martedì 26 settembre 2017
Archeologia della Sardegna. Paesaggi nuragici Riflessioni di Alessandro Usai
Archeologia della Sardegna. Paesaggi
nuragici
Riflessioni di Alessandro
Usai
«Dire grande architettura e nuraghi è la stessa cosa. E dire nuraghi e
dire Sardegna è anche, entro certi
limiti, la stessa cosa. I nuraghi, infatti, danno figura e rilievo allo
scenario fisico e umano del presente in Sardegna,come lo dettero al tempo in
cui furono costruiti a migliaia e furono usati e occupati, con alterne vicende, per lunghi secoli.» (LILLIU 1988, p. 485).
1. Premessa
Nel brano
riportato in epigrafe, Giovanni Lilliu presenta il nuraghe come
elemento essenziale del paesaggio sardo attraverso i millenni. Non poteva
non essere così, né potevano sfuggire alla potente suggestione dei monumenti e
delle parole del Maestro i suoi allievi e il pubblico colto sardo, con quell’ammirazione
che ancor oggi anima, fin nel titolo, la mostra “L’isola delle
torri”.Tuttavia questa tendenza, che in anni ormai lontani consentì a studiosi
ed amministratori sardi di prendere coscienza, caso raro in Italia e in
Europa, dell’esistenza di un’importante componente preistorica e protostorica
del paesaggio, altrove dominato dai ruderi romani, medievali e moderni, oggi si
rivela inadeguata. In tempi in cui il concetto di paesaggio viene elaborato e
sviscerato in tutte le sue implicazioni da
studiosi di tutte le
discipline, in Sardegna il preponderante richiamo del megalitismo nuragico
continua a far convergere l’interesse verso il costruito, specialmente se
impreziosito dal fascino del rudere monumentale, a discapito di altre
manifestazioni culturali del paesaggio. Da questa impostazione deriva, per
esempio, un’attitudine riduttiva e deviante nella pianificazione regionale,
che tende a riconoscere valore paesaggistico solo ai beni monumentali, e
tutt’al più ai resti strutturali emergenti, considerati come ultimo gradino
della scala monumentale (MINOJA 2013). Da ciò consegue che non
si riconoscono paesaggi sardi delle epoche prenuragiche se non
originati dalle domus de janas,
dai dolmen e dai menhir, né paesaggi sardi di cultura
fenicia, punica, romana, me-dievale e moderna se non legati a edifici di
qualunque tipo, ignorando il segno profondo impresso,anche in assenza di
ruderi, da occupazioni, abbandoni e rioccupazioni attraverso i millenni. La
corrente interpretazione del paesaggio archeologico sardo considera come
unico punto di vista quello dell’occhio contemporaneo, nel senso che
attribuisce valore di paesaggio meritevole di conservazione solo a ciò che
colpisce lo spettatore del momento, purtroppo solo di rado, essendo egli solitamente
occupato a sfruttare e consumare un territorio senza paesaggio, tutt’al più
decorato da frammenti di paesaggio confinati e ridotti al rango di
soprammobili o ricordi di famiglia. Invece il concetto di paesaggio non può
essere che onnicomprensivo, nello spazio, nel tempo,nella natura e nella
qualità delle sue manifestazioni. Non vi è confine tra naturale e culturale, né
tra costruito e non costruito; accanto agli aspetti persistenti, che definirei
fossili paesaggistici, non ancora erosi o distrutti, i resti e gli
strati archeologici documentano aspetti deperibili, già dissolti o decomposti,
persino effimeri o addirittura impalpabili, che pertanto possiamo considerare
come sostanziali frammenti ricomponibili di antichi paesaggi (SANTONI 2001).
Dunque non solo le forme del territorio e gli edifici, ma anche gli
alberi, arbusti ed erbe e quindi i boschi, campi coltivati e pascoli, gli
animali e i prodotti dell’allevamento e dell’agricoltura, la terra
e il mare, fino alle nuvole e agli astri del cielo, e ancora i colori, i
rumori, gli odori e i sapori, attraverso i cicli regolari delle stagioni
dell’anno e delle ore del giorno e della notte, nelle condizioni più variabili
del clima e del tempo atmosferico. Come nel mondo attuale, anche nei mondi
passati indagati dall’archeologia possiamo considerare i paesaggi come
sistemi composti da innumerevoli sottosistemi stratificati e interagenti.
Sempre più l’archeologia cerca di comporre ricostruzioni
interdisciplinari sistematiche e dinamiche, cioè appunto paesaggistiche.
