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sabato 26 marzo 2011

L’archeometria della ceramica


Articolo tratto da: L’Alguer, PERIÒDIC DE CULTURA I INFORMACIÓ - JULIOL-AGOST 2010
E S T U D I - PROJECTE SANTA IMBÈNIA, NOVES DESCOBERTES ARQUEOLÒGIQUES


L’archeometria della ceramica
di Beatrice De Rosa


Sui reperti ceramici rinvenuti nel villaggio, di diversa provenienza, sono state realizzate una serie di analisi archeometriche volte a comprendere l’origine dei manufatti e la loro tecnologia di produzione.
Ritengo che prima della discussione dei risultati ottenuti, sia utile cercare di spiegare la finalità delle analisi scientifiche e la loro utilità attraverso una semplice introduzione sull’interpretazione del dato scientifico in rapporto ed in funzione di quello archeologico.
I manufatti ceramici provenienti da orizzonti culturali estremamente diversi, come sono i materiali ceramici rinvenuti a Sant’Imbenia, pongono con grande determinazione il problema della “ecologia culturale” in cui i reperti furono prodotti prima di arrivare nei contesti di rinvenimento.
Il processo ceramico, com’è ovvio, non è in antico un processo standardizzato, ma vive di momenti di empirismo e di empirismo critico, strettamente legati alla presenza delle materie prime, argille ed argilliti, alla disponibilità di combustibile, all’esperienza del ceramista e dei suoi collaboratori, a varianti legate alla maggiore o minore abilità degli artigiani. Tutti i dati di laboratorio, quindi, non possono essere ricondotti in maniera automatica alle questioni di attribuzione della provenienza, ma debbono essere rivisti alla luce dei
diversi processi ceramici nelle differenti aree di ipotizzata provenienza.
Il problema dei degrassanti, per esempio, va visto alla luce della lavorazione dell’argilla, che di volta in volta può essere più o meno plastica; questo comportava
una specifica ricerca di materia prima ricca di silice, all’interno di una giacitura geologica argillosa, che si differenziava in senso areale e stratigrafico, o,
più semplicemente, di un determinato tipo di argilla che gli artigiani
sapevano plasmare e cuocere con maggiore sicurezza.
L’archeologo deve interpretare i dati di laboratorio alla luce di un portato culturale proprio, che è la storia della tecnologia antica, rileggendoli in base all’ipotesi del processo ceramico che diede origine ai manufatti; solo in tal modo,
il dato di laboratorio sterile in sé, acquisisce dignità archeometrica.
Le conclusioni di questo lavoro sono abbastanza positive. Certamente si è consapevoli del fatto che la ricerca non può considerarsi esaurita, ma piuttosto si
tratta di un punto di partenza per studi successivi, che possano permettere una rapida identificazione delle diverse paste ceramiche qui analizzate.
Sono stati osservati autopticamente circa duecento frammenti ceramici, provenienti sia dalle campagne di scavo del 1990, sia da quella del 2007. All’interno di
questo grande gruppo sono stati selezionati i campioni da sottoporre ad analisi in laboratorio, scelti in base a caratteristiche tipologiche, tecnologiche ed archeometriche considerate interessanti. Ad esempio, si è concentrata
l’attenzione sulle anfore Sant’Imbenia per la loro importanza archeologica e per i
pochi ed a volte contrastanti dati esistenti in letteratura, ma anche per le caratteristiche degli impasti, che all’interno di una stessa tipologia avevano
proprietà diverse, e per gli aspetti tecnologici, soprattutto il modellamento ed il rivestimento, che apparivano differenti o uguali a prescindere dagli impasti,
dalla forma e dalle dimensioni. Un altro esempio è quello della ceramica nuragica; ci
siamo rivolti all’analisi di questo materiale con particolare interesse; il primo motivo è forse “patriottico”, perché si tratta di produzioni che probabilmente
erano state realizzate nel villaggio, o comunque da società indigene ed il loro studio come ulteriore testimonianza della cultura sarda ci ha dato grandi stimoli;
il secondo è legato alla limitatezza di dati archeometrici e tecnologici sulla ceramica nuragica; il terzo è l’altissimo numero di rinvenimenti di questi
manufatti, come è ovvio aspettarsi in un villaggio nuragico; infine volevamo capire ed approfondire caratteristiche ed aspetti che sembrano essere peculiari dei materiali nuragici di Sant’Imbenia, come i rivestimenti e le decorazioni importati
da altre culture realizzati su prodotti nuragici e viceversa.
Per questi motivi, è stato deciso di campionare e studiare anche le materie prime argillose intorno al sito. La scelta delle materie prime è stata fatta seguendo
due criteri differenti: da un lato sono state considerate la vicinanza con il sito archeologico e l’accessibilità dell’area, dall’altro la somiglianza petrografica e
