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venerdì 1 settembre 2017

Archeologia. L'Impero Ottomano, eredità dell'Impero Bizantino, un califfato che trasformò un baluardo cristiano in terra islamica, cancellando di fatto l'impronta Occidentale. Riflessioni di Matteo Riccò

Archeologia. L'Impero Ottomano, eredità dell'Impero Bizantino, un califfato che trasformò un baluardo cristiano in terra islamica, cancellando di fatto l'impronta Occidentale.
Riflessioni di Matteo Riccò 

Dopo essere stata un vero e proprio bastione dell’Occidente per quasi due millenni, nel secolo che separa la battaglia di Manzikert (agosto 1071) e la morte di Manuele Komnenos (settembre 1180), l’Anatolia si trasformerà nella propaggine più occidentale dell’Asia, nonché la base etnica, culturale, demografica e politica di una superpotenza islamica - l’Impero Ottomano. Nel giro di altri cent’anni, dell’impronta occidentale - greca, romana e bizantina, di fatto non resterà praticamente più nulla, così che l’antica Provincia Romana d’Asia si trasformerà nella Turchia, nuova patria di una popolazione lì migrata dalle pendici del monte Altaj, in piena Asia Centrale.
A rendere ancor più sorprendente questa transizione, due fatti ancor più sorprendenti.
Prima di tutto, il più evidente: non ci fu una vera e propria transizione demografica. A differenza di quanto accaduto in Siria, in Nord Africa e in misura minore nell’area iranica al tempo della fondazione del Califfato, non fu una massiccia immigrazione a cambiare le carte in tavola. Questa in effetti ci sarà, ma a giochi già fatti, scatenata dall’invasione mongola dell’Asia centrale e dalla
conseguente dissoluzione dei potentati turchi, che sarà seguita dalla migrazione verso l’Anatolia, ormai Turchia, di popolazioni turche ed assimilate. Parliamo però della prima metà del XIII secolo. Ancora oggi, sebbene caratteri etnici e più intimamente genetici, siano presenti nelle popolazioni della Repubblica di Turchia, l’affinità con le popolazioni elleniche della madrepatria e dell’Italia meridionale è più stretta di quanto i diretti interessati spesso e volentieri vorrebbero ammettere.
Secondariamente, ed in un certo senso corollario a quanto si diceva sopra, l’occupazione turca della Provincia Romana d’Asia non fu accompagnata da conversioni forzate e atrocità sistematiche in caso di resistenza a queste ultime. Intendiamoci bene: i Turchi non conquistarono l’Anatolia stringendo mani e baciando bambini, ma - al netto delle esagerazioni dei superstiti cronachisti bizantini, il vero e proprio terrorismo poi praticato dai Sultani ottomani sui martiri di Otranto, nei Balcani, nella stessa Grecia, in occasione della conquista di Costantinopoli, non fa parte della cronaca storica della conquista dell’Anatolia e della sua trasformazione in Turchia.
Di questo non dobbiamo stupirci troppo, per varie ragioni. Di fatto, fino all’avvento di Tamerlano (1336 - 1405), anche i ferocissimi ottomani conserveranno nei confronti dei c.d. Popoli del Libro un atteggiamento decisamente moderato. Di fatto, solo con la sconfitta di Bayezid ad opera di Tamerlano (Ankara, 1402), i Turchi cambieranno in modo decisivo la propria “policy” nei confronti delle altre religioni, abbinando al sistema di diritti crescenti che poneva i pagani all’ultimo posto ed i musulmani sunniti al vertice anche l’effettiva promozione - e talora più che forzata, dell’Islam nei popoli sottomessi. E quindi, ancora una volta, stiamo parlando di eventi che seguono la transizione dell’Anatolia. In effetti, quando i Turchi entrano in Anatolia essi fanno nominalmente parte dell’Islam sunnita - che anzi, hanno letteralmente salvato dall’annientamento ad opera dell’Islam sciita in occasione dell’occupazione di Baghdad da parte della dinastia sciita dei Buyid, iranici - ma lo status della loro ortodossia è abbastanza incerto.
Se è vero che gli Ottomani innalzeranno su Costantinopoli la bandiera dell’Islam, trasformando la fortezza cristiana in una capitale musulmana, è altrettanto vero che essi - per molti versi, raccolsero semplicemente quanto seminato dai loro più illustri predecessori, i Sultani di Konye, cioè i Selgiuchidi.