Fino a qualche tempo fa, l’archeologo considerava il paesaggio soprattutto come
contenitore territoriale dei resti archeologici e come scenario dei processi
storici, talvolta anche come attore coprotagonista di quei processi insieme
all’uomo. Lo sviluppo delle tecniche di ricognizione territoriale e
delle ricerche archeo botaniche e archeo zoologiche ha permesso
di elaborare analisi dettagliate delle relazioni materiali tra le
comunità umane e l’ambiente, soprattutto nel senso dei rapporti tra la
distribuzione e organizzazione degli insediamenti e la disponibilità di risorse
di vario genere. Infine, la formulazione consapevole di ipotesi interpretative
di stampo contestuale propone ricostruzioni in cui il paesaggio è concepito
esso stesso come espressione culturale delle comunità umane, parte integrante
di ogni società intesa come singolare esperimento di organizzazione contraddistinto
da specifiche relazioni interne ed esterne, tecnologie, rituali,
ecc..Percorrendo la Sardegna, dai territori pullulanti di nuraghi alle
solitarie distese montane, si avverte quanto sia superficiale e distorta
l’immagine commerciale del paesaggio della nostra Isola. La Sardegna non è
incontaminata e selvaggia, né è rimasta immobile e lontana dal mondo per
millenni. L’ambiente della Sardegna è stato trasformato e consumato giorno per
giorno senza interruzione,dalla più lontana preistoria ad oggi, ed è stato
addomesticato, anzi domato dall’uomo; nello stesso tempo l’uomo si
è adattato ad esso e vi ha vissuto nelle condizioni consentite
dall’evolversi di esperienze millenarie. Solo negli ultimi decenni molte zone
sono state abbandonate e si sono rinselvatichite, perché considerate
improduttive dal sistema economico contemporaneo. Se dunque tentiamo
di isolare, nella stratigrafia del palinsesto, il paesaggio nuragico, non
possiamo che scoprire infiniti paesaggi (DEPALMAS 2008, pp. 523-524): non
solo per la varietà morfologica dei territori e per il diverso grado di
monumentalità e visibilità dei nuraghi e delle altre strutture edilizie,
nemmeno solo per i diversi mutamenti verificatisi nel corso del ciclo culturale
nuragico, ma anche per la molteplicità dei punti di vista, tra i quali dobbiamo
sforzarci di considerare proprio gli occhi dei nuragici stessi che quei
paesaggi addomesticarono, adattarono e trasformarono,che a quei paesaggi
diedero forma e senso, funzioni e relazioni, col lavoro e
coi rapporti sociali, con la religione e col mito. Quindi i paesaggi
nuragici, se da un lato esprimono la relativa compattezza culturale e
continuità di sviluppo delle società sarde protostoriche, dall’altro rivelano
cambiamenti nel tempo, diversità quantitative e qualitative nello spazio,
perfino trasformazioni radicali e contrapposizioni. Nei tempi evolutivi lenti
della natura, le attività umane si inseriscono con maggior rapidità, in modi
diversi e con intensità variabili in proporzione allo spirito d’iniziativa
e agli strumenti tecnologici disponibili,manifestandosi ora come
costruzione, ora come demolizione, non solo degli edifici ma di ogni aspetto
del territorio, sotto forma di conquista, occupazione, trasformazione,
sfruttamento e abbandono. Attentamente analizzati, i paesaggi nuragici rivelano
episodi di azione e successo, ma anche insuccessi occasionali e
fallimenti epocali, periodi di trasformazione, crisi e dissoluzione
culturale. Dunque l’obiettivo della ricerca sui paesaggi nuragici è non solo
registrare tutti i resti sopravvissuti di quel lontano mondo, ma piuttosto
ricomporre in modo analitico e dinamico i caratteri e il funzionamento dei
diversi sistemi uomo-ambiente (CICILLONI 2009).
In poche parole, si tratta di tentare di interpretare il senso più
profondo dei grandi processi e delle esperienze umane. La complessità del
quadro reale è tale da consigliarmi di tratteggiare temi e problemi in modo generale,
piuttosto che descrivere situazioni specifiche, che in ogni caso sarebbero
insufficienti a rappresentare l’intero mosaico. Anzi, sono consapevole che
la mia personale esperienza, intensa ma limitata, mi condurrà a pensare ad
alcune regioni della Sardegna, anche più spesso di quanto rivelino i
riferimenti espliciti. Per questa ragione ho illustrato lo scritto solo con
alcune immagini paradigmatiche, confidando che la varietà dei paesaggi nuragici
emerga dall’insieme di tutte le immagini che illustrano il volume. Per la
verità, non fotografie dei luoghi attuali ma piuttosto ardite simula-zioni
artistiche potrebbero avvicinarsi ad una pallida rappresentazione di
quei paesaggi.
2. I paesaggi dei
nuraghi
In estrema
sintesi, il ciclo storico della civiltà nuragica si può suddividere in due
grandi periodi:
il primo è caratterizzato
dalla costruzione dei nuraghi, delle tombe collettive dette “dei giganti” e dei
primi insediamenti; il secondo vede la fine dell’elaborazione dei nuraghi e
soprattutto la costruzione dei grandi insediamenti, dei templi, dei santuari e
di nuovi tipi di tombe. A sua volta, ciascuno di questi due grandi periodi
si può dividere in due fasi; quindi abbiamo le fasi di formazione (Bronzo Medio
1-2: circa 1700/1600-1500 a. C.), maturità (Bronzo Medio 3 e Bronzo Recente:
1500-1200 a. C.), trasformazione (Bronzo Finale: 1200-930 a. C.) e la fase di
dissoluzione (Prima Età del Ferro: 930-730 a. C.).Ancora 50 anni fa, Giovanni
Lilliu riteneva che i nuraghi fossero stati costruiti nell’arco di più
di mille anni, dal 1500 al 500 a. C. e oltre, cioè dal tempo delle tombe micenee
a tholos a quello dell’invasione cartaginese (LILLIU 1962, pp. 37-42). Oggi sappiamo
che il fenomeno dei nuraghi fu molto più rapido, esplosivo e complesso ed ebbe
un enorme impatto sulla terra sarda. Circa 7.000, o forse piuttosto 10.000
nuraghi furono costruiti nell’arco di circa 500/400 anni durante le fasi di
formazione e maturità del ciclo culturale nuragico, pressappoco dal
1700/1600 al 1200 a.C..Nonostante la ricorrenza di numerosi particolari e
l’evidenza di un processo di sviluppo e selezione, i nuraghi arcaici sono
notevolmente diversi l’uno dall’altro; ciascuno di essi è l’esito di una singolare
sperimentazione strutturale e funzionale. La tholos o falsa cupola,
composta da anelli di blocchi sempre più stretti dalla base alla sommità, fu la
grande invenzione degli architetti nuragici della fase di maturità, che diede
ai nuraghi classici la caratteristica forma di torri troncoconiche.