mineralogica che esisteva tra queste e le ceramiche prodotte in antico. Durante le prospezioni in un’area di circa 15 km intorno al sito, distanza che in letteratura
è considerata percorribile e raggiungibile anche a piedi, ipoteticamente più volte in un mese, sono stati campionati tre diversi tipi di materiale proveniente da Porto Ferro (i cui campioni sono chiamati PF), dal Lago di Baratz (LB) e dalla zona
aeroportuale (PS), più il sedimento prelevato nel sito di Sant’Imbenia (SI). PS proviene da un’area che si trova a circa 12 km a sud del sito, sulla Strada
Provinciale 44, all’altezza dello svincolo per Alghero (coordinate 40º36I54.86II N; 8º16I30.70II E); è di colore grigio chiaro, granulometria fine e consistenza sciolta.
LB proviene dal Lago di Baratz, a circa 7 km a nord del sito (coordinate 40º40I46.42II N; 8º13I38.06II E); si tratta di un materiale scuro, quasi marrone,
poco plastico, ricco di inclusi vegetali e con consistenza terrosa.
PF proviene invece da Porto Ferro, a circa 9 Km a nord del sito (coordinate 40º41I36.90II N; 8º11I56.72II E); è una terra argillosa rossa, molto plastica, con
presenza media di inclusi vegetali. Il sedimento SI è molto simile a PS, anche se con una percentuale di inclusi, soprattutto gusci e resti carbonatici, molto più alta. Una volta prelevati sono stati preparati i campioni.Il sedimento SI non è
stato sottoposto a cottura, in quanto non si tratta di materiale argilloso, ma piuttosto di una terra limosa e non permetteva creare campioni crudi compatti.
I campioni sono stati realizzati manualmente, aggiungendo la quantità di acqua necessaria per rendere plastica la massa argillosa ed eliminare l’eccesso d’aria:
per ogni chilogrammo di argilla sono stati aggiunti a PS 150 ml di acqua, a PF 180 ml, ed a LB 140 ml. LB dava l’impressione di essere il meno compatto tra i materiali argillosi preparati.
In seguito, la massa è stata messa in uno stampo di legno di forma prismatica, che è stato previamente bagnato e rivestito internamente di sabbia per evitare che la terra argillosa si attaccasse alle pareti. Dopo 4 giorni, i campioni sono stati
estratti dagli stampi e tagliati, per ottenere una serie di campioni più piccoli, e di forma pressoché cubica. Tutti i campioni sono poi stati lasciati ad asciugare
in laboratorio. L’essiccamento, una delle parti fondamentali all’interno del processo
ceramico, dipende dalle condizioni di temperatura ed umidità presenti nell’ambiente
circostante; la temperatura media era intorno ai 25°C, e l’umidità relativa intorno al 50%; con queste caratteristiche, i campioni si sono asciugati in una settimana, con una diminuzione del loro volume di circa il 3%, aspetto dovuto alla perdita
d’acqua. Una volta essiccati, sono stati cotti in un forno elettrico (Herotec CR-35), con una sorgente di calore fissa. I campioni sono stati riscaldati per
un’ora a 100°C, per eliminare l’eventuale umidità residua presente.
Dopodiché, si è proceduto alla cottura degli stessi. Le temperature scelte sono state comprese tra 700 ed 1000°C, con intervalli di 50°C tra le diverse
temperature, tranne che nel passaggio tra 900 e 1000°C. La scelta di questo range è stata fatta considerando 900 e 1000°C la temperatura ottimale per la cottura delle argille. Bisogna anche considerare che raggiungere temperature più alte era
difficile ed economicamente poco vantaggioso. Una volta raggiunta la temperatura, si aspettava 1 ora prima di spegnere il forno. Infine, i campioni venivano lasciati 24 ore nel forno spento, perché il raffreddamento avvenisse in modo graduale e lento.
Per la cottura dei campioni sono state necessarie da 3 ore e 40 minuti per quelli cotti a 700°C a 5 ore e 10 minuti per quelli a 1000°C. Riguardo ai campioni considerati di produzione locale, il risultato più importante è stata l’individuazione e la caratterizzazione delle materie prime utilizzate scoperte nei pressi del villaggio, dato che ci permette di ipotizzare la produzione locale dei campioni che presentano queste caratteristiche con maggiore sicurezza rispetto a quanto avveniva in passato. Un altro dato rilevante è emerso in seguito alle analisi mineropetrografiche e tecnologiche, che hanno permesso di riscontrare delle
differenze tra i prodotti del Bronzo medio e quelli del primo Ferro. Intanto, nella materia prima impiegata; nelle produzioni più antiche è stato osservato l’uso quasi esclusivo di una materia prima argillosa proveniente probabilmente dalla zona
del Lago di Baratz e di Porto Ferro, caratterizzata da minerali argillosi, da filladi, quarzo e feldspati; dalla fine del Bronzo si usano materiali diversi associati ai precedenti: materie prime argillose con presenza di minerali vulcanici, in quantità e dimensioni spesso costanti, che potrebbero provenire dall’area
di Tottubella o di Olmedo.