Andiamo con ordine, senza pretesa di essere esaustivi (anche perché le vicende interne al nominalmente monolitico Califfato durante il medioevo occidentale sono più intricate delle beghe di palazzo dei Merovingi…). Con i primi anni dell’XI secolo, una branca dei Turchi occidentali, precedentemente “vassalli” (scusate il termine inappropriato, ma per capirsi...) dei Kazari, la dinastia ebraica che regnava sull’Asia Centrale, migra verso l’altopiano iranico e si converte all’Islam: si tratta dei turchi Selgiuchidi, da Seljuk, l’eponimo condottiero di questa prima fase della loro storia. Sotto la guida di Tughril, nipote del citato Seljuk, essi si misero prima al servizio dei Samanidi (una dinastia iranica che aveva costituito una base di potere nell’altopiano iranico), quindi dei loro rivali Ghaznavidi non appena questi ultimi ebbero preso il sopravvento. Poi, in una seconda fase, fra 1040 e 1050 circa, sempre sotto la guida di Tughril, i Selgiuchidi pensarono bene di disfarsi dei Ghaznavidi, costituendo un impero corrispondente (grossomodo) all’antico Iran-e Bozorg, o Grande Iran.
E’ a questo punto che entra in gioco il Califfo - anzi: entrano in gioco i Califfi, al plurale.
Come si diceva prima, il mondo islamico è sempre stato molto meno monolitico e compatto di quanto i nostri libri di storia amino raccontare. Di fatto, sebbene il Califfato sopravviva - come istituzione, fino alla conquista mongola, la sua esistenza come reale organismo statale funzionante aveva cessato di essere dal 900 d.C. circa, frantumandosi in una miriade di principati (o emirati) - periodo che corrisponde alla resurrezione di Bisanzio, risollevatasi dalla folle guerra civile sulle immagini sacre sotto la guida della Dinastia Macedone, e che sotto Basilio II il Distruttore dei Bulgari era realmente arrivata ad un passo dal riprendersi tutta la Siria e forse lo stesso Egitto. A complicare le cose, in quello stesso periodo, esistono DUE califfati, uno di tradizione sciita al Cairo, in Egitto - l’altro di tradizione sunnita, a Baghdad. In vicende per molti versi simili alle guerre di religione europea, i territori cui i due califfi fanno capo non sono propriamente monolitici, ed il risultato è una serie pressoché infinita di guerre fra emirati sciiti e sunniti.
Fino, appunto, al 1055.
Nel 945, i Buyid avevano catturato Baghdad, teoricamente il centro del mondo sunnita, istituendo un proprio potentato fra Iraq e basso Iran: inizialmente, il Califfo sunnita restò al suo posto, ma nel 1055 i Buyid decisero di scacciare il Califfo sunnita (l’imbelle Al-Qa’im), innalzando la bandiera del Califfo sciita del Cairo, il cui nome veniva ora chiamato dai muezzin alla preghiera. Per capirci meglio, immaginatevi il Papa di Roma che dice la messa di Natale a San Basilio o, al contrario, il Patriarca di Mosca che celebra il Venerdì Santo sotto il baldacchino bronzeo del Bernini.
Un affronto da lavare nel sangue - e non solo metaforicamente viste le abitudini del tempo ...
Quasi inaspettatamente, Tughril venne a tirar fuori Al-Qa’im dai guai. Tughril stava conducendo delle spedizioni militari in Siria e Medio Oriente (nominalmente per depredare gli infedeli Cristiani, in realtà per sfruttare la debolezza del Califfato e quindi aggiungere i relativi emirati al proprio dominio orientale) e, trovandosi in geografica prossimità con l’Arabia, chiese ai due Califfi un salvacondotto per la Mecca al fine di compiere il pellegrinaggio rituale (l'hajji).
Per comprensibili ragioni di facciata, sia il Califfo del Cairo che quello di Baghdad (temporaneamente esiliato) furono costretti a dare il via libera: Tughril, accompagnato dal suo esercito, posticipò l’hajji a data da destinarsi ed occupò Baghdad, scacciando gli sciiti e rimettendo Al-Qa’im al suo posto. Il quale, per altro, fu costretto a sposare la nipote dello stesso Tughril, e a riconoscere il condottiero turco quale nuovo sultano.