Pur senza cancellare una certa variabilità strutturale o polimorfismo, che
restò connaturata all’espressione del modello architettonico, questa ingegnosa
semplificazione consentì sia la costruzione in serie di nuraghi semplici a una
sola torre, sia lo sviluppo di monumenti complessi a più torri con diverse
camere al piano terreno e su uno o due livelli sovrapposti (VANZETTI et al. 2013).Così
come li vediamo oggi, i nuraghi e gli altri edifici nuragici non sono che
grandi frammenti di scheletri di pietra, gusci fossili spogliati di tutte
le strutture accessorie, le attrezzature, le suppellettili e i contenuti
di materiale organico, privati delle azioni e delle voci, dei significati,
dei valori e delle relazioni che ne costituivano l’aspetto funzionale
in tutta la sua complessità. I reperti archeologici chiariscono che i
nuraghi furono strutture di servizio polivalenti dell’economia rurale,
utilizzate per abitazione e per la conservazione, trasformazione e
protezione di prodotti d’ogni genere. Nessun elemento sembra indicare una
connessione esplicita o preponderante con forme di culto. Al di
là della funzionalità materiale, nei nuraghi si manifesta la volontà di
creare edifici monumentali, fortificati (cioè “resi forti”) senza essere vere e
proprie fortezze, possenti per suscitare ammirazione e rispetto in
un’incessante gara di organizzazione, abilità e ardimento. Equipaggiate di
questo duttile strumento, le popolazioni nuragiche intensificarono la colonizzazione
delle terre di pianura, di collina, d’altopiano e di montagna. Il processo di
popolamento fu accompagnato dalla deforestazione e dallo sviluppo di un
efficiente sistema economico integrato (LO SCHIAVO 1981). L’originaria foresta
mediterranea, avvolgente e impenetrabile, che possiamo considerare appena
intaccata durante i millenni antecedenti, venne progressivamente distrutta
per lasciare spazio a campi coltivati e pascoli. Anche questi erano manufatti,
tanto quanto gli edifici; gli uni egli altri furono faticosamente costruiti per
il solo fine di comporre un ambiente addomesticato e adattato alle esigenze
dell’uomo che a sua volta vi si adattava (USAI 2006).Fin dal XIX
secolo si è notato che i nuraghi non sono dispersi in modo casuale, ma sono raggruppati
in nuvole o catene di numero variabile, con un’alternanza di zone di
addensamento e diradamento. Inoltre, nonostante la normalizzazione del modello
del nuraghe classico e delle connesse tecniche costruttive di serie, i nuraghi
conservano i segni dell’evoluzione e delle tradizioni locali; pertanto si è
cercato di individuare particolari costruttivi caratteristici di determinate
zone, quindi riconducibili agli architetti e alle maestranze che vi
operavano. Attentamente considerati, i raggruppamenti di nuraghi rivelano
l’esistenza di comunità policentriche gerarchiche, cioè articolate in più
nuclei cooperanti su diversi livelli (UGAS 1998; LO SCHIAVO et al. 2004,
pp. 357-375; LO SCHIAVO et al. 2009, pp. 265-272; USAI 2006; PERRA2008). E’ molto probabile che i nuraghi fossero
costruiti e gestiti con la collaborazione dei diversi nuclei appartenenti ad una stessa comunità; d’altro canto è
evidente che essi non avevano tutti la stessa importanza, sia per le dimensioni
e la complessità strutturale, sia per le caratteristiche e le risorse dei
luoghi che occupavano. In generale i nuraghi più grandi sembrano aver svolto un
ruolo di coordinamento economico rispetto ai piccoli nuraghi, ma
siamo ancora ben lontani dal capire in che cosa consistesse tale
coordinamento; probabilmente era importante la centralità, non tanto geografica
quanto relazionale, rispetto alle risorse e al reticolo delle vie di
comunicazione. Inoltre non è chiaro se e
quanto la gerarchia strutturale e funzionale dei nuraghi fosse accompagnata da
una gerarchia sociale permanente; infatti i reperti recuperati negli
stessi nuraghi, nelle altre abitazioni e nelle tombe del Bronzo Medio e
Recente rivelano scarsi ma non trascurabili segni di ruoli o ranghi sociali dominanti,
anche se forse il quadro sarebbe stato alquanto diverso se si fossero
conservati i materiali deperibili. Pertanto a queste comunità con scarsa o
mediocre differenziazione interna si può adattare elasticamente la definizione
di formazioni tribali (USAI 1995, pp. 253-255; WEBSTER 1996, pp. 81-82, 98-100; PERRA 1997,
pp. 49-59; PERRA 2009).Quindi nessun nuraghe può essere considerato
singolarmente e non ha senso tentare di definire o misurare l’area di
pertinenza di ciascun nuraghe. L’unità organizzativa minima doveva essere
il raggruppamento, o meglio il sistema di nuraghi, cui doveva corrispondere una
comunità umana articolata in diversi nuclei. Ogni nuraghe e ogni nucleo umano
faceva parte di un sistema e svolgeva un ruolo nel sistema. Nello stesso
tempo, l’esistenza di diversi sistemi adiacenti comportava la necessità di
demarcazioni territoriali, quindi di frontiere riconosciute. In effetti
si nota una sostanziale coincidenza tra sistemi di nuraghi e bacini
geografici più o meno chiaramente delimitati dalla morfologia, che a tutti gli
effetti appaiono come le aree di insediamento di popolazioni fortemente
radicate. Questi territori, o cantoni secondo la felice definizione di
Giovanni Lilliu, costituivano, con le corrispondenti comunità umane,
affini e nello stesso tempo distinte, se non anche contrapposte e rivali,
il mosaico antropico della Sardegna nuragica, la cui forma organizzativa
radicata nella tradizione e nell’economia può essere sopravvissuta fino
all’epoca romana e medievale (SANTONI – USAI 2006).Sempre più la ricerca
rivela la ricchezza del mosaico nuragico. Non si osserva una ripetizione di modelli
