Archeologia della Sardegna. Ritrovata la città fantasma di Gemellas
Articolo di Bartolomeo Porcheddu
«Monti, mari e fiumi attraverserò, dentro la tua terra mi ritroverai» sono le prime due strofe della canzone “Meravigliosa creatura” di Gianna Nannini, che invitano alla persistenza nella ricerca, perché, prima o poi, alla fine, “se sei nella mia terra, ti ritroverò”. Chi conosce il proprio territorio non può perdersi, né qualche estraneo può pensare di nascondersi senza essere visto. La nostra Madre Terra ci ha insegnato che possiamo sopravvivere dei suoi frutti, per resistere anche contro chi vorrebbe conquistarla. Coloro che hanno il controllo del territorio, per quanto piccolo possa essere, hanno un
punto di riferimento preciso da cui partire per misurare il Mondo.Nell’Itinerario Antonino (in latino: Itinerarium Provinciarum Antonini Augusti), una grande cartina
stradale dell’Impero romano (fine III e inizi del IV secolo dopo Cristo), in
cui sono indicate le distanze tra una località o stazione di sosta e un’altra,
per quanto concerne la Sardegna, una delle strade principali partiva da Tibula
e giungeva a Carali ed era chiamata in latino A Tybulas Caralis, vale a dire
“Da Tibula a Carali”. La località di Tybula è anche indicata nel II secolo dopo
Cristo dal Geografo e astronomo Claudio Tolomeo, che nella sua Geografia la
colloca nella Costa settentrionale, ma, secondo un’ipotesi di misurazione
terrestre, risulterebbe sita lungo la valle del Coghinas, dove effettivamente
si trova la cittadina di Tula.
Pertanto, la voce Tu[b]ula, in cui nel logudorese si sincopa
la consonante /b/ intervocalica in sillaba atona, diventa Tula, la città che
aveva il suo porto sulla foce del Coghinas, nel punto in cui oggi sorge la
chiesetta di San Pietro a Mare in Valledoria (in sardo: Codaruina). Il fiume
Coghinas, oggi chiuso da due sbarramenti nelle dighe di Casteldoria e Coghinas,
è ancora per diversi tratti navigabile, ma in antichità, molto probabilmente,
congiungeva con piccole imbarcazioni la città di Tula al suo porto. La strada
terrestre costeggia ancora per buona parte il fiume e transita ad Erula, dove
nella frazione di Sa Mela è stato rinvenuto un miliario della strada romana.
Nell’Itinerario Antonino sono indicati tre percorsi che
collegano il Nord Sardegna con il Cagliaritano: il primo è la via costiera che
parte dal Porto di Tybula (Valledoria – Codaruina) e segue la costa
Nord-Orientale fino alla Capitale; il secondo mette in contatto il Porto di
Tybula e, per compendium (via più
breve) anche Olbia, transitando lungo la costa Nord-Occidentale dell’Isola fino
a Sulcis (Sant’Antioco), e da qui fino a Cagliari; la terza via, invece, ha la
sua prima stazione di partenza non nel Porto, ma nella città di Tybula, quindi
inizia il cammino verso Cagliari da Tula e, verosimilmente, dalla sua grande
muraglia megalitica de “Sa Mandra Manna”, centro astronomico dell’antichità in
cui si misuravano il tempo e lo spazio.
In quest’ultimo e terzo tracciato, dopo Tybula (Tula), a XXV
miglia (circa 37 km), la prima stazione di sosta indicata dall’Itinerario è Gemellas,
che in sardo e in latino significa “doppia, in coppia, simile, uguale”. Se si
tiene in considerazione il fatto che in altri tempi le strade seguivano la
mezza costa e non la pianura per non impantanarsi nelle giornate di pioggia;
misurando anche i diversi tornanti che seguivano la morfologia del terreno e
che oggi sono spazzati via dalle ruspe; seguendo l’attuale Strada Provinciale
n. 103, che si collega alla Strada Provinciale n. 67, si giunge direttamente
alla chiesa di Sant’Antioco di Bisarcio.
La grande struttura romanica di questo luogo di culto coglie
impreparato il visitatore, in quanto si tratta di una cattedrale in mezzo alla
campagna. Ma, ovviamente, non bisogna guardare questa chiesa con gli occhi di
oggi, ma con le fonti del suo passato. La chiesa di Bisarcio è stata nel
Medioevo sede di Diocesi ed è documentata dal 1065. In quel tempo coronava un
centro piuttosto popolato di cui oggi rimangono pochi resti. Le motivazioni che
subito dopo il Mille avevano spinto le gerarchie ecclesiastiche a istituire
luoghi di culto così importanti erano dovute principalmente al fatto che in
detti territori persistevano tradizioni pagane che, radicate nella società dai
primordi, dovevano essere cristianizzate.
