino Zedda.


Ecco il commento dell'Unione Sarda:


I nuragici? Astronomi e architetti
Il pozzo di Santa Cristina era un osservatorio astronomico
«I nuragici, un popolo rozzo di pastori guerrieri? Falso. Erano raffinati architetti e profondi conoscitori delle leggi matematiche che regolano i moti cosmici. La prova è il pozzo di Santa Cristina, straordinario osservatorio astronomico capace di calcolare con precisione i cicli lunari e prevedere le eclissi». A sostenere, calcoli alla mano, che in Sardegna in epoca precopernicana si conoscessero concetti come eclittica e lunistizi, è Arnold Lebeuf. Il docente franco-polacco dell'Università di Cracovia (cattedra in Storia delle religioni) e membro della Seac (Società Europea di Astronomia Culturale) ha pubblicato un'opera che potrebbe rivoluzionare la storia della scienza e i fondamenti del panorama archeologico sardo. Il pozzo di Santa Cristina - Un osservatorio lunare (ed. Tlilan Tlapalan, Cracovia, pag.224) sarà presentato stasera alle 17 nella sala conferenze del pozzo di Santa Cristina a Paulilatino e martedì alle 18 ai Salesiani di Cagliari in viale Fra Ignazio. «L'orientamento col lunistizio maggiore è sempre stato evidente: chiunque può verificare che la luna si riflette esattamente all'interno del pozzo quando si trova nel suo punto massimo. Ciò che ho dimostrato con calcoli precisi e dopo 5 anni di studio è che il pozzo, con la luce che "cola" gradatamente sui suoi gradini volutamente sfalsati, è capace di calcolare esattamente tutto il ciclo lunare. Questo è possibile con un'architettura complessa - soprattutto se si considera che quella perfezione estetica e scientifica è stata realizzata nell'Età del Bronzo - ma con un sistema visivamente semplicissimo e, per questo, geniale».
Arte ottica ed estetica futurista a servizio della scienza in epoca megalitica. Che utilità poteva avere per i nuragici calcolare eclissi e nodi dell'orbita Sole-Luna? «Politici ed economici. Se conosci i segreti del cielo detieni il potere. I testi greci raccontano di guerre vinte sfruttando la previsione di fenomeni astronomici». La perfezione non può essere frutto della ricostruzione durante il restauro? «No. Le vecchie riproduzioni documentano che Enrico Atzeni ha ricostruito solo la parte superiore delle scale che comunque non serve dal punto di vista astronomico». Se si scoprisse che c'era una copertura, cadrebbe tutta la teoria. «Chi lo sostiene dovrebbe anche dimostrarlo. Le misure sono talmente precise che non possono essere un caso. Siamo di fronte a una meraviglia architettonica. In Francia e in Messico ci sono due antichi osservatori lunari, ma Santa Cristina li precede di un millennio e mezzo». Gli accademici storceranno il naso. «L'archeoastronomia è una disciplina multidisciplinare. Occorre avere una visione d'insieme. Il confronto sarà costruttivo e la ricerca continuerà perché è un piacere in sé».