I turchi, accolti come salvatori dalla popolazione sunnita, diventarono rapidamente degli sgraditi occupanti. Come già detto prima, e scusatemi se sono e sarò ridondante, i Selgiuchidi erano solo nominalmente sunniti: la conversione di Seljuk e dei suoi seguaci non era stata opera di musulmani “mainstream”, ma dei mistici sufi, i quali predicavano una versione dell’Islam ai limiti (o forse oltre i limiti…) di ciò che i successori del profeta avrebbero chiamato “ortodossia”. Per fare un esempio clamoroso, Jalāl ad-Dīn Muhammad Rūmī (o più semplicemente Rumi) che sarà il più celebre dei mistici Sufi, in quanto anche e soprattutto un eccezionale poeta, dedicherà al vino (sì, al vino, inteso quale strumento di elevazione mistica… vale la pena di ricordare che proprio a causa dell'ebrezza provocata dalle bevande fermentate esso sarebbe vietato dal Corano) quartine di eccezionale bellezza, e sostanzialmente arriverà ad affermare che sì, Maometto è stato l’ultimo profeta, ma che Dio non si permetterebbe mai di lasciare a sé stessi gli Ebrei, i Cristiani, e sì anche gli Zoroastriani - che, vale la pena ricordare anche questo, NON sono Popoli del Libro e come tali sarebbero in teoria privi delle relative tutele coraniche ed equivalenti ai Pagani …, insomma: che siamo tutti Figli di Dio, e così via. A confronto, l'ecumenismo di Papa Francesco parrebbe quasi timido.
C’era poi un ulteriore problema: i Selgiuchidi, in questa fase, sono ancora nomadi. Quando Tughril andava alla guerra, il suo esercito non era composto solo dai combattenti, ma anche dalle loro famiglie.
Mettete insieme questi due fattori e capirete l’impatto devastante, in termini di ordine civile, che potesse avere l'occupazione militare turca della Mesopotamia.
A questo si univano problemi logistici, stavolta dei Turchi. L’armata selgiuchide era formata da soldati a cavallo, e i terreni mesopotamici sono poveri di sostanze nutritizie in grado di sostenere una grande armata a cavallo, in particolare di Selenio. Fa eccezione solo l’area a sud di Baghdad, la cosiddetta “al Jazheera”, dove il terreno è più ricco di sali minerali consente alle ossa dei cavalli di diventare abbastanza robuste da reggere il peso di un soldato in armatura. L’area a disposizione era comunque troppo piccola per le esigenze dell’esercito selgiuchide: dovendo mantenere una pressione politica sul Califfo, Tughril fu costretto a cercare delle alternative in prossimità della Mesopotamia, ma le scelte erano veramente poche. L’Iran, disgraziato per gli agricoltori ma ottimo per l’allevamento dei cavalli, era troppo lontano; la Siria troppo povera di nutrimento per gli animali; l’Azerbaijan ugualmente troppo lontano. L’alta Mesopotamia e le propaggini più orientali dell’Anatolia apparivano, invece, ideali.
In quegli anni, i Turchi inizieranno quindi ad infiltrare l’Anatolia orientale, ma inizialmente senza puntare alla vera e propria occupazione di tutta la penisola.
Accadde però una cosa inattesa: i Bizantini, che teoricamente avevano nell’Anatolia non soltanto un possedimento, ma il cuore pulsante dell’Impero, non reagirono. O peggio ancora, quando reagirono lo fecero tanto maldestramente da provocare il disastro.
Ciò accadde per due ragioni.
Prima di tutto, alla morte di Basilio II, l’Impero era caduto nelle mani di alcuni fra i più incapaci sovrani della storia bizantina: il distruttore dei Turchi, la quintessenziale virilità militare nella mitologia greca medievale, era infatti (a quanto pare) omosessuale, e molto meno propenso ad anteporre la ragion di stato ai propri gusti di quanto non fosse stato l’omonimo (anch’egli apparentemente omosessuale) fondatore della casata, Basilio I (che ricordiamolo fosse diventato imperatore dopo aver ucciso di propria mano il suo amante, Michele III detto l'Ubriacone).
Alla sua morte, gli erano quindi succeduti prima il fratello minore Costantino VIII (le cui principali virtù pare fossero il reggere le sbornie come nessun altro, ed essere un abile cacciatore) quindi, essendo lo stesso Costantino senza figli maschi, le figlie Zoe e Teodora. Le quali, a loro volta, non ebbero alcuna discendenza. Per dare un'idea del livello di sprovvedutezza di Costantino, dopo aver promesso prima l’una poi l’altra all’Imperatore Ottone III (mossa che di fatto avrebbe rappresentato una sorta di restauratio imperii fuori tempo massimo), all'improvvisa morte di quest’ultimo, il principe bizantino alla conclusione che nessuno in circolazione fosse degno della propria stirpe, e le chiuse nel gineceo del Grande Palazzo, la sede della corte imperiale, assicuratosi che la terza figlia facesse lo stesso in un monastero. Quando si rese conto dell’autogoal, Zoe aveva più di quarant’anni, Teodora poco meno (o poco più).
