giovedì 21 settembre 2017
Archeologia. Il culto dell’acqua nella Sardegna Nuragica. Riflessioni di Alessandro Usai
Archeologia. Il culto
dell’acqua nella Sardegna Nuragica
Riflessioni di Alessandro Usai
La civiltà nuragica è la
principale espressione culturale della Sardegna protostorica, che occupa tutto
l’arco temporale compreso tra la Media Età del Bronzo (apparentemente a partire
da un momento non iniziale di tale periodo, intorno al 1600-1500 a.C.) e la
fine della Prima Età del Ferro(circa 700 a.C.). La sua parabola evolutiva
attraversò momenti di formazione, maturità, trasformazione e degenerazione, e
naturalmente fu condizionata sia dai fili di continuità che dai fattori di
cambiamento. La sua identità, compatta e nello stesso tempo cangiante nel tempo
e nello spazio come un mosaico dai mille colori, sta proprio nel rapporto
dialettico tra continuità e cambiamento. Semplificando in modo anche
troppo schematico, la civiltà nuragica ci appare come un ciclo storico
unitario, che interessa tutta la Sardegna e le sue isole minori e che si può
suddividere in due grandi periodi: il primo è quello che vede la costruzione dei
nuraghi, delle tombe collettive e dei primi insediamenti; il secondo è quello
che, pur nella continuità dell’utilizzo dei nuraghi esistenti come centri di
aggregazione del popolamento, vede la fine della loro elaborazione, e
soprattutto vede la
realizzazione dei grandi insediamenti, dei templi
e dei santuari. A sua volta, ciascuno di questi due grandi periodi si può
dividere in due fasi; quindi avremo la fase dei nuraghi arcaici (Bronzo Medio
2-3: circa 1600/1500-1500/1400 a.C.), la fase dei nuraghi classici (Bronzo
Medio 3 e Bronzo Recente: circa 1500/1400-1200 a.C.), la fase della
trasformazione (Bronzo Finale: circa 1200-900 a.C.) e la fase della
crisi e dissoluzione (Prima età del Ferro: circa 900-700 a.C.).Secondo le
più recenti ricerche, le origini della civiltà nuragica si impostano sui
fattori di sviluppo che pian piano andarono trasformando le società di
lignaggio del Bronzo Antico (cioè piccoli segmenti di parentela in cui gli
individui si distinguono non per rango ma per ruolo e dunque per fattori
contingenti come il sesso e l’età) nelle prime comunità tribali del Bronzo
Medio iniziale, territorialmente stabili ed economicamente organizzate. Ma la
comparsa dei nuraghi arcaici e delle contemporanee sepolture collettive
megalitiche (“tombe dei giganti”) resta per noi un fatto dirompente, un salto
di qualità ancora arduo da descrivere e spiegare. Dagli studi sui nuraghi
emerge la sperimentazione e selezione dei modelli edilizi e il consolidamento
del modello essenziale standardizzato, quello della torre troncoconica semplice
con camera circolare coperta a falsa cupola, che si presta a straordinarie
possibilità di aggregazione modulare così da dar vita a diverse forme di
nuraghi complessi. Ma l’archeologia nuragica indaga sempre più gli sviluppi dei
processi sociali che stanno alla base della diffusione capillare dei nuraghi:
aggregazione e stabilizzazione dei nuclei abitativi, radicamento delle comunità
umane nel territorio, formazione delle entità tribali e cantonali
policentriche, emulazione e competizione fra comunità adiacenti e parzialmente
concorrenti. Nelle tombe si esprime un culto degli antenati di carattere
solidaristico e collettivistico, probabilmente anche accentuato rispetto ai
cambiamenti già in atto nella vita reale, basato sulla forza dei rapporti
di parentela che ancora governano le comunità nuragiche; così le tombe stesse
si configurano ancor più dei nuraghi come marcatori territoriali con un
esplicito significato simbolico di appartenenza. Inoltre, almeno nel Bronzo
Recente compaiono i primi edifici di culto: pozzi, fonti, templi rettangolari e
circolari. La trasformazione che investe la Sardegna nel Bronzo Finale è
tale da suggerire non un semplice adattamento a nuove condizioni ma
piuttosto una sorta di rivoluzione e riorganizzazione sociale e culturale.