Pubblicazione scavi Nuraghe Antigori, Sarroch


Nuragici e greci, Antigori indica scambi e influssi.
di Angelo Pani

Quando il piccone dell'archeologo ha iniziato a scavare sullo sperone di roccia che domina la piana petrolchimica di Sarroch - accadeva 32 anni fa - il sapere accademico liquidava la presenza dei greci in Sardegna come un fatto episodico, ininfluente nella storia isolana.
Poi è arrivata la campagna di scavi nel nuraghe Antigori condotta da Maria Luisa Ferrarese Ceruti. Il lavoro meticoloso portato avanti per sette anni permette ora di guardare con maggiore cognizione di causa su ciò che accadde nell'Isola nei secoli più lontani del primo millennio avanti Cristo. La fioritura della civiltà nuragica era e rimane il fatto storico più rilevante, ma sono arrivate nuove conoscenze sul tessuto di contatti, alleanze e influenze che ha legato le genti nuragiche agli altri popoli del Mediterraneo. Si sapeva molto dei fenici, dei punici e dei romani; si intuivano, non fosse altro per la vicinanza delle due terre, i legami con gli etruschi; la vera sorpresa sono stati i popoli egei. Si conosceva, è vero, la colonizzazione di Olbia dove gli scavi hanno restituito frammenti ceramici ionici, attici e corinzi, ma si supponeva che la rivalità coi fenici li avesse ben presto allontanati dalle rotte della Sardegna.
Gli scavi di Antigori hanno sconvolto queste certezze, indicando che la presenza greca nell'Isola fu assai più estesa e duratura di quanto si supponesse. Merito di una studiosa di prim'ordine quale era Maria Luisa Ferrarese Ceruti, che ha scavato ad Antigori dal 1979 al 1986 riportando alla luce importanti frammenti di ceramica micenea inseriti in una stratigrafia che ha conservato materiali di produzione nuragica e di imitazione locale dei prodotti d'importazione. Antigori ci dice (e le ricerche in altre località lo hanno poi confermato) che non di una dominazione straniera si è trattato, ma di una pacifica frequentazione e di una molteplicità di scambi che si è protratta nel tempo estendendosi dalla Sardegna al Peloponneso a Creta ed a Cipro. Per questo motivo, quell'apparentemente piccolo e insignificante nuraghe è oggi tra le località archeologiche di maggior importanza del Mediterraneo.
Di questo si è parlato nei giorni scorsi a Sarroch, nel Centro servizi realizzato ai piedi dell'altura dominata dal nuraghe Sa Domu e s'Orcu nel corso della Giornata in ricordo di Maria Luisa Ferrarese Ceruti. Giornata alla quale hanno partecipato amministratori comunali, i vertici della Soprintendenza archeologica regionale, collaboratori e allievi dell'archeologa scomparsa. In questa occasione sono state date due importanti notizie: il soprintendente Marco Minoja ha comunicato che è in fase di stampa il volume “Il complesso nuragico Antigori di Sarroch” che contiene l'edizione integrale dei dati di scavo, poi il sindaco Mauro Cois ha affermato che saranno ripresi i lavori nell'area del nuraghe per garantirne la conservazione e permetterne una fruizione per quel turismo culturale sul quale Sarroch sta dimostrando di credere.

Nell'immagine:
il Nuraghe Antigori a Sarroch

Santa Igia, antica capitale del Giudicato di Cagliari


Cagliari: convegno su Santa Igia

E' dedicato a Santa Igia, antica capitale del Giudicato di Cagliari e alla figura del giudice Guglielmo, il convegno “Alla ricerca della capitale perduta Santa Igia, la città del Giudice Guglielmo”, in programma a Cagliari giovedì 28 aprile, alle ore 18, a Palazzo Regio. L'iniziativa, promossa dalla Provincia di Cagliari, prende le mosse da un voluminoso studio dell'architetto Raimondo Pinna che fornisce nuove prospettive di lettura sulla storia e sulla localizzazione di Santa Igia, non più collocata in riva allo stagno di Santa Gilla ma attorno alla cattedrale di Santa Cecilia, più vicina all'attuale rione di Castello, e getta una nuova luce sulla figura del giudice Guglielmo, riscrivendone la biografia attraverso le sue opere. Ai lavori del convegno, coordinati dal presidente del consiglio provinciale, Roberto Pili, prenderanno parte Graziano Milia, presidente della Provincia, Enrica Salvatori, professoressa di Storia Medioevale dell'Università di Pisa, Marco Cadinu, ricercatore di Storia dell'architettura dell'Università di Cagliari, Raimondo Pinna, autore del libro “Santa Igia, la città del giudice Guglielmo (edizioni Condaghes), e Corrado Zedda, dottore di ricerca in Storia medioevale dell'Università di Cagliari.

lunedì 25 aprile 2011

25 Aprile 1945 . Fine della guerra


Il 1945 è l'anno della liberazione dell’Italia dai nazi-fascisti. Al termine della seconda guerra mondiale, vinta dagli Alleati (Stati Uniti, Inghilterra, Unione Sovietica) in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 43 si mossero anche i partigiani contro i fascisti e gli occupanti nazisti.
Nell’Aprile 1945 furono liberate tutte le grandi città italiane che accolsero festosamente i liberatori alleati e i partigiani.

La città di Cagliari nel 1943 fu distrutta dalle bombe lanciate dagli inglesi. Fu ridotta in macerie: mura distrutte e morti nelle strade.