occupativi teorici, ma un’infinita varietà di situazioni concrete in cui le
comunità nuragiche adattavano i modi dell’occupazione alla morfologia del
terreno, alla distribuzione delle risorse, al grado di sviluppo demografico e
sociale, alla vivacità della competizione interna ed esterna. Generalmente i
nuraghi si dispongono su leggere emergenze in condizioni di ampio dominio
visivo e facile accessibilità, ma in alcune regioni (Sàrrabus, fascia costiera
del golfo di Cagliari, fascia collina-re a Ovest del Campidano, ecc.) i nuraghi
sono spesso arroccati su cime rocciose. In alcune zone si trovano solo nuraghi
semplici; in altre alcuni nuraghi complessi dominano un gran numero di nuraghi
semplici; in altre ancora il numero dei nuraghi complessi eguaglia o perfino
supera quello dei nuraghi semplici, a volte con una costante ripetizione del
modulo architettonico o con leggere varianti. I nuraghi complessi talvolta sono
disposti alla periferia dei sistemi insediativi, talaltra si raccolgono al loro
cuore e lasciano i nuraghi semplici a controllo dei confini e delle vie
d’accesso. Vi sono anche regioni prive o poverissime di nuraghi, come alcuni
Comuni del Barigadu pur interessati da testimonianze insolitamente dense
di occupazione prenuragica. Generalmente gli abitati circondano i nuraghi, ma
spesso si sviluppano accanto o a qualche distanza da essi o in totale
isolamento. Le tombe megalitiche sono ora distribuite presso ciascun abitato,
ora disposte in periferia oppure concentrate in veri e propri complessi
funerari; in ogni caso, il rilievo monumentale conferisce loro un valore di marcatori
territoriali. A questa variabilità si aggiungevano le relazioni esistenti tra
tutti gli elementi naturali ed artificiali, materiali ed immateriali, tanto dei
territori che delle comunità umane residenti, e le relazioni coi territori e le
comunità confinanti: relazioni interne ed esterne di potere, scambio,
matrimonio, collaborazione o sfruttamento. Nello stesso tempo, sembra
indispensabile concentrare l’attenzione sui singoli nuraghi, nel tentativo di
svelare i meccanismi di riproduzione delle cellule insediative. Lo sviluppo
territoriale delle comunità nuragiche ebbe luogo con la moltiplicazione dei
luoghi di insediamento, senza alcuna tendenza alla concentrazione urbana.
Ogni nuovo insediamento comporta un progetto di gemmazione, che richiede il
trasferimento di un nucleo umano da un luogo già occupato a un altro non
ancora occupato, che nello stesso tempo deve essere bonificato e colonizzato.
Quindi ogni nuraghe testimonia un singolo progetto rivolto a strappare alla
natura e a rendere effettivamente produttiva una potenziale risorsa; d’altra
parte la presenza di fitti raggruppamenti di nuraghi rivela progetti di
vera e propria trasformazione economica territoriale. Inoltre ogni nuraghe
testimonia la separazione, o fissione, di un nucleo umano e la formazione di un
nuovo nucleo, secondo lo schema ramificato di un grappolo. L’usanza della
fissione permetteva all’intera tribù di procurare le risorse necessarie alla sua
sopravvivenza e crescita attraverso l’espansione e intensificazione del
popolamento; inoltre, essa potrebbe aver costituito anche un espediente che
permetteva ai gruppi sociali dominanti di espellere i giovani o i cadetti,
che così erano costretti a creare nuove opportunità. Certamente vi sono
molti insediamenti del Bronzo Medio e Recente senza nuraghi. Tuttavia la proliferazione
dei nuraghi, proprio perché costosa e gravosa, suggerisce che fosse considerato
importante marcare la conquista di nuove terre con la costruzione di un
monumento, al di là delle sue funzioni materiali. Era questa una ripetizione di
atti quasi rituali, sebbene apparentemente non connesse con alcun culto,
miranti a perpetuare una tradizione, come una sorta di incessante rifondazione
sociale, o come una celebrazione di antiche conquiste o una riaffermazione di
un mitico ordine cosmogonico?Anche se credo che il senso generale dei nuraghi e
degli altri monumenti nuragici possa essere compreso solo nell’ambito delle
dinamiche sociali ed economiche di grande portata, tuttavia penso che alcuni
particolari potrebbero essere almeno inquadrati facendo riferimento a un
mondo simbolico per noi oscuro, ma che per i protagonisti di
allora poteva costituire un codice condiviso. In poche parole, non possiamo
accontentarci di solidi argomenti razionali e processuali, ma dobbiamo almeno
considerare l’esistenza di un piano irrazionale, da affrontare con ragionamenti
controllati di tipo contestuale, senza pretendere di decifrarlo. Per esempio,
ferme restando le ragioni di fondo, è possibile che la costruzione di un
nuraghe o insediamento o tomba o tempio, oppure la loro ubicazione,fosse decisa
a seguito di vaticini, presagi, sogni, allucinazioni o altri
presunti “segni” come la caduta di un fulmine, lo scoppio di un incendio,
la nascita o la morte di una persona o di un animale,l’accadimento di fatti
inspiegabili o preannunciati da racconti mitici? È possibile che per iniziare
la costruzione si aspettasse un momento particolare definito da una speciale
posizione di uno o più astri, oppure che il monumento venisse orientato in modo
tale da registrare la data d’inizio della costruzione? Sulla scorta di simili
valutazioni si potrebbero ricondurre a un quadro di riferimento,senza
spiegarle, le forti oscillazioni di orientamento ed altre apparenti stranezze;
ma ciò non rivelerebbe la natura e funzione dei nuraghi, che è azzardato
cercare al di fuori del legame con la terra, le risorse e le attività umane (ZEDDA 2009).