È stato possibile vedere un cambiamento nella scelta dei degrassanti utilizzati negli
impasti, che si può definire completo nell’età del Ferro: si passa da prodotti realizzati utilizzando come degrassanti calcite e materiali organici a quelli in cui
si usano minerali e rocce vulcaniche. I campioni più antichi del Bronzo medio- recente sono caratterizzati da impasti con inclusi con addensamento elevato e distribuzione iatale, da una porosità compresa tra il 30 ed il 40%, come conseguenza dell’uso di materiali organici e della calcite, e da impasti friabili. Dalle
analisi al microscopio petrografico è stato osservato che spesso i materiali organici non sono completamente combusti, dato che insieme alla presenza di calcite
ed all’alto indice di birifrangenza delle matrici suggerisce basse temperature di cottura; questo dato è stato confermato anche dalle analisi DRX, che hanno segnalato presenza di calcite, illite e l’assenza di minerali di neoformazione.

Le superfici non sono state lavorate, anche se sono presenti motivi decorativi
incisi o impressi. A partire dal Bronzo finale, osserviamo negli stessi materiali
l’utilizzo di altri degrassanti: inclusi vulcanici (specialmente pomici ed ignimbriti) con caratteristiche di refrattarietà che permettono al manufatto di sopportare gli sbalzi termici senza fratturarsi e di distribuire il calore in modo più omogeneo. I campioni di produzione più recente sono caratterizzati da matrici con inclusi con addensamento medio e distribuzione iatale, da una porosità compresa
tra il 15 ed il 20%, da impasti duri e con fratture nette. Le matrici hanno una birifrangenza molto bassa che, insieme alla presenza di minerali di neoformazione,
suggerisce temperature di cottura superiori ai 900 °C. Le superfici sono state quasi
tutte levigate o hanno una patina e quindi sono poco porose, anche se non mancano alcuni esempi in cui sono state brunite, trattamento che prevedeva aggiunta di argilla liquida al manufatto precedentemente modellato, lisciato e parzialmente
secco per ridurre al minimo la porosità e rendere le superfici lucide e brillanti.
In questo caso, quindi, è stato possibile osservare un cambiamento di tecnologia legato alla funzionalità del vaso, che si manifesta sia nella scelta di materie prime argillose più adatte a sopportare alte temperature di cottura e continui contatti con il fuoco, sia nell’utilizzo di un trattamento superficiale che riducesse al minimo la permeabilità delle superfici.
Accanto a questo aspetto, bisogna anche osservare la perizia raggiunta nella conduzione del fuoco e nella gestione delle temperature nei forni; attraverso
l’osservazione al microscopio polarizzatore e con l’analisi di immagine le superfici, soprattutto quelle brunite, appaiono parzialmente vetrificate, non
porose e molto compatte; questi elementi indicano che i vasai di Sant’Imbenia erano in grado non solo di raggiungere alte temperature, ma anche di mantenerle per il tempo sufficiente a creare una vetrificazione, almeno parziale.
Anche dallo studio delle superfici delle ceramiche nuragiche realizzate nell’Età del Bronzo Finale ed in quella del Ferro abbiamo ricavato dati importanti; i manufatti più recenti di Sant’Imbenia sono infatti quasi tutti caratterizzati da superfici