In quel tempo la povertà era contrastata dal contrabbando e le persone erano praticamente vestiti di stracci, si moriva di fame, le botteghe erano strapiene di gente che chiedeva qualcosa da mangiare. Lungo le strade si vedevano i mobili nelle case e nei palazzi distrutti.

sabato 23 aprile 2011

Convegno organizzato dalla Biblioteca Provinciale di Cagliari


Atlantide e i nuraghi: incontro - dibattito a Monte Claro
sabato 30 aprile 2011


Un incontro-dibattito sul tema Atlantide e i nuraghi. E’ l’ultima delle iniziative organizzate dalla Biblioteca provinciale, che ha chiamato intorno ad un tavolo alcuni studiosi di differenti discipline per discutere sull’identificazione della Sardegna nuragica con l’isola descritta da Platone nel racconto su Atlantide.

All'incontro-dibattito promosso dalla Provincia di Cagliari e previsto per sabato 30 aprile, alle ore 17.00, nella sala conferenze del Parco provinciale di Monte Claro, prenderanno parte: Giulio Angioni, antropologo dell’Università di Cagliari, Alfonso Stiglitz, archeologo del Comune di San Vero Milis, Paolo Bernardini, archeologo dell’Università di Sassari, Antonio Ulzega, geologo dell’Università di Cagliari, Alessandro Usai, archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano e Mauro Perra, direttore del Parco e Museo “Genna Maria” di Villanovaforru.

L’incontro, aperto a tutti e con ingresso libero, sarà curato e moderato da Pierluigi Montalbano.

Gli studiosi interverranno domandandosi se con Atlantide, Platone intendesse veramente costruire un mito o se semplicemente volesse “edificare nobili menzogne” , come peraltro non si preoccupa di nascondere nel suo “Racconto fenicio”, nel testo del suo scritto più conosciuto: “La Repubblica”. Quale il fine nascosto della mitopoiesi antica e moderna? Ci si chiederà inoltre quali sono le ragioni del collasso dei nuraghi e del loro abbandono sulla base dei dati che ci provengono dai sempre più numerosi scavi di tali monumenti.

Informazioni: Biblioteca Provinciale di Cagliari, Vico XIV San Giovanni, 8/12 - 09127 Cagliari

Tel. + 39 0704092901 – Fax +39 0704092902 - email: biblioteca@provincia.cagliari.it

Convegno sul patrimonio archeologico della Sicilia


Marianopoli (Cl). Un incontro sui santuari indigeni della Sicilia
di Martina Calogero


Un patrimonio archeologico nel mezzo della Sicilia; un sito nascosto nell’entroterra che conserva la testimonianza di quello che eravamo, in grado di farci scoprire cosa siamo diventati e come. Il Museo regionale di Marianopoli (Cl) si è aperto ai visitatori come un luogo magico in cui sono esposti reperti preziosi e immortali: oggetti in metallo e in ceramica, accessori di artigianato e monete; testimonianze archeologiche emerse dalle indagini svolte tra il 1970 e il 1980 sui siti di Monte Castellazzo e di Montagna di Balate, nei pressi del centro abitato, che ricordano come questi insediamenti vennero influenzati dalle grandi civiltà dell’antichità e ne fecero parte.

Grazie a queste scoperte è stata tracciata in modo completo la cronologia della frequentazione di questo territorio della Sicilia interna. Testimonianze storiche databili al VI-V a.C. e una copiosa produzione di ceramiche dal prezioso materiale decorativo, in cui forme e tipi imitano i modelli greci, provano inconfutabilmente che queste aree sono state sede di colonizzazioni rodio-cretesi.
Il convegno svoltosi a Marianopoli dall’8 al 10 aprile 2011 ha segnato la tappa conclusiva di un lungo percorso di riscoperta del patrimonio archeologico siciliano ed è stato inaugurato dall’incontro tenutosi a Catania venerdì 8 aprile 2011 e intitolato “Santuari indigeni d Sicilia e Magna Grecia. Modelli, organizzazione e regime delle offerte a confronto”. Quest’iniziativa culturale si è proposta di riportare alla luce l’enorme ricchezza di un territorio poco noto e rilanciarlo nell’ambito di un percorso culturale e turistico.
Un approfondimento accurato, della durata di tre giorni, che riassume anni di studi in questo grande e interessante settore, che ha visto la solerte collaborazione di studiosi, scienziati e archeologi di fama mondiale, con un grosso seguito di studenti provenienti da diverse università italiane. Un’iniziativa organizzata grazie alla collaborazione fra il Cnr-Ibam di Catania, il Servizio Museo Interdisciplinare Regionale di Caltanisetta, la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, l’Università degli Studi di Catania e il Comune di Marianopoli.