Cessa la costruzione dei nuraghi e prende grande impulso l’espansione degli
insediamenti; cessa anche la costruzione delle classiche “tombe dei giganti”,
che sembrano lasciare il posto a diversi filoni di strutture funerarie
collettive e anche individuali; contemporaneamente esplode il fenomeno rituale
del culto dell’acqua, che prende avvio da pozzi e fonti già esistenti
e porta alla creazione di santuari complessi e organizzati. Superato il
disorientamento iniziale, probabilmente sotto la guida di élites emergenti,
la civiltà nuragica riprende il cammino in una direzione del tutto nuova e in
forme economicamente efficienti, tecnologicamente avanzate ed
esteticamente brillanti, ma nello stesso tempo pone le premesse della
futura crisi e degenerazione. Così, durante la prima età del Ferro, mentre
nei santuari si continua a tesaurizzare beni di lusso di produzione locale e di
importazione, e mentre bronzi e ceramiche vengono esportati e imitati in
Etruria e in diverse altre regioni mediterranee, numerosi insediamenti vengono
abbandonati,l’organizzazione territoriale si disgrega e quella economica perde
competitività. Ormai le società cantonali policentriche dell’entroterra rurale
hanno l’aspetto di staterelli embrionali già abortiti,senza città e senza
apparati burocratici stabili; d’altra parte i navigatori, mercanti e artigiani
di origine orientale sempre più radicati nel mondo occidentale, a noi noti come
fenici, organizzano sistemi indipendenti e autosufficienti, con insediamenti
proto urbani specializzati nel commercio e nelle produzioni artigianali e con
insediamenti agricoli complementari ai primi, e attraggono nelle proprie orbite
territoriali e politico-economiche gruppi sociali differenziati di origine
locale che rapidamente si integrano con gli stranieri conservando solo alcuni
richiami simbolici alla loro tradizione culturale dissolta. La crisi del mondo
nuragico, iniziata fin dai tempi del suo massimo fulgore, si conclude
rapidamente in un processo di assimilazione e perdita dell’identità
culturale.
I luoghi del culto dell’acqua
Sulla base degli indicatori
archeologici finora acquisiti, cioè i contesti di materiali recuperati con gli
scavi e ordinati in serie evolutive, e col supporto delle datazioni
assolute, sembra ormai accertato che gli edifici e i luoghi del culto
dell’acqua compaiono almeno dal Bronzo Recente (circa 1350-1200 a.C.), ma si
sviluppano soprattutto durante il Bronzo Finale (circa 1200-900 a.C.) e il
Primo Ferro (circa 900-700 a.C.). Tuttavia, l’esaurimento della civiltà
nuragica durante il periodo Orientalizzante (circa 700-600 a.C.) e
l’assimilazione degli aspetti di cultura materiale alle forme esteriori delle
civiltà punica e romana non segnarono la fine delle tradizioni religiose
insulari; anzi, il culto dell’acqua proseguì nei secoli fino all’epoca
paleocristiana ed oltre, con manifestazioni di sincreti-smo ideologico e
rituale imperniate su chiese edificate sopra o in prossimità di sorgenti e
pozzi. La frequentazione rituale delle grotte affonda le radici nei tempi più
remoti delle culture prenuragiche, con manifestazioni legate al culto dei
morti. Nei tempi maturi, avanzati e tardivi della civiltà nuragica, il
culto dell’acqua si rivela nella grotta Pirosu di Santadi, dove un imponente
deposito di ceramiche e manufatti metallici era connesso con grandi cumuli di
cenere e carbone e con una stalagmite ipoteticamente interpretata come altare.