rosse, con gradazioni che vanno dal rosso mattone al marrone rosso, alcuni ingobbiati, altri con patina, altri ancora semplicemente levigati, cotti durante
l’ultima fase e lasciati a raffreddare in atmosfera ossidante.
Questa caratteristica non si osserva nei manufatti realizzati precedentemente, per cui si potrebbe ipotizzare un’imitazione dei prodotti fenici con red slip
che arrivano a Sant’Imbenia. Le superfici rosse si trovano anche su manufatti che sono di tradizione nuragica, come le ollette, che dalle analisi mineropetrografiche
sappiamo essere state realizzate con argille locali; in alcuni casi le decorazioni sono state realizzate con un alto livello di specializzazione; ad esempio le patine sono molto sottili, perfettamente aderenti al corpo ceramico, brillanti, non porose e
parzialmente vetrificate. Con il tempo, la perizia dei vasai di Sant’Imbenia raggiunge altissimi livelli, e le differenze macroscopiche tra un prodotto fenicio
ed uno locale si percepiscono sempre meno. Riguardo all’individuazione delle
cave, dei tre materiali argillosi campionati nei pressi del sito, è stato osservato che due potrebbero effettivamente essere stati utilizzati dagli abitanti di
Sant’Imbenia, specificatamente quelli provenienti dal Lago di Baratz e da Porto Ferro; il terzo, proveniente dalla zona aeroportuale non ha presentato caratteristiche adatte alla cottura ed alla lavorazione, per gli alti valori di
calcite, né compatibilità mineralogica con i campioni archeologici. I risultati che sono stati ottenuti grazie alle analisi mineropetrografiche sulle anfore Sant’Imbenia
hanno permesso di individuare un gruppo consistente di prodotti realizzati localmente; la presenza delle filladi ha reso possibile l’attribuzione degli impasti
all’area di Porto Conte e quella dei minerali e delle rocce vulcaniche trova corrispondenza nelle vicine aree di Tottubella ed Olmedo. Non sembra quindi
necessaria una loro attribuzione all’area tirrenica dell’Italia solo per la presenza di tali degrassanti, come avveniva precedentemente.
Sarebbe ora molto interessante e produttivo analizzare gli impasti di altre anfore Sant’Imbenia che si trovano in siti della Sardegna e del Mediterraneo, per individuarne le aree di provenienza e ricostruirne eventualmente il percorso.
Riguardo al materiale allogeno, le importazioni greche sono divisibili in prodotti euboici e pithecusani. Il dato ci parla quindi con maggiore sicurezza delle
relazioni che esistevano tra la Grecia ed il mondo occidentale, anche se i modi ed i vettori di questo contatto non sono ancora completamente chiari.
Il materiale fenicio è stato diviso in tre gruppi: uno di produzione nord-africana, che costituisce il lotto numericamente maggiore delle importazioni; accanto a
questo, però, si sottolinea la presenza di circa il 30% di campioni che si possono ritenere di produzione sulcitana. Questo risultato conferma l’esistenza dei contatti
esistenti tra centri anche distanti nell’isola e nello stesso tempo il ruolo predominante che Sulcis assunse in breve tempo nel circuito della produzione e circolazione dei beni. L’ultimo gruppo di ceramiche si ritiene di produzione orientale, soprattutto per il dato archeologico, in quanto i dati archeometrici sulle argille sono ancora pochi e di non semplice reperimento.

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