Fonte: Archeorivista

venerdì 22 aprile 2011

Sardegna Preistorica


Sa 'Ena
Dagli antopomorfi ai Telamoni di Monte Prama
di Franco Laner

Sono passati 10 anni dalla prima edizione di Accabbadora, tecnologia delle costruzioni nuragiche, e ora, con umiltà unita ad una maggiore consapevolezza, cerco di raccogliere da quella che credevo fosse una sorgente abbondante, una vena d'acqua - Sa 'ena - poca, ma spero capace di dissetare. In questo lavoro diviso in 8 capitoli, tratto argomenti diversi, tutti riferiti al periodo nuragico e accomunati dall'approccio con strumenti di una disciplina, la tecnologia dell'architettura, spuria rispetto all'archeologia, ma capace di inferenze complementari e sinergiche.
Il 4° capitolo è dedicato ai nuraghe, e di seguito potrete leggere un estratto.

Qualche tempo fa, navigando in internet, mi sono imbattuto in una citazione di Giuseppe Lampis che nel suo libro “Sa bia de sa palla”, ed. Mythos, Roma, 1993, testualmente riporta: Frobenius riferisce (1933) di un modellino di nuraghe con quattro sostegni e un axis mundi centrale, lungo il quale sale lo sciamano.
Il nuraghe -continua- è una rappresentazione del cosmo perché i sostegni sono quattro precisamente come quelli con cui la terra regge il cielo secondo la tradizione africana.
Di corsa allora a consultare il libro di Leo Frobenius Storia delle civiltà africane, Bollati Boringhieri, Milano, 1950, che avevo conservato ancora dai tempi di un esame universitario sull’evoluzione delle tipologie edilizie africane.
Leo Frobenius (1873-1938), tedesco, compì numerosi viaggi di ricerca in Africa. Pioniere dell’etnologia, fu appunto autore di una grandiosa sintesi storico-etnologica della civiltà africana.
Nel capitolo Mondo e Uomo si occupa della rappresentazione dell’universo presso gli antichi.
Riporta anche la raffigurazione di un modello di bronzo di un tempio, conservato nel Museo di Cagliari in Sardegna. A. B. Cook fa risalire il culto ivi espresso alla civiltà eneolitica e al suo massimo sviluppo nell’età del bronzo. La cima della grossa colonna centrale è spezzata. Secondo Taramelli, un tempo c’erano delle corna di bue e una colomba, simbolo del pennuto dio del cielo.
Fra le figure disegnate di modelli cosmici del libro di Frobenius, spicca dunque il modello di tempio sardo di bronzo.
Il luogo di provenienza, Mandas, anziché Ittireddu, è errato, così come lo schizzo porta tre colombe, anziché due, sulla capanna.
Da dove ha preso Frobenius questa immagine? Gliela ha data W. Von Bissing, autore di Die Sardinischen Bronzen del 1924 e che partecipò al famoso Convegno Archeologico in Sardegna del giugno 1926. Negli atti del Convegno, la figura del modellino è riportata dal Taramelli, nella sua relazione con la seguente didascalia: Fig.111. –Modello di santuario nuragico, offerto in voto.
Orbene, lo stesso Giovanni Lilliu ha curato la presentazione nel 1990 della ristampa degli Atti del Convegno del ’26 dell’Editore Delfino.
Due sono le questioni che a questo punto si pongono. Non credo innanzitutto che sia possibile che Lilliu non conoscesse il testo di Frobenius. Negli anni cinquanta non c’erano molti libri né di archeologia, né di storia delle religioni e di etnologia. Il libro di Frobenius ha avuto una larga diffusione –addirittura nel ’70 lo acquistai per i miei studi di architettura, argomento trattato a margine nel famoso libro- e per di più veniva citato e disegnato il bronzetto di Ittireddu.
E’ impossibile anche che Lilliu non sapesse che Taramelli, a cui successe, considerasse il modellino non di nuraghe, bensì di santuario!
Ciononostante per Lilliu i nuraghi complessi furono considerati regge fortificate ed i modellini, modellini di nuraghe e non modelli cosmici o di santuari.
Da questo punto di vista non mi sembra totalmente corretto citare sempre Taramelli e Lilliu come padri della teoria nuraghe-fortezza.