Per esempio, a noi può sembrare irrazionale la costruzione di nuraghi sulle
pianure alluvionali, dove mancano i grossi blocchi di pietra necessari
all’opera. Questa scelta richiedeva il trasporto di grandi quantità di
materiale dai giacimenti rocciosi, a volte distanti alcuni chilometri. Al di là
della presunta irrazionalità, la ragione di fondo della costruzione di questi
nuraghi grandi e piccoli non può essere estranea ad ampi progetti territoriali
di trasformazione agricola e di riorganizzazione economica e demografica (STIGLITZ et
al. 2012). Qui cominciamo a vedere che la componente culturale
del paesaggio non solo si adatta a quella naturale e ne sfrutta le opportunità,
ma talvolta si sovrappone ad essa e addirittura si scontra con essa. La stessa
tendenza è rivelata da altri fenomeni. In primo luogo vi sono raggruppamenti o
catene di nuraghi semplici di aspetto molto uniforme e di medie o piccole
dimensioni, che sembrano indicare un intenso sforzo programmato mirante
all’occupazione e alla trasformazione produttiva di intere aree
importanti per l’economia agricola. In secondo luogo, si conoscono varie
decine di strutture composte da uno, due o tre filari di blocchi, senza
cumuli di crollo e perfino senza il consueto riempimento di piccole pietre nell’intercapedine
dei paramenti murari. Per quanto siano stati certamente impoveriti dal
prelievo di pietre durante i secoli, io credo che essi debbano essere
interpretati come nuraghi incompiuti. Accanto ad alcuni casi incerti di nuraghi
arcaici e complessi, la grande maggioranza di essi era stata senza dubbio
concepita per dar luogo a nuraghi semplici (LO SCHIAVO et al. 2009,
pp. 271-272). Entrambi questi fenomeni appaiono non sporadicamente, ma con
diversi esemplari aggregati secondo schemi regolari, come catene lungo le
vallate dei fiumi, coppie o terne nelle pianure e sugli altipiani. In
particolare i nuraghi incompiuti si trovano spesso vicino agli insediamenti
principali o ai confini dei sistemi insediativi, così da indicare
tentativi falliti di intensificazione o espansione del popolamento. Sembra
evidente che un certo numero di progetti insediativi potesse fallire in
qualunque momento per motivi occasionali. Tuttavia, poiché in alcune zone
(soprattutto il Sinis, ma in generale l’alto Oristanese) i nuraghi incompiuti
sono una frazione molto importante del totale, siamo probabilmente di fronte
alle testimonianze di progetti economici esorbitanti e di fallimenti
sistematici, che possono essere spiegati solo considerando le ragioni
strutturali connesse alla trasformazione delle società nuragiche. Per questo
motivo io penso, in attesa di conferme dagli scavi, che questi nuraghi incompiuti
furono, almeno in maggioranza, gli ultimi nuraghi che cominciarono ad
essere costruiti. Con grande probabilità, l’insieme dei supposti progetti di
colonizzazione, sfruttamento e costruzione, portati avanti fino a rivelare
una vera e propria frenesia, divenne a un certo punto insostenibile. Al di
là del quadro tradizionale e superficiale di una Sardegna gremita di nuraghi
alti come grattacieli e potenti come castelli, emerge una diversa ipotesi: una
dura crisi, un profondo disorienta-mento, una radicale e
dolorosa riorganizzazione. Che cosa accadde all’inizio
del Bronzo Finale? Insieme ai piccoli nuraghi, quanti grandi nuraghi
furono abbandonati? Quanti insediamenti? Quante terre? A questo punto non posso
non richiamare le ultime statue Moai dell’Isola di Pasqua,
lasciate incompiute nelle cave o abbandonate lungo le vie di trasporto, come le
migliori immagini di un arresto improvviso e traumatico (USAI in stampa). La
portata di questi fenomeni è discussa (USAI 2012; PERRA 2012). Io credo che questa prima grande crisi del ciclo culturale
nuragico segnò la fine della costruzione dei nuraghi, ma non la fine dei
nuraghi stessi. Alcuni di essi furono certamente abbandonati; altri certamente
non lo furono, e non tutti quelli che sopravvissero divennero templi. In molti
casi venne accentuata la funzione di magazzino comunitario, in altri
ipotizzo uno scadimento a semplice abitazione familiare.
3. I paesaggi
degli insediamenti nuragici
Dopo
l’interruzione della costruzione dei nuraghi, la riorganizzazione delle
comunità nuragiche è testimoniata dallo sviluppo degli insediamenti, dei
templi e dei santuari. Al disorientamento iniziale le società con scarsa o
mediocre differenziazione reagirono incrementando e stabilizzando la
diseguaglianza, quindi dando luogo alla formazione di ceti emergenti, élites di
ricchezza e potere detentrici del controllo dei mezzi e rapporti di produzione
e di scambio. In queste nuove società, approssimativamente accostabili ai chiefdoms (o
principati) della letteratura antropologica, l’appartenenza a una tribù doveva
conservare un’importanza tradizionale, ormai residuale rispetto all’appartenenza
a un ceto distinto (USAI 1995, pp. 255-256; WEBSTER 1996, pp.
129-131, 164-167;PERRA 1997, pp. 59-66; PERRA 2009).In questo mondo
profondamente trasformato, gli insediamenti offrono una prospettiva variegata e
dinamica sui meccanismi di funzionamento economico e sociale, dalla grande
scala di paesaggio antropico alla piccola scala del tessuto edilizio
abitativo. Pur senza la monumentalità dei nuraghi, gli insediamenti comportano
un investimento lavorativo forse maggiore e dimostrano un’evidente fiducia
nel futuro della comunità, senza limiti di tempo, al di là della breve
vita degli individui. I sistemi policentrici gerarchici continuarono a
costituire il telaio di base dei rapporti tra le diverse comunità che componevano il mosaico della
Sardegna nuragica, anche se le nuove élites trasformarono i
modi tradizionali di organizzazione territoriale rurale in una sorta di “stati
senza città”. La dislocazione dei santuari cosiddetti federali, o almeno
comunitari, suggerisce che i vecchi cantoni territoriali possano essersi
talvolta disgregati, talvolta ampliati per fusione, alleanza o conquista. In
effetti è probabile che alle diseguaglianze sociali interne si siano
aggiunti attriti nei rapporti tra comunità, quindi contrasti e conflitti.