Poiché Zoe era ancora fertile, fu data in sposa a Romano Argiro con la speranza che una gravidanza, per quanto tardiva, permettesse la sopravvivenza della dinastia. Romano Argiro divenne imperatore con il nome di Romano III tre giorni dopo il matrimonio per l’improvvisa morte di Costantino (15 novembre 1028). Romano III, il cui principale merito da civile era stato dimostrarsi un ottimo giudice delle competizioni circensi, avrebbe voluto passare alla storia come un “imperatore filosofo”: delle sue competenze filosofiche sappiamo poco, mentre è certo fosse un disastroso generale. Nel 1030, quindi in piena guerra civile interna al Califfato, riuscì a farsi sconfiggere nei pressi di Antiochia da un esercito musulmano numericamente inferiore e molto peggio armato. Romano morirà nel 1034, e alla sua morte Zoe si risposerà altre quattro volte (ricordiamoci che secondo la tradizione ortodossa del tempo, fossero possibili non più di due matrimoni, ulteriore elemento di destabilizzazione imperiale), con partner sempre più giovani e sempre più incapaci, fra i quali Costantino Monomaco (il putativo primo padrone della Corona Imperiale Russa, il c.d. Copricapo di Monomach’, ma anche uno dei più disastrosi sovrani della storia bizantina) e Michele di Paflagonia.
Il disastro del 1030 fu apparentemente mitigato dalla presa di Edessa da parte di Iorghios Maniakes, nel 1032 (circostanza alla quale si deve il ritorno in mani cristiane della Sindone di Torino), ma questo successo innescò una nuova guerra civile di bassa intensità: da una parte, i militari che vedevano la debolezza degli arabi e chiedevano a gran voce l’incremento delle spese militari per completare l’occupazione della Siria, riconquistare Gerusalemme e puntare, occupando il Sinai, all’interruzione della continuità territoriale dei territori musulmani. Dall’altra, l’aristocrazia costantinopolitana che, messi al sicuro i confini balcanici da Basilio II, esigeva la fine della secolare “austerity militare” intrapresa dai Macedoni.
Questa guerra civile si concluse, proprio sotto il regno di Costantino Monomaco, con la vittoria dei nobili di Costantinopoli (in gran parte discendenti dell'antica aristocrazia senatoria romana), la cui presa di potere si accompagnerà alla sostanziale decapitazione dell’esercito, allo smantellamento del sistema feudale anatolico, ed alla transizione delle armate bizantine da una forza territoriale, ben addestrata e soprattutto ben motivata in quanto composta da un vertice professionale e una base di contadini-soldati, a forze mercenarie.
E quali erano i principali fornitori di mercenari del tempo?
I Turchi - non necessariamente musulmani, ma comunque Turchi.
Risultato: i Selgiuchidi penetrarono in questo dissesto come un coltello caldo nel burro. Iniziarono ad infiltrare l’Anatolia, inizialmente con scorrerie, e poi - quando si resero conto che l’altopiano centro-orientale fosse perfetto per l’allevamento dei cavalli ed il mantenimento di una corposa cavalleria, occupandola militarmente.
Con la morte di Zoe, il trono di Bisanzio fu oggetto di contesa fra alcune delle più potenti famiglie imperiali, alcune di antica ascendenza Romana come i Comneni, i Doukas ed i Diogene: sia Alessio Comneno che Romano Diogene avevano in realtà perfetta comprensione del rischio che si stava concretizzando in Anatolia orientale, e quest’ultimo nel 1071 decise di espellere i Turchi una volta per sempre.
Il risultato fu l’assemblamento di una colossale forza mercenaria di circa 40,000 uomini che diede battaglia alle forze di Alp Arslan a Manzikert. Battaglia che Romano fu sul punto di vincere - non fosse che, nel momento decisivo, un attimo prima di completare un brillante accerchiamento, i mercenari turchi defezionarono e sparsero la voce che Romano fosse morto, mandando nel panico i bizantini. Romano fu catturato, accecato, e rinchiuso in un monastero, e di fatto da quel momento i Turchi diventarono padroni di tutto l’altopiano anatolico, riorganizzato nel sultanato di Rûm, stabilendo dal 1072 la propria sede nell’antica città di Iconio, l’odierna Konye.