Ciò suggerisce lo svolgimento di riti dedicatori,in cui i manufatti venivano
offerti a un qualche spirito o persona divina col fuoco ma anche con l’acqua,
dal momento che i vasi si presentano in gran parte inglobati dalla crosta
calcitica ed erano quindi sottoposti allo stillicidio. Notizie più parziali si
hanno sulla “Grutta ‘e is Caombus” di Morgongiori, dove una lunga scala a
gradini (di cui due ornati da bozze mammillari) richiama l’architettura e la
decorazione simbolica dei pozzi sacri. Le fonti, spesso annesse agli
insediamenti, sorgono in corrispondenza di sorgenti naturali, probabilmente
allo scopo di agevolare l’approvvigionamento idrico per funzioni domestiche e
solo in un secondo momento per funzioni rituali. Lo stesso investimento di
risorse nel progetto edilizio, secondo un modulo monumentale ridotto rispetto
ai nuraghi e alle tombe megalitiche ma comunque rilevante, segna un momento
importante di sviluppo degli abitati, ora chiaramente percepiti come permanenti,
ma nello stesso tempo si presta a dar luogo ad atti cerimoniali. D’altra parte
la prossimità agli insediamenti, spesso occupati anche in fasi storiche
successive, insieme alla mancanza di manutenzione e all’accumulo di depositi di
crollo, ha determinato la frequente alterazione o addirittura lo smembramento
delle fonti nuragiche per un più agevole accesso all’acqua sorgiva. Generalmente
le fonti sono costituite da strutture semiellittiche con un vano o atrio
rettangolare ricavato nella parte anteriore e una cameretta rotonda coperta a
falsa cupola in quella posteriore;l’acqua, convogliata attraverso percorsi
naturali o vere e proprie condotte artificiali, sgorga nella cameretta e quindi defluisce
all’esterno lungo una canaletta in pietra. In alcuni casi è assente il
vano-atrio; in altri la cameretta a falsa cupola si riduce a una celletta
quadrangolare. Si conoscono fon-ti costruite in opera poliedrica (Frades Mereos
di Ploaghe, S’Ùlumu di Dorgali), in opera isodoma (Sos Padres di Dualchi,
Funtanarcu di Sèdilo) e mista (Su Lumarzu di Bonorva, Pìdighi di Solarussa). Le
strutture isodome, cioè composte da blocchi perfettamente squadrati e
accostati, non sono necessariamente tardive, dal momento che strutture
analoghe sono già ben documentate nei nuraghi e nelle tombe dei giganti
fin dal Bronzo Medio avanzato. Esemplare è la fonte “Mitza Pìdighi” di
Solarussa (figg. 1-2), adiacente all’omonimo nuraghe e al suo vasto
insediamento. È costituita da un corpo a ferro di cavallo costruito con blocchi
poliedrici, ma con la parete di fondo del vano interno e la celletta
quadrangolare composte da conci squadrati. La canaletta, lunga almeno 21 metri,
era formata da lastre accostate e saldate con colate di piombo. Sul lato
sinistro della fonte e davanti ad essa si trovano alcune massicciate costituite
da ciottoli e lastre, sulle quali almeno dal Bronzo Recente si formarono
depositi ceramici connessi alla frequentazione e soprattutto ad atti rituali.
Solo in un momento avanzato del Bronzo Finale o agli inizi dell’Età del Ferro
si costruì un piccolo recinto semicircolare davanti alla fonte e a
sinistra della canaletta; nel recinto fu creata una struttura di lastre sormontata
da un grosso lastrone ellissoidale, che potrebbe aver avuto funzione
di altare. Negli abitati e in numerosi nuraghi si trovano spesso profondi
pozzi cilindrici con imboccatura rastremata, scavati nella roccia e rivestiti
internamente con strutture murarie in pietra. Anch’essi dimostrano grande
perizia tecnica e capacità di investimento di risorse nella realizzazione di
opere d’interesse collettivo, e un’attenzione per l’acqua non comune tra i
popoli contemporanei e certo non semplicemente utilitaristica. In particolare,
una funzione rituale è riconosciuta al pozzo di Monte Santu Antine di
Genoni e a un altro esistente nell’area del santuario di Sant’Anastasìa di
Sàrdara,entrambi rinvenuti colmi di manufatti votivi. La più originale
invenzione degli ingegneri idraulici nuragici è rappresentata dai pozzi sacri o
templi a pozzo, generalmente annessi non ai normali abitati ma ai santuari,
cioè a complessi organizzati con specifiche funzioni cultuali. I pozzi sacri
si distinguono dai comuni pozzi sopra descritti per la presenza
di una camera sotterranea a falsa cupola, di una sovrastruttura con atrio
al piano di campagna e di una scala con gradini in muratura che raccorda
l’atrio con la base della camera sotterranea (figg. 3-4). In genere, questa accoglie
direttamente l’acqua sorgiva, ma in qualche caso ripara la canna del vero e
proprio pozzo,che risulta scavato a profondità ancora maggiore. In alcuni casi
è assente l’atrio; in altri la scala ha solo un paio di gradini, oppure il
pavimento stesso dell’atrio digrada verso la camera voltata, che talvolta ha
dimensioni molto ridotte; ciò dà adito a una parziale sovrapposizione tra il
campo di variabilità dei pozzi sacri e quello delle fonti. Anche tra i pozzi
sacri si notano strutture costituite da blocchi poliedrici (come Tatinu di
Nuxis, Matzanni di Vallermosa, Cùccuru ‘e Nuraxi di SettimoSan Pietro,
Sant’Anastasìa di Sàrdara, Su Putzu di Orroli, Is Pirois di Villaputzu, Funtana
Coberta di Ballao, Serra Niedda di Sorso, Sa Testa di Olbia) ed altre perfettamente
isodome (come Santa Vittoria di Serri, Cùccuru ‘e is Arrius di Cabras, Santa
Cristina di Paulilàtino, Su Tempiesu di Orune, Monte Sant’Antonio di Sìligo,
Predio Canòpoli di Pèrfugas, Nuraghe Irru di Nulvi). La struttura muraria sopra
terra è generalmente costituita da una parte rettangolare che contienel’atrio e
da un tamburo circolare che sovrasta la camera sotterranea e che almeno in
alcuni casi (Sa Testa di Olbia e Is Pirois di Villaputzu) racchiude una
cameretta superiore. In particolare, il pozzo di Santa Cristina, uno dei
monumenti più visitati e fotografati dell’intera Sardegna, non può essere considerato
documento attendibile per la comprensione della sovrastruttura dei templi a
pozzo, sia per l’indisponibilità di disegni o fotografie antecedenti al
restauro, sia per la possibilità di ristrutturazioni avvenute in epoca punica,
romana, altomedievale e moderna. Normalmente, della sovrastruttura si conserva
solo la base, in rari casi anche una parte dell’alzato; la parte sommitale può
essere virtualmente ricomposta sulla base degli elementi caduti
dall’alto, talvolta conservati in ordinati depositi di crollo, talvolta
rimossi e riutilizzati in epoche diverse, fin dai tempi nuragici più avanzati.