Almeno in linea di principio, i territori montuosi, con risorse localizzate e
forti limitazioni e costrizioni, potrebbero essere caratterizzati da una
relativa stabilità organizzativa; invece i territori di pianura e di
collina, con risorse più varie e ampiamente distribuite e con
maggiori potenzialità di espansione e intensificazione demografica ed
economica, potrebbero essere stati soggetti a ripetuti cambiamenti negli
assetti sociali e nelle strategie di gestione delle risorse e del lavoro umano.
Pertanto, come e ancor più che per i nuraghi, nello studio degli abitati e dei
santuari è necessario porre le basi per una ricostruzione al livello geografico
di sistema insediativo, o ancor meglio al livello antropico di comunità
policentrica socialmente differenziata ed economicamente organizzata. Continua
a manifestarsi la tradizionale variabilità di rapporti topografici e
funzionali: ai classici abitati annessi ai nuraghi si alternano, in diversa
misura a seconda della zona, quelli costruiti nelle vicinanze e quelli del
tutto separati dai nuraghi. Numerosi abitati sono caratterizzati da poderose strutture
in pietra; altri, specialmente nella pianura campidanese, erano costituiti
esclusivamente o prevalentemente da strutture deperibili più o meno incavate
nel suolo. Spesso gli abitati comprendono fonti, pozzi e vasconi di approvvigionamento
idrico. Anche i templi e i santuari si integrano negli abitati o si allontanano
da essi. Abitati e santuari manifestano un’evidente crescita spaziale e demografica
durante il Bronzo Finale e la Prima Età del Ferro. È interessante
osservare che la gerarchia degli insediamenti spesso non corrisponde alla
gerarchia dei nuraghi adiacenti. Alcuni nuraghi complessi non hanno
insediamento o ne hanno uno molto piccolo, mentre alcuni nuraghi
semplici hanno insediamenti relativamente estesi. L’estensione degli insediamenti
del Bronzo Finale e del Primo Ferro è generalmente compresa tra 0,5 e 1,5
ettari; un’estensione maggiore di tre ettari deve essere considerata
eccezionale. Specialmente nella Sardegna centro-occidentale, numerosi abitati
sono racchiusi da imponenti muraglie caratterizzate da accorgimenti di
controllo degli accessi. L’esempio più noto è quello dell’insediamento del
nuraghe Losa di Abbasanta. Alcuni casi inducono a ritenere che almeno una parte
delle muraglie possa risalire a una fase compresa tra il Bronzo Finale
terminale e il Primo Ferro; anzi esse potrebbero connotare proprio i
principali abitati che non si erano estinti prima e che erano giunti
fino a questo momento, rispondendo a una diffusa esigenza di sicurezza
manifestatasi in un’ampia area in un determinato periodo. Già dal Bronzo Medio
e Recente, ma soprattutto durante il Bronzo Finale e la Prima Età del Ferro,
lo sviluppo degli insediamenti era ambivalente: da un lato essi
crescevano in ampiezza e popolazione, ma senza alcun carattere urbano;
dall’altro essi continuavano a moltiplicarsi, producendo nuove cellule, anche
di piccole o piccolissime dimensioni. I primi erano probabilmente permanenti e
di lunga durata, i secondi temporanei e di breve durata. Nonostante il profondo
cambiamento sociale e la tendenza alla stabilizzazione, non sembra aver perso
vigore la tendenza all’espansione, all’occupazione di nuove terre, allo
sfruttamento di nuove risorse per mezzo di progetti di trasformazione agricola
e colonizzazione. L’usanza della fissione doveva essere comune in ogni
condizione, come era stata nei tempi della proliferazione dei nuraghi, sebbene
ragionevolmente tendesse a intensificarsi in tempi di pressione demografica,
tensioni sociali o conflitti generazionali. È assai arduo tentare di stimare
la densità demografica territoriale, poiché è impossibile stabilire quanti
abitati di un sistema o cantone fossero occupati nello stesso momento, in
condizioni altamente variabili di espansione o contrazione,
intensificazione o rarefazione delle maglie insediative. In queste reti sempre
più integrate, gli abitati nuragici del Bronzo Finale e della Prima Età del Ferro
costituivano le cellule interdipendenti e complementari di sistemi economici
organizzati per lo sfruttamento delle risorse e per la circolazione,
consumo o tesaurizzazione dei prodotti. Possiamo immaginare una progressiva
specializzazione produttiva degli insediamenti localizzati nelle diverse nicchie
ecologiche di ciascun territorio e, conseguentemente, un progressivo incremento
della redistribuzione dei diversi prodotti. L’intensificazione
di questa tendenza, peraltro già affermata al tempo del ruolo attivo dei
nuraghi, era resa possibile dalla differenziazione dei ranghi all’interno della
società, e nello stesso tempo contribuiva a rafforzare le élites di
ricchezza e potere incamminate verso lo sviluppo di ceti gentilizi
o aristocratici. Le indagini archeo botaniche e archeo zoologiche e le
analisi sui resti alimentari e sulle sostanze depositate sulle pareti
dei vasi, finalmente adeguate per quantità e qualità alle esigenze
della moderna ricerca archeologica, forniscono risultati che consentono di
delineare una dialettica tra gli aspetti tradizionali persistenti e le nuove
strategie e tecniche di produzione, trasformazione e preparazione del cibo.
Emergono diverse forme di agricoltura e allevamento: da un lato attività di
tipo estensivo per la produzione di cereali, legumi, fibre tessili, carne,
latte, lana, cuoio e pelle, e prodotti derivati come quelli caseari;
dall’altro, almeno in alcuni ambienti particolarmente adatti per natura o
adattati dall’uomo, attività intensive e specializzate per la produzione di
ortaggi e frutta, come è provato sin dal Bronzo Recente nell’insediamento di Sa
Osa a Cabras, nella pianura alluvionale del Tirso, dove sono stati rinvenuti in
gran quantità semi di uva, fico e melone (USAI et al. 2012). A
queste si aggiungevano altre fonti di approvvigionamento alimentare:
caccia, pesca, raccolta di molluschi terre-stri e acquatici e di vegetali
commestibili spontanei (PERRA 2010). In termini ancora vaghi, cominciamo a
intravedere paesaggi vegetali misti costituiti da campi coltivati, pascoli e
boschi, questi ultimi certo in via di progressivo depauperamento a giudicare
dal quadro ambientale ricostruito per il territorio circostante al nuraghe
Arrubiu di Orroli (RUIZ-GÁLVEZ2005; CAMPUS et al. 2008).