Tornando al punto di partenza, ecco quindi il primo punto della trasformazione dell’Anatolia in Turchia. Ovvero, la conquista militare.
Già in passato tuttavia l’Anatolia era caduta in mano musulmana, per essere progressivamente riconquistata dai Bizantini.
A differenza degli Arabi, i Turchi fecero però alcune cose particolarmente lungimiranti.
Una in particolare: i sultani capirono che azioni di terrorismo contro la popolazione civile avrebbe avuto, come unico risultato concreto, quello di instillare l’odio nei confronti dei nuovi dominatori. Di questi eventi rimane un perfetto ricordo nel capolavoro letterario bizantino del medioevo, Il Digenis Akritas, che sarà fissato in epoca paleologa, ma riflette il tempo in cui la frontiera bizantina oscillava fra Anatolia e Tigri (ed appunto tramanda questa resilienza nella personale storia del protagonista, figlio di un principe arabo e di una cristiana, ma poi pervicacemente cristiano anche e soprattutto in reazione alle violenze degli invasori).
Essi focalizzarono le proprie iniziative militari, inizialmente solo come razzie, contro obiettivi precisi, che in passato erano stati maggiormente risparmiati: le strutture religiose, ed in particolare i monasteri. La nuova policy era molto lungimirante: durante il medioevo greco, i monasteri erano diventati uno strumento di controllo del territorio, rappresentando polo geografico di riferimento delle popolazioni contadine.
Attaccare i monasteri significava cogliere delle prede potenzialmente ricche, relativamente facili, scatenando un effetto a cascata di indebolimento delle tradizioni cristiane sul territorio agricolo. A corollario di questa nuova politica valligiana, limitarono le attività violente contro i civili, focalizzandole sui religiosi cittadini, con lo scopo preciso di rendere loro la vita impossibile.
Questo rappresenta un fortissimo distacco dal comportamento tenuto da altri conquistatori musulmani, che anzi avevano l’abitudine di usare i referenti religiosi dei popoli conquistati come interlocutori obbligati nei confronti dei sottomessi (spesso volutamente tenuti nella bambagia per sovvertire, nel frattempo, la struttura laica precedente la conquista), un distacco possibile in un contesto eterodosso come quello turco, e che diede rapidamente i suoi frutti. Dopo i primi anni, in cui i vescovi bizantini, abituati a vivere nel lusso, si videro tartassati dalla marmaglia urbana più o meno indisturbati, il Patriarca di Costantinopoli accettò che i nuovi vescovi esercitassero la propria attività in absentia. Per esempio: abbiamo fino al 1200 e oltre vescovi di Iconio, con il piccolo dettaglio che dal 1100 in poi ad Iconio non c’è nessun vescovo, che invece celebra messa ... a Costantinopoli o Tessalonica.
Spariti i monasteri, annientato il clero urbano, gli abitanti dell’Anatolia iniziarono ad interagire sempre più frequentemente con mistici erranti sufi, che quindi opereranno come versione musulmana dei francescani europei o dei monaci buddhisti del Celeste Impero, diffondendo il nuovo Culto fra i più umili e poveri.
Il semplice monoteismo da questi praticato, così distante dalle raffinate complicazioni trinitarie bizantine, era già di per sé più “potabile” per i contadini anatolici. La tolleranza del sufismo nei confronti delle tradizioni popolari sciamaniche o parasciamaniche, invece piuttosto invise alla tradizione cristiana, fece il resto: accettando l’Islam sunnita ad un livello che non andava oltre la facciata, le popolazioni anatoliche poterono continuare - nei fatti, fino ai nostri giorni, le più antiche tradizioni locali, risalenti ai primordi hurriti ed ittiti. Aprendo l’ennesima parentesi di questo racconto, qui si può capire, probabilmente, perché l’evangelizzazione dei Russi fu un successo e Mosca diventerà la figlia prediletta di Bisanzio, mentre quella delle popolazioni turaniche, tentata già da duecento anni ed intrapresa prima che queste entrassero in contatto con l’Islam, si rivelò una catastrofe per tutta la Cristianità orientale. Mentre i missionari ortodossi di Costantinopoli esigevano l’abbandono delle tradizioni nomadiche come il culto dei morti, i riti legati alla fecondità, etc., tenacemente integrati nell’identificazione etnica dei popoli turanici e slavi, i missionari ortodossi bulgari e quelli cattolici attivi con i magiari negli stessi anni usavano le stesse armi dei mistici sufi: esigendo un battesimo di facciata e permettendo la sopravvivenza delle tradizioni contadine, senza osteggiarle più di tanto (anzi, spesso compartecipando ad esse).