Il merito va ascritto soprattutto, quasi esclusivamente, a Lilliu!
Comunque la teoria dei modelli di nuraghe, sia di bronzo (Ittireddu, Olmedo), sia di pietra (S. Sperate, Palmavera), sta portando al ridicolo. I capitelli di Monte Prama sono interpretati come modello di nuraghe monotorre e i basamenti colonnari sono interpretati come modelli di nuraghe polilobato. E così ogni volta che un reperto, piccolo o grande, abbia un elemento colonnare, viene immediatamente classificato come modello di nuraghe, anche se è il sostegno di un braciere, un offertorio, un capitello!
Nell’anno accademico 2003-2004 fui relatore della tesi di laurea di Paola Zantedeschi “Modellini di nuraghi come rappresentazione cosmica”. La tesi è in gran parte incentrata sulla rappresentazioni cosmiche mandaliche e yantra, e sull’impianto dei templi orientali. Tutte hanno per base la torre, montagna centrale e le quattro torri agli angoli della terra, sempre raffigurata come un quadrato.
Ovviamente anche il nuraghe quadrilobato è compreso in questa rappresentazione cosmica.
Un capitolo della tesi è dedicato all’impianto dei bronzetti di navicella votiva dove è ripetuta la rappresentazione cosmica: albero centrale con quattro torricelle agli angoli.
Che il grande Frobenius abbia visto in questa rappresentazione la sintesi della visione cosmologica non può che confortarmi sulla bontà delle mie deduzioni. I cosiddetti modelli di nuraghe sono imago mundi, modelli universalmente diffusi nella preistoria ed ancora residuali in molte culture, fino a diventare archetipo inconscio. Guardavo le costruzioni di sabbia dei bambini -e dei grandi- in riva al mare. La più ricorrente è un quadrato, con quattro torri (secchiello rovesciato) agli angoli e una torre più grande centrale.
Il riferimento africano di Frobenius mi ha molto confortato –la Sardegna guarda poco all’Africa,ha origini sicuramente più nobili- e per quanto uno sia convinto dei suoi ragionamenti, c’è bisogno -un umano bisogno- del consenso dei “superiori”!
Il passaggio successivo che mi auguro, è che al Museo di Cagliari, una mano pietosa sostituisca il cartellino sotto il bronzetto e scriva: Modello di rappresentazione cosmica al posto di modello di nuraghe.
Il bronzetto è un modello cosmico, il nuraghe è un modello cosmico, ma il bronzetto non è un modello di nuraghe!
Se A è uguale a C e B è uguale a C, A non è uguale a B in questo caso!
La regola transitiva matematica mal si adatta alla simbologia cosmica!
Infine, e non so darmi risposta, che finalità ci può essere nel rappresentare una fortezza, così ancora è interpretato un nuraghe, con un modello?
Nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza!
O ci vorrà un altro secolo per capirlo?

giovedì 21 aprile 2011

Antichi giochi delle nostre tradizioni popolari.


Chissà quanti di voi hanno preso parte almeno una volta da ragazzi a questi antichi giochi:

CHIE T'HAT PUNTU?

Questo gioco si faceva in gruppo e si svolgeva così: uno si sedeva su una sedia e tappava gli occhi ad un altro. Uno del gruppo Io pizzicavo e tornava al suo posto. Quello che era seduto chiedeva: "Chie t'ha puntu?" e l'altro rispondeva: "s'alza" "Puite?" "Po ti sanare" "Attindela po ti curare".
Quello che era inchinato andava in mezzo al gruppo e ne sceglieva

MUSCONE

Anche questo era un gioco di gruppo. Uno appoggiava una mano sul viso e l'altra sotto la spalla. Uno del gruppo, stando dietro, dava un colpo alla mano nascosta sotto l'ascella; siccome il protagonista doveva indovinare da chi aveva ricevuto il colpo, quelli del gruppo gli giravano attorno e con l'indice sollevato facevano il moscone. Se indovinava chi era stato, si scambiavano i ruoli, diversamente restava ancora lui nell'angolo con la faccia coperta.