Orti,frutteti, oliveti e vigneti cominciano a imporre un nuovo ordine tra le
colture, nuove ripartizioni funzionali nello spazio agricolo; i convivi
cominciano a conoscere il vino. Nello sviluppo di queste riflessioni saranno
utilissimi gli esami scientifici atti a fornire un quadro indicativo delle
potenzialità produttive dei terreni in epoca nuragica, in relazione alle
tecnologie disponibili. Ovviamente è molto difficile sapere quanti e quali
terreni fossero realmente coltivati o non fossero ancora coperti dalla macchia
o dal bosco, o al contrario già abbandonati dopo uno sfruttamento
intenso in tempi precedenti. Inoltre dobbiamo tener presente che la tecnologia
applicata all’agricoltura era molto meno efficiente e differenziata rispetto
ad oggi, così che l’indice di produttività doveva essere mediamente molto
più basso ma nello stesso tempo più uniforme; infatti gli strumenti in uso
permettevano lo sfruttamento anche di spazi ridottissimi intercalati tra le
rocce affioranti, che la tecnologia attuale non consente di utilizzare in modo
remunerativo. I significati più profondi dell’agricoltura, connessi non solo alla
sopravvivenza materiale ma anche all’espressione dell’ideologia sociale delle
comunità nuragiche più recenti, traspaiono forse da statuette e barchette con
scene di lavoro agricolo. Si tratta solo di rappresentazioni realistiche o anche
dell’esaltazione degli strumenti di produzione della ricchezza, se non
addirittura della celebrazione di imprese mitiche di colonizzazione? Infine, lo
sviluppo della metallurgia tra il Bronzo Finale e il Primo Ferro suggerisce la
formazione di veri e propri paesaggi industriali, o almeno di nicchie così
caratterizzate, soprattutto in riferimento a cave, miniere e fonderie con
tutte le strutture accessorie e connesse, di cui ancor oggi quasi nulla è
noto. In questo periodo la trasformazione sociale comportò anche la differenziazione
delle sepolture,che ora accolgono anche piccoli oggetti di corredo
personale. Dal Bronzo Finale non si costruiscono più tombe dei giganti; le
sepolture collettive di nuovo tipo guadagnano in raffinatezza e perdono in monumentalità,
mentre le tombe individuali a pozzetto e a cassone, significativamente
conosciute in scarsissimo numero, sembrano quasi invisibili. Il
ruolo delle sepolture nel paesaggio, non più affidato al megalitismo
ciclopico, doveva rimanere legato ad elementi simbolici o ad altre forme di monumentalizzazione,
come le singolari sculture associate alla necropoli di Mont’e Prama
a Cabras.In ogni caso dobbiamo evitare ragionamenti schematici e
deterministici come quelli che presuppongono (e dunque si propongono di
misurare) relazioni dirette tra l’intensità insediativa e la produttività
potenziale dei suoli, o addirittura tra l’ubicazione del singolo insediamento e
l’esistenza di specifiche risorse entro un raggio arbitrariamente fissato.
Infatti tali relazioni, senz’altro ipotizzabili in linea di principio,
dovevano essere sempre e comunque mediate (e dunque ora assecondate, ora contrastate)
da motivazioni di ordine culturale estremamente variabili nel tempo e nello
spazio, che solo in piccola parte la nostra mentalità e
la nostra conoscenza possono afferrare, e che in ogni caso dovevano
esplicitarsi attraverso concreti interventi di conquista e colonizzazione,
oppure di costante mantenimento delle risorse. Diversi criteri, oggi spesso
indecifrabili, e fattori, anche occasionali,devono aver guidato i processi
di formazione, abbandono e rioccupazione degli insediamenti, ed anche
delle tombe e dei templi e santuari, nei sistemi di relazioni materiali e
simboliche che davano forma ai territori nuragici. Aree oggi considerate
marginali potevano assumere nel contesto socio-economico cantonale e
intercantonale una rilevante importanza per la presenza di risorse od
opportunità anche non percepibili dal nostro punto di vista, oppure
semplicemente potevano essere colonizzate e sfruttate per accrescere anche di
poco la produzione alimentare complessiva di un territorio sovrappopolato.
Esigenze di sicurezza potevano diventare preminenti in situazioni di accentuata
competizione e conflittualità, in cui anche la razzia avrebbe potuto
costituire un metodo normale per risolvere crisi acute o carenze croniche.