Su queste basi,
almeno in alcuni casi (Su Tempiesu di Orune e Monte Sant’Antonio di Sìligo) si può
immaginare una struttura molto alta e slanciata, con coperture a forte
pendenza, a doppia falda sull’atrio e coniche sul tamburo posteriore. Tra i
conci superstiti, alcuni mostrano cornici scolpite alla base delle falde o sui
margini laterali dell’alto frontone angolare, altri mostrano una fila di incavi
lungo la linea di colmo, entro i quali erano fissate con colate di piombo
le lunghe e sottili spade votive di bronzo. Elementi del tutto simili si trovano
anche in fonti isodome di particolare raffinatezza, come Funtanarcu di Sèdilo.
Inoltre vi sono conci con bozze mammillari, cornici con rilievi ed incavi,
elementi con motivi decorativi e simbolici incisi in stile geometrico come
cerchi concentrici,linee spezzate, fasci a chévrons ecc.,
almeno in alcuni casi chiaramente dipinti con colori vivaci. Più incerta è la
funzione rituale di alcuni piccoli ambienti pertinenti alle case pluricellulari
della Prima Età del Ferro. Si tratta di vani circolari provvisti di un
bancone-sedile alle pareti e di un baci-le rotondo al centro, solitamente
connessi anche col cortile centrale dell’abitazione, con un forno e con una
vasca rettangolare suddivisa in due parti da un setto mediano. Gli esempi più
noti e meglio conservati sono venuti in luce nell’insediamento di Su Nuraxi di
Barùmini (fig. 5); altri assai simili si trovano nel santuario di Santa
Vittoria di Serri e negli insediamenti di Santa Barbara di Bauladu,Nuraghe
Pìdighi di Solarussa, Sant’Imbenia di Alghero e Sa Mandra ‘e sa Giua di Ossi;
strutture analoghe ma semplificate si trovano nell’insediamento di Genna Maria
di Villanovaforru e nelle abitazioni collegate al santuario di Romanzesu di
Bitti. Per i piccoli vani di Barùmini Giovanni Lilliu propose una funzione
legata a cerimonie domestiche connesse con riti lustrali o con la
panificazione, attraverso l’impiego di acqua riscaldata. In seguito il problema
è stato riaperto dalla scoperta di un vano analogo nel complesso edilizio di Sa
Sedda ‘e sos Carros di Oliena, i cui caratteri peculiari lo distaccano dai
normali insediamenti e lo avvicinano ai complessi templari: si tratta
di un ambiente più ampio del solito, contraddistinto da una struttura
isodoma di grande eleganza e da una serie di doccioni conformati a testa
d’ariete che riversavano l’acqua dall’alto delle pareti verso il bacile
centrale, e che conteneva oggetti di uso non domestico come alcune grandi
navicelle votive bronzee e una brocca bronzea con doppio collo e protome
taurina.
Altri templi
Nella Sardegna
nuragica si conoscono anche edifici cultuali privi di
un’esplicita connessione con l’acqua ma spesso associati ai pozzi sacri o
alle fonti nell’ambito dei santuari. Si tratta di edifici rettangolari e
circolari, la cui destinazione rituale è suggerita da specifici elementi
strutturali e funzionali o da manufatti ceramici e bronzei di carattere votivo.