GARIGI

A garigi si giocava con "sas laddarasa" (la pallina poteva essere di vetro o di terracotta fatta appositamente), e si svolgeva così: si faceva un buco nella terra. A turno si lanciava una pallina cercando di farla entrare nel buco; se uno ci riusciva guadagnava tre punti. Dopo passava la mano al compagno, il quale cercava di avvicinare la pallina all'altra "ceddare". Se c'erano tre palmi di differenza si guadagnavano altri tre punti.
Così si continuava fino ad arrivare a ventun punti e vinceva chi aveva totalizzato più punti Chi vinceva finiva il gioco; gli altri continuavano.

SA MURRA

Il gioco si praticava in gruppi di 4 o 2 persone. La gara veniva disputata alternativamente da soli due giocatori per volta;che dal pugno chiuso estraevano le dita e dicevano un numero superiore al numero delle dita che ciascuno estraeva. Il numero massimo della murra era 10. Si sommavano tutte le dita e chi indovinava aveva un punto; lasciato da parte il perdente, continuava il gioco con un altro componente del gruppo. Questo gioco era proibito dalla legge, perché certe volte non si osservavano le regole del gioco e allora si giocava specialmente nei magazzini e in campagna e quando qualcuno non voleva perdere era frequente che il gioco degenerasse in una rissa. Vi erano giocatori molto abili che riuscivano a indovinare quante dita il concorrente avrebbe estratto quindi vincevano sempre ed erano molto orgogliosi e sicuri.
Essi pronunciavano in modo sveltissimo e ritmico i numeri che costituivano la somma (murra = 10) e passavano dall'uno all'altro concorrente con una destrezza e maestria singolare, riuscendo anche a tenere il conto. È un gioco che è praticato tutt'oggi ma solo in occasione delle feste rurali e da giovani un po' maturi e più attaccati alle tradizioni paesane. (Punteggio da 16 a 21 con lo spareggio).

SA BÀTTIDA

Uno dei tanti giochi che si praticavano in passato era "sa bàttida". Questo gioco consisteva nel prendere una monetina e lanciarla contro il muro, con tutta la forza. Poi la stessa persona rilanciava un' altra monetina cercando di farla cadere a un palmo di distanza dall'altra; chi riusciva a toccare le due monetine con le dita vinceva la partita, e tutte le altre monetine che c'erano in terra, e chi non ci riusciva perdeva le proprie monetine.

SA BALDOFULA
Un gioco divertente era la trottola detta "sa Baldofula". Questo gioco si svolgeva così: si faceva un cerchio sul terreno "su parottu" e dopo vi si metteva una trottola dentro. Questa trottola era facile da costruire, infatti ogni ragazzo se la costruiva da se, con il legno più resistente, cioè quello d'ulivo.
Si prendeva un pezzo di legno lungo più o meno 6-7 cm e di larghezza 4-5 cm; con un coltello gli si faceva la punta, dove si infilava una vite. Sulla trottola così ottenuta si arrotolava un laccio in pelle (corria). L'estremità di questo filo veniva passato tra l'anulare e il mignolo, si lanciava così la trottola capovolta, il laccio in pelle si slegava e la trottola girava. Gli esperti del gioco riuscivano a "piscare", cioè a farla girare sulla mano e a farla salire sul braccio e girare sull'unghia. Il gioco cui ho accennato prima consisteva nel colpire "binzicorrare" la trottola per farla uscire dal cerchio; chi ci riusciva vinceva e quindi faceva mettere a un altro partecipante la propria trottola nel cerchio. Se invece non riusciva, perdeva e doveva mettere la sua trottola. Certe volte quello che doveva tirare se non se la sentiva diceva al più bravo giocatore così: "Dami manu mia franchèo" cioè chiedeva se poteva tirare al suo posto.
Durante il gioco la trottola che era dentro il cerchio, a seconda delle posizioni che prendeva, aveva un nome: se la trottola si inclinava da una parte si chiamava "pila".
Uno dei tanti giochi che si facevano con la trottola era "Parottu": per terra si tracciava un cerchio e al centro vi si metteva un sasso. I concorrenti dovevano cercare di colpirlo; il primo giocatore che fosse riuscito a colpire la pietra avrebbe dovuto scegliere chi degli avversari dovesse mettere la proprio trottola al posto del sasso. Una volta fatto ciò, i concorrenti colpivano la trottola fino a che qualcuno non la spaccava o la tirava fuori.