La cattedrale è stata dedicata a Sant’Antioco, ma il suo
toponimo è rimasto legato al territorio e viene riportato in latino con la
denominazione di Bisarcium. Tale
lemma è composto dall’avverbio Bis,
che significa “due volte, in due occasioni, in doppio modo” e dal sostantivo Arcium, che, declinato al genitivo
plurale, vuol dire “degli archi”. In altre parole, la località era
caratterizzata da “due Archi”, probabilmente di ingresso alla città, simili,
quindi gemelli, da cui il nome Gemellas riportato nell’Itinerario Antonino.
Esempi di archi gemelli si riscontrano in altre città, come ad esempio a Roma
nella antica Porta Appia, chiamata anche “Porta ad Archi Gemelli”. Ancora oggi,
la facciata della cattedrale di Bisarcio presenta due arcate gemelle poste ai
lati dell’ingresso principale (vedi foto).
La successiva fermata dopo Gemellas in direzione di Cagliari
è indicata dall’Itinerario Antonino con il nome di Lugudunec, equidistante XXV
miglia, esattamente come la precedente tappa tra Gemellas e Tula. Se si tiene
presente il dato che la consonante /G/ è stata introdotta nell’alfabeto latino
solo nel 230 a.C. per sopperire alla mancanza del Gamma greco, si desume che in
precedenza sia stata sostituita dalla consonante /C/. Per cui, Luguidu o
Luquidu o Lucuidu sono lo stesso termine scritto in modo diverso. Lucuidu in
antichità era il porto e la città di Posada, ma, tra le altre, anche la città
di Lione nella Gallia Transalpina, posta nel territorio dei Lugudunensis.
La radice “Lucu” del toponimo Lucu-idu, presente in diversi
luoghi, indicava in antichità il Bosco Sacro, che traduceva genericamente Locu
de Luche Idu (Luogo di Luce Lunare). Il Monte su cui sarebbe situato il Bosco
Sacro, posto ad una distanza di 37 Km da Gemellas, doveva trovarsi
verosimilmente nei pressi di Bonnannaro. Tale località è famosa per i suoi
preziosi rinvenimenti archeologici che hanno dato vita all’omonima Cultura,
datata 1800 -1600 a.C. circa. In questo luogo, dove Santo è detto il Monte di
Siligo, propaggine della catena del Monte Pelao, nel cui costone è poggiato il
centro di Borutta, i Monaci Benedettini costruirono un’altra grande cattedrale,
stavolta dedicata a San Pietro, e istituirono la Diocesi di Sorres intorno la
XII secolo.
Anche qui insistevano molto probabilmente ancora nel
Medioevo culti antichissimi. Il toponimo di Sorres si rifà alla divinità
precristiana di Sorra che in Sardegna troviamo sia nel Monte Sorradile (OR) sia
nel Monte di Bidda Sorris (Villasor, CA), nonché, fuori della Sardegna, presso
il Monte Sor[r]ate, alla periferia di Roma, anch’esso considerato in antichità
un Lucus sacro. Tali montagne, in molti casi, assumevano una particolare
caratteristica toponomastica. Ad esempio, il monte di Bunnannaru era
l’equivalente del Bunnari sassarese, che era similare a Gunnare o Gonare nel
Nuorese, che a sua volta trovava il corrispondente nel Gunnari in Ogliastra e
nei Gonnos (Gonnosfanadiga, Gonnoscodina, Gonnosnò, ecc.) meridionali
dell’Isola.
Il tratto della strada Tybulas - Caralis, dopo Lugudunec,
proseguiva per Hafa, quindi per Molaria, Ad Medias, Foro Traiani, Othoca e
Aquis Neapolitanis, prima di giungere a Carali. Tutte le stazioni di sosta sono
posizionate più o meno alla stessa distanza (ad eccezione delle ultime due che
viaggiano in pianura o bassa collina). Nel caso in cui, per ipotesi, come dai
più eminenti studiosi prospettata, la strada avesse avuto il suo inizio dal
porto di Tybula (considerato dagli stessi storici sito presso Castelsardo e non
a Valledoria), anziché dalla città di Tula, le successive località
risulterebbero sfasate per l’eccessiva lunghezza del tracciato rispetto alle
miglia indicate nell’Itinerario (vedi cartina) e pertanto non rispondenti alla
realtà.
Per il momento, il mio viaggio negli antichi percorsi
dell’Isola di Sardegna finisce qui. Sappiate però che “turbini e tempeste, io
cavalcherò” per ritrovare ciò che la mia terra ancora custodisce.
PS. L’articolo con i riferimenti bibliografici è pubblicato
su academia.edu e può essere scaricato dal sito internet
https://www.bartolomeoporcheddu.it
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