Inoltre, in qualche caso la presenza di canalette e grandi vasi interrati
suggerisce l’impiego di acqua o altri liquidi per uso rituale. Tra gli edifici
rettangolari se ne distinguono alcuni relativamente complessi, definiti “templi
a mégaron” per un’evidente ma
forse casuale somiglianza con le sale del trono dei palazzi micenei e con i più
antichi templi greci. Possiamo ricordare i due edifici rettangolari di
Romanzesu di Bitti, i due di Serra Òrrios di Dorgali, quelli singoli di Sos
Nuratolos di Alà dei Sardi, Orconale di Norbello, Gremanu di Fonni, S’Arcu ‘e
is Forros di Villagrande, Domu de Orgìa di Esterzili, Mitza
Cuccureddus di Villaspeciosa. Gli edifici di Sos Nuratolos, Romanzesu, Gremanu
e Mitza Cuccureddus sono connessi con pozzi sacri e fonti e con strutture di
santuario. Inoltre è da ricordare il tempio cosiddetto “ipetrale” (cioè
scoperto, secondo la vecchia interpretazione del Taramelli) del santuario di Santa
Vittoria di Serri: un edificio rettangolare, costruito almeno in parte con
blocchi di riutilizzo sottratti a edifici nuragici preesistenti forse
anch’essi di carattere sacro, provvisto di tavole d’offerta per oggetti votivi
e di un altare con residui di combustione, ma apparentemente senza connessione coi
riti dell’acqua che avvenivano nel vicino tempio a pozzo. Tra gli edifici
circolari si distinguono quelli in struttura isodoma come Punta ‘e Onossi e
Giorrè di Florinas, Cùccuru Mudeju di Nughedu San Nicolò e Corona Arrùbia di
Genoni. A Su Monte di Sorradile, tra i resti di un santuario strutturato
apparentemente privo di pozzo o fonte, si conserva un grandioso edificio
rotondo in blocchi isodomi di grandi dimensioni con atrio quadrato; il vano
principale con tre ampie nicchie ospita al centro una grande vasca in pietra,
sormontata da spade votive bronzee e affiancata da un altare in forma di torre
nuragica, che suggerisce l’utilizzo di acqua o di altri liquidi. Invece
l’edificio circolare di Gremanu di Fonni, pertinente a un santuario
connesso con un sistema di pozzi e fonti, è in struttura poliedrica ma
risulta suddiviso internamente in due vani da un muro composto da blocchetti
squadrati, ornato con protomi d’ariete e sovrastato da spade votive. Infine,
a Sa Carcaredda di Villagrande è stato posto in luce un edificio circolare con
lungo vestibolo, accanto al quale sorge un edificio rettangolare con tre
ingressi sulla fronte, probabilmente utilizzato come ripostiglio di oggetti
votivi.
Culto domestico, locale, tribale e intertribale.
Si è già fatto
cenno dei piccoli vani circolari con sedile alle pareti e bacile rotondo
centrale, co-me sedi di un possibile culto domestico. La presenza di questi
vani in diverse case dell’insediamento di Su Nuraxi di Barùmini suggerisce che
le pratiche che vi si svolgevano fossero ampiamente diffuse e profondamente
sentite da tutte o quasi tutte le famiglie che lo abitavano, senza
contraddistinguerne una rispetto alle altre. Nelle fonti, soprattutto in
quelle strettamente connesse con gli abitati (Mitza Pìdighi
di Solarussa,Noddule di Nùoro, Su Pradu di Orune, Mont’e Nuxi
di Esterzili ecc.), la funzione rituale sembra accessoria rispetto a
quella primaria legata all’approvvigionamento idrico. Almeno nel caso di
Solarussa, lo svolgimento di pratiche rituali è fortemente indiziato dal
deposito ceramico, cioè dall’accumulo di vasi rotti e incompleti, forse a
seguito di frammentazione intenzionale; tra i conte-nitori si trovano anche
rari vasetti miniaturistici, di improbabile funzione utilitaria e di verosimile
significato votivo. Questi fatti, insieme alla totale assenza di manufatti
votivi bronzei, suggeriscono che le ipotizzate cerimonie dedicatorie avessero
carattere strettamente locale, cioè che fossero connesse con la vita delle
comunità insediate negli abitati cui le fonti stesse appartenevano. Queste osservazioni
potrebbero essere estese al pozzo sacro di Su Putzu di Orroli, ai due
templi a mègaron di Serra Òrrios di Dorgali e a quello di
Orconale di Norbello, inclusi in insediamenti di evidente natura abitativa
senza espliciti caratteri cultuali. Vi sono anche fonti, come Funtanarcu di
Sédilo e Su Lumarzu di Bonorva, e pozzi sacri, come Is Pirois di Villaputzu,