ISPROPRIARE

Il gioco di solito si svolgeva in un terreno morbido, i giocatori facevano un cerchio sul terreno e Io dividevano in parti uguali. Si doveva essere muniti di un coltello o di qualcosa di simile e si lanciava nel campo avversario Se questo rimaneva infilzato nel terreno, l'avversario dovevo cedere un pezzo del suo terreno al vincitore,che aveva diritto a un altro tiro.

SERATTU, SERATTU

"Serattu, serattu in domo de su attu, in domo de su mere serattu mi chere". Si giocava nei pilastri della piazza di San Nicolò, il gioco consisteva nel rubare il posto l'uno all'altro. Si giocava in cinque con uno che rimaneva fuori e doveva riuscire a prendere il posto agli avversari mentre questi ultimi se li scambiavano a vicenda.

SA TURRE
Era un gioco pericoloso nel quale si richiedeva una certa disponibilità di forza fisica. Il gioco si svolgeva così: i giocatori potevano essere un minimo di 21 , o quanti se ne voleva.. Per primi si disponevano in piedi i ragazzi più robusti, e sopra di questi (sempre in piedi) se ne disponevano altri sempre in numero minore fino a rimanerne uno. Si doveva rimanere così per più tempo, fino a quando qualcuno cedeva.

SEDDA MURRA

Questo gioco, come del resto tutti gli altri, si svolgeva durante le feste popolari, in campagna. Si giocava in otto ragazzi divisi in due squadre di quattro ognuna. Dopo il sorteggio una delle due squadre si metteva a "Sedda", cioè gli uni abbracciati agli altri con le teste unite insieme, il più possibile con la schiena inclinata verso avanti. L'altra squadra mandava un suo giocatore a saltare in groppa a un avversario; prima di saltare però pronunciava questa frase, "Sedda murra..." e aggiungeva il nome dell'avversario sopra il quale doveva saltare. Dopo che tutti i compagni saltavano senza sbagliare, si rincominciava allo stesso modo e sempre con la stessa squadra. Ma attenzione! perché una volta che il giocatore saltava a sedda, doveva riscenderne aggrappandosi alle gambe degli avversari, facendo una semi-capriola, senza però mollare le mani dalle gambe avversarie.

LUNA MONTA

Questo gioco consisteva nel saltare il compagno che stava piegato a terra: se quello che saltava toccava il compagno che stava a terra, allora c'era un cambio. Quello che saltava andava sotto e quello che era sotto andava sopra e così via.
Chi stava sotto aveva la facoltà di abbassarsi o sollevarsi, stando attento a fare in modo che chi saltava cadesse dall'altra parte in determinate posizioni prestabilite (a gambe incrociate, a braccia incrociate, ecc.). Il primo saltatore contava e gli altri ripetevano la stessa sua frase "Luna monta, due monta il bue, tre la figlia del re, quattro particolare, cinque incrociatore, sei in crocetto, sette speronette, otto gigiotto; nove il bue, dieci un piatto di ceci, undici per mezz'ora, dodici tutta l'ora, tredici fazzoletto".

SOS CHILCOS

Un altro gioco divertente era quello de "Sos chilcos". I bambini di solito rubavano dai padri i cerchi delle botti, poi ci agganciavano un ferro e partivano correndo, facendo molto rumore.

SOS CADDOS DE CANNA
Prima nell'antichità i bambini non avendo giochi a disposizione si divertivano a costruirseli da se, come ad es. "sos caddos de canna" che erano canne di un metro circa. Queste venivano messe tra le gambe (come dei cavalli) e si facevano le gare; un altro esempio è il carro costruito con "ferula" a cui venivano attaccati dei buoi fatti con lo stesso materiale.