Su questo terreno accuratamente fertilizzato, i sultani di Konye seminarono due ulteriori fattori. Primo fra tutti, il cambiamento della geografia umana dell’Anatolia.
I Selgiuchidi non si limitarono a distruggere i monasteri, ma li sostituirono con moschee, ospedali e madrasse, spesso e volentieri in complessi integrati: diedero quindi alle popolazioni contadine dei precisi punti di riferimento alternativi, che per di più partecipavano alla diffusione dell’Islam e al tempo stesso davano sollievo pratico (tramite appunto le strutture ospedaliere) ai bisognosi ed agli indigenti in quello che era un circolo virtuoso (o vizioso, per i Bizantini). Strutture che, attenzione, non erano riservate ai soli musulmani, servendo come veri e propri strumenti di conversione della popolazione.
A queste strutture, i Selgiuchidi aggiunsero l’affiancamento delle antiche costruzioni, pagane e cristiane, con nuove opere architettoniche prettamente islamiche, come i monumenti funebri: nella tradizione turca, nomadica, la tomba non ha il valore del mausoleo nella cultura occidentale, né potrebbe averlo nel mondo musulmano, in cui la sepoltura dovrebbe in teoria avvenire sotto un pugno di terra (che però nulla vieta possa essere soverchiato da una montagna di pietra, come nel caso del successivo Taj Mahal). Tuttavia, il “memoriale”, il simbolo imperituro dell’esistenza terrena, fa parte integrante dell’esperienza nomadica sin dai suoi primordi, ed in un contesto geograficamente sempre più stanziale marchia il territorio segnandone la storia. Con la progressiva islamizzazione della popolazione, del resto, i monumenti antichi andavano sempre più scomparendo, divorati dall’abbandono (del resto, esattamente le stesse cose erano accadute in occidente con la conversione al cristianesimo dell’Europa, e sarebbero successe in Sud America pochi secoli dopo), cancellando il ricordo di una appartenenza etnica distinta.
A completare l’annullamento dell’identificazione etnica bizantina e la sua sostituzione con quella turca, entrarono in gioco due ulteriori fattori, ancora una volta pilotati dai sultani.
Chi dei contadini anatolici accettava l’Islam, ed accettava la fedeltà al Sultano, entrava a far parte di un mondo sterminato, quello delle grandi vie commerciali e culturali dell’Asia Centrale, che dal Mar Nero andavano fino a Kaifeng, la capitale dell’impero Song. In quel mondo, l’originale appartenenza etnica non aveva più alcun significato. Ben lungi quindi dal farsi assimilare dalla preponderante popolazione anatolica (16-20 milioni vs. poche centinaia di migliaia di turchi!), i Turchi si posero in condizione di assimilare gli anatolici, e l’ultimo tassello fu quello linguistico.
Come detto all’inizio, i Selgiuchidi erano parte di un impero che aveva avuto i suoi primordi in Iran: con l’instaurarsi del nuovo Sultanato, i Selgiuchidi importarono n Anatolia tutto il know-how disponibile, comprendente un’elevatissima densità di teste pensanti delle più svariate origini. Oltre a contribuire al buon governo del sultanato, questi portarono le proprie lingue con sé, in particolare il persiano. Dotato di un alfabeto simile a quello arabo e totalmente alieno a quello greco ed a quello latino, questo diventò la lingua ufficiale dell’amministrazione, ibridandosi con il turco primordiale e primitivo a costituire una lingua veicolare sempre più ricca, sempre più identitaria, in grado di svolgere qualsiasi funzione pratica e artistica - e soprattutto, totalmente incompatibile con il substrato greco e pre-ellenico, di fatto tranciando una volta e per sempre qualsiasi contatto con il passato storico dell’Anatolia. Sarà ingenuo, ma non c’è bisogno di bruciare i libri se nessuno è più in grado di leggerli.
Se mi avete seguito fino a questo punto, ora sapete perché quella terra che nel X secolo era il cuore pulsante dell’Impero Bizantino sarebbe diventata il nucleo di una nuova nazione e di un nuovo popolo - quello turco. E che, con buona pace di tanti nostri politici odierni, la spada in tutto ciò ebbe una parte significativa, ma non esclusiva.

Immagine di https://thumbs.dreamstime.com/z/storia-di-acquisizioni-dell-impero-ottomano-della-turchia-90810344.jpg


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