che sorgono apparentemente isolati, distanti dagli insediamenti e circondati da
recinti e da poche altre strutture. Pur non potendosi definire santuari, questi
complessi sembrano avere una funzione rituale prevalente rispetto a quella di
approvvigionamento idrico, che poteva comunque soddisfare le esigenze
dell’economia rurale. Inoltre, la stessa posizione isolata caratterizza questi
complessi come luoghi d’incontro tra frequentatori provenienti da diversi
insediamenti, anche se probabilmente appartenenti allo stesso distretto
cantonale e alla stessa comunità tribale. Invece la maggior parte dei
pozzi sacri e dei templi a mègaron fanno
parte, talora anche in gruppo o insieme a fonti e a edifici sacri d’altro
genere, di complessi pianificati di carattere cultuale, veri e propri
santuari di rilevanza tribale o anche intertribale (o federale). I principali
esempi, diffusi do-vunque dal Nord al Sud dell’Isola, sono Serra Niedda di
Sorso, Monte Sant’Antonio di Sìligo, Ro-manzesu di Bitti, Su Tempiesu di Orune,
Nurdole di Orani, Gremanu di Fonni, Su Monte di Sorra-dile, Santa Cristina di
Paulilàtino, Abini di Teti, Sa Carcaredda di Villagrande, Domu de Orgìa di Esterzili,
Santa Vittoria di Serri, Sant’Anastasìa di Sardara, Funtana Coberta di Ballao,
Matzanni di Vallermosa, Tatinu di Nuxis.Stando alle attuali conoscenze, che
naturalmente non sono abbastanza sistematiche, i santuari non avevano
un’organizzazione codificata delle strutture e degli spazi; in effetti,
ciascuno ci appare diverso da tutti gli altri ma nello stesso tempo condivide
con gli altri lo spirito generale e diversi elementi compositivi (fig. 6). In
alcuni casi, come a Su Monte e a Domu de Orgìa, compaiono robusti muri di
delimitazione; più frequenti sono i recinti, gli ambienti abitativi o per
funzioni distinte, i loggiati, le sale per assemblee. A Santa Vittoria si
conoscono alcune case pluricellulari analoghe a quelle dei comuni insediamenti,
forse occupate dagli abitanti del luogo, mentre il grande recinto con scomparti
e loggiati poteva essere riservato ai pellegrini; invece a Santa Cristina
l’area del pozzo sacro è fiancheggiata da schiere di ambientini modulari,
completamente diversi dalle case dell’adiacente abitato permanente. Tra le
strutture esplicitamente connesse con l’acqua derivante dai pozzi e dalle
fonti, si conoscono numerose vasche; una di queste (Niedda di Pèrfugas)
presenta le pareti a gradoni, probabilmente utilizzate come sedili. La presenza
di gradoni o sedili appare evidente lungo i bordi di vere e proprie piscine,
come quelle di Romanzesu e di Funtana Sansa di Bo-norva. Un’importante spia dei
cambiamenti attraversati dalla civiltà nuragica è costituita dal rapporto tra i
santuari e i nuraghi. Normalmente i santuari sorgono in zone prive di nuraghi,
e quando questi sono presenti vengono in vario modo marginalizzati, fagocitati
o adattati dal complesso sacro. A Santa Cristina di Paulilàtino il santuario si
sviluppa a breve distanza dal nuraghe e dall’insediamento ad esso annesso, che
apparentemente continua a vivere la sua vita normale per lungo tempo. A Santa
Vittoria di Serri, il grande nuraghe sorto prima dello sviluppo del santuario perde
il suo ruolo e viene in parte smantellato, in parte assorbito dagli edifici del
complesso sacro. Invece a Nurdole di Orani lo stesso nuraghe si trasforma in
tempio e diventa il centro di un ricco santuario: nel cortile centrale del
monumento sorge una piccola fonte di raffinata fattura, mentre all’esterno si
trovano una vasca e altre strutture accessorie ornate con motivi simbolici
incisi. Anche a Su Mulinu di Villanovafranca un vano del nuraghe accoglie
un altare con grande vasca sormontata da spade votive bronzee e affiancata da
una torretta nuragica in miniatura. Pur senza arrivare mai a sostituire
i nuraghi come centri di attrazione del popolamento rurale e soprattutto senza
aprire mai una tendenza all’aggregazione protourbana, i santuari diventano
fattori di dinamismo, che trasformano il vecchio mondo dei nuraghi: si
propongono come centri propulsori dell’ideologia e dell’economia, segnano
l’ascesa o il declino di tribù, famiglie gentilizie e
individui,aprono o chiudono vie di comunicazione e correnti di scambio.