S' ISCRADIADOLZU
S'iscradiadolzu consisteva nel fare una pista in una discesa ripida: si prendeva la metà di una foglia di fichi d'India, la parte interna molto scivolosa appoggiava in terra e sopra quest'ultima si metteva una tavola di legno o "su seddone", un pezzo di tronco di fico d'India dove i bambini si sedevano e partivano scivolando lungo la discesa. Questo gioco era divertente ma quasi tutte le volte si rompevano i pantaloni e rimanevano "impeddonadoso".

SA FILLlGADA
A questo gioco si poteva giocare solo nel periodo delle castagne, quando appunto si andava a cercare le castagne; si raccoglievano un bel po' di castagne e si mettevano per terra. Ci si faceva il fuoco sopra, quando le castagne erano pronte si spegneva il fuoco e sopra si mettevano delle felci A questo punto ogni concorrente doveva mangiare più castagne possibili tenendo in testa una pietra. Se ad un concorrente cadeva la pietra veniva squalificato.

SAS ISPILLAS
Le bambine giocavano molto a "sas ispillas" (con le spille). Il gioco si svolgeva così: in un cesto molto grande chiamato "pischedda 'e uddire" (che veniva utilizzato per lavare i panni con la lisciva), si mettevano le spille con sopra la crusca; si mischiava il tutto e si dava un po' di crusca a ciascuno Dopo che ognuno toglieva la spilla dalla propria crusca, due concorrenti mettevano le spille su un piano o per terra, e ciascuna, soffiando la propria, cercava di metterle una sopra l'altra, a croce; chi ci riusciva prendeva tutte e due le spille, consegnandone una per continuare il gioco; vinceva chi riusciva a vincere tutte le spille.

SA PUPPIA

Sa "Puppia" era la bambola che allora le bambine, non avendo altri mezzi, si facevano con stracci vecchi.Per fare il corpo (escluse le braccia), si arrotolava uno straccio e, per non srotolarsi, si cuciva. La testa era compresa nel corpo costituito dalla parte superiore un po' arrotolata fissata sempre con cucitura. Gli occhi erano cuciti con filo bianco, il naso che si trovava al centro era un puntino nero, la bocca invece era fatta con del filo rosso e i capelli con fili di grano cuciti. Le braccia erano costituite da un unico straccio arrotolato, cucito a croce sull'altro che fungeva da corpo.

TIRONE

Questo era un gioco di società praticato all'aperto, si tracciava una scacchiera e si tirava con un piede (l'altro era sollevato) un coccio. Se questo si fermavo sul rigo che delimitava una casella, Ia casella successiva diventava proprietà dell'avversario. Il gioco così diventava più difficile poiché al gioco successivo bisognava saltare quella casella.

CUA CUA
Cua cua era un gioco femminile, comune anche fra i ragazzi.Un giocatore si doveva mettere contro il muro con la faccia coperta per non vedere e contava mentre gli altri si nascondevano. Quando finiva di contare diceva "Tres trese chie non este cuadu chi si cuede" e doveva cercare dove gli altri si erano nascosti e, se trovava qualcuno, doveva correre prima dell'avversario per toccare il muro dove prima avevo contato, dicendo "tres trese". Se egli arrivava prima dell'avversario doveva contare questo, se invece arrivava primo l'avversario doveva ricontare il primo.

SU GIOGU 'E SOS OLZOSO
Questo era un gioco che veniva fatto la notte di capodanno per aspettare Io mezzanotte. Veniva fatto per scoprire se due persone si volevano bene. Per svolgere questo gioco serviva: una ciotola d'acqua e due semi d'orzo Con un dito si fa girare l'acqua, si butto l'orzo nell'acqua, di modo che galleggi e giri in mezzo ad un turbine. A ogni seme d'orzo si dà un nome e si lasciano girare per un bel po'. Quando uno dei due si ferma da una parte, se l'altro seme Io raggiunge e si ferma di fianco a lui, queste due persone si vogliono bene, se invece l'altro continua a girare e si ferma dall'altra parte o comunque lontano, le due persone non si vogliono bene.

Tratto da "Scano Montiferro" Ambiente -Storia -Tradizioni"
Raccolta di notizie a cura della Scuola Media (Anno scolastico 1987-1988)

fonte: http://web.tiscali.it/tenoreiscanu/
Il disegno è di Angela Demontis