4. I paesaggi
della dissoluzione nuragica
Non posso concludere questa rassegna tematica sui paesaggi nuragici
senza accennare alla seconda
grande crisi del ciclo culturale nuragico, cioè a quella crisi che portò alla
sua conclusione e all’avvio di un nuovo ciclo che possiamo definire
sardo-fenicio o semplicemente sardo. A riorganizzazione avvenuta, durante la
Seconda Età del Ferro (VII-VI sec. a.C.), i paesaggi della Sardegna appaiono
radicalmente mutati. Gli insediamenti costieri fondati dai naviganti e
mercanti fenici si sono stabilizzati, hanno assunto gradualmente forme urbane
(o almeno elementi caratterizzanti in tal senso), hanno adottato connotati
culturali francamente orientali e hanno acquisito il controllo dei territori
rurali. D’altra parte l’entroterra sembra comportarsi in due modi molto
diversi. Nella Sardegna meridionale, specialmente nelle regioni del Sulcis, del
medio e basso Campidano,della Trexenta e della Marmilla, in rapporto coi centri
fenici di Sulky, Nora e Karaly, gli insediamenti tendono a persistere, mentre
la produzione ceramica di tradizione nuragica tende progressivamente ad
assimilarsi a quella fenicia; da ciò si deduce un processo di fusione tra la
componente etnico-culturale locale e quella di origine orientale, che tuttavia
non avvenne in modo equilibrato e simmetrico ma piuttosto assunse le forme di
una rapida acculturazione e si concluse con la definitiva accettazione di
modelli e comportamenti vincenti da parte della componente locale più debole. Nella
Sardegna centro-settentrionale, salvo eccezioni, le conoscenze sono
più scarse; la ceramica di tradizione nuragica è attestata finora in modo
sporadico e gli indizi del processo di fusione sono significativamente più
tenui; soprattutto emerge un diffuso fenomeno di abbandono degli
insediamenti, che diede luogo a un vero e proprio tracollo economico e
demografico delle società nuragiche e a un apparente spopolamento di intere
regioni interne e costiere dal VII al V-IV sec. a.C..Come si può
raccordare questo quadro con quello del Bronzo Finale terminale e della Prima
Età del Ferro, che appaiono come i periodi di massima occupazione degli
insediamenti, di massima accumulazione di ricchezze nei santuari, di massima
fioritura delle produzioni artigianali, di massimo sviluppo del ceto
aristocratico? Poiché non possiamo più credere al mito romantico-letterario
dell’irriducibile contrapposizione etnico-culturale tra nuragici e fenici, non
ci resta che cercare altre spiegazioni connesse a ragioni profonde, a processi
di lunga durata, all’identità stessa della civiltà nuragica attraverso le sue
trasformazioni. A mio avviso, soprattutto nella Sardegna centro-settentrionale,
l’organizzazione nuragica si dissolse prima che si formasse
quella sardo-fenicia, anzi questa poté formarsi semplicemente approfittando
del dissolvimento strutturale nuragico, senza necessità di una conquista
militare a opera delle entità urbane costiere. In effetti, la
crisi strutturale delle società nuragiche dell’intera Sardegna doveva
essere iniziata fin dai tempi del loro massimo sviluppo. La profonda
trasformazione del mondo nuragico durante il Bronzo Finale e il Primo Ferro
aveva dato un forte impulso allo sviluppo sociale ed economico, ma aveva anche
posto le premesse per la formazione di nuovi squilibri, tensioni e conflitti.
Le società nuragiche di quei periodi erano straripanti di risorse e di energie,
ma anche fragili e senza alternative di sviluppo. Possiamo immaginare diversi
momenti di dissesto, seguiti da altrettanti momenti di riorganizzazione di tipo
autoritario, guidati dalle famiglie aristocratiche con l’imposizione di un ferreo
dominio interno e con conseguenze quasi impercettibili, almeno per qualche
tempo, sulla compattezza del tessuto sociale e dell’assetto produttivo. Nonostante
la trasformazione avvenuta, gli abitati del Bronzo Finale e Primo Ferro
testimonia notevoli analogie con le tendenze già espresse dai nuraghi,
nell’espansione e intensificazione del popolamento, nei progetti di trasformazione
e di incremento della produzione agricola,nell’interdipendenza funzionale delle
cellule dei sistemi economici territoriali. Per di più gli insediamenti
rivelano una notevole crescita demografica, quindi una maggiore capacità di
investimento lavorativo e di sfruttamento delle risorse, quindi un ancor più
elevato grado di pressione sull’ambiente, già impoverito dall’impiego secolare
di tecniche di bonifica che certo non agevola-vano la rigenerazione del
suolo e della vegetazione. Possiamo quindi ritenere che, come la crisi dei
nuraghi, anche la seconda grande crisi del ciclo culturale nuragico sia stata
originata dall’insostenibilità di un sistema economico vorace? Personalmente
ritengo che le ragioni profonde della dissoluzione della civiltà nuragica
possano essere ricondotte solo all’involuzione di quegli stessi fattori che
avevano dato luogo alla sua grandezza, quindi percepiti e perseguiti dagli
stessi nuragici come irrinunciabili. Di qui il concetto di degenerazione,
inteso come riduzione della capacità di adattamento e conversione dei
tradizionali punti di forza in limiti insormontabili e fattori di
indebolimento: dall’espansione sul territorio all’esaurimento delle risorse,
dalla competizione alla conflittualità, dalla proliferazione degli insediamenti
all’incapacità di evoluzione in senso urbano e di confronto coi sistemi
urbani. Ancora nell’VIII sec. a.C. le società nuragiche manifestano vitalità e
apertura. Tra i tanti indizi in questo senso emerge la ristrutturazione
dell’insediamento di Sant’Imbenia di Alghero, rivolta ad ospitare attività di
scambio coi mercanti orientali, che non deve essere considerata come un fatto isolato.
Per questo, nonostante l’aggravarsi delle contraddizioni interne e in mancanza
di alternative di sviluppo, la disgregazione dei
sistemi socio-economici non si sarebbe manifestata negli aspetti esteriori
(e nella documentazione archeologica) fino alla completa maturazione del
processo e al crollo, solo apparentemente improvviso. L’abbandono di tanti
insediamenti indica che anche in questo caso la riorganizzazione fu difficile e
dolorosa. Il supposto, anzi probabile processo di inurbamento di famiglie
gentilizie e gruppi clientelari di origine nuragica, consentì forse
l’effettiva strutturazione urbana dei nuovi insediamenti costieri, ma è
difficile capire come questo fenomeno possa aver pro-vocato lo spopolamento
delle campagne che avrebbero dovuto assicurare il loro sostentamento. In
questo quadro così vago, si attendono importanti risultati da altre ricerche in
corso, che tentano di rintracciare indizi della continuità e del
ruolo delle comunità di tradizione nuragica nel processo di trasformazione
che portò la Sardegna in un’altra epoca storica.
Fonte: USAI A.
2015, Paesaggi nuragici, in MINOJA M., SALIS G., USAI L. (a cura di), L’isola
delle torri. Giovanni Lilliu e la Sardegna nuragica, Sassari, pp. 58-69.
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