Rituali e offerte
Purtroppo, i
documenti archeologici a noi pervenuti ci forniscono scarse informazioni sui
comportamenti individuali e collettivi che, abitualmente o periodicamente
o occasionalmente, si svolgevano nei luoghi sacri nuragici, in particolare
negli edifici adibiti al culto dell’acqua. Nella fonte Mitza Pìdighi di
Solarussa, e certamente anche in molte altre situazioni analoghe, possiamo
immaginare pratiche di frammentazione rituale dei vasi ceramici, che potevano
essere scagliati sulle piattaforme di pietra o sui depositi stratificati
che man mano si andavano formando al di sopra, oppure potevano essere rotti col
lancio di pietre; inoltre è significativa la totale assenza di manufatti
bronzei, che indica la mancanza di vere e proprie offerte votive. Nelle grotte
e nei santuari assume grande evidenza l’aspetto cerimoniale e votivo, ma
ciononostante non abbiamo la minima conoscenza delle azioni che
venivano concretamente svolte, dei tempi e degli attori, spettatori e
destinatari, reali e ideali, di tali azioni. Nonostante i numerosi tentativi di
definire precise persone divine (il dio toro, la dea madre ecc.), non
si conoscono rappresentazioni di esse, a meno che non si voglia
riconoscere questa natura in figure umane o animali o in immagini mitico-simboliche
come i guerrieri con quattro occhi e quattro braccia o un toro con testa umana;
inoltre gli ornati scolpiti su fonti, pozzi e strutture accessorie hanno
carattere esclusivamente geometrico e astratto. Esistono alcune figurine
bronzee tradizionalmente interpretate come rappresentazioni di sacerdoti e
magari di sacerdotesse, ma non sappiamo se tale interpretazione sia fondata o meno;
ammesso che esistessero sacerdoti, non sappiamo se fossero tali a tempo pieno o
parziale e non conosciamo le loro mansioni, obblighi, prerogative o privilegi,
né i loro rapporti coi diversi strati e ruoli sociali. Si conoscono oggetti
liturgici e simbolici in ceramica, bronzo e pietra (in primo luogo i modelli di
nuraghe), ma ovviamente il loro utilizzo è ignoto. Negli
atri di pozzi e fonti e nei vani degli altri templi si trovano banchine e
sedili, ma restano sfuggenti le figure di coloro che vi trovavano posto per
agire o assistere. Si ritiene ragionevolmente che i grandi recinti e i diversi
ambienti annessi avessero la funzione di accogliere pellegrini, tanto popolani
che famiglie distinte, dai diversi insediamenti e anche dai diversi cantoni
tribali, in occasione delle grandi feste; ma, a parte il problema dei rapporti
tra i pellegrini e gli abitanti del luogo, questa ricostruzione si basa su
impressioni generali e anche sul suggestivo richiamo delle feste religiose nei
moderni santuari campestri, piuttosto che su un’analisi minuziosa dei manufatti
rinvenuti nei diversi spazi. E si ritiene ragionevolmente che le grandi sale
rotonde coi sedili lungo le pareti ospitassero solenni riunioni e riti
collettivi di capi o anziani, ma ignoriamo tutto dei protagonisti e dei
rapporti tra religione e politica. Nonostante l’enfasi architettonica
concentrata sull’elemento idrico, che traspare dai monumentali pozzi alle
grandi vasche e alle ben congegnate canalette, non sappiamo se e come l’acqua
venisse impiegata nei rituali. D’altra parte, nella grotta Pirosu, nel
santuario di Santa Vittoria e in altri luoghi del culto dell’acqua, i depositi
archeologici conservano con altrettanta evidenza le tracce dell’uso del fuoco.
Inoltre non si può escludere l’impiego di altri liquidi come il sangue o
l’olio, che a sua volta è un potentissimo combustibile. In effetti, rimane
ambiguo e sfuggente anche lo stesso significato concettuale dell’acqua, che sta
alla base delle più spettacolari manifestazioni della civiltà nuragica. In
un’isola come la Sardegna, caratterizzata dal clima mediterraneo, senza
ghiacciai, con fiumi a regime torrentizio e con precipitazioni incostanti e
inaffidabili, separata dal resto del mondo e facilmente messa in crisi dalla
siccità, l’acqua di vena che fuoriesce dalla roccia costituisce una garanzia di
sopravvivenza per esseri umani e animali. Dovunque, in tali condizioni
ambientali, l’acqua si presta a essere intesa come elemento, fattore o
principio vitale; ma solo nella Sardegna nuragica questi concetti vengono
esaltati fino all’organizzazione di un vero culto nazionale, in cui il valore
dell’acqua oscilla tra il piano dell’essenza divina, quello del mezzo di
comunicazione tra naturale e soprannaturale e quello dello strumento rituale.
L’uso di acque perfettamente limpide e potabili, oppure ricche di sali minerali
ed effervescenti, medicamentose o perfino tossiche, suggerisce le più diverse
applicazioni, come libagioni, abluzioni, riti lustrali, forse anche
ordalie. Non è escluso che potessero essere oggetto di culto
anche sorgenti non trasformate in fonti e pozzi, ma lasciate al naturale in
zone poco frequentate. Infine le navicelle bronzee, offerte in gran numero in
tutti i santuari o conservate nei ripostigli, perfino in alta montagna,
potrebbero sottintendere un richiamo a un altro aspetto dell’acqua, quella
marina,e quindi agli dei o spiriti atti a proteggere la navigazione. Sappiamo
che i bronzetti e le spade votive venivano infissi con colate di piombo nei
fori delle tavole di offerta e venivano così conservati per qualche tempo nei
templi o in spazi appositi, ma ignoriamo se le offerte fossero individuali o
collettive, se fossero pratica aperta a tutti o riservata a pochi o a
pochissimi. Sembra che le offerte fossero destinate a rimanere tali, senza essere
recuperate e rifuse. Ad eccezione delle spade votive di Abini ritrovate
avvolte ordinatamente in fasci con nastri di rame, gli oggetti votivi si
ritrovano generalmente rotti e dispersi, oppure lontani dai contesti originari,
mentre le stesse spade votive venivano certamente spezzate e suddivise in
coltellini a doppio taglio. Insomma, anche se l’aspetto caotico della
distribuzione dei manufatti votivi nei santuari è certamente dovuto in gran
parte a saccheggi antichi e moderni, sembra che la conservazione in
stipi o favisse fosse l’eccezione piuttosto che la regola.6. Significato
sociale del culto dell’acqua. Nei santuari nuragici si esprimeva
certamente un sentimento religioso vivo e popolare, ma la concentrazione di
beni di lusso di produzione locale e di importazione, che dovevano essere
ostentati nei rituali, rivela che nel Bronzo Finale e soprattutto nel Primo
Ferro il culto era diventato uno degli aspetti principali, anzi forse lo
strumento essenziale della riorganizzazione politico-sociale di impronta
gentilizia o addirittura aristocratica. La cosa è tanto più evidente se si
pensa che contemporaneamente declinava e si spegneva il culto dei defunti,
che aveva espresso l’intima essenza della società tribale del Bronzo Medio e
almeno in parte anche del Bronzo Recente. Quella società, semplice e solida ma
statica, governata dai legami del sangue e della tradizione, indirizzata sul
percorso tracciato dagli antenati, si era ormai trasformata una società
complessa e dinamica, ricca di energie e di risorse ma fragile, affezionata ad
immagini e simboli del passato come la riproduzione miniaturistica e cultuale
del nuraghe ma anche proiettata alla ricerca del nuovo, al contatto con gli
stranieri, all’acquisizione di beni esotici, alla sperimentazione di tecnologie
d’avanguardia. È molto probabile che le élites emergenti cercassero
di stabilizzare il proprio rango e il proprio potere politico-economico
assumendo il ferreo controllo del sistema di produzione, immagazzinamento e
distribuzione, attenuando i soffocanti vincoli di parentela e imponendo
strumenti di domi-nio più efficaci nei confronti dei ceti subordinati in cambio
di cibo e sicurezza. Se da una parte la ricchezza e vivacità dei santuari
conferma l’importanza della ritualità come fattore unificante tenacemente
riaffermato dall’aristocrazia gentilizia al potere, dall’altra il loro
esaurimento segna la disgregazione dei sistemi di controllo e di
rinnovamento economico e culturale. È per questo che la civiltà nuragica, nata
con la stupefacente arcana potenza dei nuraghi, muore con la sfuggente
abbagliante modernità dei santuari del culto dell’acqua.
Fonte:
USAI A. 2008, Il culto dell’acqua nella Sardegna nuragica, in FONSECA C.
D., FONTANELLA E. (a cura di), Anima dell’acqua, Roma, pp. 120-131.
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